Legge - 27/07/1978 - n. 392 art. 56 - Modalità per il rilascio (1) .Modalità per il rilascio (1) . 1. Con il provvedimento che dispone il rilascio, il giudice, previa motivazione che tenga conto anche delle condizioni del conduttore comparate a quelle del locatore nonche' delle ragioni per le quali viene disposto il rilascio stesso e, nei casi di finita locazione, del tempo trascorso dalla disdetta, fissa la data dell'esecuzione entro il termine massimo di sei mesi ovvero, in casi eccezionali, di dodici mesi dalla data del provvedimento. 2. Nelle ipotesi di cui all' articolo 55 , per il caso in cui il conduttore non provveda al pagamento nel termine assegnato, la data dell'esecuzione non puo' essere fissata oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine concesso per il pagamento. 3. Qualunque forma abbia il provvedimento di rilascio, il locatore e il conduttore possono, in qualsiasi momento e limitatamente alla data fissata per l'esecuzione, proporre al tribunale in composizione collegiale l'opposizione di cui all' articolo 6, comma 4, della legge 9 dicembre 1998, n. 431. 4. Trascorsa inutilmente la data fissata, il locatore promuove l'esecuzione ai sensi degli articoli 605 e seguenti del codice di procedura civile. (1) Articolo sostituito dall'articolo 7 bis del D.L. 13 settembre 2004, n. 240. InquadramentoL'art. 1587 c.c., tra le “obbligazioni principali del conduttore”, prevede soltanto, da un lato, quella di prendere in consegna la cosa ed osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l'uso determinato nel contratto o per l'uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze, e, dall'altro, quella di dare il corrispettivo nei termini convenuti. Tuttavia, pur non essendo espressamente contemplata dalla norma de qua, si ritiene comunemente che l'obbligazione concernente la riconsegna dell'immobile locato debba essere necessariamente ricondotta fra le obbligazioni derivanti dal contratto in capo al medesimo conduttore e nascente al momento della cessazione del rapporto locatizio. D'altronde, tale obbligazione – peraltro, l'ultima di natura contrattuale che grava sul conduttore – oltre che essere intrinsecamente connaturata alla natura ad tempus del rapporto locatizio, registra un preciso aggancio testuale nell'art. 1590 c.c., secondo cui “il conduttore deve restituire la cosa al locatore”, e, nel successivo art. 1591 c.c., laddove configura il risarcimento del danno, maggiore rispetto all'ammontare del canone, a carico del conduttore “in mora a restituire la cosa”. Il conduttore rimasto nella detenzione dell'immobile dopo la cessazione del contratto, pertanto, è tenuto al pagamento, da tale momento, dell'indennità di occupazione ai sensi dell'art. 1591 c.c., e non già del solo canone secondo le scadenze pattuite, perché, cessato il rapporto di locazione, la protrazione della detenzione costituisce appunto inadempimento dell'obbligo di restituzione della cosa locata. La disciplina dell'art. 1590 c.c. discende, altresì, dall'art. 1588 c.c., che grava il conduttore della colpa presunta, laddove tale responsabilità trova un limite solo ove il deterioramento sia giustificato da un uso della cosa in conformità del contratto; in tal senso, il citato art. 1590 c.c. delimita la sfera della liceità giuridica del godimento della cosa spettante al conduttore, identificandola nell'uso normale della stessa secondo la sua destinazione e, al contempo, rivela che il locatore è tenuto a sopportare il deterioramento normale, conseguente all'uso corretto del bene, in conformità del contratto, o alla vetustà. L'obbligazione di restituire la cosa locata diviene, dunque, esigibile con la cessazione del contratto di locazione, per scadenza del pattuito termine oppure per eventuale sua anticipata risoluzione a seguito di inadempimento del conduttore. In quest'ordine di concetti, l'art. 56 della l. n. 392/1978 regolamenta, con portata generale, le “modalità per il rilascio” degli immobili locati (si utilizza più propriamente, invece, il termine “consegna” laddove la locazione abbia per oggetto beni mobili): nello specifico, si prevede che il provvedimento, con cui si dispone il rilascio (a qualsiasi titolo) dell'immobile locato, deve contenere anche la data dell'esecuzione, aggiungendo che, “trascorsa inutilmente tale data”, il locatore promuove l'esecuzione ai sensi degli artt. 605 ss. c.p.c., che regolamentano appunto l'esecuzione per (consegna e per) rilascio; d'altronde, anche l'ordinanza di convalida di licenza e di sfratto deve contenere la fissazione della data de qua, trascorsa la quale può farsi ruolo all'esecuzione forzata per rilascio. L'esecuzione per il rilascio riguarda, quindi, la procedura successiva all'ottenimento del titolo che ordina la sopra delineata restituzione dell'immobile – disposta dal giudice della cognizione – e sino alla sua liberazione a mezzo l'intervento dell'ufficiale giudiziario: trattasi di un tipico esempio di processo esecutivo che, partendo dal titolo, passa attraverso le fasi della notifica del precetto, del preavviso di sloggio e dell'accesso da parte dell'ufficiale giudiziario (che è l'organo incaricato ad eseguire i provvedimenti giurisdizionali). L'art. 2930 c.c. stabilisce che, qualora non venga adempiuto l'obbligo di (consegnare un bene mobile o di) rilasciare un immobile, l'avente diritto, ossia il titolare del titolo esecutivo, può ottenere che si provveda al soddisfacimento della sua legittima pretesa nelle forme dell'esecuzione forzata “in forma specifica”, la cui peculiarità è, appunto, la coincidenza tra l'oggetto dell'esecuzione e l'oggetto dell'obbligo inadempiuto (all'esecuzione per rilascio, sono dedicati, in particolare, gli artt. 605, 608, 610 e 611 c.p.c., che contemplano anche l'eventualità di giudizi di natura cognitiva qualora si contesti, nelle forme dell'opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, rispettivamente, la legittimità sostanziale o formale della stessa procedura esecutiva). Tale esecuzione per il rilascio dei beni immobili concerne la fine, per così dire, traumatica di un rapporto, perché si verifica allorquando il detentore, a qualsiasi titolo, non intenda spontaneamente dar corso alla restituzione dell'abitazione, a seguito di un titolo giudiziale che a ciò lo condanni, e si esaurisce con l'immissione della parte procedente nel possesso dell'immobile locato; il tutto secondo le modalità stabilite dal codice di rito, anche se, soprattutto nelle locazioni ad uso abitativo, operano specifiche disposizioni che trovano la loro collocazione nella legislazione speciale, laddove, per quelle ad uso diverso, l'agire in executivis è segnatamente correlato al preventivo pagamento dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale. Il procedimento in questione non riguarda, però, solo la definizione di un rapporto locatizio interrotto per risoluzione sia esso per morosità o altra forma di inadempimento, ma interessa anche le finite locazioni laddove, in particolari momenti storici e situazioni territoriali, non è facile per le persone, spesso anche adempienti ai loro obblighi, reperire soluzioni abitative alternative. Si introduce così il delicatissimo tema, di evidente carattere sociale, relativo al diritto alla casa ed a dignitose condizioni di vita, per cui il legislatore, considerando il procedimento di sfratto una procedura comunque dirompente degli equilibri di cui sopra, ha da sempre dettato regole calmieratrici e posto particolare attenzione a tali situazioni. Resta inteso che la data dell'esecuzione fissata con il provvedimento di rilascio può non essere quella in cui l'esecuzione forzata verrà effettivamente portata a compimento, ma indica semplicemente il termine anteriormente al quale l'esecuzione non può essere promossa, come si desume con evidenza dall'ultimo comma della disposizione, ove è stabilito che, “trascorsa inutilmente la data fissata, il locatore promuove l'esecuzione ai sensi degli articoli 605 e seguenti del codice di procedura civile”. Ambito di applicazione della normaDunque, il giudice della cognizione (ordinaria o speciale), una volta acclarata la cessazione del rapporto locatizio o dichiarata la risoluzione del contratto, non può limitarsi a disporre il rilascio dell'immobile locato, ma è tenuto anche, per motivi di “equità sociale”, a fissare un termine entro cui l'esecuzione del medesimo rilascio deve avvenire, rimettendo al prudente apprezzamento del magistrato di valutare, entro un determinato range temporale, il momento prima del quale il conduttore non può subire l'azione esecutiva. Ciò soprattutto riguardo alle locazioni abitative, considerando la rilevanza del “bene casa” e la necessità di reperire una diversa collocazione, senza escluderne la doverosità a tutte le ipotesi solutorie di contratti ad uso diverso dall'abitazione, con l'unica eccezione contemplata dall'art. 1, comma 3, della l. n. 431/1998, ossia laddove il contratto di locazione sia stato concluso dall'Ente locale in qualità di conduttore per soddisfare esigenze di carattere transitorio. Quindi, l'indicazione della data di esecuzione del rilascio prevista dall'art. 56 della l. n. 392/1978, contenuta nel provvedimento del giudice, si pone, per il conduttore, come termine finale per l'ottemperanza spontanea al comando di rilascio contenuto nel provvedimento e, per il locatore, come termine iniziale a decorrere dal quale il provvedimento potrà iniziare a produrre i suoi effetti. Incidentalmente, sul versante del diritto transitorio, mette punto rammentare che gli ermellini (Cass. III, n. 3594/1986) avevano precisato che l'art. 82 della l. n. 392/1978, per il quale ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa continuavano ad applicarsi, ad ogni effetto, le leggi precedenti, si riferiva sia alla disciplina sostanziale che a quella processuale vigente in materia di locazioni urbane, sicché, ai giudizi in corso, restava inapplicabile il disposto dell'art. 56 della suddetta legge per il quale, con la sentenza che pronunciava il rilascio, il giudice doveva stabilire la data dell'esecuzione, non rilevando che tale provvedimento era destinato ad operare nella fase esecutiva del giudizio e non ponendosi il richiamato art. 82 in posizione di sussidiarietà rispetto all'art. 84 per il quale risultavano abrogate tutte le disposizioni con essa incompatibili (in senso conforme, Pret. Sapri 25 gennaio 1983, ad avviso del quale l'art. 56, che prevedeva la fissazione della data dell'esecuzione con la sentenza che pronunciava il rilascio dell'immobile urbano, non trovava applicazione ai giudizi in corso al momento dell'entrata in vigore della l. n. 392/1978, continuando ad applicarsi ad ogni effetto le leggi precedenti sia in materia sostanziale che in materia processuale). Di diverso avviso una parte della dottrina (Rezzonico, Rezzonico, 363), che ha optato per l'applicabilità della nuova disciplina ancorché il provvedimento impugnato fosse anteriore all'entrata in vigore della novella, purché il termine, fissato per l'esecuzione, risultava successivo e non ancora scaduto. Ad ogni buon conto, trattasi di un potere-dovere (di fissazione della data di esecuzione per rilascio) esercitabile d'ufficio, senza che ci sia bisogno di alcuna sollecitazione della parte, come emerge, peraltro, dalla stessa enunciazione “il giudice fissa” (giurisprudenza pacifica: v., per tutte, Cass. III, n. 1426/1987, con l'aggiunta che la mancata richiesta, da parte del locatore che agisca per il rilascio dell'immobile per inadempienza del conduttore, della fissazione della data del rilascio ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392/1978, non incide sull'ammissibilità della domanda di risoluzione del contratto, non assumendo detta omissione alcun rilievo; Cass. III, n. 3597/1986; nella giurisprudenza di merito, v. Pret. Milano 22 ottobre 1986, secondo il quale il giudice, nel disporre il rilascio per finita locazione di un immobile adibito ad abitazione, deve differire, anche d'ufficio, l'esecuzione del provvedimento, ai sensi dell'art. 56). L'applicabilità di quest'ultima norma va, invece, esclusa nelle ipotesi in cui la data di rilascio sia concordata tra le parti del rapporto locatizio e, quindi, non disposta dal magistrato, come ad esempio nella conciliazione di cui all'art. 185 c.p.c. o in sede di udienza ex art. 420 c.p.c. oppure ai sensi dell'art. 30, comma 5, della l. n. 392/1978, che, in effetti, non costituiscono provvedimenti giurisdizionali (Pret. Bergamo 8 marzo 1982; Trib. Roma 3 luglio 1979; in argomento, Cass. III, n. 18691/2007 ha puntualizzato che, in tema di rilascio di immobile, il provvedimento di fissazione della data di rilascio ex art. 56, in quanto disposizione applicabile alle controversie tra il locatore ed il conduttore, non trova applicazione in quelle di rilascio dell'immobile per effetto dell'azione reale esercitata da un terzo estraneo al rapporto locativo; peculiare la controversia decisa da Pret. Milano 21 settembre 1989, il quale ha statuito nel senso che, al conduttore di immobile pignorato condannato al rilascio in conseguenza dell'accertata inopponibilità della locazione al terzo acquirente, per violazione dell'art. 560, comma 2, c.p.c., non può concedersi un termine per il rilascio ai sensi dell'art. 56; ad avviso di Trib. Milano 1 luglio 1985, non deve essere fissata ex art. 56 la data di esecuzione di un provvedimento di rilascio riguardante un contratto di locazione stipulato da una società che adibisce il relativo immobile ad abitazione di un terzo, atteso che tale fattispecie non è regolata dalla l. n. 392/1978 perché essa non rientra né negli usi abitativi, né negli usi diversi, né, infine, negli usi di cui all'art. 42; nello stesso ordine di concetti, si pone Pret. Casoria 14 giugno 1984, secondo cui la data dell'esecuzione della sentenza che dichiari risolto il contratto preliminare di compravendita ed ordini il rilascio dell'immobile detenuto a favore del proprietario non deve essere fissata ai sensi dell'art. 56). L'art. 56 della l. n. 392/1978, pur contenuto nella legge sull'equo canone, si applica a “tutti” i provvedimenti di condanna al rilascio di un immobile locato, quale che ne sia la sede processuale (anche laddove la pronuncia sia adottata in appello, v., oltre che Cass. III, n. 3597/1986 cit., App. Napoli 9 marzo 1995). D'altronde, la valenza generale dell'istituto si evince dallo stesso incipit della norma in commento, dove si fa riferimento al “provvedimento che dispone il rilascio”, a prescindere della veste assunta, potendo rinvenirsi nella sentenza conclusiva del giudizio locatizio ordinario – instaurato ab origine ai sensi dell'art. 447-bis c.p.c. o a seguito del mutamento del rito in forza dell'art. 667 c.p.c. – o nell'ordinanza di convalida di cui all'art. 663 c.p.c., o nell'ordinanza con riserva di eccezioni contemplata nell'art. 665 c.p.c., oppure nel provvedimento adottato ai sensi dell'art. 30, comma 4, della l. n. 392/1978 (Cosentino, Vitucci, 588; Trisorio Liuzzi, 161). Dello stesso avviso risultano i giudici di legittimità (Cass. III, n. 2073/1983), secondo cui l'art. 56 – in base al quale, con il provvedimento che dispone il rilascio dell'immobile, il giudice fissa anche la data dell'esecuzione – non è limitato alle statuizioni emesse in esito allo speciale procedimento previsto dalla stessa l. n. 392/1978, ma ha una “applicazione più ampia” riferendosi a tutte le controversie le quali possono avere quale esito lo scioglimento del contratto di locazione, sia a seguito dell'azione ordinaria di risoluzione per inadempimento ex artt. 1453 ss. c.c., sia a conclusione della procedura di sfratto per morosità, sia per convalida di licenza per finita locazione (in senso conforme, Cass. III, n. 7213/1987; ad esempio, nel caso particolare della locazione abitativa di una villa, Cass. III, n. 8662/1991 ha escluso ogni rilievo della circostanza che il contratto avesse ad oggetto un immobile “sottratto alla l. n. 392/1978 perché incluso nella categoria catastale A/8”, osservando che, per espressa previsione normativa alle locazioni di immobili inclusi nelle categorie catastali A/8 ed A/9 – nonché alle altre locazioni specificatamente indicate nelle lett. a), b) e c) dell'art. 26 – non si applicano soltanto le disposizioni di cui al capo I del titolo I della stessa legge, con l'ulteriore conseguenza che non si ravvisa alcun ostacolo a che l'art. 56, stante la sua portata generale, si applichi anche sulle suddette locazioni; Pret. Foggia 11 novembre 1985 ha avuto modo di precisare che l'art. 56 è norma generale, applicabile ad ogni ipotesi di rilascio di immobile locato, ivi compresa la risoluzione della locazione di alloggio di edilizia economica e popolare). La giurisprudenza di merito, dal canto suo, ha puntualizzato che il termine giudiziale trova applicazione anche in caso di licenza per finita locazione e, in tal caso, decorre dalla data di scadenza del contratto, ossia dal giorno in cui il provvedimento dispiega la sua efficacia esecutiva (Pret. Milano 20 ottobre 1986, secondo cui il termine per l'esecuzione del rilascio di cui all'art. 56 ha un àmbito di applicazione generale, almeno coincidente con la sfera di operatività della normativa sostanziale prevista dalla legge sull'equo canone, e va pertanto fissato anche riguardo ai “provvedimenti di rilascio fondati su generica finita locazione”; in senso conforme, Pret. Bergamo 15 aprile 1981; Pret. Pavia 21 novembre 1978; in senso contrario, Pret. Napoli 24 dicembre 1985, ad avviso del quale il termine per l'esecuzione del rilascio previsto dall'art. 56 va fissato con riferimento ai soli provvedimenti di rilascio che consacrano una “interruzione traumatica”, ossia la risoluzione, del rapporto locatizio, e non anche a quelli fondati sulla “fisiologica cessazione” del contratto per scadenza del termine finale; Pret. Bologna 23 luglio 1979). Insomma – come ribadito dagli ermellini – l'art. 56 della l. n. 392/1978, in quanto riferito al “provvedimento di rilascio”, senza ulteriori distinzioni, è “norma (processuale) di portata generale” (così Cass. III, n. 12743/2001). In proposito, si è sostenuto (Trifone, Carrato, 182) che la disposizione in commento, per il suo contenuto e la sua strutturazione letterale, “presenta una sfera di applicazione che eccede i limiti della normativa speciale della l. n. 392/1978”, dovendosi riconoscere l'obbligo del giudice di ottemperarvi in tutti i casi di condanna al rilascio di immobili (avuto riguardo all'àmbito delle locazioni tipiche), sia in esito al procedimento speciale di cui all'art. 30 della stessa legge (ordinanza di rilascio in seguito al diniego di rinnovazione alla prima scadenza), sia in tutte le ipotesi di convalida di sfratto per finita locazione o per morosità, sia nel caso in cui si emetta l'ordinanza provvisoria di rilascio ex art. 665 c.p.c. (con riserva delle eccezioni del convenuto), sia, in ultimo, nelle ipotesi di emanazione di sentenze che sanciscono la finita locazione o statuiscono la risoluzione del contratto, per qualunque causa, senza operare alcuna discriminazione tra quelle conseguenti a giudizio ordinario e quelle che definiscono il processo intrapreso con l'intimazione di sfratto o quelle, ancora, che concludono un giudizio di impugnazione, e, analogamente, nel caso delle ordinanze di cui all'art. 186-quater c.p.c. (con cui, fino all'eventuale revoca con la successiva sentenza, si disponga appunto il rilascio di un immobile). Argomenti nel medesimo senso dell'applicabilità dell'art. 56 in esame in ogni ipotesi di condanna al rilascio di un immobile in esito allo scioglimento di un contratto di locazione possono, oggi, trarsi dall'art. 1, comma 3, della successiva l. n. 431/1998: infatti, se l'art. 56 fosse stato applicabile alle sole locazioni soggette alla legge sull'equo canone, oppure a quelle regolate dalla legge speciale in materia di locazioni abitative succeduta ad essa, il legislatore, dopo aver affidato al codice civile la disciplina delle locazioni stipulate dagli Enti locali per soddisfare esigenze abitative transitorie, non avrebbe avuto ragione di soffermarsi espressamente sull'inapplicabilità ad esse della disposizione in tema di fissazione del termine per l'esecuzione (Lazzaro, Di Marzio, 1015). Al riguardo, si è ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4 e 44 Cost., degli artt. 1, 2 e 47 della l. n. 203/1982, dettata in materia di affitto di fondi rustici, nella parte in cui non prevedono che il giudice, con il provvedimento che dispone il rilascio, possa determinarne le modalità, anche differendolo nel tempo, a differenza da quanto previsto, in materia di locazione di immobili urbani, dall'art. 56 della l. n. 392/1978, ed in violazione del principio di solidarietà, contrastando l'obbligo di rilasciare il fondo entro un termine improrogabile con l'esigenza di programmare altrove la prosecuzione dell'attività agricola; invero, per un verso, le due situazioni poste a confronto non sono omogenee, avendo la locazione di immobili urbani la funzione di garantire al conduttore un luogo ove “abitare”, per una durata (quattro anni) limitata nel tempo, laddove l'affitto agrario assolve alla funzione di permettere al conduttore di svolgere un'attività imprenditoriale, per un periodo (quindici anni) assai più lungo, tale da consentire al conduttore di programmare per tempo le proprie scelte successive; dall'altra, nell'affitto agrario il conduttore, come nelle locazioni abitative, è adeguatamente tutelato, avendo il legislatore previsto, con l'art. 47, comma 2, della l. n. 203/1982 (articolo abrogato dall'art. 34, comma 12, d.lgs. n. 150/2011), che il rilascio del fondo possa “avvenire solo al termine dell'annata agraria durante la quale è stata emessa sentenza esecutiva”. Nel regime della legge sull'equo canone, stante il precipuo riferimento alle “locazioni di immobili urbani”, si era discusso se l'art. 56 della l. n. 392/1978 potesse applicarsi come corollario della pronuncia di cessazione del rapporto di locazioni d'opera (art. 659 c.p.c.). La giurisprudenza di merito si è mostrata prevalentemente per la negativa, evidenziando la sua natura atipica, non propriamente locatizia (Trib. Salerno 22 novembre 1996; Trib. Palermo 25 luglio 1983; cui adde Pret. Salerno – Eboli 12 giugno 1997, secondo cui le modalità di rilascio dell'immobile di cui all'art. 56, pur avendo un àmbito di applicazione ampio, riferendosi cioè a tutte le controversie le quali possano avere come esito lo scioglimento del contratto di locazione non sono, tuttavia, estensibili agli altri casi di rilascio inerenti a contratti atipici o misti, qual è appunto quello in cui il godimento dell'immobile costituisce il corrispettivo, anche solo parziale, di una prestazione d'opera); invero, la locazione d'opera include solo uno degli elementi tipici del contratto di locazione, ossia il godimento di un immobile ad uso abitativo, cui corrispondono, in via sinallagmatica, prestazioni di lavoro e non di versamento del canone (in una fattispecie particolare, Trib. Roma 31 gennaio 2005 ha statuito che, nell'ipotesi di licenziamento del portiere impugnato per illegittimità, ex artt. 7 della l. n. 300/1970 e 2 della l. n. 604/1966, con richiesta di riassunzione o in mancanza di risarcimento danni, non ricorrendo la fattispecie di tutela reale quale prevista dall'art. 18 della l. n. 300/1970, non sussiste alcun ostacolo per la concessione ex art. 659 c.p.c. del provvedimento di rilascio dell'alloggio di servizio che, però, non vertendosi in materia di locazione di immobile, non deve contenere la fissazione dell'esecuzione di cui all'art. 56; Pret. Salerno 25 luglio 1983 ha statuito che la data dell'esecuzione della sentenza, che dichiari risolto il contratto atipico di locazione per il servizio di portierato, non deve essere richiesta al giudice dell'esecuzione, dovendosi iniziare l'esecuzione per il rilascio dell'immobile a norma degli artt. 608 ss. c.p.c.; per Pret. Bologna 4 giugno 1981, in caso di contratto misto lavoro-locazione, il giudice che ordina il rilascio non deve fissare anche la data dell'esecuzione ex art. 56, operando quest'ultima norma solo in caso di locazione tipica ed escluse, quindi, sia l'ipotesi di cui all'art. 659 c.p.c. che ogni altra di locazione atipica). La dottrina si è mostrata divisa: alcuni hanno ritenuto che il giudice, in tali fattispecie, non fosse tenuto a fissare la data di rilascio (Sinisi, Troncone, 286; Frasca 2001, 217); altri, invece, hanno optato per un'interpretazione estensiva, alla luce della summenzionata valenza generale dell'istituto (Bucci, Crescenzi, 137; Trisorio Liuzzi, 298; per una panoramica della materia, Mirenda, 429). Sembra pacifico, invece, che la sentenza che dispone il rilascio d'azienda, per cessazione del contratto di affitto della medesima, non sia soggetta alle disposizioni dell'art. 56 della l. n. 392/1978, circa la determinazione della data di esecuzione del relativo provvedimento, trattandosi di normativa operante solo nella diversa ipotesi del rilascio di immobili urbani concessi in locazione (Cass. III, n. 4566/1983). Parimenti in caso di rilascio di immobile concesso in comodato o, a fortiori, occupato abusivamente. Circa il comodato, si è, infatti, esclusa l'applicabilità, in particolare, dell'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998, che ha introdotto un criterio di quantificazione predeterminato e forfettario del risarcimento del danno da occupazione illegittima degli immobili, individuandolo nella misura del 20% canone di locazione, con esclusione di ogni altro risarcimento previsto dall'art. 1591 c.c., trattandosi di norma eccezionale, di efficacia temporanea e destinata ad agevolare la transizione verso il nuovo regime pattizio delle locazioni e, pertanto, la sua applicazione è rigorosamente limitata ai contratti di locazione (Cass. III, n. 12882/2009; in senso contrario, per l'ammissibilità, sia pure riguardo alla differente problematica del pregiudiziale tentativo di mediazione, in tema di occupazione abusiva, v. Trib. Modena 6 maggio 2011). Sulla seconda situazione, un giudice capitolino (Trib. Roma 23 giugno 2006) ha deciso una fattispecie particolare: sulla premessa che l'acquirente dell'immobile in precedenza locato non assume la posizione di locatore e, pertanto, non rimane legittimato, come sarebbe stato il dante causa venditore-locatore, all'esercizio dell'azione di convalida in quanto non si verifica la successione nella posizione contrattuale, secondo la lettura del combinato disposto degli artt. 1602 e 1599 c.c., si è ritenuto che, qualora l'acquirente – esaurita la fase sommaria con la negazione dell'ordinanza di rilascio – domandi, nella memoria integrativa di cui agli artt. 667 e 426 c.p.c., il rilascio della cosa locata, indipendentemente dalla qualità di locatore, con la sostituzione, quindi, all'originaria domanda di rilascio dell'immobile per finita locazione, fondata su un titolo contrattuale, della domanda di rilascio dell'immobile perché ormai detenuto senza titolo, fondata su un titolo comunque personale, quest'ultima, trattandosi di mera emendatio libelli e non di domanda nuova, va accolta e la parte resistente, quale occupante senza titolo, va condannata al “rilascio immediato”, non sussistendo i presupposti per la fissazione del termine di esecuzione ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392/1978. Sul punto, si è opportunamente precisato (Grasselli, Masoni, 436) che, ai rapporti esclusi dall'alveo applicativo dell'art. 56 in commento, seppur aventi destinazione abitativa, è comunque applicabile il “termine necessario”, nel senso che, per “la natura della prestazione”, può ritenersi “necessario” un termine in forza del disposto di cui all'art. 1183, comma 1, c.c. La giurisprudenza ha fatto applicazione di tali principi in tema di comodato c.d. precario in cui, in mancanza di determinazione della durata, ove non risulti un termine in relazione all'uso del bene, ancorché il comodatario sia tenuto a restituire la cosa “non appena il comandante la richieda”, ai sensi dell'art. 1810 c.c., si è affermato che tale disciplina, configurando un'ipotesi specifica della regola generale prevista nella prima parte dell'art. 1183 c.c., non esclude l'applicazione della disposizione di cui alla seconda parte del comma 1 del citato art. 1183, con la conseguenza che il giudice, in mancanza di accordo delle parti, possa stabilire il termine per la restituzione della cosa oggetto di comodato, quando sia necessario per la natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell'esecuzione e, in particolare, quando, trattandosi di comodato di immobile ad uso di abitazione, il comodatario necessiti di congrua dilazione per rilasciare vuoto l'immobile e per trovare altra sistemazione abitativa (Cass. III, n. 12655/2001; Cass. 4921/1988). Esigibilità della prestazione del conduttoreNel sistema codicistico, all'inadempimento, da parte del conduttore, dell'obbligo di restituzione dell'immobile alla scadenza della locazione, consegue quello di risarcire al locatore il danno determinato dalla mora, ai sensi dell'art. 1591 c.c., il quale stabilisce che “il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l'obbligo di risarcire il maggior danno”. A questo punto, alla luce dell'intervenuto art. 56 della l. n. 392/1978, si è posto il problema dell'esigibilità della prestazione del conduttore nel termine per il rilascio, segnatamente ai fini risarcitori di cui sopra. Al riguardo, si è sostenuto che, nel periodo stabilito dal giudice, il credito restitutorio è inesigibile, tant'è che sarebbe paralizzato un eventuale precetto intimato, sulla base di un provvedimento di convalida di sfratto, per la data di scadenza in esso accertata invece che per quella fissata dal giudice per il rilascio; malgrado questa inesigibilità della prestazione (consentita dalla legge di sospensione degli sfratti), la protrazione della detenzione “costituisce pur sempre inadempimento dell'obbligo di restituzione della cosa locata”, con la conseguenza che va riconosciuto al locatore il relativo danno sino all'effettivo rilascio (Cass. III, n. 4484/2009; Cass. III, n. 10560/2002; Cass. III, n. 4429/1989; tra le pronunce di merito, si segnalano: Pret. Napoli 26 aprile 1990; Trib. Sanremo 20 marzo 1990, secondo cui, in tema di danni da ritardata restituzione della cosa locata, il conduttore deve ritenersi in mora dal momento della scadenza del contratto di locazione, “a nulla rilevando la fissazione di un termine dilatorio per l'esecuzione dello sfratto da parte del giudice”; App. Milano 3 aprile 1990, ad avviso del quale, in tema di locazioni di immobili urbani ad uso abitativo, non trovando applicazione la deroga prevista dalla l. n. 478/1987, il conduttore che, cessato il contratto, ritardi a restituire l'immobile locato, è responsabile ai sensi dell'art. 1591 c.c., salvo che dimostri che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile, non rilevando a tal fine eventuali vicende dilatorie derivanti dalla fissazione della data dell'esecuzione ex art. 56; per App. Napoli 18 dicembre 1989, la fissazione della data del rilascio, ancorché possa rendere temporaneamente incoercibile l'esecuzione stessa, non esclude che il conduttore rimasto nella detenzione dell'immobile dopo la scadenza del contratto, essendo in mora nella restituzione, sia tenuto non solo al pagamento del corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, ma anche al risarcimento del maggior danno di cui all'art. 1591 c.c.; secondo Trib. Bari 21 gennaio 1987, il conduttore di immobile che continui ad occuparlo dopo la data di cessazione della locazione, da tale momento e fino a quello del rilascio dell'immobile è tenuto a corrispondere al locatore, a titolo di indennizzo ex art. 1591 c.c., una somma corrispondente al canone di mercato dell'immobile, ancorché sia pendente il termine fissato dal giudice per l'esecuzione del rilascio, ai sensi dell'art. 56; per Trib. Piacenza 5 dicembre 1984, la permanenza del conduttore nell'immobile locato oltre la data del provvedimento con cui il giudice fissa la data dell'esecuzione ex art. 56 “è legittima solo dal punto di vista processuale della non ancora intervenuta esecutività del provvedimento”). Anche parte della dottrina (Bucci, Malpica, Redivo, 651; Ulessi, 1235) è dell'avviso che il conduttore è in mora sin dalla data di scadenza legale o convenzionale del contratto, non restando detta mora esclusa dalla fissazione della data di rilascio, da parte del giudice, per epoca successiva alla suddetta scadenza. Si verte, quindi, sempre in tema di “risarcimento del danno da occupazione illegittima” dell'immobile, che il legislatore aveva, peraltro, quantificato in maniera predeterminata e forfettaria nella misura del 20% del canone di locazione, con esclusione di ogni altro risarcimento previsto dall'art. 1591 c.c., anche nell'ipotesi in cui il locatore potesse dimostrare l'esistenza di un più grave e rilevante danno (Cass. III, n. 10836/2007). La finalità del legislatore, infatti, è quella di ridurre il ricorso alle procedure esecutive attuando l'equo contemperamento delle esigenze del locatore e del conduttore mediante un sistema che, attraverso la fissazione di un giorno per l'esecuzione del rilascio, decorso il quale il locatore è abilitato a procedere in via esecutiva ex art. 56 della l. n. 392/1978, prevede la sostanziale sospensione temporanea dell'accesso alla procedura esecutiva (Cass. III, n. 11961/2010; Cass. III, n. 24526/2008). Il necessario coordinamento con il disposto dell'art. 1591 c.c. dovrebbe, secondo un'attenta pronuncia di merito, essere effettuato nel concreto, con la valutazione delle singole fattispecie (Pret. Bari 6 novembre 1989). Viene richiamata, in proposito, quella giurisprudenza che si è occupata di situazioni particolari, di sfratto per finita locazione, intimato, cioè, dal locatore perché il conduttore non aveva rilasciato l'immobile alla scadenza legale del contratto e, quindi, era in mora; in questi casi, l'eventuale termine ex art. 56 che dilazioni l'esecuzione dello sfratto non può aver eliminato la mora regolarmente posta in essere dal locatore, mediante diffida del conduttore, che è preesistente e, quindi, rendere inoperante l'art. 1591 c.c.; il differimento dell'esecuzione è qui mirato, esclusivamente, a rendere possibile il reperimento da parte del conduttore di altro immobile, ma non ha conseguenze su una situazione di ritardo colpevole per inosservanza della scadenza contrattuale, che continua a sussistere. Ben diverse, invece, appaiono – ad avviso del magistrato pugliese – le ipotesi in cui i locatori, evidentemente allo scopo cautelativo di munirsi di un titolo esecutivo, procedano prima della scadenza del contratto e a volte con largo anticipo, con l'azione di finita locazione, in un momento cioè in cui il contratto è ancora in vigore; in queste situazioni, quindi, non può parlarsi di mora pregressa del conduttore, in quanto questa, a norma dei principi generali, sussiste quando l'obbligazione diviene attuale ed esigibile e, allora, l'intervento del giudice ex art. 56, in quanto dotato di quella natura sopra illustrata, rende sicuramente inapplicabile l'art. 1591 c.c. (disposto che, una volta decorso il termine giudiziale per l'esecuzione, torna ad operare nella sua pienezza). In definitiva, volendo affermare un criterio guida per l'interpretazione in materia dei rapporti tra la norma codicistica e la legislazione del 1978, esso va ravvisato nella necessaria riaffermazione della valenza quale principio generale della prima, ancorata, tuttavia, ad una situazione di mora del conduttore che, in quanto preesistente e regolarmente posta in essere, diviene il presupposto indispensabile per l'applicabilità della norma. In argomento, mette punto rammentare anche una pronuncia del giudice delle leggi, il quale, nel dichiarare infondata la denuncia di illegittimità dell'art. 2 della l. n. 478/1978 – che, con riguardo alle locazioni non abitative in regime transitorio, aveva escluso il risarcimento del “maggior danno” ex art. 1591 c.c. in riferimento al periodo compreso tra la data di scadenza del contratto e quella fissata giudizialmente per il rilascio – ha valorizzato la figura del “contratto di fatto”, istituto presente nel nostro ordinamento che, con riferimento alla locazione, comporta l'applicabilità al rapporto della disciplina tipica del tipo contrattuale e che, con specifico riguardo alla questione che qui interessa, configura una sorta di “proroga legale del termine di adempimento dell'obbligo di riconsegna” (Corte cost., n. 22/1989; v., altresì, Trib. Napoli 25 febbraio 1989, il quale configura una sorta di proroga giudiziale dell'obbligazione del conduttore di rilasciare l'immobile, sottolineando che, in tema di danni da ritardata restituzione della cosa locata, qualora il giudice che emette il provvedimento di rilascio avvalendosi della facoltà riconosciutagli dall'art. 56, conceda al conduttore una dilazione relativamente all'adempimento dell'obbligazione di riconsegna della cosa locata, il conduttore medesimo non può essere considerato in mora fino alla decorrenza del termine dilatorio poiché non è configurabile una ritardata restituzione del bene a carico del conduttore, quando lo stesso vanta lo ius retentionis). In realtà, in tale periodo, si deve ritenere che il locatore sia tenuto all'obbligo di manutenzione e che il conduttore possa eseguire, con diritto al rimborso, le riparazioni urgenti, proprio sulla base dell'art. 1577 c.c. (e non in forza delle norme sulla gestione d'affari), come i giudici della Consulta hanno esemplificativamente indicato. Può ancora opinarsi che, se il termine fissato per il rilascio copre l'arco della gestione condominiale, il conduttore, per così dire in surplace, abbia il diritto di partecipare alle assemblee di condominio, continuando a gravare su di lui il relativo onere economico, analogamente permane a suo carico la presunzione di cui all'art. 1588 c.c. in caso di deterioramento della cosa locata (Lazzaro, Di Marzio, 1013). In quest'ordine di concetti, sembra essersi mosso il legislatore nella l. 21 febbraio 1989, n. 61 (cui ha fatto seguito l'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998), il quale, anche se non ha assunto una posizione decisa al riguardo, mostra di pensare sostanzialmente – reputando non configurabile una mora del conduttore nella restituzione dell'immobile – ad un canone (che, tuttavia, definisce “somma mensile”) sia quando adopera gli stessi criteri per il suo aggiornamento, sia quando ne prevede una “maggiorazione” (che sarebbe difficile ricondurre a un “risarcimento”, termine che, infatti, non viene adoperato). Un altro indirizzo afferma che il termine fissato dal giudice pone una “presunzione legale di non imputabilità del ritardo nella riconsegna” (App. Napoli 30 novembre 1995, secondo cui il conduttore non è in mora nel rilascio dell'immobile per finita locazione, né è tenuto al risarcimento dei danni per ritardato adempimento, prima della scadenza del termine fissato dal giudice a norma dell'art. 56 della l. n. 392/1978; Trib. Firenze 17 febbraio 1995, ad avviso del quale l'art. 1591 c.c., non derogato da alcuna norma speciale, trova applicazione sin dalla data della scadenza legale o convenzionale del contratto, che comprende anche il termine stabilito dal giudice ai sensi dell'art. 56 per la riconsegna al locatore dell'immobile locato da parte del conduttore, che equivale ad un differimento della data di adempimento dell'obbligazione, per cui soltanto da tale data il conduttore va considerato in mora ove non restituisca l'immobile locato, con conseguente obbligo di risarcire il danno; Trib. Milano 23 dicembre 1991; Trib. Firenze 24 giugno 1991; per Trib. Milano 17 marzo 1986, poiché il termine fissato dal giudice per l'esecuzione del rilascio ai sensi dell'art. 56 costituisce termine di adempimento dell'obbligo di riconsegna dell'immobile locato, nel periodo di detenzione dell'immobile tra la data di cessazione del rapporto locatizio e la scadenza del termine anzidetto il conduttore, in deroga all'art. 1591 c.c., è tenuto a corrispondere al locatore soltanto il canone convenuto e gli oneri accessori, e non anche il maggior danno, mentre per il periodo successivo di detenzione riprende in pieno l'applicazione dell'art. 1591 c.c.). In particolare, ad avviso del giudice meneghino (Trib. Milano 29 aprile 1999), sembra potersi opinare, in via di principio, che la pendenza del termine dilatorio fissato dal giudice per la promozione dell'esecuzione forzata, ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392/1978, e, a fortiori, un'eventuale temporanea sospensione ope legis dell'esecuzione dello sfratto, non rendano di per sé inapplicabile la normativa dell'art. 1591 c.c. tant'è che, con l'ultimo provvedimento di proroga degli sfratti a livello nazionale (all'epoca, il d.l. n. 551/1988, convertito nella l. n. 61/1989), il legislatore ha tra l'altro regolamentato la misura del risarcimento ex art. 1591 c.c. durante il periodo di sospensione dell'esecuzione (gli artt. 1-bis per gli immobili ad uso abitativo e 7 per quelli ad uso diverso). Occorre, tuttavia, considerare che i predetti interventi dilatori dell'esecuzione del rilascio hanno giustificazione prevalente, se non esclusiva, nell'estrema difficoltà per il conduttore, dipendente da circostanze a lui non imputabili, di trovare un altro immobile necessario per i suoi bisogni primari di vita o di lavoro; ciò vale, in primo luogo, per il differimento dell'esecuzione disposto dal giudice, che tiene (o, almeno, dovrebbe tenere) conto, tra l'altro, della concreta situazione di disagio in cui versa quel determinato conduttore, ma può ben valere anche per le proroghe o le sospensioni ope legis dell'esecuzione degli sfratti, le quali sono motivate da situazioni di emergenza venutesi a creare, in determinati periodi e in determinate zone del paese, per effetto di eventi naturali imprevedibili (per esempio, eventi sismici) o comunque di eventi dei quali lo stesso legislatore aveva in precedenza sottovalutato la portata (si pensi alla rarefazione del mercato degli alloggi a canone legale), e sono dirette a tutelare interessi di particolare valore sociale, quali il diritto all'abitazione (Corte cost., n. 252/1989; Corte cost., n. 404/1988) o l'esercizio delle attività economico-produttive (Corte cost., n. 562/1989; Corte cost., n. 3004/1983). La pendenza del periodo di dilazione giudiziale dello sfratto, o la sospensione ex lege di esso, tenuto conto delle ragioni che le hanno determinate, appaiono allora fattori idonei, se non ad escludere in modo assoluto la colpevolezza del conduttore per il ritardo nella riconsegna dell'immobile, quanto meno ad incidere sull'applicazione della presunzione di colpa ex art. 1218 c.c. – che secondo i principi generali dovrebbe trovare applicazione nella specie, trattandosi di responsabilità per illecito contrattuale – nel senso di comportare in concreto l'inutilizzabilità di tale presunzione o almeno una valutazione meno rigorosa del comportamento del conduttore, sul presupposto che il rilascio dell'immobile si pone, per il momento, aldilà dei suoi doveri di diligenza, in quanto potrebbe mettere in pericolo beni fondamentali (vita, lavoro). Insomma, anche quando il conduttore abbia diritto a che lo sfratto non venga eseguito, non può escludersi a priori che in concreto egli possa risultare responsabile ai sensi dell'art. 1591 c.c. (ed essere, quindi, tenuto non solo a versare il corrispettivo convenuto, ma anche a risarcire il “maggior danno”), ove si accerti l'insussistenza delle ragioni della tutela accordata con il differimento del rilascio e, dunque, il carattere doloso o colposo del suo inadempimento: si pensi al caso del conduttore che non provveda al rilascio dell'immobile locatogli, pur non utilizzandolo più o pur disponendo di un altro immobile dove trasferire la propria abitazione; oppure al caso in cui il conduttore, per le sue condizioni economiche, potrebbe procurarsi agevolmente un altro immobile adeguato alle proprie esigenze anche in una situazione di generale difficoltà come quella attuale. Ebbene – chiosa il giudice ambrosiano – se la situazione sottesa alle scelte giudiziali e legislative in tema di dilazione degli sfratti, data la sua notorietà e la sua gravità, può ritenersi tale da incidere nella valutazione della colpevolezza del conduttore in mora nella riconsegna pur dopo che la cessazione del rapporto di locazione abbia trovato definitivo accertamento in giudizio, tanto più essa deve essere tenuta presente nell'ipotesi in cui il locatore abbia sì fatto cessare, con la sua disdetta, il contratto alla scadenza pattuita, ma non abbia promosso alcuna azione per ottenere il rilascio dell'immobile locato. In questo panorama giurisprudenziale, va richiamata la pronuncia con cui il giudice delle leggi (Corte cost., n. 482/2000), nel dichiarare l'incostituzionalità dell'art. 6, comma 6, della l. n. 431/1998 – in forza del quale, durante il periodo di sospensione dell'esecuzione e fino all'effettivo rilascio, il conduttore doveva corrispondere una “somma mensile” pari all'ammontare del canone aggiornato al 75% I.S.T.A.T. e “maggiorato” del 20%, restando esonerato dall'obbligo di risarcire il maggior danno ai sensi dell'art. 1591 c.c. – ha guardato al termine della sospensione dell'esecuzione ope legis o ope iudicis – dunque anche alla scadenza del termine fissato ex art. 56 della l. n. 392/1978 – come al crinale prima del quale non opera la responsabilità risarcitoria di cui all'art. 1591 c.c. Nello specifico, la sentenza ha osservato che le due misure consistenti nella sospensione dell'esecuzione e nella determinazione del quantum sono strettamente connesse, in quanto alla sospensione ex lege dell'esecuzione corrisponde, quale previsione altrettanto eccezionale e temporanea, la determinazione parimenti ex lege dell'indennità relativa allo stesso periodo; non vi è alcun elemento di contrasto con il canone della ragionevolezza nella previsione normativa che disponendo, attraverso la sospensione delle esecuzioni, uno spostamento del termine di rilascio provvede anche a stabilire la misura dell'indennità da corrispondersi nello stesso periodo, poiché essa costituisce il risultato di “un'equilibrata valutazione di contrapposti interessi ed esigenze”, i cui caratteri di eccezionalità e temporaneità pongono la norma stessa al riparo dalle censure di incostituzionalità dedotte dai giudici rimettenti. La ragionevolezza della norma risiede – secondo l'autorevole parere dei magistrati della Consulta – nel suo stesso motivo ispiratore, consistente nel definire quei rapporti locativi sorti e sviluppatisi in epoche di seria e spesso drammatica emergenza che ha dato origine a tutta la legislazione vincolistica in materia; non si tratta perciò di un regime ordinario, bensì di un “provvedimento a carattere temporaneo”, che esplica i propri effetti nella fase del graduale passaggio alla nuova disciplina delle locazioni. Nel caso, invece, della mancata coincidenza tra il termine fissato dal giudice e quello del rilascio effettivo, riprende piena applicabilità il disposto dell'art. 1591 c.c. e il conduttore è tenuto al risarcimento del maggior danno, secondo le consuete regole codicistiche, sempre ovviamente che il locatore, per il periodo intercorrente tra la scadenza della sospensione ope legis e la data del reale rilascio, ne abbia offerto prova (v. anche Cass. III, n. 821/2006). Fissazione della data di esecuzioneIn termini generali, si è osservato (Grasselli, Masoni, 437) che, nella fissazione della data di rilascio, il giudice gode di un margine di discrezionalità assai ampio, nel senso che egli fissa tale data “entro il termine massimo di sei mesi” oppure, in casi eccezionali “di dodici mesi”: questo significa che, almeno in linea teorica, il rilascio potrebbe essere fissato un giorno dopo il provvedimento di rilascio o nei sei/dodici mesi successivi. In tal senso, si pone una pronuncia di merito (Trib. Gorizia 5 marzo 2003), secondo la quale, in tema di fissazione della data dell'esecuzione del rilascio, poiché l'art. 56 della l. n. 392/1978 prevede un termine giudiziale dilatorio e, quindi, solo un limite di tempo massimo e non minimo, nulla impedisce – salvo i limiti derivanti dalle condizioni del conduttore – di far coincidere tale data con quella di scadenza del contratto (dello stesso parere App. Napoli 13 gennaio 1986, il quale ha puntualizzato che la data di esecuzione del rilascio che il giudice fissa ex art. 56 può anche coincidere con la data di fine della locazione, in quanto il potere discrezionale riconosciuto a chi la fissa non implica che essa debba essere necessariamente successiva a questa; v., altresì, Trib. Napoli 24 gennaio 1982: allorché il giudice dichiari cessata la locazione per un periodo largamente successivo alla data di pronuncia della sentenza, non è il caso di stabilire un ulteriore termine per lo sfratto ai sensi dell'art. 56, che stabilisce soltanto il termine massimo per la data dell'esecuzione). Resta inteso che tale termine, nel procedimento speciale di convalida, decorre dalla data del provvedimento; trattandosi di provvedimento endoprocessuale, se è stato pronunciato in udienza, il termine decorre da quel momento (art. 176, comma 2, c.p.c.), mentre, in ipotesi di riserva, lo stesso termine decorre dalla comunicazione della cancellaria (artt. 176, comma 2, e 186 c.p.c.); in caso di sentenza, il termine decorre dalla lettura del dispositivo in udienza (artt. 429 e 447-bis c.p.c.) o dalla pubblicazione (art. 281-sexies c.p.c.). È, comunque, illegittimo il provvedimento con il quale la data di esecuzione viene fissata a sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza in quanto si viola sia il principio dell'esecutività per legge della sentenza di primo grado, sia il disposto dell'art. 56 della l. n. 392/1978, nella parte in cui dispone che il giudice fissi la data dell'esecuzione nel termine massimo di dodici mesi, in quanto in caso di impugnazione della sentenza l'esecuzione stessa viene differita all'esito del giudizio per cassazione (Trib. Roma 9 febbraio 1985). Nello specifico, l'art. 56 della l. n. 392/1978 è stato modificato dall'art. 7-bis della l. 12 novembre 2004, n. 269 – di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 240/2004 – il quale ha stabilito che il provvedimento di fissazione del termine per l'esecuzione debba essere motivato e che la motivazione debba tenere conto “anche”: a) delle condizioni del conduttore comparate a quelle del locatore; b) delle ragioni per le quali viene disposto il rilascio; c) nei casi di finita locazione, del tempo trascorso dalla disdetta (la precedente versione del comma 1, prevedeva soltanto che: “col provvedimento che dispone il rilascio, il giudice, tenuto conto delle condizioni del conduttore e del locatore e delle ragioni per le quali viene disposto il rilascio, fissa anche la data dell'esecuzione entro il termine massimo di mesi sei ovvero, in casi eccezionali, di mesi dodici dalla data del provvedimento”). Relativamente all'obbligo di motivazione, esso è da porre in relazione con il comma 3, nel testo novellato, della disposizione, che assoggetta il provvedimento all'opposizione di cui all'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998, e cioè davanti al Tribunale “che giudica con le modalità di cui all'articolo 618” c.p.c.; in altri termini, il nuovo obbligo va valutato nell'ottica di circoscrivere la discrezionalità del giudice adìto nella verifica ed esame dell'ampia gamma di elementi valutativi. Per quanto attiene alla considerazione delle “condizioni del conduttore” – che nella versione del 2014 vanno “comparate a quelle del locatore” – si è ritenuto che debbano considerarsi le reciproche esigenze di godere dell'immobile: esemplificando, si può dire che il termine per l'esecuzione tenderà al limite superiore nel caso del locatore di una molteplicità di immobili che agisca per la finita locazione contro un conduttore ad uso abitativo, e tenderà al limite inferiore nel caso che sia il locatore a voler destinare a propria abitazione l'immobile locato ad uso di seconda casa (è indubbio che, nelle locazioni abitative, la condizioni del conduttore sono ravvisabili alla necessità di permanere nell'immobile, di regola, ritenute prevalenti rispetto alle condizioni economiche del locatore: Cosentino, Vitucci, 590). In ordine, poi, alle “ragioni per le quali viene disposto il rilascio”, è intuitiva la differenza tra la cessazione del rapporto per finita locazione o per inadempienza dovuta a morosità: in particolare, nella finita locazione, mentre può accadere che il conduttore non versi affatto in stato di inadempimento (nel caso di licenza), è da sottolineare che, anche in caso di mora nel rilascio, lo squilibrio del sinallagma contrattuale non è totale, dal momento che il locatore continua pur sempre a percepire il canone; nel caso di morosità, invece, il locatore si vede privato di qualsiasi utilità traibile dalla concessione del godimento della cosa, sicché il termine per l'esecuzione dovrà essere convenientemente contenuto (Lazzaro, Di Marzio, 1017). In caso di morosità, il comma 2 dell'art. 56 prevede il limite invalicabile di sessanta giorni, qualora, concessa la sanatoria ai sensi del precedente art. 55, il conduttore non provveda al pagamento nel termine di grazia assegnatogli (per la natura perentoria del termine, anche in virtù del combinato disposto degli artt. 55 e 56 della l. n. 392/1978, v., per tutte, Cass. III, n. 2359/1992). Tuttavia, la giurisprudenza di merito ritiene che tale previsione abbia una portata generale, nel senso che sia applicabile a tutti i casi di risoluzione del contratto per morosità, sia nel caso in cui l'intimato sia comparso senza opporsi, sia qualora nemmeno sia comparso in udienza, sia allorché il contratto sia stato risolto con sentenza pronunciata all'esito di un giudizio ordinario promosso per lo stesso motivo ai sensi dell'art. 447-bis c.p.c. (Trib. La Spezia 16 giugno 2009, che evidenzia “le minori ragioni di tutela del conduttore sfrattato nel caso in cui il motivo risieda nella persistente morosità”, aggiungendo che, pur non applicandosi la disciplina dell'art. 55 della l. n. 392/1978 alle locazioni ad uso diverso dall'abitativo, deve comunque ritenersi che, anche in tale àmbito, vada contenuto in un termine non maggiore di sessanta giorni la scadenza per il rilascio dell'immobile in caso di morosità; Pret. Piacenza 7 giugno 1994 ha ritenuto che il conduttore non può giovarsi del beneficio del termine concesso ex art. 56 della l. n. 392/1978 in occasione della convalida per finita locazione, ove sia moroso nel pagamento dell'indennità dovuta al locatore ex art. 1591 c.c.; in senso analogo, Pret. Monza 4 ottobre 1984, per il quale la data dell'esecuzione, fissata a norma dell'art. 56 per un provvedimento di rilascio fondato sulla finita locazione di un immobile ad uso abitativo, può essere anticipata dal giudice dell'esecuzione nell'ipotesi di morosità sopravvenuta del conduttore, vertendosi in un'ipotesi di decadenza dal beneficio del termine; affinando il concetto, lo stesso Pret. Monza 11 luglio 1984, ha ritenuto che il conduttore, che si renda “moroso” dopo la cessazione della locazione e in pendenza del termine fissato per l'esecuzione del rilascio ai sensi dell'art. 56, decade dal beneficio del termine in base ad un principio generale dell'ordinamento, definibile “principio della decadenza dal beneficio del termine”, del quale la sanzione contemplata dall'art. 6 del d.l. n. 629/1979, convertito in l. n. 25/1980, e la previsione dell'art. 1183 c.c., costituiscono specifiche applicazioni; contra, Pret. Milano 16 ottobre 1984, ad avviso del quale al conduttore che si renda “moroso” nel pagamento del canone e degli oneri accessori successivamente alla cessazione del contratto e in pendenza del termine fissato per l'esecuzione del rilascio ai sensi dell'art. 56, non si applica la sanzione della decadenza dal beneficio della sospensione dell'esecuzione previsto dal citato art. 6, che ha un àmbito di applicazione rigorosamente coincidente con il limitato campo di operatività del provvedimento legislativo di dilazione degli sfratti in cui è inserita, e non è suscettibile di applicazione analogica). Anche la dottrina è sostanzialmente d'accordo per tale applicazione estensiva, sottolineando, per un verso, che l'ordinamento concede al conduttore non pochi strumenti per evitare la pronuncia del provvedimento di rilascio, e, per altro verso, che trattasi di un provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti di un conduttore “inaffidabile” (così Carrato 2010, 581). Si aggiunge (Grasselli, Masoni, 438) che, se il termine di esecuzione non può esuberare i sessanta giorni decorrenti dalla scadenza del termine di grazia, termine questo accordato infruttuosamente, a maggior ragione lo stesso limite (di sessanta giorni, decorrenti, in tal caso, dal provvedimento di rilascio) deve valere laddove il termine neppure sia domandato; in questa ipotesi, la morosità non appare “giustificabile” dal punto di vista sociale, sicché resta esclusa una suppur minima dilazione a favore dell'intimato, imponendo, così, un celere rilascio e, quindi, una minima dilazione. Per quanto attiene, infine, alla considerazione del “tempo trascorso dalla disdetta” nei casi di finita locazione, l'interpretazione non dovrebbe essere ancorata al mero dato letterale, impropriamente utilizzato; la ratio della norma è chiara nel senso che, se il conduttore è tempestivamente avvisato della cessazione del rapporto, ha per tempo modo di premunirsi, sicché può fissarsi un termine tendenzialmente più breve; tuttavia, bisogna considerare che il conduttore è posto al cospetto dell'esigenza di trasferirsi altrove non già dalla disdetta – che sovente è diretta soltanto ad impedire che il contratto si rinnovi alle condizioni precedenti – ma dall'inizio dell'azione di rilascio, per cui è preferibile interpretare la norma nel senso che debba tenersi conto del tempo trascorso dalla disdetta quando questa sia stata seguita dall'azione giudiziale (Di Marzio 2011, 648: in buona sostanza, tanto maggiore è il tempo trascorso dall'invio della disdetta, tanto minore dovrebbe essere la dilazione al rilascio). Al riguardo, la dottrina è divisa: alcuni ritengono che, nel caso di convalida di licenza per finita locazione (o nel caso di sentenza di condanna al rilascio per una data futura), la data dell'esecuzione va fissata nello stesso giorno della scadenza del rapporto, se lo stesso cade in epoca posteriore al termine massimo (sei o dodici mesi) previsto dalla norma, e che, nel caso la cessazione si verifichi anteriormente, il termine stesso va fissato considerando, quale data di partenza, l'epoca della pronuncia di condanna (Bucci, Crescenzi, 139); altri, invece, opinano che, seguendo la soluzione negativa, ossia contraria alla fissazione della data di rilascio, la concreta applicazione della norma sarebbe rimessa al libito del locatore, il quale potrebbe essere sollecitato ad agire sempre con la licenza per evitarne la concessione (Frasca, 219). Si è, ad ogni buon conto, precisato (Pret. Perugia 15 febbraio 1993) che, in caso di richiesta giudiziale di rilascio dell'immobile locato senza che sia ancora scaduto il contratto, il termine massimo di sei mesi o, in casi eccezionali di un anno, entro il quale il giudice deve fissare la data dell'esecuzione, decorre dalla data di scadenza del contratto e non da quella del provvedimento di rilascio. Resta inteso, però, l'art. 56 della l. n. 392/1978, nel fissare alla data del provvedimento che dispone il rilascio dell'immobile il dies a quo del termine (di sei o, in casi eccezionali, di dodici mesi) per l'adempimento dell'obbligo di restituzione da parte del conduttore, presuppone che esso sia emesso successivamente alla scadenza del contratto, atteso che, diversamente opinando, la restituzione verrebbe a sconfinare nel periodo di godimento dell'immobile, così alterando l'equilibrio del sinallagma contrattuale, in quanto il conduttore non potrebbe godere dell'immobile per un certo tempo finale rientrante nella durata del contratto, da destinare al compimento delle attività necessarie alla restituzione, pur continuando a pagare il medesimo canone (Cass. III, n. 27806/2021). Natura del termine dilatorioResta solo da individuare – per completezza di indagine – la natura giuridica del termine giudiziale fissato per il rilascio, e anche in questo caso si è registrata una spaccatura nella dottrina e nella giurisprudenza (v. anche supra sul versante risarcitorio). Da un lato, si ritiene che tale termine abbia natura “sostanziale” di adempimento dell'obbligo di restituzione, stante l'inconciliabilità logica e giuridica tra un'occupazione dell'immobile autorizzata dall'ordinamento e l'operatività della mora (Lazzaro, Preden, Varrone, 81) Da un'altra prospettiva, si opina che il termine porrebbe una presunzione legale di non imputabilità del ritardo nella consegna sino alla data fissata dal giudice, sicché il conduttore è tenuto solo a versare il canone di locazione e gli eventuali aggiornamenti (tra le pronunce di merito, v. App. Napoli 30 novembre 1995 cit.; Trib. Firenze 24 giugno 1991 cit., secondo il quale tale presunzione legale di non imputabilità del ritardo nella riconsegna sino alla data fissata dal giudice cessa alla scadenza del termine fissato ex art. 56 della l. n. 392/1978 e, quindi, al locatore, in tale periodo, può riconoscersi il diritto di percepire solo l'intero canone, ed eventuali oneri accessori, di locazione, che non può essere superiore al corrispettivo legittimamente convenuto e, quindi, al canone che quegli avrebbe potuto pretendere in costanza del normale svolgimento della locazione, salvi gli eventuali aggiornamenti dovuti o in forza di valide clausole contrattuali o per sopravvenute disposizioni normative). Il meccanismo de quo si configura, quindi, come termine di adempimento dell'obbligo di riconsegna (Trib. Firenze 10 luglio 1989; Trib. Milano 17 marzo 1987), o, comunque, di inesigibilità della prestazione di restituzione “non essendo logicamente ipotizzabile l'efficacia di un obbligo la cui coazione è inefficace” (cosi Trib Napoli 20 settembre 1985; cui adde Trib. Napoli 17 febbraio 1988). La giurisprudenza di legittimità tende, invece, ad attribuire al termine de quo natura “processuale”, atteso che lo stesso non determina la posticipazione della scadenza del rapporto: in quest'ottica, il conduttore viene considerato in mora sin dalla data di scadenza del contratto, non escludendo nemmeno tutti gli altri obblighi contrattuali a suo carico. In particolare, si è chiarito che il provvedimento con il quale il giudice, nel disporre il rilascio dell'immobile locato, fissa la data dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 56 legge sull'equo canone, non incide sulla data di cessazione del rapporto, che rimane quella accertata nella sentenza che ordina il rilascio, né esclude la mora del conduttore per il periodo successivo a questa, essendo conseguente non solo all'accertamento delle difficoltà di reperimento di altro immobile ma anche alle condizioni del locatore ed alle ragioni del rilascio; tale provvedimento esaurisce, dunque, i suoi effetti sul piano processuale senza pregiudicare il diritto del locatore al corrispettivo convenuto fino alla riconsegna ed al risarcimento dei maggiori danni, ai sensi dell'art. 1591 c.c., che il conduttore può evitare solo provando, ai sensi dell'art. 1218 c.c., che la mancata riconsegna nel termine contrattuale è dipesa da impossibilità derivante da causa a lui non imputabile (Cass. III, n. 10560/2002; Cass. III, n. 5798/1998; Cass. III, n. 8662/1991; cui adde Cass. III, n. 8842/1991, in tema di sospensione degli sfratti nelle zone terremotate; v. anche Cass. III, n. 8687/1995, la quale precisa ulteriormente che il contestuale provvedimento di fissazione della data della esecuzione – che il giudice deve pronunciare d'ufficio – è diretto a regolare l'iter esecutivo ed ha funzione ordinatoria del processo esecutivo che verrà instaurato se e quando il primo provvedimento passerà in giudicato). In altri termini, posto che il provvedimento che fissa tale termine è stato visto, per un verso, come accessorio del provvedimento che pronuncia, con il riconoscimento della cessazione di un rapporto di locazione, la condanna del conduttore al rilascio, per altro verso, come caratterizzato da una natura semplicemente ordinatoria del processo esecutivo, impedendo cioè esso che l'esecuzione per il rilascio dell'immobile locato sia intrapresa prima del suo spirare, per altro verso ancora, come insuscettibile di qualsiasi impugnazione in senso stretto (tanto che un'impugnazione rivolta esclusivamente avverso tale capo del provvedimento di rilascio era qualificata inammissibile), potendo invece esso, proprio perché di natura ordinatoria, essere revocato o modificato dal giudice dell'esecuzione – v., tra le altre, Cass. III, n. 19295/2006; Cass. III, n. 11063/2003; Cass. III, n. 12463/1998; Cass. III, n. 4074/1996; Cass. III, n. 11618/1992; Cass. III, n. 6859/1988 – si è ritenuto che tale provvedimento abbia rilievo esclusivamente processuale e non sostanziale, dal che deriva che non influisce (non prorogandolo o posticipandolo) in alcun modo sull'epoca di cessazione de iure del contratto di locazione, come individuata nel provvedimento che per qualunque causa la identifichi. Parte della dottrina è favorevole a quest'ultima impostazione, sottolineando che la dilazione al rilascio, senza escludere la mora del conduttore/intimato, ha significato circoscritto e valenza prettamente processuale, limitandosi appunto ad incidere sull'iter del processo esecutivo, determinandone la data di inizio, al limitato fine di contemperare i contrapposti interessi delle parti (Porreca 2006, 175; Sinisi, Troncone, 287; ad avviso di Trifone, 495, l'attribuzione al giudice della cognizione – a differenza di quanto accadeva nella legislazione precedente – del potere in questione appare, in realtà, ulteriore sintomo che depone per la natura “meta-processualistica” del termine). Impugnazioni avverso il provvedimento giudizialeLa configurazione del termine per l'esecuzione accolta dalla costante magistratura di vertice, quale termine processuale meramente ordinatorio, comportava che esso, prima della richiamata novella del 2004, non fosse oggetto di alcun rimedio impugnatorio (sul versante dottrinale: Carrato 1993, 679; Baio 1986, 116). Logico corollario era che il provvedimento de quo era insuscettibile di passare in cosa giudicata: si era affermato – a chiari note – che l'art. 56, comma 1, della l. n. 392/1978, nel prevedere che “col provvedimento che dispone il rilascio, il giudice... fissa anche la data della esecuzione...”, contempla, con il provvedimento di rilascio che attribuisce ad una delle parti il bene (immobile) controverso, su cui si forma il giudicato sostanziale, il contestuale provvedimento di fissazione della data dell'esecuzione, che il giudice deve pronunciare d'ufficio, che è diretto a regolare l'iter esecutivo ed ha funzione ordinatoria del processo esecutivo che verrà instaurato se e quando il primo provvedimento passerà in giudicato; tale provvedimento non dà luogo a giudicato, né sostanziale né formale, ma può essere sempre revocato o modificato, dopo il passaggio in giudicato del primo provvedimento, in sede esecutiva ad opera del giudice dell'esecuzione, d'ufficio o su istanza del soggetto del processo esecutivo (esecutante o esecutato) interessato alla revoca o modifica, sicché l'unico rimedio esperibile contro tale provvedimento ordinatorio è l'istanza di revoca o di modifica rivolta al giudice dell'esecuzione, ma non l'impugnazione in sede cognitiva al giudice superiore, che, se proposta, va dichiarata inammissibile (così Cass. III, n. 2746/1983; cui adde Cass. III, n. 8687/1995; Cass. III, n. 6859/1988; Cass. III, n. 957/1987; Cass. III, 6700/1986; Cass. III, n. 4969/1986; Cass. III, n. 1289/1985; Cass. III, n. 229/1985). In pratica, si riteneva che ogni questione dovesse essere devoluta al giudice dell'esecuzione, il quale poteva revocare o modificare il provvedimento di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 11063/2003; Cass. III, n. 4074/1996; Cass. III, n. 11618/1992; Cass. III, n. 134/1989; Cass. III, n. 1704/1984); d'altronde, era pacifico che la fissazione della data di rilascio dell'immobile locato, ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392/1978, ancorché contenuta in sentenza, non poteva acquistare autorità di giudicato, perché questo poteva formarsi solo in relazione ai singoli capi della sentenza che pronunciavano sul diritto sostanziale controverso e non anche sulle statuizioni che non attenevano al rapporto controverso, bensì avevano funzioni meramente ordinatorie dell'iter esecutivo del rilascio dell'immobile locato (tra le pronunce di merito, si segnalano: Trib. Padova 15 marzo 2000, secondo cui l'unico rimedio esperibile avverso l'ordinanza di fissazione della data di esecuzione del rilascio ex art. 56 era rappresentato, stante la natura meramente ordinatoria del provvedimento, dall'istanza di revoca o modifica rivolta al giudice dell'esecuzione, aggiungendo che, a tal fine, non era necessaria la sottoposizione al giudice dell'esecuzione di nuovi o più articolati motivi, ben essendo possibile una rivalutazione degli stessi elementi valutati dal giudice della cognizione in sede di convalida; App. Napoli 21 dicembre 1990, ad avviso del quale il provvedimento con cui il giudice fissava, ai sensi dell'art. 56, la data di esecuzione del rilascio aveva natura meramente ordinatoria, ed era revocabile o modificabile, dopo il passaggio in giudicato del provvedimento di rilascio, in sede esecutiva da parte del giudice di esecuzione; App. Napoli 12 novembre 1990 definiva il provvedimento de quo come avente “natura regolamentatrice di una futura attività esecutiva” e, pertanto, non poteva formare oggetto di impugnazione davanti al giudice superiore in sede cognitiva da parte di chi lo ritenesse illegittimo o incongruo; App. Napoli 14 settembre 1990 lo considerava privo di contenuto decisorio e, pertanto, insuscettibile di divenire giudicato, sia in senso formale che sostanziale; per Pret. Molfetta 16 giugno 1986, il provvedimento di fissazione della data di esecuzione ex art. 56, essendo diretto a regolare l'iter del processo esecutivo, possedeva “tutte le caratteristiche dei provvedimenti del giudice dell'esecuzione”, revocabili e modificabili finché non avessero avuto esecuzione, così come disponeva l'art. 487 c.p.c.; contra, Pret. Firenze 2 gennaio 1987, per il quale il provvedimento di rilascio con cui, ex art. 56, era stata fissata la data dell'esecuzione non era modificabile, quanto a tale statuizione, dal giudice dell'esecuzione; per Trib. Napoli 21 dicembre 1984, il provvedimento con cui il giudice, ai sensi dell'art. 56, nel disporre il rilascio di un immobile, fissa la data dell'esecuzione, aveva natura decisoria e, in mancanza di specifica impugnazione, era “suscettibile di passare in cosa giudicata”; per Pret. Viareggio 14 maggio 1984, al giudice dell'esecuzione non è consentita la revoca o la modifica di tale provvedimento, “ma solo il differimento dell'esecuzione, se questo sia previsto da una legge”). L'omissione della data di rilascio, stante la sua mancanza di decisorietà, era insuscettibile di ricorso per cassazione, ben potendosi provvedere al riguardo in sede di esecuzione (Cass. III, n. 19295/2006; Cass. III, n. 11063/2003; Cass. III, n. 12463/1998; Cass. III, n. 2987/1988; Cass. III, n. 534/1986 trae una conferma della natura ordinatoria del provvedimento dagli artt. 13 e 14 del d.l. 23 gennaio 1982, n. 9, convertito in l. 25 maggio 1982, n. 94, il quale prevedeva una nuova fissazione del giorno dell'esecuzione da parte del Pretore competente ai sensi dell'art. 26 c.p.c.; una fattispecie particolare era stata decisa da Cass. III, n. 29205/2008: trattavasi di sentenza di appello che confermava quella di primo grado in ordine alla data di scadenza del contratto di locazione, ma non contenendo la fissazione del termine per il rilascio previsto dall'art. 56 della l. n. 392/1978, indicato invece nella pronuncia impugnata, e si è ritenuto che costituisse l'esclusivo titolo esecutivo da notificare, unitamente al precetto, non avendo appunto il provvedimento omesso alcun contenuto decisorio ed essendo possibile solo il ricorso al giudice dell'esecuzione per l'indicazione della data di rilascio, in quanto essa sentenza di appello si sostituiva sempre a quella impugnata, tanto in caso di riforma che di conferma e, conseguentemente, conteneva tutti gli estremi necessari per l'esercizio della pretesa esecutiva; Pret. Molfetta 20 dicembre 1984 aveva ritenuto che, nel caso di provvedimento di rilascio privo della data di esecuzione, il giudice dell'esecuzione può stabilire tale data su istanza della parte interessata, in applicazione dell'art. 56, trattandosi di un'istanza analoga a quella prevista dall'art. 12 della l. n. 94/1982, ma fondata su presupposti differenti che permettevano l'integrazione anche dei provvedimenti di rilascio degli immobili adibiti ad uso diverso dall'abitazione; in senso parzialmente contrario, si era espresso Trib. Napoli 16 novembre 1985, per il quale, qualora il giudice di primo grado decideva di non fissare la data di esecuzione ai sensi dell'art. 56, nella specie richiamando per relationem una propria motivazione precedente, il provvedimento di diniego della concessione del termine aveva forma di ordinanza negativa ma natura sostanziale di sentenza, come tale impugnabile con l'appello; secondo Trib. Milano 22 dicembre 1983, la fissazione della data di esecuzione ex art. 56 aveva “certamente carattere decisorio” ed era, quindi, suscettibile di sindacato in sede di appello; anche per Pret. Viareggio 21 novembre 1983, il provvedimento de quo aveva “natura giurisdizionale” e come tale, per poter essere modificato, era necessario che fosse specificamente chiesto in appello un riesame del relativo giudizio). Nell'ottica della novella del 2004, rimane il dubbio se, a tale lacuna, possa rimediarsi con l'opposizione prevista dal comma 3 del modificato art. 56 della l. n. 392/1978 oppure con il procedimento di correzione di errore materiale delineato dall'art. 288 c.p.c.; per il primo corno dell'alternativa, si richiama l'argomento a fortiori, nel senso che, se è sindacabile il termine fissato, a maggior ragione le parti dovrebbero dolersi allorché non sia stato fissato (Porreca, 522); opta per la seconda chi ritiene che, oggi, l'ordinanza è divenuta “non revocabile”, bensì impugnabile con lo specifico strumento dell'opposizione, che appare però “sproporzionato” rispetto all'esigenza che intende soddisfare (Grasselli, Masoni, 747; in ordine al “vecchio” regime, Coppolino, 514; Cupido 1982, 20). Comunque, sul punto, si era chiarito che la fissazione della data di esecuzione del provvedimento che disponeva il rilascio dell'immobile locato, condizionava, ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392/1978, solo l'inizio dell'esecuzione del provvedimento (e non il diritto del locatore all'esecuzione) e non doveva necessariamente precedere, quindi, la notificazione del precetto, che, come era reso palese dall'art. 479 c.p.c., poteva essere impugnato con l'opposizione all'esecuzione, prima che questa fosse iniziata, solo per contestare il diritto dell'istante di procedere all'esecuzione per l'inesistenza o invalidità del titolo esecutivo o la successiva modifica o estinzione del diritto; ne conseguiva che, se l'esecuzione non era stata iniziata, il conduttore non poteva proporre opposizione al precetto solo perché non preceduto dalla fissazione della data dell'esecuzione del provvedimento di rilascio dell'immobile locato, cui poteva provvedersi anche in sede di esecuzione, e nei casi previsti dall'art. 12 del d.l. n. 9/1982, convertito in l. n. 94/1982 (così Cass. III, n. 11470/1992; sempre nel vecchio regime, Cass. III, n. 5881/1999 aveva chiarito che la mancanza nel titolo esecutivo, costituito da una sentenza dispositiva del rilascio di un immobile, della data di rilascio richiesta dall'art. 56 della l. n. 392/1978, era riconducibile alla categoria delle “irregolarità formali attinenti al titolo esecutivo” e non a quella delle irregolarità formali afferenti al precetto, poiché la data del rilascio è un elemento della sentenza, come emerge dalla previsione di detta norma, secondo cui la data di esecuzione è fissata dal giudice con il provvedimento che dispone il rilascio, conseguendone che l'allora termine di cinque giorni per la proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi, con la quale si faceva valere detta irregolarità, decorreva dalla data di notificazione della sentenza costituente il titolo esecutivo e non da quella successiva di notificazione del precetto; cui adde Cass. III, n. 9/1992, secondo cui l'opposizione diretta a far valere la nullità del titolo esecutivo di rilascio dell'immobile locato, perché privo della data della esecuzione prescritta dall'art. 56, e la conseguente nullità del precetto, essendo relativa alla regolarità formale di questi atti, doveva essere proposta, a pena di decadenza, entro cinque giorni dalla loro notificazione e non dalla notificazione del preavviso di rilascio di cui all'art. 608 c.p.c.). Orbene, la summenzionata ricostruzione deve oggi fare i conti con la nuova versione dell'art. 56 della l. n. 392/1978 il quale, al comma 3, stabilisce che, qualunque forma abbia il provvedimento di rilascio, il locatore e il conduttore possono, in qualsiasi momento e limitatamente alla data fissata per l'esecuzione, proporre al Tribunale in composizione collegiale l'opposizione di cui all'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998. L'opposizione in questione, dunque, si colloca sulla scia dell'opposizione al decreto di nuova fissazione del termine per l'esecuzione – previsto, per particolare ipotesi, dall'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998 – il quale dispone che, contro tale decreto, “il locatore ed il conduttore possono proporre opposizione per qualsiasi motivo al Tribunale che giudica con le modalità di cui all'art. 618 c.p.c.” (sul punto, Trib. Parma 7 febbraio 2006 ha ritenuto che l'art. 7-bis del d.l. n. 240/2004, convertito nella l. n. 269/2004 ha dettato una nuova disciplina ordinaria per l'esecuzione degli sfratti modificando l'art. 56 della l. n. 392/1978, per cui considerare tuttora in vigore sia l'opposizione ex art. 56 citato sia la possibilità di nuova fissazione dell'esecuzione con relativa opposizione al collegio ai sensi dell'art. 6, comma 4, l. n. 431/98 costituirebbe un “assurdo appesantimento del sistema dell'esecuzione degli sfratti”, evidentemente contrario alla finalità della legge, posto che gli sfratti rischierebbero di essere procrastinati per tempi molto lunghi, creando ulteriore incertezza per il locatore circa la possibilità di riottenere la concreta disponibilità del bene locato). Il procedimento di opposizione ex art. 56, comma 3, della l. n. 392/1978 è da ritenersi applicabile non solo alle locazioni ad uso abitativo, ma anche a quelle ad uso diverso: infatti, il tenore letterale dell'art. 56 nella nuova formulazione e la stessa ratio legis inducono a ritenere che il legislatore abbia inteso introdurre l'istituto dell'opposizione al provvedimento di rilascio emesso dal giudice monocratico a proposito della data fissata per l'esecuzione, in tutte le ipotesi in cui sia stato disposto il rilascio dell'immobile (Trib. Milano 18 gennaio 2008). Il sopra delineato rimedio dell'opposizione comporta, dunque, il superamento dell'indirizzo giurisprudenziale che voleva il termine per l'esecuzione revocabile e modificabile dal giudice dell'esecuzione, atteso che, per effetto dell'espressa previsione di un apposito strumento di opposizione, la revocabilità e modificabilità del provvedimento è da escludere, con la conseguente stabilità (che in precedenza non aveva) del provvedimento di fissazione del termine per l'esecuzione, che può essere intaccato (mediante revoca o modifica) soltanto attraverso l'opposizione in questione, nel ridotto termine e per i limitati motivi di cui appresso. La novella del 2004 – non operando, peraltro, alcuna distinzione tra locazioni abitative e non abitative – ha, quindi ridisegnato il potere di determinazione del giorno per l'esecuzione, da un lato, ancorandolo alla valutazione di presupposti ben precisi ed alla necessità di un'esplicita motivazione, e, dall'altro, consentendo un riesame del provvedimento con modalità procedurali predeterminate, ma non ha mutato la natura meramente ordinatoria del processo esecutivo e, quindi, l'idoneità della stessa ad influire sulla cessazione de iure del contratto di locazione (Carrato, Scarpa, 781). Siamo, dunque, in presenza di uno strumento generale di controllo, e eventualmente di modifica, del provvedimento di determinazione della sola data di rilascio dell'immobile locato, che, appunto per la sua valenza generale, appare opportuno esaminare in questa sede in tutti i suoi risvolti applicativi (oggetto di indagine degli interpreti sotto diverse angolature: Bocchetti, 35; Castellazzi, 21; Piombo, 378; Scalettaris, 381). Inquadramento del giudizio di opposizioneDunque, secondo il nuovo testo del comma 3 dell'art. 56 della l. n. 392/1978, l'opposizione, avverso il provvedimento del giudice della cognizione che fissa la data per il rilascio dell'immobile locato, va proposta al Tribunale, che giudica con le modalità di cui all'art. 618 c.p.c. (a seguito del richiamo operato, a sua volta, dall'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998). Il riesame, demandato a tale ufficio giudiziario (che opera in composizione collegiale) ha, pertanto, ad oggetto un “atto di esecuzione” consistente nel provvedimento di rilascio, “qualunque forma abbia”; d'altronde, che il provvedimento di fissazione della data sia un atto dell'esecuzione forzata per rilascio emerge dal successivo comma 4 dello stesso art. 56, atteso che, “trascorsa inutilmente la data fissata”, è possibile promuovere l'esecuzione ai sensi degli artt. 605 ss. c.p.c. Non si registra concordia di opinioni in ordine alla natura giuridica di tale giudizio di opposizione, che contempla un controllo/riesame di seconda istanza (individuazione, quest'ultima, rilevante per le ricadute pratiche di cui appresso). A parere di alcuni (Cuffaro 2004, 643), vi sarebbero molti elementi testuali che militano nel senso di escludere che possa configurarsi un'opposizione agli atti esecutivi, e segnatamente: a) l'espressa inapplicabilità del termine di proposizione di cinque giorni (oggi divenuto venti) previsto dall'art. 617 c.p.c., che è tipico dell'opposizione agli atti esecutivi; b) il rilievo che l'opposizione si propone ad un giudice diverso rispetto a quello che ha omesso il provvedimento (in particolare, il Tribunale in composizione collegiale, rispetto alla pronuncia resa dal Tribunale in composizione monocratica, nella persona del giudice dell'esecuzione, che caratterizza la competenza per l'opposizione agli atti esecutivi); c) l'opposizione de qua non è limitata unicamente ai vizi formali dell'atto (tratto distintivo dell'opposizione di cui all'art. 617 c.p.c.), essendo denunciabile qualsiasi motivo di doglianza. Nel vecchio regime, una pronuncia di merito (Pret. Molfetta 21 aprile 1986) aveva ritenuto che la richiesta tendente al differimento del rilascio di un immobile locato non riguardava alcun profilo di illegittimità concernente atti del procedimento esecutivo, poiché “denuncia semplicemente le difficoltà materiali per il conduttore eventualmente privo di altro alloggio ove ricoverare sé ed i propri familiari”. Secondo il parere di altri (Grasselli, Masoni, 743; Di Marzio 2011, 650, il quale richiama anche il provvedimento di differimento dell'esecuzione ex artt. 10 e 11 del d.l. n. 94/1982), l'opposizione in esame, dal punto di vista naturalistico ha ad oggetto il controllo di legittimità formale (e non sostanziale) di un atto di “indubbia valenza esecutiva”; invero, il provvedimento (di fissazione della data di rilascio) deve oramai essere motivato congruamente, oltre che non eccedere il limite massimo fissato dalla norma; il gravame, quindi, non riguarda l'an dell'azione esecutiva, bensì il quomodo, ossia il suo dipanarsi in modo conforme e rispettoso del dettato normativo; tradisce questa delineata natura anche il testuale richiamo procedurale alle “modalità (di giudizio) di cui all'art. 618 c.p.c.”, norma, quest'ultima, che disciplina propriamente l'iter del giudizio di opposizione agli atti esecutivi. Appare più rispondente alla realtà la ricostruzione di chi (Carrato, Scarpa, 782) ritiene che il procedimento debba essere ricondotto nell'alveo dell'opposizione agli atti esecutivi, “ancorché a connotazione anomala”, strutturata sulla falsariga del reclamo, sul quale statuire, però, con sentenza; si sottolineano, come altre “devianze” rispetto al paradigma tipico, per un verso, la proponibilità “in qualsiasi momento” (rispetto alla proponibilità soggetta ad un termine di decadenza) e, per altro verso, la deduzione per “qualsiasi motivo” da parte di un giudice diverso (rispetto a quello che ha pronunciato l'atto impugnato). In particolare, siamo in presenza di uno specifico, e pertanto esclusivo, mezzo di impugnazione che sottrae il provvedimento giudiziale (rectius, il capo del provvedimento di rilascio che fissa la data per l'esecuzione) alla tendenziale illimitata modificabilità da parte del giudice dell'esecuzione, e disegna un procedimento appositamente destinato al riscontro della correttezza della motivazione sulla sussistenza e sulla motivazione dei requisiti per la concessione e la concreta individuazione del medesimo termine; e tanto può aver luogo “per qualsiasi motivo”, ossia non soltanto per vizi formali, ma anche per qualunque incongruità del termine rispetto alla situazione effettiva. Non è mancato, però, chi (Rezzonico, Rezzonico, 359) ha opinato che – salvo che il legislatore non abbia voluto, riferendosi alle sole “modalità di cui all'art. 618 c.p.c.”, far riferimento ad una fattispecie diversa – si debba configurare la competenza funzionale del giudice dell'esecuzione a norma dell'art. 26, comma 1, c.p.c. a conoscere dell'opposizione agli atti esecutivi e, in particolare, il giudice del luogo in cui deve essere riconsegnato l'immobile; conseguentemente, non si dovrebbe applicare il c.d. rito locatizio delineato nell'art. 447-bis c.p.c., posto che quest'ultimo attiene alla controversie relative ai rapporti di locazione e non anche quelle relative all'esecuzione degli sfratti, e che l'opposizione debba essere proposta entro il termine decadenziale di cui all'art. 617 c.p.c.; rimane sempre la non agevole perimetrazione dell'oggetto di tale giudizio in cui può farsi valere “qualsiasi motivo” ma “limitatamente alla data fissata per l'esecuzione”, laddove, comunque, l'opposizione agli atti esecutivi riguarda sempre il quomodo dell'esecuzione (regolarità formale) e non l'an della stessa (diritto di procedere all'esecuzione), appannaggio, quest'ultimo, esclusivo dell'opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 c.p.c. Fase cautelare e di meritoDunque, l'art. 56, comma 3, della l. n. 392/1978 (versione 2004) contempla il coinvolgimento, in sede di opposizione, del Tribunale in composizione collegiale, che giudica, a seguito del rinvio all'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1978, con “le modalità di cui all'art. 618 c.p.c.” Come è stato prontamente sottolineato (Grasselli, Masoni, 750), la struttura del giudizio di opposizione agli atti esecutivi ha subìto un significativo mutamento a seguito della riforma delle esecuzioni attuata dalla l. n. 52/2006. In precedenza – per quel che qui interessa – si osserva che: a) tra la fase cautelare, volta alla sospensione dell'esecutività del titolo, e la fase di merito intercorreva una sorta di continuum processuale; b) il giudizio si svolgeva, per tutta la durata, sempre davanti al giudice dell'esecuzione, che era dotato di competenza funzionale ed inderogabile ex art. 27 c.p.c.; c) il giudizio di opposizione all'esecuzione era retto, per tutto il suo corso, dal rito ordinario di cognizione, atteso che, all'udienza, il giudice dava i provvedimenti che riteneva indispensabili e provvedeva a norma degli artt. 175 ss. c.p.c. all'istruzione della causa; d) la fase cautelare era vista come una sorta di incidente del giudizio ordinario, applicandosi la disposizione dell'art. 183 c.p.c., come stabilito dall'art. 185 disp. att. c.p.c. Dopo l'entrata in vigore della suddetta riforma (1° marzo 2006) – sempre con la dovuta sintesi – si rileva che: a) l'udienza cautelare davanti al giudice dell'esecuzione è retta dal rito camerale, così escludendo l'applicazione del rito ordinario di cognizione (art. 185 disp. att. c.p.c. novellato); b) il giudice dell'esecuzione fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti (per la decisione sulla sospensione) e il termine perentorio di notifica di ricorso e decreto; c) il procedimento si conclude con ordinanza, reclamabile al collegio ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c.; d) conclusa la fase interinale, in netta cesura con la fase cautelare, le parti interessate devono iniziare il giudizio di opposizione agli atti esecutivi entro il termine perentorio fissato dal giudice dell'esecuzione (art. 618, comma 2 c.p.c.). Di fondamentale importanza, sul punto, la ricostruzione di recente operata dall'organo della nomofilachia (Cass. III, n. 12814/2012, cit.). Si è premesso, innanzitutto, che l'opposizione in esame è quella prevista dall'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998 il quale, a sua volta, rinvia all'art. 618 c.p.c. al momento in cui il richiamo è stato operato (e, pertanto, prima della sua novella di cui all'art. 52 della l. n. 52/2006); la norma – dopo il comma 1 rimasto intatto dopo la novella, per il quale si fissava, con decreto, l'udienza di comparizione delle parti dinanzi al giudice, con termine perentorio per la notificazione di ricorso e decreto e, nei casi urgenti, con tutti i provvedimenti ritenuti opportuni – prevedeva una struttura monofasica, di adozione degli eventuali provvedimenti indilazionabili e di successiva immediata istruzione della causa, con sua decisione mediante sentenza non impugnabile. Si è, poi, ritenuto che il richiamo operato dall'art. 1-bis del d.l. n. 240/2004 debba essere qualificato come “fisso” e non già mobile: la successiva modifica della struttura del giudizio di opposizione agli atti esecutivi (dovuta appunto all'art. 15 della l. n. 52/2006) si rivela coerente con la nuova ricostruzione sistematica delle cause oppositive in senso stretto di cui agli artt. 615 a 619 c.p.c., tutte caratterizzate da una prima fase sommaria o cautelare, finalizzata all'eventuale immediata incisione sullo sviluppo del procedimento esecutivo, e dopo da un giudizio di merito meramente eventuale e rimesso all'iniziativa della parte interessata. Non avrebbe senso ricostruire – proseguono i giudici di Piazza Cavour – anche la specifica opposizione avverso un provvedimento di fissazione del termine ai sensi dell'art. 56 della l. n. 392/1978 che possa strutturarsi su due analoghe distinte fasi, visto che l'unico oggetto della controversia è la verifica della correttezza e della congruità dell'applicazione dei parametri per la concreta individuazione, da parte del giudice della cognizione che ha pronunciato il principale provvedimento di condanna al rilascio, del giorno concretamente fissato per l'esecuzione. Per l'incongruità della normativa novellata rispetto alla funzione ed alla natura dello speciale giudizio oppositivo, può concludersi nel senso che questo è regolato dal testo dell'art. 618 c.p.c. del momento in cui la norma di rinvio è stata emanata; ne consegue: a) che resta ferma la possibilità, per il giudice adìto, di fissare con decreto l'udienza di comparizione dinanzi a sé ed il termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto, nonché, nei casi urgenti, di dare i provvedimenti opportuni; b) che, all'udienza fissata, però, adottati i provvedimenti indilazionabili – e provvedutosi alla conferma/modifica/revoca di quelli concessi con decreto, secondo la regola generale del capoverso dell'art. 669-sexies c.p.c., se non dell'art. 625 c.p.c. – non viene fissato alcun ulteriore termine per l'introduzione del giudizio di merito, ma si procede direttamente all'istruzione della causa ed alla sua decisione con sentenza non impugnabile. Competenza dell'organo giudicanteNei giudizi di opposizione agli atti esecutivi, il giudice dell'esecuzione ha competenza “funzionale” per la fase cautelare e per quella di merito, in forza del combinato disposto degli artt. 618 e 27, comma 2, c.p.c., mentre, nei giudizi di opposizione, se il giudice ha competenza funzionale per la fase cautelare, non necessariamente la conserva per quella del merito; atteso che, a questi fini, la competenza è determinata in forza del criterio del valore ex art. 17, potrebbe ipotizzarsi che il giudizio di merito possa anche appartenere alla cognizione del Giudice di Pace (sotto la soglia attuale di € 5.000,00 di cui all'art. 7, comma 1, c.p.c.), cui il Tribunale abbia rimesso le parti previa assegnazione di un termine perentorio per la riassunzione della causa (art. 616 c.p.c.). In quest'ordine di concetti, si è lucidamente delineato (Grasselli, Masoni, 745) che, laddove l'opposizione al provvedimento determinativo della data di rilascio sia qualificabile alla stregua dell'opposizione dell'esecuzione, la regola di competenza fissata dall'art. 56, comma 3, della l. n. 392/1978, a tenore della quale l'opposizione si propone al Tribunale “in composizione collegiale”, potrebbe non essere rispettata, allorché si individui il magistrato onorario quale organo competente la trattazione/decisione dell'opposizione. Inoltre, la sussunzione del rimedio nell'una o nell'altra tipologia giuridica potrebbe rilevare anche agli effetti della reclamabilità al collegio, ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c., del provvedimento “cautelare” sospensivo dell'esecuzione o di natura “indilazionabile o urgente”: invero, accedendo alla tesi della reclamabilità soltanto dei provvedimenti cautelari espressamente indicati dalla legge, il provvedimento ex art. 618 c.p.c., non menzionato tra quelli reclamabili ai sensi dell'art. 624 c.p.c., non sarebbe suscettibile di riesame collegiale, mentre, inquadrando nell'alveo delle opposizioni dell'esecuzione, il provvedimento sospensivo sarebbe suscettivo di reclamo al collegio (art. 624, comma 1, c.p.c., che richiama le “opposizioni all'esecuzione a norma degli artt. 615 e 619” del codice di rito). Tempestività del ricorsoLa giurisprudenza di merito prevalente ha qualificato l'opposizione in discorso come opposizione agli atti esecutivi, che, quindi, resta assoggettata alla disciplina non solo dell'art. 618 c.p.c., ma anche dell'art. 617 c.p.c., a prescindere dal mancato richiamo di quest'ultima norma ad opera dell'art. 6 della l. n. 431/1998 (v., tra le pronunce di merito, Trib. Trani 30 maggio 2000; Trib. Bologna 19 aprile 2000; Trib. Bergamo 17 febbraio 2000; Trib. Catania 11 novembre 1999; Trib. Roma 21 ottobre 1999; del resto, alla stessa conclusione era pervenuta la giurisprudenza di legittimità riguardo all'analogo procedimento disciplinato negli artt. 10 e 11 del d.l. n. 9/1982, convertito con modificazioni nella l. n. 94/1982: Cass. III, n. 5516/1991 e Cass. III, n. 11341/1990). Con particolare riferimento al termine “iniziale” di proponibilità dell'opposizione, risulta di particolare interesse un'importante decisione del giudice capitolino (Trib. Roma 19 maggio 2005), il quale ha anzitutto osservato che – come si desume dal richiamo espresso al disposto dell'art. 618 c.p.c. e dalla sua natura – il decreto impugnato ben può essere considerato come un atto esecutivo, essendo destinato a dilazionare l'esecuzione per rilascio di un immobile. Una volta accolta tale configurazione – aggiunge il magistrato romano – l'opposizione deve ritenersi assoggettata al termine previsto dall'art. 617 c.p.c.: il fatto che la norma richiami il solo art. 618 c.p.c. e non anche l'art. 617 c.p.c., non significa che l'opposizione possa essere presentata senza limiti di tempo, poiché, da un lato, tale soluzione sarebbe fonte di grave incertezza nei rapporti giuridici, e, d'altro, contrasterebbe con il sistema delle impugnazioni, quale si delinea dalla lettura del codice di procedura civile e dalle leggi speciali, per cui, tutte le volte che è data alle parti la facoltà di impugnare un provvedimento, è stabilito un termine di decadenza entro il quale ciò deve avvenire. Si è, quindi, ritenuto che, nel silenzio del legislatore, il termine di decadenza entro il quale deve essere depositato il ricorso ex art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998 sia quello proprio dell'opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.), cui appunto la procedura in esame è stata assimilata, non potendosi fare riferimento ai diversi termini stabiliti per il reclamo ai provvedimenti cautelari, o per i procedimenti in camera di consiglio, o per l'impugnazione avverso i provvedimenti di contenuto decisorio, che sono disciplinati in maniera non compatibile con il procedimento di cui all'art. 618 c.p.c., espressamente richiamato dall'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998. Tale soluzione deve essere applicata anche nell'ipotesi di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978, pure se il comma 3 di tale articolo recita che, qualunque forma abbia il provvedimento di rilascio, il locatore e il conduttore possono, in qualsiasi momento e limitatamente alla data fissata per l'esecuzione, proporre al Tribunale in composizione collegiale l'opposizione; in particolare, l'espressione “in qualsiasi momento e limitatamente alla data fissata per l'esecuzione”, se collegata alle parole “possono proporre l'opposizione'', porterebbe a ritenere che non operi, nel caso di specie, il termine decadenziale di cui all'art. 617 c.p.c. Tale interpretazione – ad avviso del Tribunale – non è apparsa corretta, e ciò sia perché il nostro ordinamento non ammette, di regola, rimedi di natura impugnatoria svincolati dall'osservanza di un termine, sia perché, diversamente opinando, verrebbero a coesistere nel vigente sistema processuale due distinti procedimenti, regolati rispettivamente dall'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998 e dall'art. 56 della l. n. 392/1978, entrambi riconducibili nel novero delle opposizioni agli atti esecutivi (art. 618 c.p.c.), che sarebbero disciplinati, però, in maniera completamente difforme, ove si affermasse che il termine di decadenza di cui all'art. 617 c.p.c. è applicabile per la sola opposizione di cui all'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998 e non anche per quella di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978. Ad abundantiam, si è osservato che, se si accedesse alla suddetta interpretazione, si consentirebbe un uso distorto dell'opposizione in esame, che si presta ad essere impiegata in prossimità dell'accesso dell'ufficiale giudiziario al solo fine di far slittare l'esecuzione. Può convenirsi, quindi, che l'art. 56 della l. n. 392/1978, non ha voluto svincolare il giudizio di cui si tratta dalla soggezione al termine di decadenza fissato dall'art. 617 c.p.c., ma ha inteso semplicemente ribadire l'autonomia del provvedimento di fissazione del termine per l'esecuzione rispetto al provvedimento cui accede in considerazione della sua funzione meramente ordinatoria dell'iter esecutivo. Peraltro, che sia questo il significato precettivo da attribuire alla norma si ricava collegando la locuzione “in qualsiasi momento'” non alle parole “possono proporre l'opposizione”, ma all'inciso di apertura dell'art. 56, comma 3, della l. n. 392/1978 (“qualunque forma abbia il provvedimento di rilascio”); raccordando tali espressioni, la disposizione in esame va, conseguentemente, interpretata nel senso che l'opposizione di cui all'art. 56 della l. n. 392/1978 può essere proposta in qualsiasi momento, in quanto il provvedimento con il quale si fissa il termine per l'esecuzione non può acquistare efficacia di giudicato, e può essere impugnato con la procedura ivi prevista indipendentemente dalla sorte del provvedimento di rilascio, e ciò sia nell'ipotesi in cui il provvedimento di rilascio è passato in giudicato, sia nella contraria ipotesi in cui tale provvedimento è ancora assoggettato ad un successivo controllo giudiziario. In conclusione – secondo il magistrato capitolino – l'opposizione di cui all'art. 56 deve essere qualificata come opposizione agli atti esecutivi e va proposta a pena di decadenza nel termine (prima cinque, attualmente venti) stabilito dall'art. 617 c.p.c., decorrente dall'emissione del provvedimento o dalla sua conoscenza legale da parte dell'opponente; in altri termini, tale termine decorre dalla data di emissione del provvedimento di convalida dello sfratto se il conduttore è presente in udienza o dalla data di notificazione dell'atto di precetto per rilascio se il conduttore non è stato presente in udienza (v., più di recente, Trib. Roma 5 luglio 2017). Di parere contrario si è mostrata la maggior parte della dottrina (Porreca, 522; Carrato, Scarpa, 580; Grasselli, Masoni, 748), che ha escluso che tale termine vada osservato alla luce dell'espressa deroga alla disciplina del termine di proponibilità, specifica dell'istituto, contenuta nell'art. 56, comma 3, che letteralmente ammette l'opposizione “in qualsiasi momento”, e cioè senza limiti temporali (salvo quanto appresso in ordine al termine “finale” di proponibilità); peraltro, il richiamo, contenuto nell'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998, ha portata circoscritta alle “modalità di cui all'art. 618 c.p.c.”, sembrando così escludere il richiamo al disposto di cui all'art. 617 c.p.c., che fissa il caratteristico termine (cinque e poi venti) agli effetti dell'ammissibilità dell'opposizione. La tesi contraria alla soggezione della speciale opposizione al termine perentorio ordinariamente previsto dall'art. 617 c.p.c. ha trovato, di recente, l'avallo del massimo concesso decidente (Cass. III, n. 12814/2012 cit.). Al riguardo, si è evidenziato, da un lato, che è stato deliberatamente evitato il richiamo all'art. 617 c.p.c., unico a prevedere un termine perentorio di proposizione – di cinque giorni, al momento dell'emanazione della norma e, successivamente, di venti giorni, a far tempo dalla novella entrata in vigore il 1° marzo 2006 – e, dall'altro, che l'espressione “in qualsiasi momento”, riferita alla proponibilità dell'opposizione in esame, non può soffrire limitazioni se non desumibili da norme connesse o generali, quali si atteggiano, da una parte, l'art. 56, comma 4, della l. n. 392/1978, per il quale “trascorsa inutilmente la data fissata, il locatore promuove l'esecuzione ai sensi degli artt. 605 ss. c.p.c.”, nonché, dall'altra parte, la generale normativa sulla non modificabilità dei termini ordinatori una volta elassi ed una volta che la loro modifica non sia stata chiesta prima della loro scadenza. È allora impossibile – secondo l'autorevole parere – ricavare un termine perentorio diverso, per incompatibilità funzionale del procedimento in esame, da quello della già avvenuta scadenza del termine avverso cui ci si oppone. Peraltro, ad analoga conclusione, prima della riforma del citato art. 56, era già pervenuto il Supremo Collegio (Cass. III, n. 24526/2008 cit.), affermando che, in tema di rilascio per finita locazione di immobili urbani, la finalità del legislatore è quella di ridurre il ricorso alle procedure esecutive attuando l'equo contemperamento delle esigenze del locatore e del conduttore, mediante un sistema che, attraverso la fissazione di un giorno per l'esecuzione del rilascio, decorso il quale il locatore è abilitato a procedere in via esecutiva, prevede la sostanziale sospensione temporanea dell'accesso alla procedura esecutiva, con la conseguenza che ogni richiesta di modifiche di tale termine deve essere avanzata, sul piano logico, “prima che l'esecuzione possa essere intrapresa dall'avente diritto al rilascio”, ovvero non oltre il giorno fissato per l'esecuzione, poiché altrimenti, decorsa la data fissata dal giudice per il rilascio, il locatore deve considerarsi libero di iniziare la procedura esecutiva e la richiesta stessa non si proporrebbe più come fissazione di una nuova data, ma come sospensione dell'esecuzione, appunto già intrapresa. Ed è questa – ad avviso dei magistrati di Piazza Cavour – la sola interpretazione della normativa sulla speciale impugnazione in esame che risulta funzionale all'effettività alla tutela delle parti circa la correttezza e la congruità dell'esercizio del potere del giudice della cognizione di determinare il giorno dell'esecuzione. La diversa ricostruzione dei giudici del merito era, quindi, corretta laddove sottolineava che il provvedimento che fissava il termine era indipendente, quanto a regime di impugnazione, rispetto al provvedimento complessivo di condanna al rilascio cui accedeva, ma tale indipendenza, poi, non era congruamente ridotta e limitata, introducendo un termine, per di più perentorio, non previsto espressamente dalla legge ed ancorato all'emanazione o alla conoscenza del provvedimento. In tal modo, la già radicale innovazione rispetto al regime previgente – il quale, con la sostanzialmente libera ed illimitata revocabilità o modificabilità in sede esecutiva da parte del giudice dell'esecuzione, sia pur probabilmente eccedendo nel senso opposto, consentiva una sostanziale incertezza sull'eseguibilità nell'intervallo, sovente non breve, tra emanazione del provvedimento e scadenza del termine fissato – viene interpretata in senso immotivatamente restrittivo, siccome non sostenuto dal tenore letterale della norma e dalla sua interpretazione nel contesto indicato. Al contempo, una volta spirato il termine fissato senza che il debitore conduttore si sia avvalso della facoltà di opporvisi, è giocoforza ritenere che l'esecuzione inizi finalmente ai sensi degli artt. 605 ss. c.p.c.: pertanto, può concludersi nel senso che “la speciale opposizione avverso il provvedimento di fissazione del giorno dell'esecuzione della condanna del conduttore al rilascio non è soggetta al termine di proponibilità dell'opposizione agli atti esecutivi e può essere proposta, in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo, fino a quando il termine stesso non sia spirato”. In buona sostanza, gli ermellini hanno escluso l'individuazione del dies a quo nella data dell'emissione del provvedimento che, ai sensi dell'art. 56, contiene il termine, atteso che l'opposizione ivi contemplata può essere presentata letteralmente in ogni momento, in particolare, non operando il termine “iniziale” di venti giorni previsto per l'opposizione agli atti esecutivi. Ciò non toglie, secondo alcuni (Cuffaro 2004, 644), che non esista implicitamente un termine “finale” di proponibilità dell'opposizione in commento, rinvenuto, in via sistematica, prima del compimento del primo atto esecutivo, individuabile, in passato, nel primo accesso dell'ufficiale giudiziario; ad avviso di altri (Carrato, Scarpa, 580), l'opposizione è attuabile, invece, fino a quando l'esecuzione per rilascio non sia concretamente ultimata. Circa l'esistenza di tale termine intra quem, la giurisprudenza di merito si era espressa nel senso che l'opposizione al provvedimento di fissazione della data di rilascio doveva essere proposta, a pena di decadenza, “non oltre la data fissata dal giudice della cognizione per l'esecuzione per rilascio” (così Trib. Salerno 15 luglio 2005). Motivi di doglianza deducibiliStante il richiamo dell'art. 56, comma 3, della l. n. 392/1978 all'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998, con la proposizione del gravame può essere dedotto “qualunque motivo” di doglianza. Resta inteso che oggetto della cognizione collegiale – non è tanto il riscontro della corretta formazione del titolo esecutivo, quanto piuttosto – il controllo sul ponderato esercizio del potere demandato al giudice di fissare la data di rilascio dell'immobile locato (Trib. Modena 23 dicembre 2008). La dottrina ha sottolineato che il reclamo non può estendersi ai motivi dell'avvenuta convalida ed ai profili di illegittimità/erroneità della stessa, i quali devono farsi valere, se del caso, mediante appello (Masoni 2009, 173; Trisorio Liuzzi, 164, puntualizza che l'opposizione sia il “rimedio esclusivo” per la fissazione della data), Pertanto, considerando l'attuale obbligo di motivazione imposto al provvedimento determinativo della data di rilascio, l'àmbito conoscitivo del giudice del gravame sembra ragionevolmente circoscritto alle seguenti situazioni: a) quando sussista incoerenza/illogicità/incongruità tra la motivazione e la data di rilascio così fissata; b) nelle ipotesi provvedimenti abnorme, come ad esempio qualora si fissi una data di esecuzione esuberante il termine massimo di legge (Trib. Civitavecchia 21 gennaio 2005); c) in casi di carenza di motivazione o di motivazione meramente apparente. A questo punto, ci si può interrogare se, con l'opposizione di cui all'art. 56, comma 3, della l. n. 392/1978, si possano dedurre motivi di doglianza sopravvenuti, ossia emersi in un momento successivo rispetto al provvedimento di fissazione della data di rilascio reso dal giudice della cognizione (si pensi alla morosità dell'ex conduttore il quale, pendendo il termine di rilascio, ometta di versare l'indennità di occupazione di cui all'art. 1591 c.c., che potrebbe giustificare la richiesta del locatore di abbreviazione del termine). Alcuni autori (Di Marzio 2010, 656) sono dell'avviso per cui tale tipologia di reclamo dovrebbe essere limitata ad una verifica e ad un controllo della sussistenza di eventuali errori di valutazione commessi dal giudice a quo nell'applicazione di criteri indicati nell'art. 56 in commento, con l'esclusione, quindi, di fatti e circostanze nuove, e perciò secondo uno “spettro applicativo circoscritto”, anche se si riconosce che la proponibilità per “qualsiasi motivo” sembra legittimare, invece, la deduzione di circostanze sopravvenute. La giurisprudenza di merito, che si è occupata sùbito della questione, è apparsa oscillante (favorevole a quest'ultima deduzione, si mostra Trib. Parma 7 febbraio 2006); in senso contrario, si è osservato (Trib. Genova 5 febbraio 2006) che il procedimento di opposizione ex comma 3 dell'art. 56 della l. n. 392/1978 – novellato dall'art. 7-bis d.l. n. 240/2004 – si sostanzia in un mezzo di gravame, sia per il locatore sia per il conduttore, per ottenere, da parte del Tribunale, la verifica del buon uso del potere discrezionale esercitato dal giudice di prime cure con la determinazione del termine di rilascio e, quindi, “solo in un riesame della valutazione effettuata dal primo giudice, sulla base delle contrapposte esigenze delle parti e sulla base degli stessi elementi già esistenti, dedotti e provati, alla data della pronuncia oggetto dell'opposizione al Tribunale”, dovendosi, invece, escludere che, nell'àmbito del procedimento di opposizione di cui trattasi, si possa procedere alla revoca o alla rifissazione del termine di rilascio giudizialmente fissato in base al comma 1 dello stesso art. 56, secondo il disposto di cui all'art. 6, commi 3 e 4, della l. n. 431/1998 e/o alla declaratoria di decadenza del conduttore dal beneficio del termine di rilascio, già rifissato dal giudice dell'esecuzione, sulla base della disciplina contenuta in tali commi (art. 6, comma 6), e ciò per “fatti intervenuti successivamente alla pronuncia sul termine di rilascio” che è oggetto dell'opposizione al Tribunale ex art. 56, comma 3 (ad esempio, per morosità nel pagamento delle indennità di occupazione per il periodo successivo alla scadenza del contratto locatizio). Quest'ultimo indirizzo ha, però, ricevuto autorevole smentita dai giudici di Piazza Cavour (Cass. III, n. 12814/2012 cit.), ad avviso dei quali l'introduzione di uno specifico – e, pertanto, esclusivo – mezzo di impugnazione sottrae il provvedimento in parola (e cioè il capo del provvedimento di rilascio che fissa il termine o giorno per l'esecuzione) alla tendenziale illimitata modificabilità da parte del giudice dell'esecuzione e disegna un procedimento specificamente destinato al riscontro della correttezza della motivazione sulla sussistenza e sulla valutazione dei requisiti per la concessione e la concreta individuazione del termine stesso; e tanto può aver luogo “per qualsiasi motivo” (come risulta dal richiamo all'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998), e pertanto non soltanto per vizi formali, ma deve ritenersi, anche per qualunque oggettiva incongruità del termine rispetto alla situazione effettiva, “ivi compresa quella derivante da eventuali fatti sopravvenuti e non prevedibili al momento della fissazione originaria del termine”. Provvedimenti indilazionabiliRichiamando l'art. 618 c.p.c., per il tramite del rinvio all'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998, l'attuale comma 3 dell'art. 56 della l. n. 392/1978 consente al giudice (adìto in sede di opposizione) di emettere, inaudita altera parte, con decreto, “nei casi urgenti i provvedimenti opportuni”, oppure, con ordinanza, di “sospendere la procedura”. Alcuni (Cuffaro 2004, 664) si sono sùbito mostrati scettici su quest'ultima possibilità, evidenziando che non si tratterebbe tanto di rimettere in discussione l'esecuzione ed il titolo esecutivo, quanto piuttosto di riesaminare solo la data fissata per il rilascio dell'immobile locato e le ragioni che se sono sottese. Altri (Porreca, 523) hanno precisato che, con questi provvedimenti (lato sensu cautelari) non necessariamente viene sospesa l'esecuzione per rilascio – pure ipotizzabile come, ad esempio, nei casi in cui la data di tale rilascio sia stata fissata in termini abnormemente troppo vicini per consentire lo sgombero dei locali – atteso che gli stessi possono presentare un contenuto atipico e variegato, oltre anticipatorio rispetto alla futura pronuncia di merito (d'altronde, la norma si riferisce genericamente all'adozione di “provvedimenti opportuni”). Si osserva, altresì, che la decisione definitiva, con pronuncia di sentenza, ben potrebbe essere ritardata dallo svolgimento contenzioso del giudizio, il quale non necessariamente si conclude all'udienza di discussione di cui all'art. 420 c.p.c., potendo articolarsi in più udienze, con il pericolo che, in difetto di misure anticipatorie, la suddetta decisione risulti “frustranea laddove il termine di rilascio fissato dal giudice a quo sia oramai decorso” (così Trisorio Liuzzi, 165). In tal senso, si era espressa, nell'immediatezza dell'entrata in vigore della novella del 2004, una pronuncia di merito (Trib. Civitavecchia 21 gennaio 2005), secondo la quale il Tribunale, adìto con l'opposizione prevista dall'art. 7-bis della l. n. 269/2004, alla prima udienza, può pronunciare i provvedimenti indilazionabili previsti dall'art. 618, comma 2, c.p.c., rimettendo per il prosieguo innanzi al giudice istruttore per la trattazione del giudizio (nel caso di specie, il Tribunale ha autorizzato interinalmente l'immediata esecuzione della convalida dello sfratto per morosità). In quest'ottica, sembra porsi un obiter dictum del summenzionato rilevante arresto di legittimità (Cass. III, n. 12814/2012 cit.), in cui si ammette l'adozione di provvedimenti indilazionabili i quali, laddove pronunciati con decreto, dovranno essere oggetto di conferma/modifica/revoca successiva, secondo la regola generale dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., se non dell'art. 625 c.p.c. Peculiarità del rimedio oppositorioRiguardo alle modalità di introduzione del giudizio di merito, in difetto di un espresso richiamo, si è abbastanza concordi nel ritenere applicabile l'art. 618-bis c.p.c., sicché, per la fase di merito del giudizio oppositorio, va adottato il c.d. rito locatizio uniforme di cui all'art. 447-bis c.p.c. D'altronde, quella introdotta con l'opposizione de qua è una “controversia in materia di locazione” ai sensi del citato art. 447-bis c.p.c. e, in quanto tale, soggiace al rito speciale mutuato da quello del lavoro (Carrato, Scarpa, 783, secondo i quali la previsione dell'art. 618-bis, comma 1, c.p.c. deve intendersi implicitamente richiamata alla stregua del suo generale àmbito di applicabilità); del resto, il nostro ordinamento già conosce ipotesi in cui, in primo grado, si applica il giudizio collegiale con un rito speciale (si pensi alle sezioni specializzate agrarie). In quest'ordine di concetti – secondo l'impostazione maggioritaria – il ricorso introduttivo deve essere depositato presso la cancelleria del Tribunale competente; nel fissare la data dell'udienza di discussione (art. 420 c.p.c.), il giudice deve rispettare il termine di comparizione di trenta giorni intercorrente dalla notifica del ricorso, ma tale termine può essere ridotto alla metà ex art. 618-bis, comma 2, c.p.c. Nell'ottica di un'opposizione al provvedimento di fissazione della data di rilascio come mero mezzo di controllo di legittimità di un atto del processo esecutivo, si è ritenuto che l'eventuale istruzione della causa dovrebbe essere essenzialmente documentale, residuando assai scarso spazio all'espletamento della prova orale (Di Marzio 2011, 658). Vigono gli ordinari principi in materia di riparto dell'onere di allegazione e prova; in quest'ottica, si pone la pronuncia di un giudice emiliano (Trib. Modena 23 dicembre 2008), ad avviso del quale, in tema di procedimento di opposizione ex art. 56, comma 3, della l. n. 392/1978, è onere di allegazione in sede di ricorso, e probatorio in sede di istruttoria, da parte del ricorrente, l'individuazione degli specifici motivi per i quali non sarebbe stato correttamente esercitato il potere del giudice della convalida di individuare la data di rilascio dell'immobile locato (fattispecie nella quale il giudice ha rigettato il ricorso, avendo ritenuto non rilevanti generiche esigenze commerciali, quali, tra le altre, il rischio di sospensione dell'attività aziendale nel periodo di tempo necessario per il reperimento di una nuova sede e per il trasloco). Come recita il comma 3 dell'art. 56 della l. n. 392/1978, l'opposizione si propone davanti al Tribunale “in composizione collegiale”: al riguardo, si è ritenuto (Grasselli, Masoni, 753) che, in tale composizione, il Tribunale debba solo “giudicare”, laddove le attività diverse dal giudizio, quali la trattazione e l'eventuale istruzione, potrebbero essere condotte dal giudice monocratico, restando ferma la competenza del collegio sul reclamo avverso provvedimento interinale di cui all'art. 618 c.p.c. Il giudizio, infine, si conclude con “sentenza” – di cui va letta in udienza il dispositivo e la motivazione ai sensi dell'art. 429 c.p.c. – che, in quanto resa all'esito del giudizio di opposizione agli atti esecutivi, è definita “non impugnabile” ex art. 618, comma 2, c.p.c., salvo il ricorso c.d. straordinario per cassazione di cui all'art. 111, comma 7, Cost., contemplato “contro le sentenze”, ma facendo valere solo violazioni di legge (circa il regime dell'impugnabilità della sentenza conclusiva del giudizio di opposizione, la situazione si è, dunque, semplificata e uniformata a seguito della legge di riforma n. 52/2006, che ha definito tutte le sentenze rese all'esito dei giudizi di opposizione, sia all'esecuzione che agli atti esecutivi, “inimpugnabili”, laddove, in precedenza, solo le prime era soggette al rimedio dell'appello). Una volta esperiti i suddetti mezzi di impugnazione, la sentenza, quanto alla determinazione della data del rilascio, è suscettibile di “passaggio in cosa giudicata” (così Porreca, 523), nel senso che diventerà incontestabile, e non più modificabile o revocabile, la relativa statuizione, conseguendone che nessun potere residuerà in capo al giudice dell'esecuzione, il quale anzi resterà vincolato alle determinazioni del giudice che avrà definito l'opposizione. Atteso che il procedimento sopra delineato ha ad oggetto la legittimità o/e la congruità del provvedimento di fissazione del termine, e stante che la sentenza che lo definisce può essere a sua volta impugnata, logico corollario è che lo stesso può dar luogo ad un giudicato, quantomeno formale, su ogni relativa questione, così superando definitivamente quell'impostazione secondo cui la fissazione del termine dell'esecuzione si collocava al di fuori del decisum, ed aveva natura (non decisoria ma) meramente ordinatoria del processo esecutivo, sicché il relativo provvedimento non passava in giudicato e poteva essere impugnato indipendentemente dal titolo del rilascio davanti al giudice dell'esecuzione, che aveva il potere di revocarlo o modificarlo, anche d'ufficio (v., tra le altre, Cass. III, n. 4074/1996; Cass. III, n. 8687/1995). 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