Legge - 9/12/1998 - n. 431 art. 6 - Rilascio degli immobili.Rilascio degli immobili. 1. Nei comuni indicati all'articolo 1 del decreto-legge 30 dicembre 1988, n. 551, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 1989, n. 61, e successive modificazioni, le esecuzioni dei provvedimenti di rilascio di immobili adibiti ad uso abitativo per finita locazione sono sospese per un periodo di centottanta giorni a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge. 2. Il locatore ed il conduttore di immobili adibiti ad uso abitativo, per i quali penda provvedimento esecutivo di rilascio per finita locazione, avviano entro il termine di sospensione di cui al comma 1, a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, anche tramite le rispettive organizzazioni sindacali, trattative per la stipula di un nuovo contratto di locazione in base alle procedure definite all'articolo 2 della presente legge. 3. Trascorso il termine di cui al comma 1 ed in mancanza di accordo fra le parti per il rinnovo della locazione, i conduttori interessati possono chiedere, entro e non oltre i trenta giorni dalla scadenza del termine fissato dal comma 1, con istanza rivolta al pretore competente ai sensi dell'articolo 26, primo comma, del codice di procedura civile, che sia nuovamente fissato il giorno dell'esecuzione. Si applicano i commi dal secondo al settimo dell'articolo 11 del decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1982, n. 94. Avverso il decreto del pretore è ammessa opposizione al tribunale che giudica con le modalità di cui all'articolo 618 del codice di procedura civile. Il decreto con cui il pretore fissa nuovamente la data dell'esecuzione vale anche come autorizzazione all'ufficiale giudiziario a servirsi dell'assistenza della forza pubblica. 4. Per i provvedimenti esecutivi di rilascio per finita locazione emessi dopo la data di entrata in vigore della presente legge, il conduttore può chiedere una sola volta, con istanza rivolta al pretore competente ai sensi dell'articolo 26, primo comma, del codice di procedura civile, che sia nuovamente fissato il giorno dell'esecuzione entro un termine di sei mesi salvi i casi di cui al comma 5. Si applicano i commi dal secondo al settimo dell'articolo 11 del citato decreto-legge n. 9 del 1982, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 94 del 1982. Avverso il decreto del pretore il locatore ed il conduttore possono proporre opposizione per qualsiasi motivo al tribunale che giudica con le modalità di cui all'articolo 618 del codice di procedura civile. 5. Il differimento del termine delle esecuzioni di cui ai commi 3 e 4 può essere fissato fino a diciotto mesi nei casi in cui il conduttore abbia compiuto i 65 anni di età, abbia cinque o più figli a carico, sia iscritto nelle liste di mobilità, percepisca un trattamento di disoccupazione o di integrazione salariale, sia formalmente assegnatario di alloggio di edilizia residenziale pubblica ovvero di ente previdenziale o assicurativo, sia prenotatario di alloggio cooperativo in corso di costruzione, sia acquirente di un alloggio in costruzione, sia proprietario di alloggio per il quale abbia iniziato azione di rilascio. Il medesimo differimento del termine delle esecuzioni può essere fissato nei casi in cui il conduttore o uno dei componenti il nucleo familiare, convivente con il conduttore da almeno sei mesi, sia portatore di handicap o malato terminale 1 2. 6. Durante i periodi di sospensione delle esecuzioni di cui al comma 1 del presente articolo e al comma quarto dell'articolo 11 del citato decreto-legge n. 9 del 1982,, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 94 del 1982, nonché per i periodi di cui all'articolo 3 del citato decreto-legge n. 551 del 1988, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 61 del 1989, come successivamente prorogati, e comunque fino all'effettivo rilascio, i conduttori sono tenuti a corrispondere, ai sensi dell'articolo 1591 del codice civile, una somma mensile pari all'ammontare del canone dovuto alla cessazione del contratto, al quale si applicano automaticamente ogni anno aggiornamenti in misura pari al settantacinque per cento della variazione, accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT), dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi nell'anno precedente; l'importo così determinato è maggiorato del venti per cento. La corresponsione di tale maggiorazione esime il conduttore dall'obbligo di risarcire il maggior danno ai sensi dell'articolo 1591 del codice civile. Durante i predetti periodi di sospensione sono dovuti gli oneri accessori di cui all'articolo 9 della legge 27 luglio 1978, n. 392, e successive modificazioni. In caso di inadempimento, il conduttore decade dal beneficio, comunque concesso, della sospensione dell'esecuzione del provvedimento di rilascio, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 55 della citata legge n. 392 del 1978 3. 7. Fatto salvo quanto previsto dai commi 2-bis e 2-ter dell'articolo 1 del citato decreto-legge n. 551 del 1988, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 61 del 1989, nonché quanto previsto dai commi primo, secondo e terzo dell'articolo 17 del citato decreto-legge n. 9 del 1982, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 94 del 1982, è data priorità ai destinatari di provvedimenti di rilascio con data di esecuzione fissata entro il termine di tre mesi. [1] A norma dell'articolo 1, comma 1, del D.L. 25 febbraio 2000, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla Legge 20 aprile 2000, n. 97, il termine dilatorio di cui al presente comma, non può comunque essere inferiore a nove mesi, fermo restando il limite massimo di diciotto mesi. [2] A norma dell'articolo 1, comma 2, del D.L. 25 febbraio 2000, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla Legge 20 aprile 2000, n. 97, l'esecuzione dei provvedimenti di rilascio già emessi ai sensi del presente comma, è differita di nove mesi a partire dal 1° gennaio 2000. [3] La Corte costituzionale, con sentenza 9 novembre 2000, n. 482, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui esime il conduttore dall'obbligo di risarcire il maggior danno, ai sensi dell'art. 1591 del codice civile, anche nel periodo successivo alla scadenza del termine di sospensione della esecuzione stabilito ope legis o di quello giudizialmente fissato per il rilascio dell'immobile. InquadramentoL'art. 6 della l. n. 431/1998, che si occupa della procedura per “rilascio degli immobili” ad uso abitativo per finita locazione – derogando sotto diversi profili, e per certi aspetti complicando, le regole generali stabilite dal codice di rito – era stato congegnato sostanzialmente in due parti distinte. La prima parte, con efficacia transitoria e circoscritta sul versante territoriale, era dedicata alla regolamentazione dei titoli già emessi al momento della sua entrata in vigore (30 dicembre 1998), nella prospettiva poi di favorire la stipula di una delle tipologie contrattuali contemplate dalla riforma di settore, mentre la seconda, con vocazione potenzialmente definitiva, era tesa a regolare tutti i titoli futuri, unitamente alla previsione di condizionarne l'esecuzione alla regolarità fiscale del rapporto locatizio (profilo, quest'ultimo, normato nel successivo art. 7, ma travolto sùbito da dichiarazione di incostituzionalità). Negli anni antecedenti al 1989, a causa dei continui provvedimenti di sospensione e blocco dell'esecuzione degli sfratti di immobili adibiti ad uso abitativo, si era venuto a creare un enorme accumulo di procedimenti esecutivi da attuare: preso atto di tale situazione, era stato emanato il d.l. n. 551/1988 il quale, pur disponendo un'ulteriore sospensione degli sfratti sino al 30 aprile 1989, aveva consentito, allo scadere, la ripresa dell'esecuzione degli stessi, attribuendo al Prefetto di ogni Provincia il compito di autorizzare l'assistenza della forza pubblica all'ufficiale giudiziario, previo parere delle Commissioni prefettizie appositamente istituite. È vero che la legge fissava criteri di priorità nell'assegnazione della forza pubblica correlati essenzialmente alla comparazione delle esigenze delle parti contraenti, ma restava pur sempre sottratto al giudice il controllo sulla materiale esplicazione dell'attività esecutiva, comportando così l'ingerenza di un'autorità amministrativa nell'esecuzione di provvedimenti giurisdizionali, ma di fatto frustrando ulteriormente l'esigenza del locatore di ritornare in possesso dell'immobile locato in tempi ragionevoli. La legge del 1998 ha, invece, inteso abbandonare definitivamente, in materia di esecuzione per rilascio di immobili abitativi, il sistema della c.d. graduazione prefettizia, come d'altronde emerge chiaramente sia dalla stessa norma in commento sia dall'abrogazione, ad opera del successivo art. 14, degli artt. 2 ss. del d.l. n. 551/1988, convertito in l. n. 61/1989. Con l'entrata in vigore della novella, il pregresso sistema è stato, quindi, del tutto superato, di guisa che la direzione della messa in esecuzione dei provvedimenti di rilascio è ritornata completamente nella sfera del giudice dell'esecuzione e, al contempo, non viene rimesso più alle scelte discrezionali dell'autorità di governo la concreta attuazione dei comandi contenuti nei provvedimenti del giudice. Viene così restituita alla sede giurisdizionale l'esecuzione per rilascio degli immobili destinati ad uso abitativo, spettando al giudice decidere quando la stessa deve avere luogo nonché verificare che il titolo sia regolarmente eseguibile secondo gli ordinari meccanismi processuali stabiliti dal codice di rito. Si introduce, altresì, un subprocedimento in favore del conduttore volto alla “rifissazione” del termine dell'esecuzione, laddove la scelta dell'utilizzo dello strumento contemplato dalla legislazione speciale viene correlato ad una variante temporale, ossia se il titolo sia stato formato prima o dopo l'entrata in vigore della novella, e spaziale, ossia se l'immobile locato oggetto dell'esecuzione sia o meno sito nelle zone ad alta densità abitativa. Tuttavia, il delineato istituto della rifissazione giudiziale risulta superato a seguito dell'integrazione dell'art. 56 della l. n. 392/1978 ad opera dell'art. 7-bis della l. n. 269/2004, che ha introdotto ex novo uno strumento generale di opposizione (con correlate possibilità di controllo o/e modifica) del provvedimento determinativo della data dello sfratto, dovendosi considerarsi ora l'unico rimedio consentito ad entrambe le parti per poter far riconsiderare dal giudice i termini dell'esecuzione, sicché l'art. 6 della l. n. 431/1998 in commento ha perso oggi gran parte della sua portata innovativa, avendo oramai esaurito il suo àmbito applicativo inevitabilmente circoscritto ratione temporis. L'ultimo comma dell'art. 6 in commento prevede, infine, che sia data priorità nella concessione in locazione di alloggi di proprietà di Enti pubblici ai destinatari di provvedimenti di rilascio per i quali sia assegnato un termine per l'esecuzione non superiore a tre mesi, fatta salva l'applicazione di quanto sancito dall'art. 1, commi 2-bis e ter, del d.l. n. 551/1988 (convertito in l. n. 61/1999) nonché dall'art. 17, commi 1 2 e 3, del d.l. n. 9/1982 (convertito in l. n. 94/1982). Superamento della graduazione prefettiziaDunque, la grande mole degli “sfratti” sulla base di un provvedimento giudiziale di rilascio fondato sulla cessazione del rapporto per scadenza del termine (c.d. finita locazione) ed i conseguenti problemi sociali che tale situazione involgeva avevano comportato una serie di interventi normativi di sospensione e di graduazione dell'esecuzione, attraverso la previsione di appositi “scadenzari”. Spesso tali previsioni erano accompagnate da una serie di norme finalizzate allo sviluppo dell'edilizia residenziale pubblica, nell'auspicio di rendere possibile per il conduttore esecutato il passaggio “da casa a casa”, evitare traumi umani e garantire quel diritto dell'abitazione la cui importanza aveva oramai trovato degno riconoscimento a rilievo costituzionale. In passato, specie dopo l'intervento operato con il d.l. n. 551/1988 (recante “misure per fronteggiare l'eccezionale carenza di disponibilità abitative”), recependo, peraltro, una serie di precedenti, si tendeva a riguardare lo sfratto – non tanto come mera esecuzione di un provvedimento del giudice, quanto piuttosto – come questione che, sfiorando l'ordine pubblico ed involgendo delicati problemi sociali, era opportuno affidare all'autorità di governo, coinvolgendo anche le forze esponenziali di determinate realtà (Canevacci, Votano, 80). In tale procedura di graduazione, i compiti del Prefetto si identificavano nella predeterminazione di criteri generali, con la fissazione di priorità per gruppi di provvedimenti e con la collocazione di singoli casi concreti nell'àmbito delle categorie predefinite, traducendosi il tutto, nella pratica, nella previsione dello scaglionamento della concessione della forza pubblica per l'assistenza dell'ufficiale giudiziario nella conseguente attività esecutiva di rilascio coatto; dal canto suo, la competente Commissione prefettizia forniva periodicamente al Prefetto il parere relativamente ai criteri di impiego della forza pubblica, tenuto conto della situazione generale abitativa della Provincia e delle richieste di esecuzione presentate dall'ufficiale giudiziario (Carrato 2004, 312). Si registravano, però, vari profili di incostituzionalità in tale regime di gradazione prefettizia (anche se non sempre recepiti dal giudice delle leggi): ad esempio, la procedura comportava la compressione del diritto di difesa attraverso la vanificazione del giudicato, perché l'attuazione di questo era demandata ad un organo non solo amministrativo, ma persino governativo; inoltre, essa incideva sul diritto reale di norma spettante al locatore, senza alcuna prefissione di criteri oggettivi e, quindi, in violazione della riserva di legge posta dall'art. 42 Cost. per gli interventi limitativi del diritto di proprietà privata; per non parlare della violazione del diritto del locatore a sottoporre la controversia ad un giudice, garantito dall'art. 6 della Convenzione dei diritti dell'uomo (De Stefano, 142). La materia è stata, finalmente, regolata dalla l. n. 431/1998, la quale, soppiantando il sistema della “graduazione prefettizia” previsto dalla l. n. 61/1989 (espressamente abrogato dall'art. 14, comma 3) in vista dell'operatività definitiva dei regimi – libero o agevolato – introdotti dalla nuova normativa, ha riservato alla disciplina dell'esecuzione dei provvedimenti di rilascio gli artt. 6 e 7, sottoponendo di nuovo la materia al controllo giurisdizionale e, segnatamente, del giudice dell'esecuzione. Questi, in sintesi, i tratti salienti delle disposizioni di cui all'art. 6: a) sospensione generalizzata dell'esecuzione dei provvedimenti di rilascio per finita locazione di immobili condotti ad uso abitativo e situati nei Comuni “ad alta tensione abitativa” per un periodo di centottanta giorni decorrenti dal 30 dicembre 1998 (data di entrata in vigore della legge); b) fissazione, su istanza dell'esecutato, di una nuova data di esecuzione dello sfratto da parte del giudice dell'esecuzione; c) forfetizzazione nella misura del 20% della maggiorazione del corrispettivo convenuto dovuto dal conduttore ai sensi dell'art. 1591 c.c. nel periodo di ritardato rilascio dell'immobile determinato – nella vigenza della l. n. 61/1989 – in un primo tempo dalla sospensione dell'esecuzione in senso proprio e successivamente dalla mancata concessione della forza pubblica nel quadro del c.d. sistema della “graduazione prefettizia”, poi, a partire dall'entrata in vigore della l. n. 431/1998, determinato dalla sospensione dell'esecuzione, il tutto “comunque fino all'effettivo rilascio”. Al riguardo, è stato correttamente sottolineato (Grasselli, Masoni, 693) che, in tal modo, la data dell'esecuzione, già determinata (rectius, differita) dal giudice della cognizione ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392/1978, poteva essere nuovamente fissata, questa volta da parte del giudice dell'esecuzione; così la fissazione della suddetta data, una prima volta da parte del giudice della cognizione e una seconda volta (eventualmente) da parte del giudice dell'esecuzione, si risolveva in un beneficio per il conduttore esecutato, il quale vedeva congruamente differito nel tempo il rilascio dell'immobile locato; non si tratta tecnicamente di una “sospensione” dell'esecuzione (disposta ope legis e contemplata nel medesimo art. 6 in commento), bensì di un “differimento” giudiziale della stessa, non risultando esigibile, fino alla data determinata dal giudice, il diritto del locatore al medesimo rilascio consacrato nel titolo esecutivo (Grasselli, Masoni, 693, i quali chiosano che “cambiano le formule lessicali utilizzate dal legislatore, come pure i meccanismi procedimentali prescelti, ma non la sostanza”). L'art. 7 della l. n. 431/1998, dal canto suo, poneva, come “condizione per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell'immobile locato”, la dimostrazione che: a) il contratto di locazione fosse stato registrato: b) l'immobile fosse stato denunciato ai fini dell'applicazione dell'I.C.I.; c) il reddito derivante dall'immobile medesimo fosse stato dichiarato ai fini dell'applicazione delle imposte sui redditi; in particolare, nel precetto di cui all'art. 480 c.p.c., dovevano essere indicati gli estremi di registrazione del contratto di locazione, gli estremi dell'ultima denuncia dell'unità immobiliare alla quale il contratto si riferisce ai fini dell'applicazione dell'I.C.I., gli estremi dell'ultima dichiarazione dei redditi nella quale il reddito derivante dal contratto era stato dichiarato nonché gli estremi delle ricevute di versamento dell'I.C.I. relative all'anno precedente a quello di competenza. Era evidente la finalità di incidere sul momento dell'esecuzione – sul quale il locatore che aveva ottenuto il provvedimento di rilascio si rivelava particolarmente sensibile – per stimolare l'adempimento dei doveri fiscali in un settore nel quale l'evasione risultava di una certa consistenza. Il giudice delle leggi, però, ha affermato che l'impedimento di carattere fiscale alla tutela giurisdizionale dei diritti, introdotto dalla norma denunciata, si pone in contrasto con l'art. 24, comma 1, Cost. e, quindi, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma (Corte cost., n. 333/2001): la disposizione di cui all'art. 7 della l. n. 431/1998 è stata, pertanto, espunta ex tunc dall'ordinamento, facendo così venir meno tutto il fascio di problematiche che essa aveva creato; attualmente, l'eventuale inosservanza di norme tributarie concernenti redditi percepiti in conseguenza di un diritto di proprietà interessato da rapporti di locazione o al perfezionamento del contratto di locazione si rivela del tutto irrilevante riguardo all'esercizio del diritto di agire esecutivamente per ottenere il rilascio dell'immobile locato a seguito di un titolo esecutivo formatosi legittimamente. Sospensione dell'esecuzioneTipologie locatizie interessate L'art. 6, comma 1, della l. n. 431/1998 – riferito alle sole locazioni abitative – esordisce con la previsione di una temporanea (e generalizzata) sospensione dell'esecuzione dei titoli di rilascio “per finita locazione”. Stante la ratio di tale sospensione ope legis, volta a favorire il transito, meno traumatico possibile, dal passato regime vincolistico al nuovo regime (libero o agevolato) previsto dalla suddetta legge, si è ritenuto che la stessa debba essere esclusa in tutte quelle ipotesi in cui la stessa sospensione non si riveli funzionale ad una rinegoziazione del rapporto – lasciandone inalterata la natura – sotto il regime ordinario della nuova normativa, in quanto originariamente destinato a soddisfare interessi ai quali quest'ultima non offre tutela, espungendoli dal proprio àmbito di applicazione, come si evince, ad esempio, dagli artt. 1 e 5 (De Stefano, 148). Pertanto, per esclusione, non vi rientrano: a) le ordinanze (di convalida e/o di rilascio) di sfratto per morosità, b) le sentenze che dichiarano la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore con condanna al rilascio, c) le sentenze di condanna al rilascio di immobili detenuti senza titolo, e d) i titoli esecutivi di rilascio costituiti da verbali di conciliazione, che non sono in senso stretto “provvedimenti di rilascio”, come recita il citato art. 6 (in queste ultime ipotesi, come peraltro avveniva in precedenza, lo sfratto, scaduto il termine ex art. 56 della l. n. 392/1978, può essere eseguito osservando le sole norme del codice di rito). Stante la summenzionata ratio, l'articolo in commento si applica solo agli immobili adibiti a dimora abituale e rispondenti ad esigenze abitative primarie, con esclusione di quelli utilizzati per il soddisfacimento di esigenze abitative transitorie del conduttore, come quelli presi in affitto per villeggiatura, evitando, tra l'altro, il paradosso che la durata successiva al contratto di tali tipologie di locazioni possa essere superiore a quella pattuita. Nello specifico, il comma 1 dell'art. 6 prevede, per gli immobili ad uso abitativo siti nei Comuni indicati nell'art. 1 del d.l. n. 551/1988, convertito con modificazioni nella l. n. 61/1989, la sospensione dell'esecuzione dei provvedimenti di rilascio emessi per finita locazione per un periodo di centottanta giorni a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge (periodo, quindi, iniziato il 30 dicembre e scaduto il 27 giugno 1999, in applicazione delle regole poste dall'art. 155 c.p.c. in tema di computo dei termini processuali). In dottrina, era stata affrontata la questione della graduabilità giudiziale, ex comma 3 della l. n. 431/1998, dei provvedimenti di sfratto emessi prima dell'entrata in vigore della nuova legge, ma eseguibili ex art. 56 della l. n. 392/1978 dopo il periodo di sospensione legale, vale a dire dopo il 27 giugno 1999. In proposito, si è affermato (Piombo 1999, 641) che la disciplina in esame trovava applicazione anche in tale fattispecie; in contrario, si è opinato (Giove, 243) che tutte le esecuzioni da iniziare dopo il 28 giugno 1999 sarebbero state assoggettate alla disciplina del comma 4; ad avviso di altra dottrina (Bucci, 135), l'actio finium regundorum tra la sospensione dell'esecuzione, la nuova graduazione del termine di cui al comma 3 e la nuova fissazione del rilascio prevista dal comma 4 dello stesso articolo, doveva essere individuata non considerando l'epoca della pronuncia del provvedimento di sfratto, ma la data di eseguibilità di quest'ultimo, per cui, se l'eseguibilità era antecedente al 27 giugno 1999, trovavano applicazione i primi tre capoversi, mentre, se era successiva, il conduttore aveva la possibilità di avvalersi della facoltà contemplata dal comma 4. Durante il periodo di sospensione, il locatore esecutante avrebbe potuto legittimamente notificare il precetto ed il preavviso di rilascio per data successiva al 27 giugno 1999, ma non avrebbe potuto legittimamente conseguire l'esecuzione forzata del proprio titolo di rilascio, legittimando altrimenti il conduttore esecutato all'opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 c.p.c. Il termine di novanta giorni contemplato dall'art. 481 c.p.c. – ossia il termine entro il quale doveva essere iniziata l'esecuzione, pena l'inefficacia del precetto – non aveva avuto corso nel periodo di sospensione dell'esecuzione, essendo l'inizio di questa impedito da un'impossibilità giuridica estranea alla condotta dell'esecutante: quindi, il decorso del termine di cui all'art. 481 c.p.c. era rimasto sospeso dal 30 dicembre 1998 al 27 giugno 1999, ed aveva ricominciato a correre dal successivo 28 giugno (Trib. Padova 21 novembre 1999). La sospensione de qua aveva, altresì, una portata territoriale circoscritta. Invero, nel chiarire il significato dell'art. 6, comma 1, della l. n. 431/1998, in primo luogo, si faceva riferimento ai Comuni ivi indicati, elencati nell'art. 1 del d.l. n. 551/1988, convertito in l. n. 61/1989, c.d. ad alta tensione abitativa, ossia quelli nei quali la scarsità dell'offerta di abitazioni – tale valutata dalla legge – rendeva difficoltoso agli sfrattati il reperimento di una nuova sistemazione (in dottrina, si era criticata l'incongruità dei criteri prescelti per l'individuazione dell'àmbito di operatività spaziale: Canevacci, Votano, 76). Sono stati cosi indicati dal citato art. 1: a) i Comuni di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia, nonché i Comuni confinanti con gli stessi; b) gli altri Comuni capoluogo di provincia; c) i Comuni considerati ad alta tensione abitativa, individuati nella delibera C.I.P.E. del 30 maggio 1985 (in Gazzetta ufficiale 19 giugno 1985, n. 143); d) i Comuni di cui alla delibera C.I.P.E. del 8 aprile 1987, n. 152 (in Gazzetta ufficiale 22 aprile 1987, n. 93); e) i Comuni terremotati della Campania e della Basilicata, per i quali, anche se compresi nelle lett. a)-d) del comma 1, la sospensione aveva effetto sino al 31 dicembre 1989. Va, altresì, rammentata l'ordinanza 18 ottobre 2000, n. 3090, con la quale il Ministro dell'interno (delegato per il coordinamento della protezione civile) – per fronteggiare i danni conseguenti agli eventi alluvionali ed ai dissesti idrogeologici che, dal 13 ottobre 2000, avevano colpito il territorio della Regione autonoma Valle d'Aosta e delle Regioni Piemonte, Liguria, Lombardia ed Emilia-Romagna – aveva disposto la sospensione di tutte le procedure di sfratto e dei relativi termini fino al 31 marzo 2001 (v., in proposito, sotto vari aspetti, Trib. Torino 4 febbraio 2001; Trib. Rovigo 18 gennaio 2001; Trib. Piacenza 22 novembre 2000; Trib. Torino 11 novembre 2000). In tutti gli altri Comuni, non ha operato, invece, alcuna sospensione. In ordine l'individuazione dei titoli di rilascio assoggettati alla sospensione dell'esecuzione, vanno, senza dubbio, incluse le sentenze di rilascio per finita locazione, le ordinanze di convalida di sfratto o licenza ai sensi dell'art. 663 c.p.c., le ordinanze provvisorie di rilascio di cui all'art. 665 c.p.c., le ordinanze ex art. 186-quater c.p.c. emesse in giudizi aventi ad oggetto la finita locazione. In argomento, un giudice di merito capitolino, in un'interessante ed articolata pronuncia (Trib. Roma 16 dicembre 1999), ha sostenuto che la sospensione riguarda i soli titoli di rilascio per finita locazione, ossia quei provvedimenti che facciano seguire la condanna del conduttore al rilascio dall'accertamento della cessazione della locazione per la scadenza del termine finale. Il magistrato capitolino ha reputato che godano della suddetta sospensione anche le ordinanze di convalida di sfratto per finita locazione sottratte al meccanismo della graduazione prefettizia per effetto del provvedimento del Pretore (ex art. 2 d.l. n. 551/1988, convertito dalla l. n. 61/1989) quando il conduttore abbia abbandonato l'immobile, abbia la disponibilità non precaria di un altro alloggio, o versi in stato di morosità sopravvenuta: si è, infatti, ritenuto che, nel silenzio della legge, non sia consentito escludere dall'àmbito di operatività della sospensione le ipotesi menzionate, atteso che il provvedimento reso dal Pretore ai sensi del citato art. 2 non muta la natura del titolo di rilascio, che rimane pur sempre l'ordinanza di convalida per finita locazione, ma incide esclusivamente sullo svolgimento della fase di esecuzione della medesima. Allo stesso modo, risultavano assoggettate alla sospensione le ordinanze di convalida di licenza e sfratto per finita locazione seguite dalla dichiarazione di urgente necessità e dalla concessione della forza pubblica ai sensi dell'art. 3, comma 3, d.l. n. 551/1988; anche in tal caso, come e più che nel precedente – giacché, in questa seconda ipotesi, non vi era alcun provvedimento del giudice – il rapporto cessava per la scadenza del termine, mentre la dichiarazione di urgente necessità non mutava la natura del provvedimento e si rifletteva solo sulla sua esecuzione, conseguendone che la l. n. 431/1998 aveva azzerato anche quei titoli di rilascio per finita locazione ormai prossimi ad essere eseguiti attraverso i meccanismi previsti dalla legislazione previgente. In ordine ai provvedimenti con cui veniva disapplicata la proroga biennale disposta dall'art. 11, comma 2-bis, della l. 8 agosto 1992, n. 359 (sui c.d. patti in deroga), si era sostenuta la loro estraneità alla sospensione in discorso; in questo caso, la cessazione del rapporto era determinata dal concorso della maturazione del termine di scadenza convenzionalmente pattuito o determinato dalla sua rinnovazione in mancanza di disdetta, con la necessità/intenzione del locatore di ottenere la disponibilità dell'immobile (in sostanza, il titolo di rilascio ottenuto a seguito dell'opposizione a proroga si avvicina forse più al recesso di cui all'art. 59 della l. n. 392/1978 che al diniego di rinnovazione di cui all'art. 29, ma, di certo, esso non è un titolo di mera finita locazione). Si era ritenuto, infine, che non rientrassero nel provvedimento di sospensione neppure i provvedimenti di diniego di rinnovazione alla prima scadenza pronunciati ai sensi dell'art. 11, comma 2, della citata l. n. 359/1992, riguardo ai contratti conclusi a “patti in deroga”: anche in questo caso, infatti, la cessazione del rapporto era determinata dal pervenire del medesimo alla prima scadenza convenzionale e dall'intenzione del locatore di rientrare in possesso dell'immobile per uno degli scopi previsti dalla legge (sul diniego di proroga ai sensi dell'art. 11, comma 2-bis, l. n. 359/1992, v., altresì, Trib. Milano 28 settembre 1999). Trattative per la stipula del nuovo contratto Si trattava, comunque, di una sospensione diretta a favorire la stipulazione dei nuovi contratti – sulla base delle due tipologie ivi contemplate – conformi alla disciplina della nuova legge in vigore, come si desume dal comma 2 della disposizione in commento, il quale espressamente stabilisce che, nel menzionato periodo di sospensione, “il locatore ed il conduttore avviano trattative per la stipula di un nuovo contratto di locazione in base alle procedure definite all'articolo 2 della presente legge”. La (oramai esaurita) sospensione dell'esecuzione, dunque, non era fine a se stessa, ma collegata ad un meccanismo – ricalcato su quello già previsto dall'art. 11, comma 2-bis, della l. n. 359/1992 (sui c.d. patti in deroga) – volto a determinare il transito dei contratti di locazione abitativa già cessati nel nuovo regime introdotto dalla l. n. 431/1998: in buona sostanza, si era voluto fornire agli interessati uno spatium deliberandi utile a valutare la convenienza economica e fiscale della stipula di contratti regolati dalla nuova disciplina (Lazzaro, Di Marzio, 1057); anche se si è configurato – sulla scorta dell'insoddisfacente esperienza della legge sui c.d. patti in deroga – un “utopico patteggiamento”, esprimendo seri dubbi che, da rapporti già cessati e che le parti non avevano convertito in contratti a patti in deroga, potessero effettivamente sorgere nuovi contratti secondo la nuova disciplina, a distanza di ben sette anni dall'entrata in vigore della legge. In particolare, durante il corso del termine di sospensione, come sopra adeguatamente circoscritto, le parti, a norma del comma 2 dell'art. 6 della l. n. 431/1998, potevano avviare, a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento – qui espressamente richiesta a differenza di quanto statuito al precedente art. 2 – anche a mezzo delle rispettive Organizzazioni sindacali, trattative per la stipula di un nuovo contratto locativo, seguendo una delle due tipologie ivi previste, ossia canone libero o canone concordato (Izzo 1999, 50, non ha mancato di stigmatizzare l'espressione inconsueta utilizzata dal legislatore con l'espressione “pendenza” del titolo esecutivo, atteso che, più propriamente, pende un giudizio o un procedimento). La norma de qua si riferiva ad entrambe le parti, indistintamente, nel senso che nessuna di esse aveva l'onere di tentare per prima la trattativa, come anche ciascuna avrebbe potuto tentarla in prossimità del termine del 27 giugno 1999, in modo da renderla in concreto impraticabile; sul punto, si è evidenziato (De Stefano, 151) il “ruolo marginale” riservato alle Organizzazioni sindacali, che doveva esaurirsi in una rappresentanza ordinaria, con conseguente esclusione della necessità di una preventiva prova del mandato eventualmente ricevuto dalla parte e, comunque, con la possibilità di una ratifica ad opera del dominus in qualunque momento utile. L'avvio di tali trattative – finalizzate alla riconduzione delle situazioni preesistenti alla disciplina novellata – non aveva carattere obbligatorio, sicché, a cagione della mancata attivazione di tale procedura, non poteva ipotizzarsi alcuna “improcedibilità” (Trib. Milano 14 dicembre 1999; Trib. Lucca 16 settembre 1999); d'altronde, il legislatore non aveva contemplato conseguenze sanzionatorie quanto a omesso avvio, ritardo dell'iniziativa, interpello generico, utilizzo di forme non previste, mancata risposta, e quant'altro, come non si potevano escludere comunicazioni “preventive” in cui si esplicitava la volontà di non iniziare alcuna trattativa o di non addivenire ad alcun accordo (a fortiori, alcun obbligo avevano i locatori o i conduttori le cui esecuzioni non fossero incluse nella sospensione, stante la stretta correlazione tra i commi 1 e 2 dell'art. 6 della l. n. 431/1998, come ad esempio le locazioni rientranti in ambiti territoriali non contemplati dalla nuova normativa). Trascorso il periodo di sospensione legale, laddove le parti non avessero rinnovato – per le varie ragioni sopra delineate – il rapporto locativo in base alla nuova disciplina, il solo conduttore era onerato, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla scadenza dei centottanta giorni di cui al comma 1 (ossia entro il 27 luglio 1999), alla presentazione di un'istanza (nelle forme del ricorso) al giudice dell'esecuzione del luogo ove si trovava l'immobile da rilasciare (art. 26, comma 1, c.p.c.), al fine di chiedere la fissazione di un nuovo giorno di esecuzione. Il mancato rispetto del termine di cui sopra rendeva inammissibile l'istanza, atteso che il legislatore aveva inteso raggiungere nel più breve tempo la certezza delle posizioni giuridiche; nulla escludeva (De Stefano, 154) che il conduttore non intendesse per nulla avvalersi di tale agevolazione, lasciando inutilmente decorrere il termine per chiedere la rifissazione del giorno dell'esecuzione (in tale ipotesi, poiché veniva a cessare ogni causa di sospensione legale, il processo esecutivo poteva riprendere senza bisogno di alcun provvedimento del giudice). Successive proroghe degli sfratti La l. n. 431/1998, in particolare con l'art. 6, commi 3 e 4, ha disposto la temporanea sospensione dell'esecuzione dei titoli di rilascio per finita locazione, riconoscendo ai conduttori la facoltà di chiedere al giudice un provvedimento di nuova fissazione del già fissato termine per l'esecuzione; nell'introdurre quest'ultimo congegno, con il successivo comma 5, si sono individuate alcune categorie di conduttori, per le quali il termine massimo della posticipazione dell'esecuzione era stabilito (non in sei, come per tutti gli altri, bensì) in diciotto mesi. Approssimandosi, però, la scadenza di tale ultimo termine, il patrio legislatore, a fronte della concreta prospettiva che i tanti titoli di rilascio per finita locazione accumulatisi nel tempo finissero per pervenire al momento dell'esecuzione pressoché simultaneamente, ha fatto nuovamente ricorso all'antico e collaudato strumento – talora presentato in forma palese, talaltra sotto mentite spoglie – della proroga degli sfratti (oggetto di aspre critiche, sotto diverse angolature, da parte della dottrina: Amendolagine 2004, 109; De Paola 2009, 44; Scalettaris 2001, 747; Scripelliti 2007, 455; Sforza Fogliani, 373; Spagnuolo 2009, 102; Barbieri, 763; Carbone, 209). Vale la pena – per completezza di indagine e sia pure in estrema sintesi – delineare il panorama legislativo in subiecta materia successivo alla l. n. 431/1998 (oggetto di attenta disamina da parte di Lazzaro, Di Marzio, 1075, nonché di Grasselli, Masoni, 723). In primis, è intervenuto l'art. 80, commi 20-22, della l. n. 388/2000 (finanziaria del 2001), il quale ha stabilito che alcuni Comuni (quelli c.d. ad alta tensione abitativa ed altri equiparati) potessero destinare talune risorse alla locazione di immobili da dare in godimento ad inquilini assoggettati a procedure esecutive di sfratto, aventi nel nucleo familiare ultrasessantacinquenni o handicappati gravi, e privi di altra abitazione o di redditi sufficienti ad accedere all'affitto di una nuova casa. La ratio di tale sistema sembrava, quindi, quella di porre l'onere della tutela dei conduttori più disagiati a carico (non già dello “sfortunato” locatore di turno, bensì), della collettività, attraverso l'intervento dell'Ente locale; i Comuni interessati avrebbero dovuto, infatti, formare graduatorie degli sfrattandi, da completarsi entro il termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, sino allo spirare del quale restavano sospese le procedure esecutive di sfratto iniziate contro inquilini rientranti nella categorie di cui sopra. Il termine di sospensione dell'esecuzione degli sfratti è stato, poi, differito al 31 dicembre 2001 dal d.l. n. 247/2001, convertito in l. n. 332/2001; quindi al 30 giugno 2002 dal d.l. n. 450/2001, convertito con modificazioni in l. n. 14/2002; ancora, al 30 giugno 2003 dal d.l. n. 122/2002, convertito in l. n. 185/2002; infine al 30 giugno 2004 dal d.l. n. 147/2003, convertito in l. n. 200/2003. Sono seguiti, poi, un primo differimento, non oltre il 31 marzo 2005 (d.l. n. 240/2004, convertito con modificazioni in l. n. 269/2004) ed uno successivo non oltre il 30 settembre 2005 (d.l. n. 86/2005, convertito con modificazioni in l. n. 148/2005), presentati come strumento temporalmente necessario per consentire agli inquilini interessati ad ottenere talune provvigioni economiche previste dalla legge. È sopravvenuto, inoltre, il d.l. n. 23/2006, convertito – con modificazioni relative alle sole disposizioni di copertura finanziaria – in l. 3 marzo 2006, n. 86, che ha sospeso per sei mesi, dal 3 febbraio al 3 agosto 2006, le procedure esecutive di sfratto per finita locazione che interessavano talune categorie di conduttori particolarmente disagiati. Il provvedimento limitava l'applicabilità della sospensione ai Comuni con più di un milione di abitanti (cioè Roma, Milano e Napoli); si consideravano i conduttori nel cui nucleo familiare fossero compresi ultrasessantacinquenni o handicappati gravi, ossia coloro i quali fossero portatori di un'invalidità superiore al 66%; occorreva anche la sussistenza di un requisito negativo, cioè il conduttore non doveva disporre di altra abitazione, né di redditi sufficienti ad accedere alla locazione di un nuovo immobile; la sussistenza dei requisiti (positivi e negativi) era autocertificata nelle forme di cui all'art. 4, comma 4, del d.l. n. 86/2005, e la dichiarazione doveva essere comunicata alla cancelleria del giudice procedente e, quindi, notificata al locatore, il quale, volendo contestare la sussistenza dei requisiti invocati ex adverso, poteva ricorrere al giudice dell'esecuzione, che procedeva con le modalità di cui all'art. 11, commi 5 e 6, d.l. n. 9/1982, convertito, con modificazioni, in l. n. 94/1982, disponendo o meno la prosecuzione dell'esecuzione; avverso il decreto era ammessa opposizione a Tribunale, che giudicava in composizione collegiale con le modalità di cui all'art. 618 c.p.c. In relazione alla scadenza della sospensione, era emanato un nuovo provvedimento d'urgenza (d.l. n. 261/2006, non convertito però in legge) che operava una nuova sospensione sino al 30 giugno 2007 “dei provvedimenti di rilascio per finita locazione degli immobili adibiti ad uso di abitazione”, considerando questa volta tutti i Comuni capoluoghi di provincia nonché i Comuni limitrofi di una certa consistenza abitativa (cioè con popolazione con oltre 10.000 abitanti). Sempre al dichiarato scopo di “contenere il disagio abitativo e di favorire il passaggio da casa a casa per particolari categorie sociali, soggette a procedure esecutive di rilascio per finita locazione”, la sospensione è proseguita in forza della l. n. 9/2007 sino al 15 ottobre 2007 (cioè per otto mesi decorrenti dalla sua entrata in vigore); per la “morosità” sopravvenuta – riferita cioè al pagamento del “corrispettivo” durante il periodo di sospensione – era rivitalizzato, con carattere di novità rispetto ai precedenti interventi, il sistema della quantificazione legale dell'inadempienza e del termine di grazia (artt. 5 e 55 l. n. 392/1978). Un ulteriore spostamento del dies ad quem della sospensione è operato per un anno (cioè sino al 15 ottobre 2008) dall'art. 22-ter della l. n. 31/2008 (di conversione del d.l. n. 248/2007), il quale enuncia anch'esso le tradizionali finalità (“contenere il disagio abitativo e di favorire il passaggio da casa a casa”), richiamando, quanto al resto, i meccanismi ed i benefici fiscali della l. n. 9/2007. Sulla stessa linea, si è mosso il successivo d.l. n. 158/2008, convertito in l. n. 199/2008, in forza del quale l'esecuzione in discorso era “ulteriormente differita” (al 30 giugno 2009), con la novità dell'esclusione dalla sospensione dei titoli fondati sul diniego di rinnovo del contratto alla prima scadenza per giustificati motivi (“alla sospensione di cui al comma 1, non si applica ai provvedimenti esecutivi disposti a seguito di disdetta del contratto da parte del locatore ai sensi dell'art. 3 della l. n. 431/1998”). Inoltre, l'àmbito territoriale veniva limitato ai “Comuni di cui all'art. 1, comma 2, del d.l. n. 86/2005, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 luglio 2005, n. 148”, e cioè i Comuni capoluogo delle aree metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste, nonché nei Comuni ad alta tensione abitativa con essi confinanti. Il termine di scadenza della sospensione era, ancora una volta, procrastinato in maniera “secca” al 31 dicembre 2009 dall'art. 22 del d.l. n. 78/2009, convertito in l. n. 102/2009 e, quindi, con le stesse modalità, al 31 dicembre 2010 dall'art. 5, comma 7-bis, del d.l. n. 194/2009, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 25/2010. Con lo stesso sistema, avveniva il successivo spostamento al 31 dicembre 2011, operato dall'art. 2, comma 12-sexies, del d.l. n. 225/2010, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 10/2011; il suddetto termine ha subìto un ulteriore scorrimento in forza dell'art. 29, comma 16, del d.l. 29 dicembre 2011, convertito in l. n. 14/2012, che ha sostituito il termine in ultimo fissato con quello del 31 dicembre 2012. Da ultimo, va segnalato che il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (“Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”) prevede, al comma 6 dell'art. 103, che “l'esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, è sospesa fino al 30 giugno 2020”, termine, quest'ultimo, prorogato, in sede di conversione dalla l. 27 aprile 2020, n. 27, fino al 1° settembre 2020 (stante la grande ampiezza della disposizione correlata alla c.d. emergenza coronavirus, sembra che la stessa trovi applicazione, come mai era accaduto in passato, anche nel caso degli sfratti per morosità). Successivamente, il blocco degli sfratti è continuato, e, da ultimo, con il d.l. 31 dicembre 2020, n. 183 (“Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi, di realizzazione di collegamenti digitali, di esecuzione della decisione UE, EURATOM 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, nonché in materia di recesso del Regno Unito dall'Unione europea”, c.d. Milleproroghe 2021), la sospensione dell'esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, è stata prorogata sino al 30 giugno 2021, limitatamente ai provvedimenti di rilascio adottati per mancato pagamento del canone alle scadenze e ai provvedimenti di rilascio conseguenti all'adozione, ai sensi dell'art. 586, comma 2, c.p.c., del decreto di trasferimento di immobili pignorati ed abitati dal debitore e dai suoi familiari. Da ultimo, con la conversione in legge del d.l. 22 marzo 2021, n. 41 (c.d. Decreto Sostegni) - recante “Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all'emergenza da COVID-19” (art. 40-quater l. 21 maggio 2021, n. 69), il legislatore emergenziale ha ulteriormente ritenuto necessario prorogare il blocco del rilascio degli immobili a seguito dell'emissione di provvedimento a seguito di accertata morosità o a seguito di decreti di assegnazione nell'àmbito di procedure esecutive, e segnatamente: a) fino al 30 settembre 2021 per i provvedimenti di rilascio adottati dal 28 febbraio 2020 al 30 settembre 2020; b) fino al 31 dicembre 2021 per i provvedimenti di rilascio adottati dal 1° ottobre 2020 al 30 giugno 2021. Tuttavia, nelle more, i giudici della Consulta (Corte cost., n. 128/2021) hanno dichiarato costituzionalmente illegittima la seconda proroga (segnatamente, 1° gennaio-30 giugno 2021) della sospensione delle attività nelle esecuzioni che hanno per oggetto l'abitazione principale del debitore, non risultando più proporzionato il bilanciamento tra la tutela giurisdizionale del creditore e quella del debitore, in considerazione della circostanza che i giudizi civili (che comprendono quelli esecutivi), a seguito dell'iniziale sospensione generalizzata, erano ripresi gradualmente con modalità compatibili con l'emergenza sanitaria, mentre, al contrario, la sospensione prevista dalla suddetta disposizione era rimasta immutata nei medesimi presupposti, ed era stata ulteriormente prorogata, a decorrere dal 1° gennaio 2021, per un ulteriore semestre. Inaspettatamente, gli stessi giudici della Consulta, successivamente (v. Corte Cost., n. 213/2021), esaminando le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Trieste e di Savona, sulla legittimità costituzionale delle norme di cui agli artt. 13, comma 13, del d.l. 183/2020 (convertito in l. 21/2021) e 40 del d.l. 41/2021 (convertito in l. 69/2021), che avevano prorogato, per alcuni provvedimenti di rilascio di immobili, la sospensione disposta a causa dell'emergenza epidemiologica da Covid-19, hanno ritenuto, però, non fondate le censure, osservando, in particolare, che il legislatore ha progressivamente ridotto, con l'attenuarsi della pandemia, l'àmbito di applicazione della sospensione, destinata comunque a cessare il 31 dicembre 2021. Eccezionalità dell'intervento legislativo I provvedimenti di proroga degli sfratti di cui sopra non hanno mancato di suscitare forti dubbi di costituzionalità, che però sono stati nella maggior parte rispediti al mittente (anche in questo caso, sollevando non poche censure da parte della dottrina: Angiolini, 249; Bellandi, 789; Amendolagine 2004, 382; Di Marzio 2004, 395; Izzo 2005, 85; Lenzi, 1805; Servello, 797). Un magistrato toscano (Trib. Firenze 26 aprile 2002), riguardo all'art. 1 del d.l. n. 450/2001, ha ritenuto violati gli artt. 3, comma 1 (ingiustificata disparità di trattamento tra i locatori che abbiano un conduttore appartenente alle categorie protette e gli altri locatori), 24, comma 1 (vanificazione della tutela esecutiva), e 42, comma 2, Cost. (compressione del diritto di proprietà). Il giudice delle leggi ha, però, ritenuto la sospensione denunciata giustificata, in quanto contenuta nella fase transitoria di passaggio dal precedente regime al nuovo sistema delle locazioni, nonché in ragione delle iniziali esigenze di approntamento delle misure dirette ad incrementare la disponibilità di edilizia abitativa per i conduttori in condizioni svantaggiate (Corte cost., n. 310/2003); al contempo, si è ammonito, però, che la sospensione dell'esecuzione per rilascio costituisce un “intervento eccezionale che può incidere solo per un periodo transitorio e limitato” sul diritto alla riconsegna dell'immobile in forza del provvedimento giurisdizionale; offrendo un riconoscimento di costituzionalità, si è evidenziato che la procedura esecutiva, per così dire, ad orologeria, “non può essere paralizzata indefinitamente con una serie di pure e semplici proroghe”, per di più omettendo ogni valutazione comparativa tra conduttore e locatore. Successivamente, un magistrato panormita (Trib. Palermo 14 gennaio 2003) ha denunciato l'incostituzionalità dell'art. 80, commi 20-22, della l. 23 dicembre 2000, n. 388, sulla considerazione che – a differenza di quanto accadeva nel vigore della l. n. 431/1998 – tale norma comportava un'irrazionale paralisi dell'esecuzione anche in ipotesi di convivenza, insorta tra il conduttore e la persona svantaggiata dopo la cessazione del contratto di locazione e alla formazione del titolo esecutivo, osservando, inoltre, che la norma impugnata, nel disporre la sospensione dell'esecuzione, avrebbe creato disparità di trattamento tra gli inquilini cui essa si riferiva e gli inquilini chiamati ad avvalersi dell'art. 6, comma 5, della l. n. 431/1998. I giudici della Consulta (Corte cost., n. 62/2004), sul primo punto, hanno rilevato che la norma è senz'altro suscettibile di un'interpretazione costituzionale, solo per questo da preferire: l'art. 80, comma 20, nell'utilizzare la parola “inquilini”, lasciava infatti intuire che il convivente dovesse essere tale da epoca antecedente alla cessazione del contratto di locazione; sul secondo punto, si è negato che l'art. 6, comma 5, della l. n. 431/1998 potesse rilevare quale tertium comparationis, tenuto conto della diversità rispetto alla norma impugnata in quanto, per un verso, l'art. 6 citato individua disgiuntivamente una pluralità di posizioni soggettive tutelate, mentre l'art. 80, comma 20, della l. n. 388/2000 si riferisce esclusivamente agli ultrasessantacinquenni e agli handicappati gravi, i quali devono essere al tempo stesso, congiuntamente, privi di altre abitazioni e dotati di un certo requisito reddituale, e, per altro verso, la prima norma si ispira al sistema della graduazione, con conseguente previsione di un potere discrezionale del giudice dell'esecuzione in ordine alla fissazione della data del rilascio entro un termine determinato nel massimo dalla legge, mentre la seconda norma, nel disporre la generalizzata sospensione degli sfratti, risponde alla logica propria del cessato regime c.d. vincolistico. La Corte costituzionale, anche in questa occasione, ha ribadito quanto affermato pochi mesi prima (Corte cost., n. 310/2003), e cioè che la procedura esecutiva non può essere paralizzata indefinitamente con una serie di pure e semplici proroghe, “oltre un ragionevole limite di tollerabilità”, in quanto il legislatore non può limitarsi a trasferire l'onere relativo alla protezione di categorie di soggetti bisognosi in via esclusiva a carico del privato locatore, mostrando così di reputare che il tempo massimo riservato alla sospensione dell'esecuzione, nei limiti della compatibilità costituzionale, fosse ormai prossimo a scadere. Prima delle richiamate pronunce, un altro giudice toscano (Trib. Firenze 3 gennaio 2003) aveva nuovamente sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della l. n. 185/2002 (in riferimento agli artt. 3, 24, 42 e 111 Cost.), ravvisando: a) una disparità di trattamento tra esecutanti che agivano per il rilascio contro conduttori in una delle condizioni di cui al citato art. 80 citato rispetto ad esecutanti nei confronti dei quali la sospensione non poteva essere invocata; b) una paralisi della tutela esecutiva per un consistente lasso di tempo; c) un danneggiamento di fatto dei soggetti di età avanzata e dei portatori di handicap grave nella futura ricerca di una casa da prendere in locazione; d) la tendenza del legislatore ad utilizzare lo strumento della sospensione in via ordinaria, anziché come strumento eccezionale, per affrontare il problema degli alloggi. La Corte costituzionale (Corte cost., n. 155/2004) – nel rammentare il contenuto delle proprie precedenti decisioni – ha ribadito che: 1) il legislatore non può “indefinitamente limitarsi, per di più senza alcuna valutazione comparativa, a trasferire l'onere relativo in via esclusiva a carico del privato locatore, che potrebbe trovarsi in identiche o anche peggiori situazioni di disagio”; 2) l'automatica proroga degli sfratti, indipendentemente da ogni valutazione comparativa delle contrapposte posizioni delle parti, “risponde alla logica del (nominalmente) cessato regime c.d. vincolistico”; 3) viceversa, la proroga degli sfratti può giustificarsi soltanto se opera “per un periodo transitorio ed essenzialmente limitato”, con necessità comunque di una “comparazione tra la condizione del conduttore e quella del locatore” o con la previsione di “alcuna congrua misura che, addossando alla collettività l'onere economico inerente alla protezione degli inquilini appartenenti alle categorie svantaggiate, allevi il sacrificio dei locatori”; tali ribadite considerazioni non hanno, però, condotto ad espungere dall'ordinamento la norma denunciata, anche se ulteriori proroghe “non potrebbero sottrarsi alle proposte censure di illegittimità costituzionale”, alle quali è da aggiungere anche la lesione del principio di ragionevole durata del processo. Procedimento di rifissazione del termine dell'esecuzioneFase introduttiva L'iter attivato dal conduttore per la rifissazione del termine dell'esecuzione viene disciplinato in osservanza del procedimento di cui all'art. 11 del d.l. n. 9/1982, convertito con modificazioni in l. n. 94/1982, appositamente richiamato dal comma 3 dell'art. 6 della l. n. 431/1998, che costituisce pur sempre un procedimento incidentale all'interno dell'esecuzione per rilascio dell'immobile locato (tra i primi commenti, volti ad evidenziare le varie criticità della procedura, si segnalano: Vigorito, 302; Locatelli, 461; Pizzuto, 100; Scalettaris 2000, 1844; dal canto loro, Canevacci, Votano, 75, si interrogano sul perché il legislatore del 1998 non abbia riprodotto ex novo il testo della norma). Nello specifico, il summenzionato art. 11, ai commi da 2 a 7, dispone: “Alla istanza debbono essere allegati una copia del titolo esecutivo nonché le attestazioni relative all'entità del reddito proprio e dei componenti il nucleo familiare ed ogni altro documento ritenuto necessario; di tali allegazioni deve essere fatta specifica menzione nell'istanza. Il conduttore, entro cinque giorni dalla presentazione, deve provvedere a tutti gli adempimenti previsti dalla legge a suo carico per la notifica dell'istanza al locatore ed all'eventuale beneficiario del provvedimento di rilascio. Questi, entro dieci giorni dalla avvenuta notifica, possono presentare deduzioni scritte e produrre ogni documento ritenuto necessario. Dalla data di presentazione della istanza di graduazione sino all'emissione del decreto del Pretore l'esecuzione del provvedimento di rilascio rimane sospesa. Il provvedimento di rilascio può peraltro essere eseguito qualora il conduttore non provveda tempestivamente agli adempimenti per la notifica della istanza. Il Pretore, acquisita la prova della avvenuta notificazione nonché le deduzioni e produzioni del locatore e dell'eventuale beneficiario e sentite le parti, ove lo reputi indispensabile, decide con decreto sull'istanza. Il provvedimento è immediatamente comunicato a cura della cancelleria al conduttore, al locatore ed all'eventuale beneficiario. Il Pretore, nelle ipotesi di cui al comma 1, 2, 3 dell'art. 10, determina il giorno della esecuzione sulla base delle particolari circostanze di fatto anche relative alla situazione economica delle parti, esaminata quest'ultima comparativamente in relazione a circostanze sopravvenute al provvedimento di rilascio, delle ragioni della decisione, del tempo trascorso dalla data in cui il provvedimento di rilascio è divenuto esecutivo”. Quindi, i conduttori, nel periodo compreso tra il 28 giugno ed il 27 luglio 1999 – termine, quest'ultimo, di cessazione della sospensione ex art. 6, comma 1, indubbiamente perentorio (Trib. Roma 16 maggio 2000; Trib. Torino 22 dicembre 1999; Trib. Torino 11 novembre 1999; Trib. Milano 10 dicembre 1999) – hanno potuto chiedere al Pretore del luogo dell'immobile locato, ex art. 26, comma 1, c.p.c. – e per esso, dopo l'entrata in vigore della riforma del giudice unico, al Tribunale in composizione monocratica, ex art. 14, comma 2, della l. n. 431/1998 – che fosse “nuovamente fissato il giorno dell'esecuzione”. L'art. 6, comma 3, della l. n. 431/1998 non indica il termine massimo entro cui contenere la nuova data dell'esecuzione: per alcuni, la lacuna doveva colmarsi facendo ricorso al successivo comma 4, secondo cui la nuova data dell'esecuzione non poteva spingersi oltre i sei mesi (Piombo 2000, 280), mentre, secondo altri, doveva farsi ricorso all'art. 11, comma 7, del d.l. n. 9/1982 (Izzo 1999, 52); secondo altri ancora occorreva riferirsi ai termini di cui all'art. 56 l. n. 392/1978, dovendo il termine fissato dal giudice dell'esecuzione considerarsi quale “nuova fissazione” del termine già precedentemente fissato ai sensi di tale norma (Di Marzio 1999, 355). La norma neppure indica il termine a quo dal quale operare il computo: alcune pronunce hanno sostenuto che, in caso fosse già spirato il termine ex art. 56 della l. n. 392/1978, occorreva riferirsi alla scadenza del periodo di sospensione, ossia al 27 giugno 1999 (Trib. Bologna 4 febbraio 2000; Trib. Lucca 22 ottobre 1999), oppure alla scadenza del termine per la presentazione dell'istanza di rifissazione, ossia al 27 luglio 1999 (Trib. Torino 29 giugno 2000; Trib. Venezia 7 settembre 1999; Trib. Venezia 7 settembre 1999); altre pronunce ancora hanno reputato che bisognava muovere dalla scadenza del termine ex art. 56 citato (Trib. Pisa 15 febbraio 2001). Si è posto, poi, il problema se il procedimento de quo fosse attivabile anche da terze persone, oltre da colui che risultava dal contratto come conduttore dell'immobile: invero, legittimato a proporre l'istanza di nuova fissazione è senza dubbio l'esecutato, ossia l'ex conduttore, nominato nel titolo esecutivo, ma è possibile che, successivamente alla formazione del titolo, si sia verificato taluno degli eventi contemplati dall'art. 6 della l. n. 392/1978 (“successione del contratto”) – si pensi al decesso del conduttore e al subentro degli eredi – sicché, in tal caso, potrebbe ritenersi legittimato il soggetto individuato dalla norma come successore nel rapporto locativo. Questi subentra all'ex conduttore nella stessa posizione di cui egli era titolare (Trib. Roma 21 ottobre 1999, nel caso di istanza presentata da eredi conviventi con il conduttore deceduto dopo la cessazione del contratto, dando valenza in senso oggettivo, e non meramente soggettivo, all'espressione “conduttore interessato”; contra, Trib. Roma 14 agosto 1999, secondo cui non è legittimato a proporre l'istanza di rifissazione colui che non abbia mai acquistato la qualità di conduttore per essere la morte di questi avvenuta dopo la risoluzione dell'originario contratto); viceversa, non è legittimato a proporre il ricorso per la rifissazione colui che sia rimasto nella detenzione dell'immobile a seguito dell'abbandono dello stesso da parte del titolare del contratto (Trib. Lucca 8 ottobre 1999). La tesi estensiva è stata condivisa da autorevole dottrina (Izzo 1999, 49), secondo cui, per conduttore, deve intendersi non soltanto colui che sia stato ab origine controparte contrattuale del locatore procedente, ma chiunque si trovi attualmente in situazione di detenzione dell'immobile oggetto di rilascio, e quindi, qualunque occupante, derivando la sua legittimazione non già ex titulo ma ex re, sulla scorta del rapporto reale con il bene oggetto di esecuzione, considerando che tale situazione di fatto deve necessariamente avere avuto inizio in un momento antecedente al decesso dell'originario conduttore in virtù del rapporto di convivenza con quest'ultimo. Altra dottrina (Vigorito, 306) ha valorizzato la ratio legis dell'istituto, sottolineando che il legislatore ha costantemente perseguito la finalità di salvaguardare non il diritto del solo conduttore, ma l'interesse del nucleo familiare alla continuità degli effetti del contratto ed al mantenimento dell'occupazione della casa familiare, sicché appare irragionevole, e contrastante con i principi costituzionali, un'interpretazione della norma che riconosca la rilevanza delle condizioni dei componenti del nucleo familiare ai fini della determinazione del termine di graduazione, e non consenta, quantomeno a coniuge, eredi, parenti, affini, convivente more uxorio, abitualmente conviventi di proporre la relativa istanza. L'atto introduttivo, volto alla fissazione della nuova data dell'esecuzione, consta di un “ricorso” da depositarsi nella cancelleria del giudice dell'esecuzione competente (per la tesi dell'inammissibilità se inviato a mezzo posta, Trib. Lucca 4 ottobre 1999); di conseguenza, il cancelliere è tenuto a creare ex novo un fascicolo, autonomo e prodromico rispetto alle operazioni di rilascio. Si è discusso, poi, se fosse necessario il patrocinio legale di un difensore: per la tesi positiva, si sono mostrati alcuni uffici giudiziari (Trib. Palermo 22 ottobre 1999; Trib. Padova 11 ottobre 1999), mentre altri hanno optato per la negativa, argomentando soprattutto per analogia riguardo ad altri subprocedimenti esecutivi in cui è possibile la presentazione di istanze ad opera della parte di persona (Trib. Verona 21 luglio 2000). Va chiarito, comunque, che l'istanza può essere presentata una sola volta, sicché una seconda istanza è da reputarsi inammissibile (Trib. Asti 13 gennaio 2000), sempre che la precedente sia stata delibata nel merito e, quindi, non anche qualora la stessa sia stata dichiarata inammissibile per una qualsiasi ragione. La presentazione dell'istanza comporta l'automatica sospensione dell'esecuzione del provvedimento di rilascio sino all'emissione del provvedimento, sempre che il conduttore provveda tempestivamente agli adempimenti posti a suo carico. Si è reputato che il titolo esecutivo – contenente il termine di esecuzione che si chiede di “rifissare” – sia l'unico documento che, a pena di “inammissibilità”, il conduttore è tenuto ad allegare alla sua istanza (Trib. Padova 27 settembre 1999). La produzione della restante documentazione, come quella fiscale – attestazione dei redditi del conduttore e dei componenti del suo nucleo familiare, giusto il richiamo all'art. 10, commi 5, 6, 7 del d.l. n. 9/1982, convertito, con modificazioni, in l. n. 94/1982 – e quella in via generale da porre a sostegno delle ragioni fatte valere con l'istanza (ad esempio, concernente le condizioni di salute del conduttore), non dà luogo alla “inammissibilità” della stessa, pur potendo incidere sulla pronuncia del giudice, stante che la mancata dimostrazione dovrebbe condurre ad una pronuncia di rigetto nel “merito”, salvo che si tratti di fatti pacifici o non contestati. Se, quindi, la produzione della menzionata documentazione non è prevista come condizione di ammissibilità del ricorso – sicché non può in particolare trovare applicazione la sanzione di inammissibilità per il mancato deposito della documentazione fiscale di cui all'art. 10, comma 7, del d.l. n. 9/1982, non richiamato dall'art. 6 in esame (in senso contrario, v., però, Trib. Udine 17 settembre 1999) – sembra da escludere che possa pervenirsi alla fissazione del nuovo termine dell'esecuzione in mancanza della copia del titolo esecutivo, senza la quale è interdetto al giudice di constatare la riconducibilità della situazione dedotta alla disposizione normativa invocata. In ogni caso, i documenti prodotti vanno richiamati espressamente nell'atto introduttivo contenente l'istanza di graduazione, ai fini della piena instaurazione del contraddittorio; per il resto, spetta indubbiamente all'istante fornire la prova dei fatti giustificativi della misura del differimento. L'istanza va notificata, a cura del conduttore, entro il termine di cinque giorni dal deposito della stessa; si è discusso se trattasi di un termine perentorio: in tal senso, si sono espressi alcuni giudici di merito (Trib. Pescara 10 febbraio 2000; Trib. Napoli 28 settembre 1999; Trib. Udine 27 settembre 1999), ma non è mancato chi ha ritenuto sufficiente che si dimostri di aver effettuato la richiesta di notifica. Comunque, la sua violazione, da parte del conduttore, comporta di fatto la decadenza dal beneficio della sospensione dell'esecuzione: poiché la presentazione dell'istanza produce un effetto sospensivo ope legis sino all'emissione del decreto del giudice, il legislatore ha posto a carico di quest'ultimo un onere sollecitatorio, nel senso che l'istante deve, prontamente e ritualmente, attivarsi per il prosieguo del procedimento al fine di arrivare ad una tempestiva decisione (se non è puntuale, non viene ritenuto meritevole della sospensione de qua). La notifica deve essere effettuata, pur se l'esecutante era munito di patrocinatore, ai sensi delle norme generali dettate dagli artt. 138 ss. c.p.c., senza tener conto del disposto di cui all'art. 489 c.p.c., che trova applicazione limitatamente al procedimento di espropriazione forzata, per cui va eseguita presso la residenza o il domicilio dell'esecutante risultante dall'atto di precetto, ex art. 480 c.p.c., se questo sia stato già notificato; altrimenti, occorre riferirsi all'atto introduttivo del giudizio a seguito del quale è stato emesso il provvedimento di rilascio (in ogni caso, la costituzione del locatore sana ogni eventuale vizio di notifica, v. Trib. Lucca 22 settembre 1999, il quale ha reputato infondata l'eccezione sollevata dal locatore circa validità della notifica effettuata presso il domicilio eletto nel procedimento di sfratto e non presso la residenza del locatore medesimo). Il locatore, o l'eventuale beneficiario del provvedimento di rilascio, a sua volta, entro dieci giorni dall'avvenuta notifica può presentare (anche personalmente) deduzioni scritte e produrre ogni documento ritenuto necessario, contestando il diritto dell'istante di ottenere il differimento, o la veridicità delle sue asserzioni, oppure allegando ulteriori circostanze a sé favorevoli; non è contemplata una costituzione in senso tecnico, a mezzo di un legale e con formazione del fascicolo da far vistare al cancelliere, come anche non è previsto un termine perentorio ma, ovviamente, se il locatore non provvede, il giudice è legittimato, una volta avuta la prova della notifica da parte del conduttore, a provvedere direttamente sull'istanza di quest'ultimo. In caso di morte del locatore o alienazione della proprietà dell'immobile locato verificatesi successivamente alla formazione del titolo, il procedimento di rifissazione deve essere instaurato nei confronti dell'avente causa dell'ex locatore, essendo questi (l'avente causa) legittimato a porre in esecuzione il menzionato titolo, ovviamente se il conduttore sia a conoscenza della vicenda successoria; si è opinato, altresì, che possa essere richiesta la rifissazione in discorso anche nei confronti di chi sia rimasto aggiudicatario dell'immobile pignorato (per le complesse problematiche di tale situazione, v. Astuni, 613). L'art. 11, comma 4, del d.l. n. 9/1982 dispone, quindi, che, “dalla data di presentazione dell'istanza di graduazione sino all'emissione del decreto del Pretore l'esecuzione del provvedimento di rilascio rimane sospesa”; la norma, però, soggiunge che “il provvedimento di rilascio può peraltro essere eseguito qualora il conduttore non provveda tempestivamente agli adempimenti per la notifica della istanza”; la sospensione dell'esecuzione – il cui scopo consiste nell'impedire che il successivo provvedimento sia inutilmente dato – si prolunga per l'intera durata del procedimento avanti al giudice adìto, determinando l'invalidità degli atti di esecuzione posti in essere e legittimando l'esecutato all'opposizione all'esecuzione. Trattazione e decisione Il giudice, verificata la regolarità della notifica e acquisita la documentazione, può provvedere anche senza fissare alcuna udienza di comparizione: invero, la convocazione delle parti va disposta dal magistrato soltanto “ove lo reputi indispensabile” (trattandosi, quindi, di un'ipotesi residuale, da valutarsi caso per caso); diversamente, ove lo ritenga necessario, può sentire le parti e provvedere sempre nella forma del decreto (rectius ordinanza, venendo pronunciato all'esito del contraddittorio fra le parti, sia pure meramente cartolare). Data la struttura stringata del procedimento camerale e la natura prettamente documentale del contendere, si nega generalmente la possibilità di dar luogo ad una vera e propria istruttoria, con l'assunzione di prove costituende ed espletamento di consulenza tecnica d'ufficio (al massimo, si potrebbe contemplare un interrogatorio libero per tentare, come ultima chance, una conciliazione tra i contendenti). Sull'istanza di nuova fissazione, il giudice adìto decide con un provvedimento da comunicarsi immediatamente alle parti a cura della cancelleria (la conoscenza integrale del provvedimento è decisiva per il computo del termine per l'opposizione di cui appresso); qualora si sostenga la non necessità della comunicazione, sarebbe ovviamente interesse del conduttore far conoscere quanto prima al locatore la nuova data dell'esecuzione o, di converso, del locatore procedere all'esecuzione per rilascio in caso di rigetto dell'istanza di rifissazione. In ossequio alle regole generali, si opina che il provvedimento debba essere succintamente motivato (art. 134 c.p.c.), segnatamente, comparando le condizioni delle parti (Trib. Bologna 21 dicembre 1999). In tale provvedimento, va indicato il nuovo giorno di esecuzione, ovvero il dies a quo, cioè quello a partire dal quale il locatore può riattivare o iniziare l'azione esecutiva nei confronti del conduttore dell'immobile occupato. Valore meramente tautologico (ad avviso di Izzo 1999, 53) ha l'affermazione contenuta nella legge secondo cui il provvedimento vale anche “come autorizzazione all'ufficiale giudiziario ad avvalersi della forza pubblica”, considerato che quest'ultimo ex se, e senza domandare nulla al giudice dell'esecuzione, può chiedere l'ausilio di questa per adempiere ai doveri del proprio officio (salva solo una previa comunicazione, da parte dello stesso ufficiale giudiziario, della data di accesso anche all'autorità che dispone della forza pubblica, ma al solo fine pratico di consentirle di metterla a disposizione per il giorno prescelto). Gli elementi che il giudice deve porre a fondamento della sua determinazione sono indicati nel comma 7 dell'art. 11 del d.l. n. 9/1982, convertito con modificazioni in l. 94/1982 nel seguente modo: particolari circostanze di fatto anche relative alla situazione economica di entrambe le parti, pure sopravvenuta al provvedimento di rilascio, ragioni della decisione nonché tempo trascorso dalla data in cui il provvedimento di rilascio è divenuto esecutivo (ad esempio, Trib. Bologna 21 dicembre 1999, alla luce della valutazione comparativa delle contrapposte situazioni, soggettive e oggettive, delle parti, ha ritenuto incongruo il termine fissato in mesi tre, a fronte, da un lato, di un comprovato precario stato di salute del conduttore tale da impedirgli lo svolgimento di attività lavorativa, e, dall'altro, della mancata adduzione da parte del proprietario di alcuna esigenza di rientrare in possesso dell'immobile, se non quella di eseguire lavori di ristrutturazione; ad avviso di Trib. Novara 30 luglio 1999, deve essere fissato a breve il nuovo termine per l'esecuzione del rilascio a fronte di un'istanza di fissazione della stessa non motivato da alcuna particolare esigenza del conduttore e in costanza, viceversa, dell'assoluta necessità del locatore di rientrare in possesso dell'immobile per andare ad abitarvi). Si tratta – come sottolinea la dottrina (De Stefano, 160) – di clausole generali, che devolvono al giudice dell'esecuzione un potere discrezionale del tutto simile a quello esercitato dal giudice della cognizione in sede di emanazione del provvedimento di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978; deve escludersi una rifissazione del termine in peius per il conduttore, potendo al massimo il locatore, facendo valere le necessità personali (abitative o professionali), puntare al rigetto del differimento o al contenimento del termine. In base ai detti criteri, il giorno dell'esecuzione potrebbe essere fissato non prima di sessanta (contra, nel senso che l'art. 6, comma 3, non preveda termini minimi, Trib. Bologna 4 febbraio 2000) e non oltre centottanta giorni (Trib. Torino 26 gennaio 2000) a decorrere dal dies a quo, variabile a seconda del tipo di provvedimento posto in esecuzione: 1) dal 27 luglio 1999 (momento finale in cui è stata data al conduttore la facoltà di presentare l'istanza) per provvedimenti di rilascio emessi prima del 30 dicembre 1998; 2) dalla data di deposito del ricorso per i provvedimenti di rilascio emessi successivamente al 30 dicembre 1998; 3) dalla scadenza del termine ex art. 56 della l. n. 392/1978 se per i provvedimenti l'istanza è stata presentata prima del decorso di tale termine. Il comma 5 della l. n. 431/1998 prevede la possibilità di elevare il termine dinanzi indicato sino a diciotto mesi nei casi di emergenza sociale normativamente esemplificati, da ritenere posseduti dal conduttore, secondo le regole generali, al momento di presentazione dell'istanza di rifissazione, quali: a) l'età del conduttore (nell'accezione sopra intesa) superiore a 65 anni (Trib. Torino 20 febbraio 2000), dimostrabile tramite le risultanze anagrafiche; b) il nucleo familiare particolarmente numeroso (cinque o più figli a carico), da intendersi la prole che non percepisca reddito o percepisca reddito inferiore alla soglia legale; c) l'iscrizione nelle liste di mobilità; d) il percepimento di un trattamento di disoccupazione o integrazione salariale, non rilevando né la qualità di inoccupato, né il mero stato di disoccupazione (Trib. Benevento 24 agosto 1999; contra, Trib. Bologna 4 febbraio 2000, secondo cui lo status di disoccupato puro e semplice è equiparabile a quello di conduttore che percepisce il trattamento di disoccupazione o di integrazione salariale); e) la qualità del conduttore di assegnatario di alloggio di edilizia residenziale pubblica, o di Ente previdenziale o assicurativo (a proposito della locuzione “formalmente assegnatario”, si è affermato che essa non può essere intesa letteralmente, dovendosi interpretare nel senso di utile collocazione del conduttore istante nella graduatoria dei bandi dell'istituto assegnante, con effettiva assegnazione prevista entro il termine massimo di differimento di diciotto mesi, v. Trib. Bologna 3 agosto 1999; in senso restrittivo è stato, invece, reputato necessario che il conduttore risulti formalmente assegnatario dell'alloggio, v. Trib. Lucca 22 ottobre 1999; Trib. Benevento 2 ottobre 1999; Trib. Biella 11 agosto 1999); f) il prenotatario di alloggio cooperativo o acquirente di alloggio in corso di costruzione, precisandosi che non può riconoscersi tale qualità al conduttore che abbia prodotto un atto di prenotazione di acquisto per un appartamento, senza documentare la stipula di un contratto preliminare (Trib. Torino 10 febbraio 2000); g) il proprietario (e non promittente acquirente) di alloggio per cui abbia instaurato giudizio di rilascio, da intendersi in capo a chi abbia iniziato l'esecuzione per rilascio o abbia notificato l'atto di precetto, anche se non è ancora decorso il termine dilatorio o sussista una causa ostativa di sospensione; h) il conduttore o uno dei componenti il nucleo familiare, convivente con il conduttore da almeno sei mesi, sia portatore di handicap di cui all'art. 3 della l. n. 104/1992 (o anche di invalidità civile eccedente i due terzi, secondo Trib. Padova 30 novembre 1999; contra, Trib. Bologna 4 ottobre 1999; Trib. Bologna 22 ottobre 1999) o malato terminale – per quest'ultimo status, si pensi ad una patologia cronica dall'esito prossimo infausto – il tutto preferibilmente oggetto di formale accertamento da parte delle apposite commissioni mediche. In tali casi, ai sensi dell'art. 1 del d.l. n. 32/2000, convertito con modificazioni dalla l. n. 97/2000, il termine dilatorio non può comunque essere inferiore a nove mesi, fermo restando il limite massimo di diciotto mesi di cui al medesimo art. 6, comma 5; il comma 2 del detto articolo ha, poi, stabilito che l'esecuzione dei provvedimenti di rilascio già emessi – necessario è, dunque, aver già presentato l'istanza ed ottenuto il relativo provvedimento – ai sensi dell'art. 6, comma 5, della l. n. 431/1998, è differita di nove mesi a partire dal 1° gennaio 2000. L'elencazione è tassativa, considerato il carattere eccezionale della previsione (Piombo 2000, 282); per l'assegnazione del termine ivi contemplato, infine, è sufficiente la ricorrenza di una sola delle condizioni previste dalla norma la quale, sul piano letterale, si presterebbe ad essere letta, all'opposto, come se le menzionate condizioni dovessero tutte coesistere (Izzo 1999, 54). Rimedi impugnatori Avverso la decisione del giudice monocratico (anche di inammissibilità, e non solo favorevole o sfavorevole ad una delle parti) è ammessa opposizione innanzi al Tribunale in composizione collegiale – è preferibile che del collegio non faccia parte il giudice che ha emesso il gravato provvedimento, argomentando, circa la “alterità” tra il giudice del provvedimento impugnato e quello dell'impugnazione, da Corte cost., n. 387/1999; v. anche Trib. Trieste 19 settembre 2000; Trib. Roma 30 settembre 1999) – secondo le modalità di cui all'art. 618 c.p.c. In dottrina, si è discusso sulla natura giuridica di tale rimedio, registrandosi una netta spaccatura. Escludono che tale opposizione abbia la natura di opposizione agli atti esecutivi, pur dovendo la stessa essere inquadrata nell'àmbito dei mezzi di gravame, coloro (De Stefano, 169) che sottolineano: a) che la stessa non venga proposta al medesimo giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, a differenza di qualunque altra opposizione ex art. 617 c.p.c. (ma ad un giudice di posizione equipollente a quella del giudice del reclamo nei procedimenti cautelari); b) l'assenza di alcun esplicito termine perentorio, alla stregua di quanto è sancito dall'art. 617 c.p.c. (che non viene richiamato dall'art. 6, commi 3 e 4, della l. n. 431/1998); c) il fatto che è un mezzo di impugnazione a critica libera e con effetto devolutivo integrale (in pratica, la verifica non è limitata ai soli vizi formali, ma è estesa a qualsiasi motivo di doglianza). Altra tesi (Izzo 1999, 52) ne afferma la natura di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., e ciò perché: a) l'opposizione agli atti esecutivi non presuppone l'inizio dell'esecuzione; b) la giurisprudenza non la limita alle sole irregolarità formali, ma la estende ai vizi sostanziali degli atti preliminari al processo esecutivo; c) in fattispecie identiche, come quelle ex art. 2-quinquies della l. n. 456/1981, la giurisprudenza ha chiarito che il provvedimento emesso si inquadra nell'àmbito degli atti esecutivi, per i quali era ipotizzabile il ricorso ex art. 617 c.p.c., o in quelle ex artt. 10 e 11 del d.l. n. 9/1982, convertito in l. n. 94/1982, per le quali la stessa giurisprudenza ha affermato che il provvedimento pretorile ha carattere giurisdizionale e natura ordinatoria, in quanto tale suscettibile di opposizione ex art. 617 c.p.c.; c) la stessa giurisprudenza ha ribadito che, con il rimedio de quo, è possibile far valer la carenza nel titolo esecutivo della data di rilascio di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978. La giurisprudenza si è posta soprattutto il problema da un punto di vista pratico, come logico corollario delle suesposte tesi: invero, stante che l'art. 6 della l. n. 431/1998 non richiama l'art. 617 c.p.c., è sorto il quesito se l'opposizione sia o meno assoggettata al termine perentorio di venti giorni – così elevato l'originario termine di cinque giorni dall'art. 2, comma 3, lett. e), della l. n. 80/2005 – dalla notifica del decreto, ai sensi dell'art. 617 c.p.c., oppure a quello di trenta giorni previsto in generale per l'impugnazione della sentenza dall'art. 325 c.p.c. La prima delle menzionate soluzioni ha raccolto il consenso della giurisprudenza di merito (Trib. Trani 30 maggio 2000; Trib. Bologna 19 aprile 2000; Trib. Monza 25 febbraio 2000; Trib. Bergamo 17 febbraio 2000; Trib. Roma 21 ottobre 1999; Trib. Catania 11 novembre 1999), sottolineando, comunque, che l'eventuale possibilità di un'opposizione senza alcun termine va pur sempre correlata all'interesse del conduttore di “sbrigarsi” al fine di evitare il rischio che il locatore ponga in esecuzione il provvedimento, conseguendo definitivamente a proprio vantaggio gli effetti favorevoli. Peraltro, tale soluzione trovava l'avallo nel pregresso formante giurisprudenziale che, qualificando come opposizione agli atti esecutivi l'analogo procedimento disciplinato dagli artt. 10 e 11 del d.l. n. 9/1982, convertito nella l. n. 94/1982, qualificava il provvedimento di rifissazione alla stregua di un atto esecutivo (Cass. III, n. 5516/1991; Cass. III, n. 11341/1990; Cass. III, n. 2617/1990). Appariva decisamente minoritaria la giurisprudenza che inquadrava il rimedio de quo nell'alveo dell'opposizione all'esecuzione, non soggetto, quindi, al termine perentorio di opposizione (prima cinque e ora venti) di cui all'art. 617 c.p.c. (Trib. Trieste 19 settembre 2000; Trib. Salerno 15 febbraio 2000). Recentemente, i giudici di Piazza Cavour (Cass. III, n. 12814/2012) hanno statuito che la speciale analoga opposizione avverso il provvedimento di fissazione dell'esecuzione, previsto dall'art. 56 della l. n. 392/1978 (come modificato dall'art. 7-bis del d.l. n. 240/2004, convertito nella l. n. 269/2004), che richiama pur sempre il comma 4 dell'art. 6 della l. n. 431/1998, non è soggetta al termine di proponibilità dell'opposizione agli atti esecutivi e può essere avanzata, in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo, fino a quando il termine stesso non sia spirato. Inquadrando il procedimento in esame nell'àmbito dell'opposizione agli atti esecutivi, in primo luogo, occorre la fissazione, in calce al ricorso, del decreto di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti con il termine perentorio per la notifica, oltre all'emissione dei provvedimenti reputati opportuni (tra questi ultimi rientra, a parere di Trib. Roma 30 settembre 1999, il potere di differire l'esecuzione del rilascio sino all'udienza); poi, la delibazione, all'udienza, dei provvedimenti opportuni adottabili, fra i quali va annoverata la sospensione dell'esecuzione; inoltre, il prosieguo della controversia con le modalità del rito locatizio, previa adozione dell'ordinanza di cui all'art. 426 c.p.c.; e, infine, l'eventuale istruzione della causa e sua decisione con sentenza non appellabile. Qualora l'impugnazione in esame vada ricondotta alle opposizioni agli atti esecutivi, il relativo termine – che non è sottoposto a sospensione feriale (Cass. III, n. 5059/2009; Cass. III, n. 6937/2007; Cass. III, n. 2140/2006; Cass. III, n. 10544/1998; Cass. III, n. 4283/1994) – decorre dal momento in cui l'opponente ha conoscenza legale del provvedimento, ossia dalla data del decreto, se emesso in udienza a contraddittorio instaurato, oppure, se emesso fuori udienza, dalla sua comunicazione, o, altrimenti, se emesso inaudita altera parte, dalla notificazione (Cass. III, n. 15222/2005; Cass. III, n. 3785/1997; Cass. III, n. 1958/1995). Ad ogni buon conto, l'opposizione – da proporsi con l'assistenza del difensore ex art. 82 c.p.c., pena la nullità del ricorso introduttivo – può essere proposta sia dal locatore che lamenti la concessione o i tempi della gradazione, sia dal conduttore che si dolga del rigetto dell'istanza o dell'autorizzazione in termini inferiori rispetto a quanto sperato. Il rito applicabile è quello di cui all'art. 447-bis c.p.c., cioè quello delle controversie locatizie, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 618-bis, comma 1, c.p.c. (Trib. Trani 30 maggio 2000; Trib. Salerno 15 febbraio 2000); a ben vedere, la norma tace in proposito ma, trattandosi pur sempre delle modalità di adempimento dell'obbligazione generale del conduttore di restituire l'immobile locato alla scadenza del contratto, la causa petendi è collegata al rapporto di locazione ed al relativo rito mutuato dalla controversie di lavoro (del resto, la forma del ricorso è finalizzata alla possibilità di adottare, in sede di prima udienza, i provvedimenti opportuni nei casi urgenti, salva la peculiarità della trattazione collegiale). Sotto il profilo funzionale, l'opposizione contro il decreto di fissazione della data di esecuzione di rilascio tende a modificare il provvedimento del giudice dell'esecuzione ed a sostituirlo mediante la fissazione di una data conforme alle disposizioni dell'art. 6 della l. n. 431/1998, senza superare – per quanto riguarda i titoli preesistenti al 30 dicembre 1998 – la data del 27 gennaio 2000 (Trib. Salerno 15 febbraio 2000); in particolare, il Tribunale adìto in sede di opposizione deve concedere il termine massimo di differimento pari a diciotto mesi quando i requisiti richiesti dall'art. 6, comma 5, della l. n. 431/1998 siano sopravvenuti al provvedimento opposto (Trib. Bologna 15 dicembre 1999). Il thema decidendum può riguardare la contestazione del provvedimento di rifissazione del termine sotto qualsiasi aspetto, e segnatamente, l'uso della discrezionalità, da parte del giudice dell'esecuzione, nel concedere o meno il differimento, oppure nel concederlo solo in parte. Tuttavia, anche se la norma parla di “qualsiasi motivo” di doglianza, l'opposizione non può coinvolgere profili attinenti al titolo esecutivo, restando così circoscritto alla valutazione dei vari parametri e alla congruità del medesimo termine; proprio per questo il ricorrente – sia esso il locatore o il conduttore – è tenuto ad indicare i motivi dai quali trarre l'inadeguatezza del termine fissato dal primo giudice, cioè quello della locazione (Trib. Modena 23 dicembre 2008; Trib. Genova 5 febbraio 2006). In altri termini, il merito della pretesa consacrata nel titolo va esaminata esclusivamente dal giudice che lo stesso titolo ha emesso e nel processo in cui quello si è formato o, se provvisorio, in quello in cui deve diventare definitivo; d'altro canto, si osserva (De Stefano, 171) che, dinanzi ad un titolo definitivo, ogni ulteriore contestazione sarebbe preclusa dal giudicato, che copre non solo il dedotto ma anche il deducibile. Il che non esclude, però, che l'opponente possa integrare la propria posizione e documentazione, al fine di conseguire comunque la tutela fin dall'inizio invocata al giudice dell'esecuzione; in quest'ottica, potrebbero allegarsi nuove circostanze emerse in un momento successivo alla pronuncia del decreto di fissazione (Mascagni, 176, il quale opina ciò dall'ampia dizione letterale della norma, evidenziando la differenza dell'opposizione de qua rispetto all'appello dove vige il divieto di ius novorum di cui all'art. 345 c.p.c.). Stante il carattere della “definitività” da riconoscersi al provvedimento del giudice dell'opposizione – nella specie, sentenza resa pubblica mediante lettura del dispositivo e la motivazione ai sensi dell'art. 429 c.p.c. – dovrebbe esperirsi avverso di esso il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. Natura giuridica della normaL'art. 6 in commento distingue tra provvedimenti di rilascio emessi prima e dopo la data di entrata in vigore della legge, individuata appunto al 30 dicembre 1998. Nel primo caso, il legislatore menziona – adottando una formula tratta dalla pratica – le cessate locazioni di immobili “per i quali penda provvedimento esecutivo di rilascio per finita locazione”, come si esprime il comma 2 della norma in commento, mentre, nel secondo caso, vengono invece in considerazione “i provvedimenti esecutivi di rilascio per finita locazione emessi dopo la data di entrata in vigore della presente legge”. Quanto al comma 3, è indubbio che la norma si riferisca a tutti i provvedimenti esecutivi di rilascio per finita locazione – i medesimi, prima elencati, ai quali si riferisce la sospensione dell'esecuzione – già emessi alla data del 30 dicembre 1998; non rileva, quindi, che a quella data tali provvedimenti fossero suscettibili di esecuzione (Trib. Piacenza 7 settembre 1999; Trib. Piacenza 7 luglio 1999), o non lo fossero per essere stato fissato ad epoca successiva il termine di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978, e non rileva neppure che la locazione fosse cessata, dovendosi ricondurre all'ipotesi del comma 3 anche le ordinanze di convalida di licenza per finita locazione – o, comunque, i provvedimenti di condanna in futuro – resi prima dell'entrata in vigore della l. n. 431/1998. Qualche incertezza, invece, può sorgere dalla lettura del comma 4 dell'art. 6 in esame – in effetti, abbastanza ambiguo e prolisso – potendosi in astratto pensare che “i provvedimenti esecutivi di rilascio per finita locazione emessi dopo la data di entrata in vigore della presente legge” siano, sine die, tutti i provvedimenti di rilascio pronunciati nel vigore della nuova legge, ossia non soltanto i provvedimenti riferiti a contratti sorti prima della l. n. 431/1998 – essenzialmente, cioè, contratti ad “equo canone” ed a “patti in deroga” – ma anche quelli concernenti contratti nuovi, regolati dalla nuova legge. In altri termini, si potrebbe ritenere che la disciplina introdotta dall'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998 possa essere intesa quale disciplina “transitoria”, ossia diretta a regolare il progressivo smaltimento dei vecchi contratti, in vista della generale applicazione dei nuovi, oppure quale disciplina “ordinaria”, vale a dire destinata ad operare anche riguardo ai contratti nuovi, quando perverranno o che siano già pervenuti – si pensi ad un nuovo contratto di durata contra legem annuale cessato, in mancanza di opposizione dell'intimato, in forza di convalida di finita locazione – alla loro naturale scadenza (in termini generali: Mazzeo, 677; Parmeggiani, 219). Appare, comunque, evidente il paradosso insito in quest'ultima soluzione: il legislatore, nel perseguire l'intento di “liberalizzare” il mercato delle locazioni abitative, avrebbe di già pronosticato il fallimento del progetto, dal momento che la paralisi, o anche la semplice congestione del momento esecutivo dei provvedimenti di rilascio, come quella evidenziata della nuova fissazione del termine per l'esecuzione, ripete il suo fondamento, per così dire, dalla “eccezionale carenza di disponibilità abitative” – come si enunciava nella l. n. 61/1989 – e, dunque, dalla circostanza che il mercato autoregolamentato non riesce a trovare da sé un punto di equilibrio tra domanda ed offerta e, così, finisce per fare del problema del rilascio degli immobili locati ad uso abitativo un problema che esula dall'àmbito della procedura civile, per entrare in quello dell'ordine pubblico (Lazzaro, Di Marzio, 1062). In questa prospettiva, parte della dottrina ha subito e senza incertezze riconosciuto che il sistema di rifissazione della data di esecuzione dello sfratto previsto dall'art. 6 della l. n. 431/1998 debba indubbiamente ritenersi “transitorio” e, quindi, oggi oramai esaurito (così Izzo 1999, 54). In linea con questa tesi (abbastanza restrittiva) favorevole ad una lettura transitoria della norma de qua, nel senso che, ai provvedimenti emessi dopo il 27 giugno 1999, si debba applicare esclusivamente l'art. 56 della l. n. 392/1978, non abrogato dall'art. 14 della l. n. 431/1998, si è posta anche parte della giurisprudenza di merito (Trib. Parma 7 febbraio 2006; Trib. Milano 9 novembre 2005; Trib. Vicenza 5 febbraio 2001; Trib. Mantova 15 dicembre 2000; Trib. Brescia 30 giugno 2000; Trib. Venezia 16 novembre 1999). Ponendosi in una prospettiva parzialmente difforme, altri, invece, hanno ritenuto che la nuova disciplina si estenda anche ai preesistenti rapporti locativi, regolati da leggi previgenti – “equo canone” e “patti in deroga” – cessati nel vigore della nuova legge: si pensi, ad esempio, a tutti i contratti rinnovatisi per un quadriennio in regime di “equo canone” alle soglie dell'entrata in vigore della l. n. 431/1998 (Piombo 2004, 53). Nello stesso senso, si è schierata altra parte della giurisprudenza di merito (Trib. Milano 28 ottobre 2005; Trib. Salerno 29 settembre 2002; Trib. Brescia 7 agosto 2000; Trib. Udine 30 giugno 2000; Trib. Torino 9 maggio 2000; Trib. Pordenone 3 maggio 2000), osservando che tale transitorietà è insita nel congegno stesso di rifissazione della data di esecuzione, che trova la sua ratio nella situazione di emergenza creata per effetto dall'accumulo di un gran numero di sfratti in attesa di esecuzione, emergenza che deve essere sembrata al legislatore in via di esaurimento, sicché la disposizione in commento ha senso quale strumento apprestato in vista del definitivo smaltimento delle esecuzioni accumulate. La conclusione da ultimo raggiunta, tuttavia, troverebbe indiretta smentita, sul piano della coerenza sistematica, nell'art. 1, commi 2 e 3, della l. n. 431/1998, che non indicano l'art. 6 tra le disposizioni non applicabili ai nuovi contratti ivi menzionati, ossia alle locazioni di immobili “di lusso”, di edilizia residenziale pubblica, turistiche e transitorie degli enti locali, perciò, interpretando l'art. 6 quale norma non transitoria ma ordinaria, si perverrebbe all'eccentrica conclusione di considerare assoggettati al procedimento di rifissazione rapporti che il legislatore non ha inteso inquadrare nelle regole fondamentali della nuova disciplina, in riferimento, per di più, ad un àmbito territoriale non limitato ai Comuni ad alta tensione abitativa, dei quali l'art. 6, comma 4, letto isolatamente – e non in collegamento con i tre commi che lo precedono – non fa menzione (Lazzaro, Di Marzio, 1063). Quindi, il comma 4 in esame non avrebbe natura di disposizione ordinaria, dovendosi piuttosto ritenere che l'art. 6 nel suo complesso ha inteso introdurre una disciplina di carattere transitorio, trovando la ratio nella necessità di dare una sistemazione quanto più razionale possibile ad una situazione ancora emergenziale data dall'accumulo di un gran numero di sfratti in attesa di esecuzione da svariati anni. Del resto, non avrebbe avuto senso alcuno mantenere in vita l'art. 56 della l. n. 392/1978, che già attribuisce al giudice la facoltà di stabilire il giorno dell'esecuzione in data diversa e successiva rispetto a quella di scadenza del contratto, risultando chiaramente irrazionale un sistema giuridico di permanente doppia fissazione del giorno dell'esecuzione, in evidente contrasto con l'obiettivo espressamente dichiarato nella relazione parlamentare di definire “un quadro di maggiori certezze giuridiche in ordine al rientro in possesso dell'immobile locato al termine del contratto” (Di Marzio 2011, 1741) In senso contrario (ma minoritario), si sono, però, espressi altri autori (De Stefano, 166), sul presupposto che, con la legge in commento, il legislatore abbia inteso fornire una “disciplina compiuta, organica e definitiva” della materia, escludendo così una lettura circoscritta; il che significa che non è ravvisabile alcuna limitazione temporale o spaziale, con operatività anche al di là dei Comuni di cui all'art. 1 del d.l. n. 551/1988, convertito in l. n. 61/1989 (Bucci, 130); in altri termini, in tutti i Comuni di Italia e riguardo a qualunque, anche futura, scadenza contrattuale ed a qualunque tipologia di contratto abitativo, il termine per l'esecuzione già fissato ex art. 56 l. n. 392/1978 potrà essere rifissato soltanto una volta e con le forme previste dalla legge in esame. Sul punto, va conclusivamente segnalato che la transitorietà della disciplina dettata dall'art. 6 – nel suo complesso e non in riferimento ai primi tre capoversi, espressamente rivolti alla regolamentazione di fattispecie transitorie – è stata, autorevolmente e senza incertezze, sia pure in un obiter dictum, riconosciuta dai giudici della Consulta, i quali, nel dichiarare l'incostituzionalità del comma 6 della disposizione, hanno affermato che l'art. 6 “si caratterizza per la limitazione spaziale e temporale dei suoi effetti”, contenendo disposizioni volte a regolare ed a definire situazioni sorte nel vigore delle precedenti normative e circoscrivendo il proprio àmbito di operatività ai Comuni ad alta tensione abitativa menzionati nel comma 1 (Corte cost., n. 482/2000). Trattasi, quindi, di norme “temporanee” volte a regolare e definire “situazioni sorte nel vigore della tensione abitativa” di cui alla l. n. 61/1989: peraltro, la transitorietà del meccanismo contemplato dall'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998 ha trovato il successivo avallo in una pronuncia nomofilattica (Cass. III, n. 11961/2010), che si è espressamente posta nel solco tracciato dal giudice delle leggi; invero, ribadendo l'eccezionalità della disciplina, si è affermato che “la possibilità di ottenere dal giudice la fissazione di una nuova data dell'esecuzione riconosciuta al conduttore si riferisce ai soli provvedimenti esecutivi di rilascio per finita locazione emessi entro il termine di centoottanta giorni dall'entrata in vigore della suddetta legge, e cioè entro il 27 giugno 1999”. Provvedimenti di rilascio post novellaIl comma 4 si occupa, alla stregua del suo stesso tenore letterale, dei provvedimenti esecutivi di rilascio, anche non definitivi, emessi per finita locazione dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina (30 dicembre 1998), stabilendo che essi sono assoggettabili al procedimento di graduazione sopra descritto, e anzi, in quella sede, si è già indicato quale sia il termine in base al quale va calcolato il nuovo giorno di esecuzione: in pratica, la procedura è la stessa di quella indicata al comma 3, con la precisazione che il termine assegnabile è espressamente fissato in mesi sei in via ordinaria, o diciotto mesi nei casi particolari indicati dal comma 5. Manca anche qui, invece, la menzione del termine a quo per la proponibilità dell'istanza di graduazione, che è, però, da individuare nella scadenza del termine per l'esecuzione fissato nel provvedimento di rilascio ex art. 56 della l. n. 392/1978 (Trib. Parma 12 dicembre 2005; Trib. Padova 11 febbraio 2004; Trib. Milano 14 dicembre 2000; Trib. Cremona 20 novembre 2000; Trib. Bergamo 14 giugno 2000), termine, comunque, da considerarsi perentorio, stante la natura stessa del procedimento di “rifissazione”, nel senso che il giudice dell'esecuzione rifissa, in un momento successivo, la data già determinata dal giudice della cognizione ai sensi del citato art. 56. In tal senso, si sono pronunciati anche i giudici di legittimità, per i quali – nell'equo contemperamento delle esigenze del locatore e del conduttore – il legislatore ha creato un sistema che, attraverso la fissazione di un giorno per l'esecuzione del rilascio, decorso il quale il locatore è abilitato a procedere in via esecutiva (art. 56 l. n. 392/1978), prevede la sostanziale sospensione temporanea dell'accesso alla procedura esecutiva, con la possibilità per l'esecutato, concessa dall'art. 6, commi 4 e 5, della l. n. 431/1998, di chiedere una sola volta la rifissazione della data di esecuzione; la richiesta deve essere avanzata, sul piano logico, prima che l'esecuzione possa essere intrapresa dall'avente diritto al rilascio, oppure “non oltre il giorno fissato per l'esecuzione”, poiché altrimenti, decorsa la data fissata dal giudice per il rilascio, il locatore deve considerarsi libero di iniziare la procedura esecutiva e la richiesta stessa non si proporrebbe più come fissazione di una nuova data, ma come sospensione dell'esecuzione (Cass. III, n. 24526/2008). Anche se la legge non indica da quale momento decorra il nuovo termine di rilascio, vi è concordia nel ritenere che esso si riferisca alla scadenza del termine fissato dal giudice della cognizione ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392/1978 (Trib. Chiavari 12 settembre 2003; Trib. Cremona 20 novembre 2000; Trib. Bologna 28 marzo 2000; in senso contrario, isolata, Trib. Gorizia 30 aprile 2001). La rifissazione può essere chiesta “una sola volta”, restando quindi inammissibile l'ulteriore ricorso del conduttore laddove una precedente analoga istanza sia stata respinta (Trib. Asti 13 gennaio 2000, cit.). In pratica, mentre per le ipotesi di cui al comma 3, il dies a quo era individuato nel giorno ultimo in cui si poteva presentare il ricorso, in quelle del comma 4 non esiste un termine finale per la presentazione del ricorso; il conduttore può proporre l'istanza di rifissazione per una sola volta, ma in qualunque momento anteriore alla messa in esecuzione del titolo (si pensi all'insorgere di circostanze sopravvenute); non si è esclusa (De Stefano, 167) la possibilità di presentare tale istanza anche prima della scadenza del termine di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978, ma con differimento (fino a sei, o eccezionalmente diciotto mesi) dalla scadenza di quest'ultimo termine, in quanto più favorevole (nel senso di temporalmente posteriore) per il conduttore. Si era anche discusso in dottrina sull'àmbito spaziale della nuova normativa, atteso che, in effetti, il comma 4 non ripete il limite territoriale con cui esordisce il comma 1 dell'art. 6, ossia l'applicabilità della procedura di rifissazione circoscritta ai soli Comuni ad alta tensione abitativa: alcuni (Mascagni, 172) erano per la sussistenza di tale limite, valorizzando la ratio legis della norma, mentre altri (De Stefano, 166) ritenevano che il silenzio normativo della norma sul punto consentiva di estendere il beneficio a tutti i Comuni d'Italia. La sopra ritenuta natura transitoria della norma e la limitata o meno sfera territoriale di applicabilità non risolve, peraltro, del tutto la questione concernente il suo àmbito applicativo, comunque, limitato ai provvedimenti esecutivi di rilascio per “finita locazione”, escludendo sempre – v. supra – i verbali di conciliazione, gli immobili destinati ad uso diverso, la risoluzioni per inadempimento del conduttore, le convalide di sfratto per morosità, le locazioni non volte a soddisfare esigenze primarie, ecc. Secondo alcuni (Izzo 1999, 48), infatti, la disposizione riguarderebbe i soli provvedimenti di rilascio emessi fino alla scadenza del periodo di sospensione previsto dall'art. 6, comma 1 (27 giugno 1999), per cui si applicherebbe solo ai provvedimenti di rilascio emessi successivamente all'entrata in vigore della l. n. 431/1998, ma solo nel periodo di centoottanta giorni di moratoria previsto dal comma 1. Si ritiene, in particolare, alla luce di esigenze di ordine costituzionale e per ragioni di interpretazione logico-sistematica, che il comma in esame trovi applicazione esclusivamente con riferimento ai provvedimenti di rilascio emessi in relazione a contratti ad uso abitativo entro il 27 giugno 1999, o nel c.d. periodo di inibizione, mentre i provvedimenti pronunciati dopo tale data resterebbero assoggettati unicamente all'art. 56 l. n. 392/1978. Diversamente opinando – secondo tale dottrina – si configurerebbe un irrazionale sistema di doppia fissazione del giorno dell'esecuzione: a) art. 56 della l. n. 391/1978; b) art. 6, comma 4, l. n. 431/1998, con conseguente nocumento della posizione giuridica del locatore. In tale ultimo senso, si pongono alcune pronunce di merito (Trib. Brescia 7 agosto 2000; Trib. Venezia 5 giugno 2000; Trib. Venezia 16 novembre 1999), secondo cui, essendo il comma 4 dell'art. 6 applicabile solo ai provvedimenti esecutivi emessi dopo il 30 dicembre 1998, ma entro il 27 giugno 1999, i provvedimenti pronunciati successivamente a tale ultima data restano sussumibili esclusivamente nell'àmbito applicativo dell'art. 56 l. n. 392/1978, non abrogato dall'art. 14 della l. n. 431/1998 (interpretazione, quest'ultima, sostanzialmente avallata dai magistrati di piazza Cavour: Cass. III, n. 11961/2000). Una seconda interpretazione (Villani, 174) amplia l'applicabilità della nuova normativa non solo ai provvedimenti di rilascio emessi fino al 27 giugno 1999, ma anche a quelli successivi, relativi ai rapporti locativi cessati o che cesseranno alla stregua delle leggi anteriori, senza essere soggetti al rinnovo tacito secondo la nuova disciplina introdotta dalla l. n. 431/1998 (art. 2, comma 6). In altri termini, l'art. 6, comma 4, deve essere riferito a tutti i provvedimenti emessi dopo il 30 dicembre 1998 e relativi a contratti sorti anteriormente a tale data anche se scadenti successivamente, sicché non si verificherebbe alcuna sovrapposizione tra quanto previsto dall'art. 56 l. n. 392/1978 e quanto previsto dalla norma in commento in merito alla fissazione della data del rilascio, poiché il primo si riferisce anche alle locazioni future, laddove la seconda riguarda solo i rapporti contrattuali in corso o cessati alla data di entrata in vigore della novella (evidenziando, peraltro, che, riguardo ai rapporti in corso, anche le circostanze da valutare sono diverse nell'ipotesi di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978 rispetto a quella dell'art. 6, comma 4, l. n. 431/1998). In conformità a questa seconda ricostruzione, si sono espresse altre pronunce di merito (Trib. Vicenza 5 febbraio 2001; Trib. Udine 13 maggio 2000), secondo le quali il regime di proroga stabilito dall'art. 6 ha efficacia temporanea, limitatamente ai soli titoli esecutivi di rilascio per finita locazione emessi per contratti sottoposti alla disciplina previgente (l. n. 392/1978 e l. n. 359/1992) cui corrisponde un àmbito di applicazione limitato territorialmente sulla base dell'indicazione di cui al comma 1 (Comuni ad alta tensione abitativa). Maggior danno risarcibileMora nella restituzione dell'immobile locato L'art. 1591 c.c. – al cui commento, comunque, si rinvia – prevede che “il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l'obbligo di risarcire il maggior danno”, così sanzionando l'inesatto adempimento dell'obbligazione restitutoria, contemplata dal precedente art. 1590 c.c., quale naturale conseguenza del connotato della temporaneità che caratterizza il godimento dell'immobile nel contratto di locazione. In termini generali, mette punto rammentare che il riconoscimento al locatore di un eventuale danno – ulteriore e di natura diversa dal corrispettivo, da considerarsi come forma di risarcimento “minima” per la mancata disponibilità dell'immobile locato – può essere effettuato nei soli limiti in cui egli ne deduca e dimostri la sussistenza (Cass. III, n. 14243/1999; Cass. III, n. 10270/1994; Cass. III, n. 891/1986). Stante la natura contrattuale del danno in questione – secondo la giurisprudenza maggioritaria (v., per tutte, Cass. III, n. 113/1999; Cass. III, n. 4968/1997; Cass. III, n. 5927/1995; Cass. III, n. 11369/1993; Cass. III, n. 7670/1993) – il locatore deve provare solo l'esistenza e l'ammontare del maggior danno, rispetto al canone convenuto, e non anche il dolo o la colpa del conduttore, mentre è quest'ultimo che, per esimersi da responsabilità, deve dimostrare che il ritardo è stato determinato da causa ad essa non imputabile (Cass. III, n. 3183/2006; Cass. III, n. 2525/2006; Cass. III, n. 19139/2005; Cass. III, n. 1645/2000; Cass. III, n. 8867/1991; Cass. III, n. 5373/1988). La giurisprudenza di legittimità è ferma nell'escludere che, tra le cause di non imputabilità dell'inadempimento, assuma rilievo la durata del processo (Cass. III, n. 3183/2006; Cass. III, n. 14243/1999; Cass. III, n. 3770/1980; Cass. III, n. 5131/1979), oppure la dilazione dell'esecuzione dovuta ad interventi normativi di sospensione, graduazione o proroga degli sfratti (Cass. III, n. 7096/1992; Cass. III, n. 5373/1988; Cass. III, n. 1268/1983; Cass. III, n. 1902/1981). Siffatto rigore verso la posizione del conduttore, debitore della riconsegna, è ulteriormente aggravata dal principio che, qualora il “maggior danno” sia stato predeterminato con apposita clausola penale, il debitore è tenuto a corrispondere l'ammontare di tale penale con decorrenza dalla data in cui avrebbe dovuto restituire il bene (Cass. III, n. 9698/1998; Cass. III, n. 10887/1993; Cass. III, n. 4429/1989; Cass. III, n. 1268/1983). Al contempo, però, è richiesta una prova particolarmente rigorosa del “maggior danno” (v., ex multis, Cass. III, n. 268/2005; Cass. III, n. 23368/2004; Cass. III, n. 7546/2002; Cass. III, n. 10485/2001; Cass. III, n. 1645/2000), non essendo sufficiente, in regime di canone legale, fare riferimento al “canone di mercato”. È, infatti, da considerarsi pacifico (Cass. III, n. 2525/2006) che l'obbligo di risarcire il maggior danno, posto dall'art. 1591 c.c. a carico del conduttore in mora nella riconsegna della cosa locata, presuppone la specifica prova di un'effettiva lesione del patrimonio del locatore, consistente nel non aver potuto utilizzare direttamente e tempestivamente il bene, nella perdita di occasioni di vendita ad un prezzo conveniente o in altre analoghe situazioni pregiudizievoli, la cui prova incombe al locatore, tenuto a dimostrare l'esistenza di ben determinate proposte di locazione o di acquisto e di concreti propositi di utilizzazione. Accanto a decisioni che ammettono la liquidazione equitativa, nel concorso dei requisiti previsti dall'art. 1226 c.c. (Cass. III, n. 10270/1994; Cass. III, n. 891/1986), si rinvengono talvolta pronunce – con riferimento, in genere, a fattispecie peculiari – secondo cui, in mancanza di una più specifica prova, il maggior danno, che il conduttore in mora nel restituire l'immobile è tenuto a risarcire al locatore, può essere liquidato, anche quando il locatore si sia proposto di usare direttamente l'immobile dopo il rilascio, nella misura corrispondente alla differenza tra il canone effettivamente corrisposto e quello che il locatore avrebbe percepito da un nuovo contratto di locazione (Cass. III, n. 3533/1991); oppure secondo cui, nel liquidare il danno, non ci si limiti a considerare la quantificazione contenuta nella proposta contrattuale avanzata dal conduttore per la stipula di una nuova locazione, ma si accompagni tale valutazione con altre fondate sulla notorietà alla stessa parte conduttrice che tale nuovo canone corrispondeva ai valori di mercato, sulla particolare dislocazione dell'immobile locato nonché sulle concrete e notorie possibilità di utilizzazione dell'immobile in relazione all'ubicazione in una città a rilevante vocazione commerciale (Cass. III, n. 1032/1996); oppure secondo cui, ai fini della liquidazione del maggior danno cagionato dalla ritardata consegna dell'immobile locato, la prova dell'an debeatur è in re ipsa, mentre la prova del quantum debeatur può essere fornita dal locatore documentando di aver offerto al conduttore il rinnovo del contratto con i patti in deroga e di aver stipulato con terzi, nello stesso periodo, nuove locazioni a canone libero per unità abitative site nello stesso stabile (Cass. III, n. 10390/2001). Anche la giurisprudenza di merito non ha mancato di prospettare soluzioni più soft, affermando, ad esempio, che, in tema di risarcimento da ritardato rilascio dell'immobile locato, il maggior danno ex art. 1591 c.c. presuppone l'accertamento in concreto di una lesione effettiva del patrimonio del locatore, la cui dimostrazione non esige – in via necessaria ed esclusiva – la prova dell'esistenza di ben precise proposte di locazione o di acquisto, oppure di altri concreti propositi di utilizzazione; al contrario, il giudice deve quantificare – operando una valutazione complessiva, anche equitativa, delle risultanze istruttorie – il valore patrimoniale della disponibilità dell'immobile sottratta al locatore per il tempo in cui si è protratta la mora nel rilascio (Trib. Firenze 2 maggio 2003). In tale panorama sufficientemente complesso, elementi di disequilibrio potrebbero derivare da una clausola di stile, prevedente una penale per il caso di ritardata consegna, inserita in tutti i contratti di locazione, oppure da una notevole possibilità di precostituzione di prova, stante i tempi – prevedibili nella loro lunghezza – intercorrenti tra la data di scadenza o stabilita dal giudice ex art. 56 l. n. 392/1978 e quella della presumibile esecuzione manu militari (Lazzaro, Di Marzio, 1035). Forfetizzazione legale dell'indennità In quest'ordine di concetti, si inquadra l'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998, il quale stabilisce i limiti di operatività dell'art. 1591 c.c., disponendo che, “durante i periodi di sospensione delle esecuzioni di cui al primo comma dello stesso articolo e al comma 4 dell'art. 11 del citato d.l. n. 9/1982, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 94/1982, nonché per i periodi di cui all'art. 3 d.l. n. 551/1988 cit., convertito, con modificazioni, dalla l. n. 61/1989, come successivamente prorogati, e comunque fino all'effettivo rilascio, i conduttori sono tenuti a corrispondere, ai sensi dell'art. 1591 c.c., una somma mensile pari all'ammontare del canone dovuto alla cessazione del contratto, al quale si applicano automaticamente ogni anno aggiornamenti in misura pari al settantacinque per cento della variazione, accertata dall'Istituto nazionale di statistica (I.S.T.A.T.), dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi nell'anno precedente; l'importo così determinato è maggiorato del 20%. La corresponsione di tale maggiorazione esime il conduttore dall'obbligo di risarcire il maggior danno ai sensi dell'art. 1591 c.c. Durante i predetti periodi di sospensione sono dovuti gli oneri accessori di cui all'art. 9 l. n. 392/1978, e successive modificazioni”. La norma in commento registra autorevoli precedenti, atteso che, prima del 1998, il legislatore è intervenuto a più riprese sul tessuto codicistico in materia locatizia, comprimendo sensibilmente il diritto del locatore al risarcimento del danno (per un'attenta panoramica della cornice di riferimento normativa, Villani, 176): in proposito, si possono ricordare l'art. 2 d.l. n. 393/1987, convertito nella l. n. 487/1987 e, soprattutto, l'art. 7, comma 2, del d.l. n. 551/1988, convertito in l. n. 61/1989, che tanti problemi ha dato agli interpreti. In particolare, con l'art. 6, comma 6, il legislatore del 1998 ha tentato di offrire una risposta ai contrasti insorti in precedenza, indicando l'àmbito temporale di applicazione, l'ammontare del risarcimento dovuto, le conseguenze correlate all'inadempimento di tale obbligazione, ecc., anche se l'infelice tecnica adoperata ha aperto il fronte a nuove problematiche, foriere di seri dubbi di costituzionalità. Si è, al riguardo, ritenuto che la norma de qua – la quale trova applicazione riguardo ai medesimi rapporti assoggettati al congegno della nuova fissazione della data dell'esecuzione di cui ai commi 3 e 4 – sembra collocarsi in quella tendenza della legislazione speciale in subiecta materia, più volte rammentata, e porsi nel suo rapporto con il codice civile non già quale disciplina derogatoria, bensì quale statuto ordinario (Lazzaro, Di Marzio, 1018, secondo i quali l'art. 6, comma 6, piuttosto che costituire una deroga all'art. 1591 c.c., tenderebbe a sostituirlo in toto); in questa prospettiva, potrebbe azzardarsi – pur nella decisa interpretazione in senso differente del giudice della nomofilachia – che, a carico del conduttore in mora nella riconsegna, sia posta un'obbligazione di natura esclusivamente indennitaria, quantitativamente commisurata al canone aggiornato maggiorato del 20%, con consequenziale esclusione del sorgere dell'obbligazione strettamente risarcitoria prevista dall'art. 1591 c.c. Comunque, relativamente alle concrete modalità di calcolo della somma dovuta, la norma non dovrebbe registrare particolari difficoltà applicative, sottolineando, fin d'ora, che l'importo che il conduttore in mora deve corrispondere al locatore si compone di più voci (canone dovuto, aggiornamenti I.S.T.A.T., maggiorazione di 1/5 e oneri accessori) In prima approssimazione, anche se la locazione è da considerarsi cessata de iure, dovrà operarsi come se il contratto fosse ancora in corso ed applicare unitariamente la variazione I.S.T.A.T. al 75% verificatasi per tutto il periodo considerato, e il relativo importo sarà poi “maggiorato” del 20%. Il termine “maggiorato”, adoperato al singolare, è riferibile infatti solo all'“ammontare del canone”, mentre la collocazione del termine stesso dopo l'inciso relativo agli “aggiornamenti” dimostra che la maggiorazione si applica sulla complessiva somma; è, quindi, da escludere la diversa interpretazione secondo la quale detta maggiorazione andrebbe riferita al solo aggiornamento, che diventerebbe, pertanto, pari al 90% della variazione I.S.T.A.T., come è stato ipotizzato in sede di lavori parlamentari in riferimento alla norma previgente (Lazzaro, Di Marzio, 1040). Nello specifico, per il calcolo della somma dovuta dal conduttore, occorre prendere le mosse dal canone “dovuto” alla cessazione del contratto, con la precisazione che tale non dovrebbe essere quello contrattualmente dovuto (o di fatto quello concretamente corrisposto) in forza di pattuizioni nulle – ad esempio, canone pattuito in misura ultralegale rispetto ai limiti imposti dagli artt. 12 ss. l. n. 392/1978, o aggiornamenti I.S.T.A.T. in misura piena, salvo non si tratti di locazione ex art. 11, comma 1, della l. n. 359/1992, ecc. – e, comunque, sarebbe preferibile l'accertamento a seguito di un apposito giudizio, bandendo eventuali illegittime autoriduzioni. Sul canone dovuto alla data di cessazione del rapporto, si applicano “automaticamente”, e, quindi, indipendentemente dalla richiesta di cui all'art. 24 della l. n. 392/1978, gli aggiornamenti annuali nella misura del 75% della variazione I.S.T.A.T. Quantificato il canone aggiornato, va computata, inoltre, la maggiorazione del 20%, l'applicazione della quale non è condizionata alla richiesta del locatore, sicché il conduttore è tenuto a corrisponderla indipendentemente da ogni istanza in tal senso – analogamente, ma in relazione all'art. 1-bis l. n. 61/1989, v. Cass. III, n. 12527/2000 – potendo il locatore esigerla anche per il passato (quanto alla prescrizione del diritto a pretendere tale maggiorazione, operando la perpetuatio obligationis, si applica il termine quinquennale previsto in materia di canone). In argomento, può osservarsi che, nel vigore dell'art. 1-bis l. n. 61/1989, si sosteneva che la maggiorazione del 20%, collocandosi dal lato del “corrispettivo convenuto” e non del “maggior danno”, avrebbe dovuto essere corrisposta solo se richiesta, in ossequio alla simultanea applicazione del congegno della perpetuatio obligationis e del principio secondo cui, nel quadro di applicazione della l. n. 392/1978, tutto ciò che andava ad incrementare il canone era dovuto solo se richiesto dal locatore; oggi, l'avverbio “automaticamente” adoperato dalla norma, comporta che gli aggiornamenti I.S.T.A.T. sono dovuti, invece, indipendentemente dalla richiesta, con conseguente applicabilità del medesimo meccanismo anche alla maggiorazione del 20%. L'art. 6, comma 6 – come, d'altronde, l'art. 1-bis l. n. 61/1989 – pone, infine, a carico del conduttore gli oneri accessori previsti dall'art. 9 della l. n. 392/1978, il che sarebbe comunque conseguito all'applicazione del congegno della perpetuatio obligationis anche se la norma avesse taciuto sul punto. Transitorietà della disposizione Si è abbastanza concordi nel ritenere che la norma de qua – che, da un lato, prestabilendo forfetariamente il risarcimento, limita il danno risarcibile da parte del conduttore, ma, dall'altro, esentando il locatore da qualsiasi prova, incentiva un celebre sgombro e rende maggiormente sopportabile la ritardata restituzione – presenti natura transitoria (v., tra le più pronte a prendere posizione, Pret. Roma 21 gennaio 1999; Trib. Milano 29 aprile 1999). Come già osservato riguardo ai primi quattro capoversi dell'art. 6 della l. n. 431/1998, si tratta, nel suo complesso, di previsioni volte a favorire il passaggio, quanto meno traumatico possibile, dal precedente sistema – che si incentrava ancora sull'“equo canone” come regola, rispetto alla quale i “patti in deroga” costituivano eccezione – al nuovo sistema, caratterizzato da un apprezzabile ampliamento degli spazi dell'autonomia privata. A tal fine, il legislatore ha sospeso le esecuzioni dei titoli di rilascio (comma 1) e invitato le parti ad utilizzare il periodo di sospensione per stipulare nuovi contratti (comma 2); in mancanza di tale conclusione, ha stabilito, poi, che i conduttori esposti all'azione esecutiva potessero rimanere nel godimento dell'immobile per un tempo ulteriore, stabilito dal giudice in considerazione delle particolarità del caso (commi 3, 4 e 5); ha, infine, regolato l'adempimento dell'obbligazione derivante dalla mora nella restituzione, ex art. 1591 c.c., secondo un'ispirazione più consona allo scopo di contemperamento dei contrapposti interessi: il locatore, mediante la maggiorazione del 20%, è esonerato dal rigoroso onere della prova del “maggior danno” subìto, e il conduttore non può dimostrare che l'altro contraente non ha patito alcun pregiudizio, ma è esonerato da ogni ulteriore risarcimento (comma 6). Appare allora evidente che i primi sei capoversi dell'art. 6 costituiscono un unitario apparato normativo destinato a regolare, sotto diversi aspetti, le medesime fattispecie (Lazzaro, Di Marzio, 1019). Anche altri autori (Izzo 2000, 541), negando ogni valore al dato letterale – frutto, a loro parere, di un'evidente atecnicità del legislatore del 1998 – hanno affermato la natura transitoria della disposizione in esame, la quale proprio per questo non si paleserebbe incostituzionale, sostenendone, quindi, l'applicabilità solo nel ristretto àmbito temporale sopra indicato. Tale opzione ermeneutica è stata avallata espressamente dal giudice delle leggi (Corte cost., n. 482/2000, di cui appresso funditus), sottolineando che il legislatore del 1998, nella già rilevata finalità di agevolare la transizione al nuovo regime locativo, ha disposto la sospensione dell'esecuzione dei provvedimenti di rilascio durante il periodo di centottanta giorni dall'entrata in vigore della legge, quantificando correlativamente l'importo delle somme dovute dal conduttore nel detto periodo e negli altri periodi di sospensione delle esecuzioni, di cui all'art. 11, comma 4, del d.l. n. 9/1982 e all'art. 3 del d.l. n. 551/1988: le due misure consistenti nella sospensione dell'esecuzione e nella determinazione del quantum sono, dunque, strettamente connesse, in quanto alla sospensione ex lege dell'esecuzione corrisponde, “quale previsione altrettanto eccezionale e temporanea”, la determinazione parimenti ex lege dell'indennità relativa allo stesso periodo. Anche i magistrati del Piazza Cavour sono intervenuti sul punto, affermando che la norma contenuta nell'art. 6, comma 6, che ha introdotto una determinazione predeterminata e forfetaria del risarcimento del danno da occupazione illegittima degli immobili nella misura massima del 20% del canone di locazione, con esclusione di ogni altro risarcimento previsto dall'art. 1591 c.c. – salvo che nel periodo successivo alla scadenza del termine di sospensione dell'esecuzione stabilito ope legis o di quello giudizialmente fissato per il rilascio dell'immobile, in base alla citata Corte cost., n. 482/2000 – è una “norma eccezionale, di efficacia temporanea e destinata ad agevolare la transizione verso il nuovo regime pattizio delle locazioni”, e, come tale avente efficacia retroattiva ed immediatamente applicabile ai giudizi in corso (Cass. III, n. 14624/2004; Cass. III, n. 8502/2003). Ne consegue che i conduttori di immobili locati ad uso abitativo secondo la nuova l. n. 431/1998 – in ciò intendendosi ricompresi anche i titolari di pregressi rapporti rinnovatisi tacitamente nel vigore della nuova legge – saranno esposti, con la cessazione dei contratti – salvo, ovviamente, interventi del legislatore “prorogatori”, “sospensivi” o simili – all'applicazione dell'art. 1591 c.c., e non dell'art. 6, comma 6, in commento. Appariva, invece, minoritaria la tesi che – partendo dall'affermazione sopra cennata, per cui il legislatore avrebbe dettato una definitiva ed organica disciplina della materia – giungeva a sostenere la natura ordinaria del comma in commento, che, quindi, non avrebbe previsto alcuna significativa restrizione né temporale (stante la locuzione “comunque sino all'effettivo rilascio dell'immobile”), né territoriale; il che, altresì, significava che la maggiorazione de qua era dovuta anche per il periodo di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978, a nulla rilevando, attesa l'ultroneità dell'elemento psicologico della condotta, che in tal caso il provvedimento di dilazione fosse pronunciato dal giudice della cognizione (Villani, 181, il quale concludeva nel senso che “anche per la disciplina del risarcimento dei danni, come per la procedura di graduazione giudiziale, può ritenersi, dunque, che, in tutti i Comuni di Italia e riguardo a qualunque, anche futura, scadenza contrattuale ed a qualunque tipologia di contratto abitativo, valga la normativa dettata dall'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998”). Ambito di applicazione Una volta chiarita – quantomeno secondo l'interpretazione maggioritaria – la natura transitoria della norma e la sua coerenza al disegno realizzato dai commi precedenti della medesima disposizione, vanno puntualizzati gli ambiti (spaziali, temporali, soggettivi e oggettivi) di applicazione. Sul versante spaziale, il meccanismo dell'esaustiva maggiorazione del 20% si applica nei soli Comuni “ad alta tensione abitativa” e che, nei successivi provvedimenti, verranno indicati dal legislatore, sicché, al di fuori di quelle aree, non trovano applicazione né la sospensione dell'esecuzione, né la nuova fissazione del termine per l'esecuzione, né la maggiorazione del 20%. Relativamente all'àmbito temporale, ci si riferisce ai periodi di cui: a) al comma 1 dell'art. 6 della l. n. 431/1998; b) al comma 4 dell'art. 11 del d.l. n. 9/1982, convertito nella l. n. 94/1982; c) all'art. 3 del d.l. n. 551/1998, convertito in l. n. 61/1989 come via via prorogato; d) comunque sino all'effettivo rilascio dell'immobile. La norma in commento è, pertanto, in parte proiettata al futuro e in parte risalente al passato (Lazzaro, Di Marzio, 1021). Sotto il primo profilo, la sospensione prevista dal comma 1 dell'art. 6 è quella che va dall'entrata in vigore della l. n. 431/1998 fino al 27 giugno 1999; il comma 4 dell'art. 11 del d.l. n. 9/1982 si riferisce al periodo che va dal deposito dell'istanza di nuova fissazione del termine dell'esecuzione al decreto reso sull'istanza: si discorre della nuova fissazione del termine dell'esecuzione di cui alla legge, non certo di quella del 1982; fin qui, si può affermare che la norma dispone per l'avvenire, coprendo ambiti temporali successivi all'entrata in vigore della l. n. 431/1998. Sotto il secondo profilo, la legge menziona l'art. 3 del d.l. n. 551/1998, come successivamente prorogato, ossia la norma che, dopo un breve periodo di sospensione dell'esecuzione, ha introdotto il sistema della c.d. graduazione prefettizia rimasto in vita per circa un decennio – a seguito di reiterati decreti-legge – fino all'abrogazione disposta dall'art. 14 della l. n. 431/1998. Il tutto nel quadro del riferimento contenuto nella norma all'art. 1591 c.c.: in altri termini – salvo il rilievo dell'intervento del giudice delle leggi di cui infra – l'àmbito temporale cui la norma si riferisce muove dalla cessazione del rapporto, purché collocata successivamente all'entrata in vigore del d.l. n. 551/1998, ossia al 30 dicembre 1988, e giunge al momento del rilascio, attraversando una lunga fase caratterizzata dalla “ineseguibilità” del titolo. Alcuni sono del parere che il comma 6 della l. n. 431/1998 si riferisca anche a periodi anteriori all'entrata in vigore della nuova disciplina, atteso che la norma ha valore di interpretazione autentica dell'art. 1-bis del d.l. n. 551/1988, convertito in l. n. 61/1989, riguardando, quindi, l'intero periodo in cui il conduttore si è reso inadempiente dell'obbligo di rilascio di cui all'art. 1590 c.c. (De Stefano 1999, 115). Favorevoli all'applicazione retroattiva si sono mostrati, in maniera concorde, gli ermellini (Cass. III, n. 10836/2007), secondi i quali, in tema di locazione di immobili urbani, la norma contemplata nell'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998, che ha introdotto un criterio di quantificazione predeterminato e forfettario del risarcimento del danno da occupazione illegittima degli immobili individuandolo nella misura del 20% del canone di locazione, con esclusione di ogni altro risarcimento previsto dall'art. 1591 c.c. – anche nell'ipotesi in cui il locatore possa dimostrare l'esistenza di un più grave e rilevante danno – è una norma eccezionale, di efficacia temporanea e destinata ad agevolare la transizione verso il nuovo regime pattizio delle locazioni e, come tale, avente “efficacia retroattiva ed immediatamente applicabile ai giudizi in corso” (cui adde, Cass. III, n. 821/2006; Cass. III, n. 8502/2003). La suddetta natura della disposizione in commento consente, poi, di risolvere anche il problema relativo a quelle sospensioni giudiziali – come quella connessa al procedimento di cui al comma 4 dell'art. 6 – oppure disposte dal legislatore – come la sospensione delle esecuzioni introdotta dall'art. 22 della l. n. 388/2000 e più volte prorogata ex l. n. 332/2001, l. n. 14/2002, l. n. 185/2002, l. n. 200/2003 – non espressamente contemplate dall'articolo in esame, nel senso di ritenere anche in riferimento ai citati periodi la debenza della maggiorazione del 20% con esenzione del conduttore dal risarcimento dell'eventuale maggior danno subìto dal locatore. Si è opinato che la maggiorazione del 20% si applichi anche alle ipotesi in cui l'occupazione dell'immobile sia conseguenza – non di una sospensione dell'esecuzione conseguente all'istanza di fissazione della data di esecuzione ex art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998, bensì – di una situazione di fatto caratterizzata da una limitata ed insufficiente concessione di forza pubblica per ragioni attinenti all'ordine pubblico (Trib. Firenze 13 agosto 2001; optano per la retroattività della disposizione in commento anche Pret. Firenze 17 marzo 1999; Trib. Milano 29 aprile 1999; Pret. Bologna 4 maggio 1999; in senso contrario, Trib. Firenze 16 giugno 1999). D'altronde, l'art. 14, comma 5, recitando testualmente “ai giudizi in corso” e non “nei giudizi in corso”, lascia ritenere che il rinvio sia operato solo con riferimento alla normativa processuale e non anche a quella sostanziale (previgente), la cui efficacia ultrattiva, una volta cessati i contratti in corso, va quindi esclusa (Izzo 1999, 171); in ogni caso – come chiarisce un'attenta dottrina (Villani, 182) – la norma in esame costituisce comunque un sicuro parametro in base al quale orientare l'interpretazione della disciplina pregressa nel limitare il diritto del locatore di un immobile ad uso abitativo al maggior danno. In ordine alle tipologie locatizie interessate, considerato il richiamo all'art. 24 della l. n. 392/1978 ed al pagamento degli oneri condominiali di cui all'art. 9 della stessa – e, quindi, ai meccanismi del capo I del titolo I della legge sull'equo canone – la maggiorazione in parola non dovrebbe trovare applicazione con riferimento ai titoli di rilascio che concernono gli immobili rientranti nelle categorie catastali A/8 e A/9, contemplati dall'art. 26 di quella legge, e parimenti è inapplicabile, stante la loro estraneità alla normativa de qua, nel caso di cessazione delle locazioni transitorie (in tali casi, conserverebbe pieno valore il disposto di cui alla seconda parte dell'art. 1591 c.c. che il locatore può utilizzare, ove ne sussistano i presupposti, per richiedere il “maggior danno” subìto per la ritardata riconsegna dell'immobile). Resta inteso (ad avviso di Cass. III, n. 12882/2009) che non sono applicabili al comodato immobiliare le norme contenute nell'art. 6 della l. n. 431/1998, ed in particolare quella di cui al comma 6, che ha introdotto un criterio di quantificazione predeterminato e forfettario del risarcimento del danno da occupazione illegittima degli immobili, individuandolo nella misura del 20% del canone di locazione, con esclusione di ogni altro risarcimento previsto dall'art. 1591 c.c., trattandosi, infatti, di norme eccezionali, di efficacia temporanea e destinate ad agevolare la transizione verso il nuovo regime pattizio delle locazioni, sicché la loro applicazione è rigorosamente limitata ai contratti di locazione. Infine, riguardo all'àmbito oggettivo di applicazione, la maggiorazione in questione trova applicazione anche se il provvedimento di rilascio non è definitivo, come nel caso di ordinanza provvisoria di rilascio, pronunciata ai sensi dell'art. 665 c.p.c., trattandosi di titolo eseguibile e come tale beneficiante della sospensione dell'esecuzione e della “graduazione” dell'assistenza della forza pubblica disposta dalla l. n. 61/1989 nonché della sospensione dell'esecuzione e della nuova fissazione del relativo termine di cui all'art. 6 della l. n. 431/1998; in altri termini, stante il collegamento tra i primi cinque capoversi dell'art. 6 ed il successivo comma 6, si è ritenuto che tutti i rapporti colpiti da titoli di rilascio assoggettati alla sospensione di cui al comma 1 siano parimenti assoggettati alla maggiorazione di cui al comma 6. In caso di esecuzione fondata su un titolo provvisorio, la somma versata a titolo di “maggiorazione” è ripetibile qualora il provvedimento non definitivo di rilascio non trovi conferma; invero, se in esito al giudizio venga accertato, con efficacia di giudicato, che la “occupazione” trovava titolo nel contratto – per non essere la locazione scaduta – il presupposto per la maggiorazione viene meno e le somme versate in più rispetto al canone devono essere restituite al conduttore (Piombo 2000, 240); non sembra, quindi, corretto considerare comunque la “maggiorazione” come un corrispettivo della mera dilazione dello sfratto, la quale in ogni caso avrebbe comportato un beneficio per il conduttore che, sua mercé, ha evitato l'estromissione dall'immobile, per lui in ogni caso pregiudizievole, sicché, pur dovendo ritornare il canone – dal momento del venir meno del titolo esecutivo – alla misura legale, resterebbe tuttavia preclusa la possibilità di ripetere quanto corrisposto a titolo di maggiorazione. Intervento della Corte costituzionale L'adozione della tesi sulla natura “ordinaria” (e non transitoria) della norma in commento ha posto, da sùbito, non pochi dubbi di rispondenza della stessa al dettato costituzionale, così come anche l'opzione interpretativa volta a conferire alla stessa portata “omnicomprensiva”, ricomprendendovi tutti i periodi, nessuno escluso, in cui si registrava l'inadempimento del conduttore all'obbligazione restitutoria (siano essi “coperti” da provvedimenti, legislativi o giudiziari, di sospensione o differimento dell'esecuzione, siano essi privi di ogni “protezione”). Alcuni giudici di merito (Trib. Milano 2 luglio 1999; Pret. Napoli 3 maggio 1999) hanno, pertanto, ritenuto non manifestatamene infondata la questione di costituzionalità della norma in esame in riferimento agli artt. 3 (per contrasto con il criterio di ragionevolezza delle scelte legislative, prescindendo la norma da ogni valutazione in concreto circa l'entità dell'effettivo pregiudizio cagionato al locatore dalla condotta illecita del conduttore, specie ove il canone corrisposto dal conduttore sia di gran lunga inferiore a quello di mercato), 24 (non consentendo al locatore di far valere in giudizio il diritto ad ottenere il risarcimento in misura superiore a quello legislativamente predeterminato) e 42 Cost. (negando al proprietario di ottenere un pieno ristoro del suo patrimonio, depauperato dal comportamento illecito del conduttore, in mancanza di significative restrizioni temporali). Soprattutto sull'estensione “temporale” entro la quale va applicato l'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998 – v. supra – e sui rapporti con l'art. 1591 c.c., ha profondamente inciso la decisione resa dal giudice delle leggi, il quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale norma nella parte in cui esime il conduttore dall'obbligo di risarcire il maggior danno, ai sensi dell'art. 1591 c.c., anche nel periodo successivo alla scadenza del termine di sospensione della esecuzione stabilito ope legis o di quello giudizialmente fissato per il rilascio dell'immobile (tra i primi commenti, sostanzialmente adesivi, meritano la segnalazione: Giove 2001, 36; Izzo 2000, 541). L'iter argomentativo dei giudici della Consulta (Corte cost., n. 482/2000) parte dalla ratio ispiratrice del legislatore del 1998, individuata nell'intento di definire quei rapporti locativi sorti e sviluppatisi in epoche di seria e spesso drammatica emergenza, che ha dato origine a tutta la legislazione vincolistica in materia; coerentemente con questa premessa, gli stessi giudici si fanno carico di definire la natura della norma impugnata, chiarendo, al riguardo, che essa introduce non un regime ordinario, bensì di un “provvedimento a carattere temporaneo”, che esplica i propri effetti nella fase del graduale passaggio alla nuova disciplina delle locazioni. Da quanto sopra esposto, la Corte costituzionale fa discendere i seguenti corollari plasticamente espressi nei vari tasselli motivazionali in cui si articola la decisione. Innanzitutto, le due misure consistenti nella sospensione dell'esecuzione e nella determinazione del quantum sono strettamente connesse, in quanto alla sospensione ex lege dell'esecuzione corrisponde, “quale previsione altrettanto eccezionale e temporanea, la determinazione, parimenti ex lege, dell'indennità relativa allo stesso periodo”; Non vi è, poi, alcun elemento di contrasto con il canone della ragionevolezza nella previsione normativa che disponendo, attraverso la sospensione delle esecuzioni, uno spostamento del termine di rilascio provvede anche a stabilire la misura dell'indennità da corrispondersi nello stesso periodo, poiché essa costituisce il risultato di un'equilibrata valutazione di contrapposti interessi ed esigenze, i cui caratteri di “eccezionalità e temporaneità” pongono la norma stessa al riparo dalle censure di incostituzionalità. Né vi è contrasto con l'art. 42 Cost., poiché la funzione sociale della proprietà, intesa quale “dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali”, legittima interventi legislativi finalizzati all'attuazione di esigenze di carattere primario; né con l'art. 24 Cost., atteso che la tutela giurisdizionale dei diritti è garantita a condizione che i diritti stessi siano riconosciuti e attribuiti da norme sostanziali. Tuttavia, sussiste contrasto con il canone della ragionevolezza, laddove la norma in esame estende i suoi effetti al periodo successivo alla scadenza del termine di sospensione o di quello giudizialmente fissato per l'esecuzione, prolungando l'esenzione fino all'effettivo rilascio dell'immobile; segnatamente, ribadito che la ragione giustificatrice di siffatta norma risiede nell'esigenza di predeterminare legalmente l'entità del risarcimento del danno nel corso dei periodi di sospensione legale e giudiziale dell'esecuzione strumentali al passaggio alla nuova disciplina delle locazioni, non può negarsi che la protrazione sine die dell'esenzione del conduttore dall'obbligo di risarcire il danno secondo le regole ordinarie, qualora il termine del rilascio sia ormai sottratto alla valutazione del giudice, costituisca un “elemento perturbatore di quell'equilibrio” in precedenza menzionato talmente grave da rendere censurabile la disposizione. Ne consegue che, nel periodo successivo alla scadenza del termine di sospensione legale o di quello fissato dal giudice e fino all'effettivo rilascio, non vi è motivo per cui non debba operare il regime ordinario, che regola il risarcimento del maggior danno secondo la disciplina dell'art. 1591 c.c. e che ne rimette al giudice la determinazione sulla base degli elementi probatori che il locatore è in grado di offrire secondo le consuete regole. Orbene, tale pronuncia discorre di sospensione dell'esecuzione (ope legis o ope iudicis) nel suo collegamento con la forfettizzazione dell'indennità posta a carico del conduttore in mora nella restituzione della cosa locata; nondimeno l'art. 6, comma 6, richiama l'art. 3 della l. n. 61/1989, il quale aveva introdotto la graduazione prefettizia nella concessione della forza pubblica per l'esecuzione degli sfratti, per cui si ritiene che la norma in esame, per tutto il periodo della graduazione prefettizia, ritenga applicabile la sola maggiorazione del 20% (Lazzaro, Di Marzio, 1029). In altri termini, la pronuncia del giudice delle leggi – la quale non ha in nulla inciso su tale aspetto della norma – va intesa come riferita ai periodi, per così dire, di “ineseguibilità” ope legis; del resto, la soluzione contraria condurrebbe ad un'applicazione dell'art. 1591 c.c. a “singhiozzo” difficilmente giustificabile (così Scripelliti 2000, 859). In conclusione, sembra da escludere l'applicabilità dell'art. 6, comma 6, ogniqualvolta il conduttore non goda di alcuna delle sospensioni dell'esecuzione – nel senso ampio di “ineseguibilità” che si è illustrato – cui fa riferimento la disposizione: in particolare, per quanto riguarda la graduazione prefettizia, è da credere che l'applicazione dell'art. 6, comma 6, cessi al momento della concessione della forza pubblica. In quest'ottica, come conseguenza della dichiarazione di incostituzionalità in parte qua dell'art. 6 della legge 431/1998, i giudici di Piazza Cavour hanno delineato il quadro normativo schematizzandolo nei termini che seguono: “1) la quantificazione legale del danno che il conduttore è comunque tenuto a corrispondere al locatore ai sensi dell'art. 1591 c.c. è quella determinata con la prevista maggiorazione del canone nella misura del quinto, oltre aggiornamenti ed oneri accessori; 2) detto importo è astrattamente dovuto per tutto il periodo di sospensione delle esecuzioni e sino all'effettivo rilascio; 3) per il periodo sino al termine della sospensione ope legis delle esecuzioni (o per quello giudizialmente fissato per il rilascio ex art. 56 della l. n. 392/1978), la corresponsione dell'ultimo canone così maggiorato esime il conduttore dall'obbligo di risarcire il maggior danno ex art. 1591, seconda parte, c.c., pur in costanza di prova dell'esistenza di un più grave pregiudizio fornita dal locatore; 4) per il periodo intercorrente tra la scadenza della sospensione ope legis e la data dell'effettivo rilascio, il locatore, ove ne abbia offerto la prova, può pretendere il risarcimento del maggior danno subìto, rispetto a quello quantificato ex lege ex art. 1-bis della l. n. 61/1989” (così Cass. III, n. 15621/2002; cui adde, in senso analogo, Cass. III, n. 18359/2010; Cass. III, n. 821/2006; Cass. III, n. 14624/2004; Cass. III, n. 15928/2003). Operatività della maggiorazione del canone L'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998 riproduce il congegno previsto dall'art. 1-bis della l. n. 61/1989: esso stabilisce, quindi, che la somma complessivamente dovuta dal conduttore ai sensi dell'art. 1591 c.c. è pari al canone dovuto al momento della cessazione de iure del contratto di locazione, automaticamente aggiornato di anno in anno in base al 75% della variazione I.S.T.A.T. dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi nell'anno precedente, con maggiorazione del 20%. Al riguardo, si è opinato per una collocazione della menzionata maggiorazione nell'àmbito della prima parte dell'art. 1591 c.c., nel senso che essa abbia natura “indennitaria” e sia dovuta per il fatto stesso della mora nella restituzione, senza che al locatore sia richiesta alcuna prova del pregiudizio subìto – pregiudizio che può in concreto non esservi – e senza che il conduttore sia a propria volta ammesso a provare l'inesistenza di ogni lesione patrimoniale inferta alla controparte (Lazzaro, Di Marzio, 1038). Non è sembrata, perciò, da condividere una pronuncia di merito, secondo la quale la forfetizzazione legale del maggior danno stabilita dall'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998 sarebbe limitata al solo profilo della lucro cessante: laddove, invece, il locatore lamenti un danno emergente – cioè la necessità di esborsi direttamente conseguenti alla mancata disponibilità dell'immobile – la forfetizzazione non potrebbe ritenersi onnicomprensiva e, in presenza di una rigorosa documentazione, il danno dovrebbe essere autonomamente e risarcito (Trib. Firenze 2 agosto 1999). La norma in esame soggiunge, poi, che “la corresponsione di tale maggiorazione esime il conduttore dall'obbligo di risarcire il maggior danno ai sensi dell'art. 1591 c.c.”: la lettera della disposizione potrebbe prestarsi ad essere letta nel senso che il pagamento della maggiorazione del 20% si atteggi quale mero onere a carico del conduttore il quale, cioè, rimarrebbe esposto all'applicazione dell'art. 1591 c.c. (in luogo dell'art. 6, comma 6, in discorso) in mancanza di tale pagamento. La dottrina (Piombo 2000, 322) ha chiarito che la lettura della disposizione nel suo complesso e la considerazione della sua ratio mostrano con chiarezza che il legislatore ha inteso predeterminare la forfetizzazione dell'obbligazione indennitaria posta a carico del conduttore indipendentemente dalla sua condotta; si è osservato, in particolare, che la norma mira a raggiungere un equo contemperamento dei contrapposti interessi, che rimarrebbe sovente irrealizzato – insieme con l'altrettanto palese scopo di pervenire ad una radicale semplificazione delle vertenze giudiziarie sul tema – se si lasciasse il conduttore arbitro di corrispondere o meno la maggiorazione in funzione della propria personale convenienza, rapportata, di volta in volta, alle presumibili difficoltà della prova del pregiudizio gravante sul locatore (in parole povere, il conduttore sarebbe indotto a corrispondere la maggiorazione solo nelle ipotesi in cui potesse temere l'iniziativa giudiziaria del locatore). D'altro canto, l'art. 6, comma 6, nella parte finale, contempla una specifica sanzione della mancata corresponsione della maggiorazione in discorso, sanzione che non è costituita dall'assoggettamento all'art. 1591 c.c. nella sua completezza, bensì dalla “decadenza” dal beneficio della sospensione dell'esecuzione (v. infra). Per di più, il medesimo art. 6, comma 6, consente al conduttore – nella situazione de qua – di avvalersi del congegno della sanatoria previsto dall'art. 55 della l. n. 392/1978 (pagamento banco iudicis o eventuale termine di grazia), e il funzionamento del termine di grazia presuppone che il conduttore sia debitore di una somma liquida nel suo ammontare, il che è incompatibile con una sorta di tardiva espansione del diritto al risarcimento nei termini contemplati dalla disciplina codicistica. La normativa dell'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998 – in definitiva – sembra connotarsi quale disciplina sostitutiva di quella codicistica sotto due diversi profili: da un lato, la maggiorazione del 20% esime il conduttore dall'obbligo di risarcire l'ulteriore maggior danno eventualmente patito in concreto dal locatore, così contenendo in termini ragionevoli per il conduttore la misura del risarcimento – la norma, dunque, da questo punto di vista, si risolve in un vantaggio per il conduttore – e, dall'altro lato, peraltro, essendo dovuta per il semplice fatto oggettivo del ritardo nella riconsegna della cosa locata, libera il locatore dall'onere di fornire la prova di avere subìto, a causa del ritardato rilascio, un danno non coperto dalla pigione contrattualmente prevista, e, altresì, rende ininfluente l'eventuale non ascrivibilità a colpa del conduttore dell'inadempimento all'obbligo restitutorio, anche secondo i rigorosi criteri dell'art. 1218 c.c. (Trib. Milano 29 aprile 1999). Si è sopra visto quale sia il quantum dovuto dal conduttore dalla scadenza del contratto al dì del rilascio. Il generico richiamo operato dal giudice delle leggi alla disciplina ordinaria del risarcimento del danno in caso di ritardato rilascio del cespite per il periodo successivo alle sospensioni legali o giudiziali delle esecuzioni implicherebbe, per un verso, la possibilità per il locatore di ottenere il ristoro integrale del danno subìto a causa dell'inadempimento del conduttore e, per altro verso, la non spettanza della maggiorazione del 20% in riferimento a periodi non protetti dalle suddette sospensioni. In proposito, tuttavia, parte della dottrina (Villani, 184) ha evidenziato l'incoerenza di tale ricostruzione che aggraverebbe la posizione del locatore – tenuto a provare la sussistenza del danno ex art. 1591 c.c. – e alimenterebbe ulteriormente il contenzioso giudiziario, ed ha così ritenuto che la Corte costituzionale, dichiarando incostituzionale l'esenzione del conduttore dall'obbligo di risarcimento del maggior danno, abbia comunque lasciato inalterato l'obbligo del conduttore di corresponsione della maggiorazione del 20%, restando ovviamente parte locatrice libera di agire per vedersi riconosciuto il ristoro integrale, se provato. Di conseguenza, nei giudizi nei quali viene in evidenza l'applicabilità della norma di cui all'art. 1-bis del d.l. n. 551/1988, convertito dalla l. n. 61/1989 – siano essi pendenti alla data di entrata in vigore della l. n. 431/1998 o successivamente introdotti, entrambi aventi ad oggetto periodi di inesigibilità del provvedimento esecutivo di rilascio dell'immobile locato – detta norma, nella lettura che occorre darne secondo l'interpretazione autentica dell'art. 6, comma 6, nei limiti fissati dalla sentenza della Corte costituzionale del 2000, comporta che la quantificazione legale del danno comprende ininterrottamente il periodo che intercorre tra la data di scadenza del contratto e quella del rilascio, in esso inclusi il tempo fissato per il rilascio ex art. 56 della l. n. 392/1978, il periodo di sospensione ex lege in senso stretto delle esecuzioni e quello ulteriore richiesto per la cd. graduazione connessa alla concessione della forza pubblica (Lazzaro, Di Marzio, 1039). Dunque, il provvedimento di concessione della forza pubblica, che rende possibile l'esecuzione dello sfratto, consente, per il periodo eventuale di protratta detenzione dell'immobile, la possibilità per il locatore di ottenere l'integrale risarcimento del maggior danno, di cui dimostri la sussistenza. Ammissibilità della clausola penale L'art. 6, comma 6, nel contemplare la maggiorazione del 20% ed escludere, al tempo stesso, la risarcibilità del “maggior danno”, pone il problema se trattasi di norma imperativa o se possa essere derogata dalla volontà delle parti, con particolare riguardo all'ipotesi in cui una clausola contrattuale rechi una previsione risarcitoria eccedente la misura del 20% del canone. In altri termini, ci si interroga se la disciplina introdotta dalla norma in commento lasci o meno margini di operatività all'autonomia delle parti in ordine ad una predeterminazione dl danno da ritardato rilascio che prescinda dal parametro offerto dalla medesima norma. Parte della dottrina (Villani, 190) propende per la negativa: infatti, la liceità di una pattuizione di tal genere sembra esclusa dalla portata stessa della norma, che pone nel nulla, dinanzi al pagamento della maggiorazione del 20%, l'obbligo del conduttore di risarcire il maggior danno ai sensi dell'art. 1591 c.c., ritenendo, quindi, che anche allorquando la misura del maggior danno sia stata pattiziamente determinata ex art. 1382 c.c., il pagamento del canone maggiorato esima il conduttore dall'adempimento dell'obbligazione risarcitoria assunta. Sembra, quindi, preferibile valorizzare il senso di imperatività della norma. Innanzitutto – come è stato osservato – la mancata previsione della salvezza di difformi accordi appare significativo della volontà del legislatore di attribuire alla previsione dell'art. 6, comma 6, in punto di determinazione del danno risarcibile ex art. 1591 c.c., valore di norma inderogabile (Piombo, 331); inoltre, la disciplina in discorso, adoperando il termine generico di “somma” dovuta dall'occupante e riconducendola nell'àmbito della corrispettività (con l'uso dei meccanismi dell'equo canone), induce a ritenere che una penale disposta pattiziamente per il ritardo nella restituzione dell'immobile e che sia superiore il limite del 20%, venga a incidere illegittimamente sul “dovuto” (corrispettivo) unitariamente inteso e che il legislatore ha commisurato in relazione a quel summenzionato equilibrio tra le parti. Per altro verso, la constatazione che l'occupante in prorogatio possa scontare un “corrispettivo” notevolmente maggiore può fare paventare un'esplosione di “finite locazioni” finalizzate al solo scopo di trasformare la locazione da rapporto di diritto a rapporto in prorogatio onde beneficiare di un corrispettivo maggiorato del 20% (Lazzaro, Di Marzio, 1042). La medesima risposta è stata data da chi ha osservato che la norma in questione, attraverso la forfetizzazione della maggiorazione del ”corrispettivo convenuto”, di natura indennitaria, è, da un lato, diretta ad escludere ulteriori pretese risarcitorie del locatore e, dall'altro lato, a rendere priva di rilievo ogni questione attinente all'imputabilità al conduttore del ritardo nel rilascio: anzi, la scelta del legislatore appare motivata proprio dalla considerazione del ritardo quale conseguenza dell'insufficienza del mercato locativo, laddove, al contrario, l'operatività della clausola penale non potrebbe prescindere dalla considerazione dell'imputabilità dell'inadempimento il cui esame è invece precluso. Può rammentarsi ancora che, in regime di “equo canone”, è stata reputata nulla, perché in violazione delle norme inderogabili di cui agli artt. 11 e 79 della l. n. 392/1978, la clausola che prevedeva l'incameramento a titolo di penale, da parte del locatore, del deposito cauzionale per ritardata restituzione della cosa locata, salvo il risarcimento del maggior danno, in quanto il locatore avrebbe potuto trattenere tale somma solo previa proposizione di domanda giudiziale (Trib. Roma 30 ottobre 1995). In argomento, è stato, altresì, reputato – sulla considerazione che “è principio giuridico che si può rinunciare soltanto ad un diritto acquisito al proprio patrimonio e non ad un diritto futuro” – che, nel caso in cui le parti abbiano pattuito, in un verbale di conciliazione, una clausola penale per il caso di ingiustificato ritardo del conduttore nel rilascio dell'immobile per la data prevista, l'efficacia della suddetta clausola è subordinata all'effettiva inadempienza colpevole del debitore, che non sussiste allorché eserciti un diritto riconosciutogli dall'ordinamento giuridico, nella specie derivante dalla sospensione degli sfratti disposta con il d.l. n. 9/1982 (Trib. Napoli 16 ottobre 1987; in senso opposto, ossia per l'efficacia della clausola, App. Napoli 31 gennaio 1989). La giurisprudenza di legittimità, tuttavia, sembra muoversi su una direttrice totalmente differente, affermando che la specifica normativa locatizia non pone limiti all'autonomia negoziale riguardo alla determinazione preventiva del risarcimento del danno nel caso di ritardo nell'adempimento delle reciproche prestazioni (Cass. III, n. 1303/1989); in particolare, in caso di ritardo nella riconsegna dell'immobile, il danno – qualora sia stato predeterminato con apposita clausola penale – va determinato nella misura convenzionalmente individuata (Cass. III, n. 4429/1989; Cass. III, n. 1268/1983). Per la Suprema Corte, insomma, il conduttore in ritardo nella riconsegna dell'immobile è tenuto a norma dell'art. 1591 c.c. dalla data di cessazione legale del contratto, oltre al pagamento del corrispettivo convenuto, anche al risarcimento del maggior danno subìto dal locatore, a titolo di responsabilità contrattuale per il ritardato adempimento – e, pertanto, qualora questo danno sia stato determinato con apposita clausola penale, a corrispondere l'ammontare di detta penale – anche se il ritardo sia dipeso da vicende dilatorie dovute a termini fissati in sentenza per l'esecuzione e graduazione dello sfratto oppure a proroghe e sospensioni ex lege dello stesso, perché, trattandosi di termini apposti all'esecuzione forzata e non all'adempimento, non fanno venir meno la mora e così la responsabilità del conduttore (Cass. III, n. 9698/1998; Cass. III, n. 5927/1995; Cass. III, n. 10887/1993; Cass. III, n. 8662/1991; Cass. III, n. 8556/1990). In particolare, la maggiorazione del 20% esclude, poi, eventuali e ulteriori pretese pecuniarie del locatore, ai sensi dell'art. 1591 c.c., limitatamente al periodo di sospensione dell'esecuzione, ferma restando, al di fuori di tale àmbito temporale, l'applicabilità delle regole ordinarie dettate dalla citata norma codicistica (Cass. III, n. 15485/2002; Cass. III, n. 10390/2001). Ove ne ricorrano i presupposti, la penale può, però, essere ridotta in applicazione dell'art. 1384 c.c. qualora ricorrano le condizioni (Trib. Milano 23 dicembre 1991, il quale ha osservato che la tesi, secondo cui la clausola penale pattuita per il caso di ritardato rilascio dell'immobile locato ad uso abitativo sarebbe nulla ai sensi dell'art. 79 della l. n. 392/1978 è priva di fondamento, essendo sufficiente considerare che la clausola in questione non si riferisce alla locazione durante il suo corso, bensì è diretta a regolamentare – determinando preventivamente l'entità del danno ex art. 1382 c.c. – una situazione costituente inadempimento contrattuale del conduttore, e specificamente contemplata come tale dall'art. 1591 c.c.; d'altronde, nessuna delle norme di carattere sostanziale poste dalla l. n. 392/1978, a disciplina delle rispettive obbligazioni delle parti contraenti, pone limitazione alcuna alla loro autonomia in punto di determinazione preventiva del risarcimento del danno per il caso di ritardo nell'adempimento delle reciproche prestazioni; in proposito, va rammentato che il potere di riduzione ad equità attribuito al giudice dal citato art. 1384 c.c. può essere esercitato anche d'ufficio, v. Cass. S.U., n. 18128/2005; cui adde Cass. III, n. 22002/2007; Cass. III, n. 18195/2007). Decadenza per morosità del conduttore In caso di inadempimento dell'obbligo di pagamento della somma in discorso, “il conduttore decade dal beneficio, comunque concesso, della sospensione dell'esecuzione del provvedimento di rilascio, fatto salvo quanto previsto dall'art. 55 della citata l. n. 392/1978” (art. 6, comma 6, ultima parte della l. n. 431/1998). Dunque, si prevede – anche se con una tecnica legislativa alquanto approssimativa e lacunosa, e comunque con riferimento ad ipotesi ben limitate temporalmente – che, in caso di inadempimento del conduttore, quest'ultimo decada dal beneficio della sospensione dell'esecuzione del provvedimento di rilascio, sia quando lo stesso gli sia stato concesso dalla legge, sia nell'ipotesi in cui sia stato assegnato dal giudice della fase cognitiva ex art. 56 della l. n. 392/1978, sia qualora abbia trovato applicazione il comma in esame. Tuttavia, non viene specificato, al riguardo, né se l'inadempimento debba essere in qualche modo grave, né l'àmbito applicativo sul versante temporale, né quale sia la sede processuale in cui far valere la decadenza e fare applicazione della sanatoria, né come debba operare in concreto il meccanismo sanante. Sotto il primo profilo – livello di gravità dell'inadempimento – pur con i dubbi che la formulazione della norma determina, sembra preferibile ritenere che l'art. 55 rinvii all'art. 5 della stessa l. n. 392/1978 e che, dunque, la decadenza sia determinata dall'omesso versamento di una mensilità del canone, integrato nel senso precisato, oppure di una somma per oneri accessori corrispondente a due mensilità così calcolate. A ben vedere, il legislatore, a differenza di quanto previsto dall'art. 2, lett. c) della l. n. 61/1989, non ha precisato l'importo minimo giustificativo della prevista decadenza, sicché, ove non si ritenga che sia sufficiente anche un minimo inadempimento, dovrebbe trovare applicazione in via analogica il disposto dell'art. 5 della l. n. 392/1978, ancora in vigore (Villani, 1988); peraltro, un convincente argomento in tal senso si trae anche dal fatto che tale disposizione consente al conduttore di evitare la decadenza chiedendo un termine di grazia, secondo quanto previsto dall'art. 55 della l. n. 392/1978. In senso contrario – abbastanza penalizzante per il conduttore – si pone, invece, altra parte della dottrina (De Stefano 2000, 117), secondo la quale ogni inadempimento, anche “minimo”, dell'ex conduttore possa considerarsi rilevante; riguardo all'oggetto, l'inadempienza potrebbe afferire al mancato pagamento dell'indennità di occupazione (Piombo 2004, 64), come pure alla maggiorazione del 20% del canone dovuto, oppure agli oneri accessori (Mascagni, 185). In effetti, il diverso orientamento (ad avviso di Grasselli, Masoni, 713) sconta un paio di non secondarie obiezioni: da un canto, l'art. 5 della l. n. 392/1978 si applica, in via diretta, quale parametro di risoluzione di un contratto di locazione pienamente valido ed efficace, laddove qui il contratto è già stato dichiarato risolto, e le due situazioni sono nettamente diverse né risultano comparabili, per cui il criterio della predeterminazione dell'inadempienza non è applicabile per analogia; dall'altro canto, la morosità nei termini di cui al citato art. 5 è ritenuta dal legislatore idonea a giustificare il più grave effetto della risoluzione anticipata del contratto, mentre una più lieve morosità può giustificare una decadenza del conduttore, già inadempiente rispetto all'obbligo di restituzione dell'immobile, dal beneficio della sospensione. Nella giurisprudenza di merito, si registrano entrambe le soluzioni (a favore della prima, Trib. Novara 23 luglio 1999; propende per la seconda Trib. Nocera Inferiore 7 aprile 2005). Sotto il secondo profilo – àmbito applicativo – l'art. 6, comma 6, non precisa se debba farsi riferimento agli inadempimenti posti in essere dagli ex conduttori in costanza del termine dilatorio fissato per il rilascio dal giudice della cognizione ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392/1978, ossia riferibili alla cessazione de iure del contratto di locazione. Parte della dottrina (Mascagni, 184) valorizza la formula lessicale utilizzata nella parte conclusiva del comma 6, laddove la decadenza è correlata al beneficio della sospensione “comunque concesso”, intendendo riferito, quindi, anche al periodo in pendenza del termine dilatorio di cui sopra; altra dottrina (Grasselli, Masoni, 715) si mostra perplessa, ipotizzando la significità dell'inadempimento ascrivibile all'ex conduttore in pendenza del suddetto termine dilatorio dell'esecuzione per rilascio fissato dal giudice della cognitio, seppure non agli effetti della decadenza dalla sospensione dell'esecuzione, atteso che, in pendenza di tale termine, non è tecnicamente ancora iniziato il processo esecutivo, al cui fondamento si ponga un titolo esecutivo pienamente efficace, oltre che eseguibile (suggerendo al locatore, in caso di morosità sopravvenuta, di chiedere al giudice dell'esecuzione la revoca/modifica del provvedimento di originaria fissazione della data del rilascio sulla base delle mutate “condizione comparate” delle parti). Sotto il terzo profilo – sede in cui far valere la situazione – stante il silenzio del legislatore, premesso che la situazione necessiti di un riscontro giudiziale, si ritiene che la dichiarazione di decadenza debba essere richiesta al giudice dell'esecuzione, come, peraltro, era per l'art. 2 della l. n. 61/1989 (che è stato espressamente abrogato), che provvede con ordinanza, e dinanzi al quale potrà anche trovare applicazione il procedimento di sanatoria. Da una parte, si è considerata applicabile la procedura contemplata dall'art. 610 c.p.c., allorquando, in sede di esecuzione, “sorgano difficoltà che non ammettano dilazione”, la cui decisione è rimessa al giudice dell'esecuzione (Trib. Novara 23 luglio 1999); soluzione, quest'ultima, che desta perplessità, atteso che la procedura richiamata si conclude solitamente con decreto, ossia con un provvedimento implicante una decisione adottata inaudita altera parte, laddove, nel caso della decadenza, si tratta di instaurare doverosamente il contraddittorio delle parti, facendosi salva la possibile sanatoria banco iudicis come pure la concedibilità del termine di grazia. Dall'altra parte, si è ipotizzato il ricorso ordinario ex art. 447-bis c.p.c. – d'altronde, la prima udienza potrebbe sembrare la sede più idonea per sanare la morosità – dovendosi, pur sempre, decidere una “controversia” locatizia, anche se ciò è apparso “sproporzionato” (così Villani, 188) rispetto alla risoluzione di un mero incidente insorto nel corso dell'esecuzione per rilascio. Appare preferibile, quindi, la tesi secondo cui, in tale ipotesi, il locatore debba presentare un'istanza al giudice dell'esecuzione nelle forme, più agili, di cui all'art. 486 c.p.c., a seguito della quale lo stesso giudice, sentite le parti ex art. 485 c.p.c., dichiara la decadenza con ordinanza impugnabile ex art. 617 c.p.c., salva sempre la possibilità del conduttore di pagare banco iudicis o ottenere il termine di grazia, cui seguirà, invece, la realizzazione del paradigma di cui all'art. 55 della l. n. 392/1978 (Trib. Udine 4 luglio 2000; contra, Trib. Nocera Inferiore 7 aprile 2005, secondo il quale la declaratoria di decadenza del conduttore moroso dal beneficio della sospensione dell'esecuzione dello sfratto, a norma dell'art. 6, comma 6, consiste in provvedimento di contenuto decisorio, da adottare all'esito di un “autonomo e separato procedimento”; in senso conforme, Trib. Padova 27 settembre 1999). Deve, però, darsi conto di un'altra tesi (Bucci, 140), secondo cui la decadenza è “automatica e non richiede una pronuncia giudiziale”, per cui il conduttore che assuma di non essere moroso, o provveda alla sanatoria ex art. 55 della l. n. 392/1978, può esperire opposizione all'esecuzione; in pratica, il locatore potrebbe far valere direttamente la decadenza riattivando la procedura esecutiva, con onere del conduttore di provocare l'intervento del giudice dell'esecuzione. Deve, infine, convenirsi che l'ordinanza pronunciata dal giudice dell'esecuzione, su istanza del locatore, per conseguire la declaratoria di decadenza dalla sospensione dell'esecuzione, abbia natura meramente ordinatoria, in quanto non idonea a risolvere in via definitiva contestazioni inerenti a diritti soggettivi, e quindi, sia suscettibile di opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell'art. 617 c.p.c. (del resto, trattasi di “atto di esecuzione” che, come tale, si inserisce nel processo esecutivo, regolandone l'iter); logici corollari sono che la decisione dell'opposizione compete al medesimo giudice dell'esecuzione, che la cognizione piena segue il c.d. rito locatizio uniforme di cui agli artt. 447-bis e 618-bis c.p.c., e che il giudizio si conclude con sentenza non impugnabile ex art. 618 c.p.c. Sotto il quarto (ed ultimo) profilo – operatività del meccanismo sanante – si è rilevato che, qualora sussista l'inadempimento del conduttore, quest'ultimo decade dal beneficio, comunque concesso, della sospensione dell'esecuzione, ma può accedere alla sanatoria contemplata dall'art. 55 della l. n. 392/1978, che va adattata al caso di specie, atteso che qui il contratto è già da tempo cessato, sicché il suddetto art. 55 risulterà applicabile nella misura in cui lo stesso non presupponga un inscindibile riferimento alla durata contrattuale. La migliore dottrina (Piombo 2004, 66) non ha mancato di evidenziare le problematiche riguardo alla “prima udienza” cui correlare il pagamento banco iudicis o concedere il termine di grazia, nonché riguardo al richiamo temporale al “quadriennio” cui far riferimento per la reiterata sanatoria, il tutto per concludere per una sostanziale incompatibilità con la procedura esecutiva che ci occupa. Inoltre, oggetto della sanatoria, da parte dell'occupante senza titolo, non dovrebbero essere i canoni di locazione – che presuppongono un contratto valido ed efficace – bensì l'indennità di occupazione ai sensi dell'art. 1591 c.c. (ossia con la maggiorazione del 20% a cui accenna la prima parte del comma 6 dell'art. 6 della l. n. 431/1998, gli oneri accessori e gli interessi al saggio legale, oltre le spese processuali). Attesa la natura retroattiva della norma de qua, si è posto, però, il problema della decadenza dal beneficio della sospensione per la mancata corresponsione della maggiorazione nel periodo precedente all'entrata in vigore della novella del 1998; invero, l'obbligo del pagamento della suddetta maggiorazione prescinde dalla preventiva richiesta del locatore, il che potrebbe comportare, salvi gli effetti della prescrizione, domande di notevole entità da versare in un'unica soluzione; vero è che – come evidenziato da Villani, 189 – il conduttore avrebbe pur sempre la possibilità, con l'aggravio delle spese processuali, di chiedere la concessione di un congruo termine, ma non sempre tale termine, che comunque resta circoscritto nei limiti temporali di cui all'art. 55 della l. n. 392/1978, potrebbe essere sufficiente al reperimento di ingenti somme. Appare, comunque, maggiormente condivisibile l'opinione secondo cui la morosità nel pagamento della maggiorazione relativamente ai periodi pregressi all'entrata in vigore della l. n. 431/1998 non dà luogo alla decadenza del beneficio del termine (Trib. Bologna 22 ottobre 1999; v., sia pure parzialmente in termini, Trib. Novara 23 luglio 1999, secondo cui la morosità relativa al mancato pagamento della maggiorazione del 20% del canone pattuito, sanabile ai sensi del comma 6 fa decadere il conduttore dal beneficio della sospensione dell'esecuzione dopo la concessione del medesimo e non per il periodo relativo alla sospensione legale degli sfratti, fino al 27 giugno 1999, dato che anche in questo caso la morosità può essere sanata); in altre parole, soltanto il mancato pagamento della maggiorazione del 20% per i periodi successivi all'entrata in vigore della l. n. 431/1998 dovrebbe comportare la decadenza contemplata dall'art. 6, comma 6. In conclusione della sopra delineata procedura, il giudice dell'esecuzione o accerta il pagamento banco iudicis da parte del conduttore, oppure, verificate le condizioni di difficoltà economica, può concedere il termine di grazia; all'apposita udienza di rinvio, acclarata l'avvenuta e tempestiva sanatoria, lo stesso giudice, con ordinanza, dichiara che non sussistono le condizioni per pronunciare la decadenza, mentre, altrimenti, se la sanatoria non vi sia stata o non si stata tempestivamente eseguita, dichiara la decadenza, consentendo così al locatore di riattivare immediatamente la procedura esecutiva sospesa. 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