Legge - 9/12/1998 - n. 431 art. 3 - Disdetta del contratto da parte del locatore.Disdetta del contratto da parte del locatore. 1. Alla prima scadenza dei contratti stipulati ai sensi del comma 1 dell'articolo 2 e alla prima scadenza dei contratti stipulati ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, il locatore può avvalersi della facoltà di diniego del rinnovo del contratto, dandone comunicazione al conduttore con preavviso di almeno sei mesi, per i seguenti motivi: a) quando il locatore intenda destinare l'immobile ad uso abitativo, commerciale, artigianale o professionale proprio, del coniuge, dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado; b) quando il locatore, persona giuridica, società o ente pubblico o comunque con finalità pubbliche, sociali, mutualistiche, cooperative, assistenziali, culturali o di culto intenda destinare l'immobile all'esercizio delle attività dirette a perseguire le predette finalità ed offra al conduttore altro immobile idoneo e di cui il locatore abbia la piena disponibilità; c) quando il conduttore abbia la piena disponibilità di un alloggio libero ed idoneo nello stesso comune; d) quando l'immobile sia compreso in un edificio gravemente danneggiato che debba essere ricostruito o del quale debba essere assicurata la stabilità e la permanenza del conduttore sia di ostacolo al compimento di indispensabili lavori; e) quando l'immobile si trovi in uno stabile del quale è prevista l'integrale ristrutturazione, ovvero si intenda operare la demolizione o la radicale trasformazione per realizzare nuove costruzioni, ovvero, trattandosi di immobile sito all'ultimo piano, il proprietario intenda eseguire sopraelevazioni a norma di legge e per eseguirle sia indispensabile per ragioni tecniche lo sgombero dell'immobile stesso; f) quando, senza che si sia verificata alcuna legittima successione nel contratto, il conduttore non occupi continuativamente l'immobile senza giustificato motivo; g) quando il locatore intenda vendere l'immobile a terzi e non abbia la proprietà di altri immobili ad uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione. In tal caso al conduttore è riconosciuto il diritto di prelazione, da esercitare con le modalità di cui agli articoli 38 e 39 della legge 27 luglio 1978, n. 392. 2. Nei casi di disdetta del contratto da parte del locatore per i motivi di cui al comma 1, lettere d) ed e), il possesso, per l'esecuzione dei lavori ivi indicati, della concessione o dell'autorizzazione edilizia è condizione di procedibilità dell'azione di rilascio. I termini di validità della concessione o dell'autorizzazione decorrono dall'effettiva disponibilità a seguito del rilascio dell'immobile. Il conduttore ha diritto di prelazione, da esercitare con le modalità di cui all'articolo 40 della legge 27 luglio 1978, n. 392, se il proprietario, terminati i lavori, concede nuovamente in locazione l'immobile. Nella comunicazione del locatore deve essere specificato, a pena di nullità, il motivo, fra quelli tassativamente indicati al comma 1, sul quale la disdetta è fondata. 3. Qualora il locatore abbia riacquistato la disponibilità dell'alloggio a seguito di illegittimo esercizio della facoltà di disdetta ai sensi del presente articolo, il locatore stesso è tenuto a corrispondere un risarcimento al conduttore da determinare in misura non inferiore a trentasei mensilità dell'ultimo canone di locazione percepito. 4. Per la procedura di diniego di rinnovo si applica l'articolo 30 della legge 27 luglio 1978, n. 392, e successive modificazioni. 5. Nel caso in cui il locatore abbia riacquistato, anche con procedura giudiziaria, la disponibilità dell'alloggio e non lo adibisca, nel termine di dodici mesi dalla data in cui ha riacquistato la disponibilità, agli usi per i quali ha esercitato facoltà di disdetta ai sensi del presente articolo, il conduttore ha diritto al ripristino del rapporto di locazione alle medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al risarcimento di cui al comma 3. 6. Il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto, dando comunicazione al locatore con preavviso di sei mesi. InquadramentoL'articolo in commento si integra col precedente e completa la disciplina della durata e del rinnovo dei contratti di locazione abitativi “ordinari”: quelli a canone libero e quelli a canone concertato. La norma non si applica, dunque, alle ipotesi di cui all'articolo 1, comma 2 (ai contratti relativi agli immobili vincolati ai sensi della l. n. 1089/1939, o inclusi nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e agli alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche) e comma 3 (che sottrae alla detta disciplina i contratti di locazione stipulati dagli enti locali in qualità di conduttori per soddisfare esigenze abitative di carattere transitorio). La restrizione della facoltà del locatore di dare disdetta per la prima scadenza si spiega con l'intendimento del legislatore di assicurare al conduttore una maggiore stabilità del rapporto: come è stato osservato, l'imposizione di una durata minima del contratto e di una tendenziale sua protrazione dopo la prima scadenza rappresenta l'ultimo residuo dell'intervento dello Stato nell'autonomia privata in materia di locazioni abitative (Verardi, 231). In tal senso, per i contratti a canone libero, l'abolizione del sistema dell'equo canone è compensata, per così dire, da una tendenziale maggior durata del contratto: ma la tutela della stabilità dell'esigenza abitativa è perseguita pure con riguardo ai contratti di cui all'art. 2, comma 3, le cui condizioni sono determinate sulla base di quanto stabilito negli accordi conclusi in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative: anche in questo caso il contratto (di durata minima triennale) non può cessare alla prima scadenza in forza di semplice disdetta del locatore, ma solo in ragione del diniego di rinnovo con cui il detto soggetto preannunci l'intendimento di destinare l'immobile agli usi o alla realizzazione delle opere specificamente individuati dal comma 1 dell'art. 3, ovvero alla vendita, in base alla previsione dello stesso comma. La disdetta per la prima scadenzaL'art. 3 non precisa la forma che debba avere la disdetta alla prima scadenza, limitandosi a stabilire che il locatore, in vista di quest'ultima, abbia facoltà di denegare il rinnovo del contratto, dandone comunicazione al conduttore con preavviso di almeno sei mesi. Non sembra dubbio, tuttavia, che valga, anche per il diniego motivato di rinnovo, la prescrizione, contenuta nell'art. 2, ma espressamente dettata per la seconda scadenza, secondo cui la comunicazione di cui al comma 1 va fatta con lettera raccomandata: prescrizione che, però (subart. 2 l. n. 431/1998), non implica la necessità del conferimento di una procura scritta nel caso in cui la disdetta sia inviata da un rappresentante (Cass. III, n. 11808/2016); è, quest'ultimo, un principio che, del resto, la giurisprudenza di legittimità mantiene fermo anche nel caso di diniego di rinnovo nella locazione non abitativa, si allorché afferma che la disdetta per la prima scadenza deve necessariamente pervenire al conduttore nella forma della lettera raccomandata, ma non anche obbligatoriamente provenire dal locatore, che può legittimamente incaricare, all'uopo, un diverso soggetto (in qualità di mandatario) in forma anche soltanto verbale, poiché l'onere dell'avviso al conduttore per il tramite della raccomandata è sancito (attesa la natura recettizia dell'atto) unicamente al fine di garantire a quest'ultimo una tempestiva conoscenza dell'intenzione della controparte (Cass. III, n. 5892/1997; Cass. III, n. n. 5684/2005). In dottrina si è sottolineato come la necessità della forma scritta per la dichiarazione di diniego di rinnovo si possa ricavare da due dati: anzitutto dal fatto che la locazione, in base all'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, è un contratto solenne, sicché ad esso va applicato il principio per cui nei contrati formali le cause modificative ed estintive del negozio vanno espresse nella stessa forma richiesta per il contratto cui si riferiscono; in secondo luogo, dalla considerazione per cui la struttura e la funzione dell'atto di disdetta non variano a seconda che esso si riferisca alla prima scadenza o alle scadenze ulteriori, onde il regime formale dettato dalla legge per la disdetta intimata per le scadenze successive alla prima vale anche per la disdetta motivata di cui all'art. 3 (Cosentino, 58). È stato sottolineato che, del resto, la necessaria specificazione dei motivi di disdetta, prevista dal comma 2 dell'articolo in commento enfatizza le esigenze di solennità di forma proprio per la disdetta alla prima scadenza (Cosentino, 58). Tale specificazione è espressamente prevista a pena di nullità, con la stessa formula adottata, per le locazioni non abitative, dall'art. 29, comma 3, della l. n. 392/1978; si tratta di una indicazione che, come precisato dalla Corte regolatrice, vale a consentire, in caso di controversia, la verifica ex ante della serietà e della realizzabilità dell'intenzione dedotta in giudizio e, comunque, il controllo, dopo l'avvenuto rilascio, circa l'effettiva destinazione dell'immobile all'uso indicato nell'ipotesi in cui il conduttore estromesso reclami l'applicazione delle sanzioni ivi previste a carico del locatore (C ass. III, n. 3938/2023; Cass. III, n. 936/2013): principio, questo, da tempo acquisito per il diniego di rinnovo di cui all'art. 29 citato (v., ad esempio: Cass. III, n. 15547/2002; Cass. III, n. 6046/2004). In concreto, dunque, nella comunicazione del locatore del diniego di rinnovo del contratto, ai sensi dell'art. 3 della l. n. 431 del 1998, deve essere specificato, a pena di nullità, il motivo, tra quelli tassativamente indicati dalla stessa norma, sul quale la disdetta è fondata (Cass. III, n. 3938/2023; Cass. III, n. 936/2013). È solo da aggiungere, per precisione, che talune delle ipotesi di diniego di rinnovo – segnatamente quelle di cui alle lett. c) e f) dell'art. 3 – non consistono, propriamente, nell'espressione di un proposito, onde ad esse non è riferibile la necessità di uno scrutinio preventivo della serietà di questo. Proprio la generale corrispondenza che è possibile stabilire tra il diniego di rinnovo in materia di locazione abitativa e diniego di rinnovo in materia di locazione non abitativa permette poi di ritenere che al primo siano comunemente applicabili i principi espressi dalla giurisprudenza con riguardo al secondo: e ciò avendo riguardo, ad esempio, all'esigenza dell'analiticità della descrizione del motivo (v., ad esempio, Cass. III, n. 8669/2017) e all'inammissibilità della rappresentazione di intenzioni tra loro alternative (v., ad esempio, Cass. III, n. 9373/1995). A quest'ultimo proposito, mette conto di ricordare la contraria posizione assunta da una parte della dottrina, che è fondata sulla considerazione per cui l'enunciazione di propositi plurimi, alternativi o subordinati, non preclude la possibilità di un successivo controllo giudiziale ed è quindi da ritenersi consentita (Cosentino, Vitucci, 424; Masoni, 186). Si è, inoltre, ritenuto che la domanda di rilascio ex art. 3 in commento debba dichiararsi improcedibile allorché l'intimante non abbia fatto precedere la notifica dell'intimazione alla comunicazione motivata della disdetta, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 30 della l. n. 392/1978, richiamato dall'art. 3 della l. n. 431/1998 cit. (Trib. Monza 7 maggio 2003). Alla disdetta priva della specificazione dei motivi di diniego, intimata per la prima scadenza ma inidonea ad impedire la rinnovazione contrattuale a tale data, è inoltre applicabile il principio, ricordato sub art. 2 l. n. 431/1998, per cui essa è normalmente valida per quella immediatamente successiva. La disdetta intimata per la prima scadenza, oltre che formalmente motivata, deve riflettere, nelle ipotesi di cui alle lett. a), b), d), e), g), una intenzione seria, realizzabile tecnicamente e giuridicamente: intenzione che, come in precedenza accennato, il giudice dovrà accertare in caso di controversia, (senza che tuttavia il locatore debba dimostrare la concreta ed effettiva realizzazione di tale intento: Cass. III, n. 977/2010); ha peraltro precisato il Supremo Collegio (Cass. III, n. 12127/2010) che il meccanismo sanzionatorio predisposto dall'art. 3 in commento con riferimento al diniego di rinnovo alla prima scadenza è da considerarsi tale, sia per la sua automaticità sia per la sua gravità (avuto riguardo alle conseguenze pregiudizievoli che subisce il locatore in caso di inadempimento, come previste dal comma terzo dello stesso art. 3 della citata legge), da lasciar presumere che il locatore, il quale deduca una delle intenzioni ritenute dalla suddetta legge – come contemplate nel primo comma del medesimo art. 3 – meritevoli di considerazione, non invochi maliziosamente e superficialmente la particolare intenzione addotta a sostegno del formulato diniego, a meno che non emergano concreti elementi che inducano il giudice a ritenere l'intenzione dedotta irrealizzabile. L'intenzione – è stato precisato – deve comunque sussistere già al momento della comunicazione, e quindi sei mesi prima della scadenza contrattuale (Cosentino, 57). In giurisprudenza si è ritenuto che la validità del diniego del rinnovo del contratto ai sensi dell'art. 3 l. n. 431/1998 debba essere apprezzata al più tardi alla data di scadenza del termine per la comunicazione della disdetta da parte del locatore: infatti, dalla disdetta o dalla mancata disdetta alla prima scadenza dipende l'effetto impeditivo della prosecuzione del rapporto ovvero la rinnovazione del contratto, il cui presupposto è in ogni caso legato ad una situazione definitivamente cristallizzatasi alla data di scadenza del termine per la comunicazione della disdetta da parte del locatore ( App. Torino 14 giugno 2022 ). La destinazione dell'immobile all'uso del locatore e dei suoi familiariL'articolo in commento individua sette diverse ipotesi che legittimano il locatore al diniego di rinnovo: cinque di esse – quelle di cui alle lett. a), b), d), e), g) – riflettono una vera e propria intenzione del locatore stesso (sulla falsariga della previsione dell'art. 29 della l. n. 392/1978), mentre le altre hanno ad oggetto una situazione del conduttore che è correlata alla necessità abitativa di quest'ultimo. Come è stato opportunamente evidenziato, il motivo di cui alla lett. d) risulta formulato in termini di necessità, ma è in realtà da annoverare tra i casi in cui rileva l'intenzione del locatario (Cosentino, 63). La fattispecie di cui alla lett. a) va accostata a quelle prese in considerazione dall'art. 29, lett. a) e lett. b) della l. n. 392/1978. Può tuttavia osservarsi che la lett. a) dell'art. 3 ricomprende, tra i soggetti in favore di quali è espressa l'intenzione di destinare l'immobile all'uso abitativo o non abitativo, oltre al coniuge – anche quello separato, ma non quello divorziato (per tutti, Masoni, 189) – e ai parenti entro il secondo grado in linea retta (di cui al citato art. 29), anche i collaterali, sempre in primo e secondo grado. L'art. 3, lett. a), non fa menzione del convivente more uxorio: si è osservato, nondimeno, che l'esigenza abitativa primaria, riconosciuta al detto soggetto nel quadro della successione nel rapporto in forza di una decisione della Consulta (Corte Cost., n. 404/1988), andrebbe riconosciuta anche ai diversi fini del diniego di rinnovo che qui interessa (V. Nasini, P. Nasini, 44). Si è poi discusso se l'intenzione di cui alla lett. a) possa essere espressa da una persona giuridica. In senso affermativo, è stato osservato come la lett. a) dell'art. 3 faccia generico riferimento al “locatore”, mentre il legislatore, quando ha inteso riferirsi a una particolare categoria di locatori, lo ha fatto espressamente, come nell'art. 3, lett. b), ove è indicato il locatore “persona giuridica” (Magni, 554). Contraria, invece, è la posizione della giurisprudenza, secondo cui la facoltà di diniego di rinnovo alla prima scadenza del contratto di locazione ad uso abitativo da parte di una società commerciale a scopo di lucro non rientra tra le previsioni di cui all'art. 3 della l. n. 431/1998, riferendosi la lett. a) del comma 1 della norma indicata al locatore quale persona fisica, e la successiva lett. b) al locatore persona giuridica che eserciti la sua attività per il soddisfacimento di finalità pubbliche e che intenda destinare l'immobile all'esercizio di attività dirette al perseguimento di tali finalità (alla condizione ulteriore che provveda all'offerta, in favore del conduttore, di altro immobile idoneo), così palesandosi la ratio protettiva della norma a vantaggio del conduttore, le cui esigenze abitative possono soccombere solo di fronte alla prevalente necessità del locatore persona fisica o, nell'ipotesi di locatore persona giuridica, solo a scopi di pubblico interesse (Cass. III, n. 4050/2009). In senso critico rispetto a tale decisione, si è tuttavia proprio rimarcato il richiamato dato letterale consistente nella menzione, nel corpo dell'art. 3, lett. a), del “locatore”, senza alcuna specificazione che legittimi un'interpretazione restrittiva della norma; si è inoltre osservato come la formulazione dell'art. 3, lett. a), della l. n. 431/1998 ricalchi la formulazione dell'art. 59, n. 1), della l. n. 392/1978 (che disciplinava il recesso dalle locazioni abitative soggette a proroga, in corso alla data di entrata in vigore della legge sull'equo canone): norma che era stata ritenuta estensibile al locatore persona giuridica ed ente collettivo, proprio in considerazione del dato testuale, oltre che della ratio che la sottendeva (Piombo, 1032; a favore della tesi non restrittiva, di recente, anche V. Nasini, P. Nasini, 42). L'opzione restrittiva ha portato ad escludere che la persona fisica acquirente dell'immobile già locato ad uso abitativo dalla persona giuridica potesse validamente denegare al conduttore il rinnovo del contratto alla prima scadenza adducendo il motivo di cui alla lett. a) dell'art. 3 della l. n. 431/1998: e ciò in quanto tale facoltà, non sarebbe configurabile in capo all'originario locatore, onde non potrebbe essere nemmeno trasferita a terzi (App. Roma 31 ottobre 2007). Occorre infine chiarire la precisa estensione degli utilizzi che la norma assume come legittimanti il diniego di rinnovo. Sul versante della destinazione all'uso abitativo, è stato precisato che rileverebbe unicamente l'intenzione di sovvenire a un'esigenza alloggiativa primaria: muovendosi dal bilanciamento di interessi realizzato dalla legge, si è condivisibilmente ritenuto che la compressione dell'interesse del conduttore possa trovare giustificazione solo in presenza di esigenze fondamentali del locatore, connesse all'uso o alla conservazione o alla alienazione del bene: sicché – è stato osservato – tra tali esigenze fondamentali non potrebbe comprendersi quella di destinare l'immobile a casa di villeggiatura, o pied-a-terre (Cosentino, 66). Sul diverso versante dell'uso non abitativo, ci si è invece domandati se possa attribuirsi rilievo alla mancata menzione, nel testo della norma, alla destinazione dell'immobile all'uso industriale:a un uso, cioè, diverso dagli impieghi commerciale, artigianale e professionale che sono oggetto di puntuale enunciazione da parte della lett. a) dell'art. 3. Secondo una tesi, andrebbe considerata, oltre alla previsione della norma, che ha carattere tassativo, la profonda differenza ontologica esistente tra le attività commerciali e quelle industriali e, correlativamente, la difficile compatibilità delle seconde con standard urbanistici normalmente non posseduti dalle unità immobiliari destinate ad abitazione (Masoni, 190). Pare tuttavia preferibile è l'opzione interpretativa di segno estensivo, la quale, oltretutto, risparmia alla disposizione in esame un sospetto di incostituzionalità legato alla violazione del principio della parità di trattamento delle attività di carattere economico (Verardi, 237). Tale profilo è stato del resto valorizzato in passato dalla Corte regolatrice, allorché si occupò dell'interpretazione del già citato art. 59, n. 1), della l. n. 392/1978; nell'occasione venne precisato che nella nozione di uso commerciale, preveduto da tale norma, dovesse intendersi compresa oltre l'attività propriamente di commercio, cioè intermediaria nella circolazione dei beni, anche l'attività industriale diretta alla produzione dei beni stessi o dei servizi e ogni altra attività ausiliaria: soluzione ritenuta rispondente ad una “interpretazione della norma univocamente adeguatrice ad un principio costituzionale di parità di trattamento delle attività di carattere economico” (Cass. III, n. 3553/1990). Allo stesso modo, non pare possa escludersi che il locatore titolare di impresa agricola possa porre a fondamento del diniego di rinnovo la propria intenzione di adibire l'immobile locato all'esercizio di attività commerciale o industriale connessa a quella tipicamente agraria ai sensi dell'art. 2135 c.c.. La destinazione dell'immobile a finalità di entiLa lett. b) dell'art. 3, nel riconoscere il diniego di rinnovo al locatore, persona giuridica, società o ente pubblico o comunque con finalità pubbliche, sociali, mutualistiche, cooperative, assistenziali, culturali o di culto che intenda destinare l'immobile all'esercizio delle attività dirette a perseguire le predette finalità, presenta, avendo riguardo alla qualifica soggettiva del locatore, un ambito applicativo più ampio rispetto all'art. 29, lett. b), della l. n. 392/1978: norma che accorda analogo diritto unicamente alle pubbliche amministrazioni e agli enti pubblici e di diritto pubblico. La disposizione in commento, sul punto, menziona espressamente le società, di contro escluse, come si è visto, dalla lett. a) dello stesso articolo: va ricordato, tuttavia, che la Cassazione ha negato che la norma accordi tutela al perseguimento, da parte del locatore persona giuridica, di esigenze diverse da quelle di pubblico interesse (v. supra). L'art. 3, lett. b), non nomina, invece, gli enti di fatto, segnatamente le associazioni non riconosciute, ma è opinione comune della dottrina che tali enti siano inclusi nella fattispecie normativa che qui interessa (Cosentino, 68; Verardi, 238; Lazzaro, Di Marzio, 613). Ll diniego di rinnovo deve essere motivato dalla volontà di destinare l'immobile all'esercizio di attività dirette a perseguire le finalità (pubbliche, sociali, e via dicendo) indicate dalla norma e si è ritenuto che tale volontà debba conformarsi alle prescrizioni dell'atto costitutivo e dello statuto dell'ente (Verardi, 238; Lazzaro, Di Marzio, 613; Mazzeo, 73; per una soluzione diversa, invece, Cosentino, 68 s.). In altri termini, il locatore non potrebbe denegare il rinnovo alla prima scadenza se la destinazione cui intenda adibire l'immobile non sia congruente con le attività indicate negli atti sopra richiamati. Il potere di provocare la cessazione del rapporto è condizionato all'offerta, da parte dell'ente locatore, di altro immobile idoneo, di cui abbia la disponibilità: il che è quanto dire che le attività degli enti menzionati dalla norma prevalgono sul diritto del conduttore al rinnovo del contratto quando la cessazione del contratto non comporti per il conduttore stesso la perdita della abitazione, ma solo il trasferimento del medesimo in altro alloggio (Bucci, 59). L'offerta deve, quindi, contenere precisa indicazione dell'immobile e va formulata nel termine prescritto per l'intimazione della disdetta, anche se non è necessario che i due atti siano contenuti nel medesimo scritto (Cosentino, 70). La stessa deve essere, quanto al canone, economicamente sostenibile per il conduttore, anche se la norma in commento non riproduce la previsione, contenuta nell'art. 59, n. 2), della l. n. 392/1978, secondo cui il canone del nuovo alloggio non poteva essere superiore del 20% al corrispettivo dovuto per la vecchia locazione. Altra disposizione non replicata nell'art. 3, lett. b), è quella, sempre contenuta nel citato art. 59, n. 2), che onerava il locatore delle spese di trasloco: spese che però una parte della dottrina ha ritenuto non poter essere riversate sul conduttore in forza del principio di buona fede e di solidarietà contrattuale (Verardi, 239). La norma, come si è detto, esige che l'immobile oggetto dell'offerta sia idoneo. Per chiarire il significato di tale previsione può farsi utilmente riferimento alla giurisprudenza formatasi, in passato, sull'art. 59, n. 2), della l. n. 392/1978, ma anche sull'analoga prescrizione contenuta nell'art. 4, n. 2), della l. n. 253/1950. Sul punto, la Corte di legittimità ha avuto modo di chiarire che l'idoneità dell'alloggio offerto va apprezzata in funzione dell'esigenza di consentire al conduttore una adeguata sistemazione in relazione alle normali esigenze dei componenti del suo nucleo familiare, risultando non rilevanti la stretta corrispondenza della superficie dell'alloggio goduto e di quello offerto, e dei relativi agi (Cass. III, n. 3153/1991; Cass. III, n. 4153/1989; Cass. III, n. 4731/1986, la quale precisa che, riscontrata l'idoneità in base a una prudente valutazione del dato abitativo da soddisfare, non valgono ad inficiare la sufficienza dell'offerta le ragioni di opposizione fondate sul venir meno di agi già goduti ovvero sul paventato pregiudizio che possa derivare alla salute per essere l'appartamento offerto sito su un piano meno elevato e scarsamente illuminato). L'idoneità è condizione che, secondo la prevalente dottrina, deve persistere non solo al momento della cessazione del contratto, ma altresì, in caso di controversia, a quello della decisione (Verardi, 240; Lazzaro, Di Marzio, 614; Mazzeo, 75). La giurisprudenza, con riferimento al pregresso regime vincolistico, ha peraltro ritenuto che tale principio non legittima il rigetto della domanda quando, in base alle opere di adattamento, da compiere a cura del locatore, resti accertata l'idoneità dell'alloggio: in tale ipotesi, è stato spiegato, il giudice può, con sentenza condizionale, subordinare l'efficacia della sua pronuncia a determinate modificazioni dello immobile offerto, tali da renderlo idoneo alle esigenze del conduttore, con la conseguenza che la predetta idoneità andrà poi riguardata con riferimento al momento nel quale l'immobile dovrà essere occupato dal conduttore (Cass. III, n. 4013/1980). L'immobile offerto deve essere, in base alla previsione normativa, nella piena disponibilità del locatore: ciò significa che quest'ultimo deve avere un titolo giuridico che gli consenta di assicurare il godimento dell'alloggio al conduttore: tale piena disponibilità potrà ricorrere non solo nel caso in cui il locatore sia proprietario del bene, ma anche ove egli sia titolare di un diritto reale o di un diritto personale di godimento sullo stesso (per quest'ultima ipotesi, v. Cass. III, n. 5651/1983, secondo cui l'offerta di immobile condotto in locazione presuppone indefettibilmente l'adesione del locatore di quest'altro alloggio, con la conseguenza che la relativa domanda resta paralizzata per il solo fatto della mancata prestazione di detto consenso, che costituisce imprescindibile condizione dell'azione di recesso). Il cambio di alloggio non muta l'originario assetto del rapporto, quanto alla scadenza: è stato infatti dalla Suprema Corte affermato, con riferimento al cambio d'alloggio regolato dall'art. 4, n. 2), della l. n. 253/1950, che il nuovo rapporto, avente ad oggetto l'immobile offerto in cambio, si collega al pregresso, collocandosi nella stessa situazione giuridica di questo, del quale assume la medesima durata (Cass. III, n. 6143/1984). Gli interventi ediliziIl legislatore individua, alla lett. d) e alla lett. e) dell'articolo in commento, motivi di diniego di rinnovo che valorizzano l'intenzione del locatore di porre in atto alcune tipologie di interventi edilizi: la ricostruzione o l'assicurazione della stabilità dell'edificio, gravemente danneggiato, in cui sia ubicato l'immobile locato, ove la permanenza del conduttore sia di ostacolo al compimento di indispensabili lavori; l'integrale ristrutturazione, la demolizione o la radicale trasformazione per realizzare nuove costruzioni dello stabile in cui sia ricompreso il detto immobile, ovvero l'esecuzione di sopraelevazioni a norma di legge dell'immobile che si trovi all'ultimo piano, la cui esecuzione renda indispensabile, per ragioni tecniche, lo sgombero dell'immobile stesso. Le fattispecie di cui alle lettere in questione sono sostanzialmente coincidenti con quelle dell'art. 59, nn. 3) e 4), della l. n. 392/ 1978. Analogamente, l'art. 29, lett. c) e lett. d), della l. n. 392/1978 prevede che il diniego di rinnovo, alla prima scadenza, delle locazioni non abitative possa fondarsi sull'intendimento, da parte del locatore, di eseguire radicali interventi edilizi di demolizione o ristrutturazione: è da sottolineare, tuttavia, che tale articolo si riferisce all'immobile locato e non all'intero edificio di cui quello fa parte (così, con riferimento alla fattispecie di cui alla lett. c): Cass. III, n. 296/1991; Cass. III, n. 5058/1987); è invece incontestabile che la lett. d) dell'art. 3 della l. n. 431/1998 configuri ipotesi di messa in sicurezza, integrale ristrutturazione, demolizione e radicale trasformazione dello stabile in cui sia ubicata l'unità immobiliare locata. Mentre la lett. d) condiziona senz'altro il diniego di rinnovo alla necessità che il conduttore abbandoni l'immobile, la lett. e) parrebbe considerare la necessità dello sgombero dell'alloggio nella sola ipotesi di sopraelevazione. La mancanza di un'espressa previsione in tal senso si è spiegata con la natura dei detti interventi, rispetto ai quali lo sgombero deve ritenersi conseguenza necessaria (Cosentino, 75; Mazzeo, 79). Sul punto, può tuttavia soccorrere lo stesso criterio seguito dalla giurisprudenza con riferimento alle locazioni non abitative (per cui: Cass. III, n. 3266/1995; Cass. III, n. 684/1988). In tal senso, è ragionevole ritenere che, ove il requisito dello sgombero non sia menzionato (il che, nel quadro della disciplina introdotta dall'art. 3, lett. e), avviene per la demolizione, la radicale trasformazione e l'integrale ristrutturazione), l'impossibilità di permanenza del conduttore nel godimento del bene è presunta juris tantum, data l'ampiezza dell'intervento operativo; ove invece – come nel caso della sopraelevazione – sia espressamente richiesta la necessità dello sgombero, questa costituisce un elemento integrativo della fondatezza della domanda, che deve essere provato dal locatore (Carrato, 51; Di Marzio, Falabella, 2049). Riguardo al titolo amministrativo che consente l'intervento, l'art. 3, comma 2, prevede che “il possesso, per l'esecuzione dei lavori [...] della concessione o dell'autorizzazione edilizia è condizione di procedibilità dell'azione di rilascio”. Occorre anzitutto osservare che, a seguito della modificazione della disciplina dei titoli abilitativi alla realizzazione degli interventi edilizi, la previsione, quale condizione di procedibilità dell'azione del locatore, ai sensi della prima parte del comma 2 dell'art. 3 della l. n. 431/1998, del possesso della concessione o dell'autorizzazione edilizia, deve intendersi riferita a quegli specifici atti, tra cui la dichiarazione di inizio di attività o la segnalazione certificata di inizio di attività o il permesso a costruire, eventualmente richiesti dalla normativa vigente per la tipologia di intervento da realizzare e posto a base del diniego di rinnovo alla prima scadenza della locazione di immobile ad uso abitativo (Cass. III, n. 12250/2013). È possibile cogliere, poi, una chiara differenza tra la formulazione del comma 2 dell'art. 3 della l. n. 431/1998 – secondo cui il possesso della concessione o della autorizzazione “è condizione di procedibilità dell'azione di rilascio” – e la previsione, contenuta nell'art. 29, lett. c) e d), della l. n. 392/1978, secondo cui la licenza o concessione è “condizione per l'azione di rilascio”. Tale elemento di diversificazione fa ritenere che il provvedimento assentivo dell'intervento edilizio non possa intervenire nel corso del procedimento, come accade in materia di locazione non abitativa – in conformità del principio per cui le condizioni dell'azione devono sussistere al momento della decisione – ma dovrà preesistere alla proposizione della domanda, altrimenti inammissibile (Cosentino, 76; Verardi, 246; Mazzeo, 81): né il giudice è tenuto a sospendere il procedimento e ad assegnare un termine al locatore per l'ottenimento del titolo che non sia stato ancora rilasciato (Marinelli, Panico, Silvestrini, 95). In base al comma 2 dell'articolo in esame i termini di validità della concessione e dell'autorizzazione decorrono dall'effettivo rilascio dell'immobile. In tal modo è operato il superamento di problemi sorti con riferimento al diniego di rinnovo delle locazioni non abitative, per le quali era inizialmente previsto che la scadenza nel corso del processo del termine per l'inizio dei lavori, indicato nella licenza o concessione edilizia, impediva l'emanazione del provvedimento di rilascio: disposizione, quest'ultima, contenuta nell'art. 29, lett. c) e d), della l. n. 392/1978 e dichiarata incostituzionale da Corte Cost. n. 348/1998 (secondo cui essa sacrificava, al di là di quanto fosse indispensabile affinché operasse il meccanismo di garanzia della posizione del conduttore, il diritto del locatore di agire in giudizio per ottenere il rilascio, rimettendo l'esperibilità dell'azione ad un elemento del tutto casuale ed incerto – la perdurante efficacia della licenza o concessione, soggetta a decadenza in caso di omesso inizio dei lavori entro l'anno dal rilascio – dipendente soltanto dalla durata del processo e dal momento nel quale la pronuncia sarebbe stata emanata). Sempre il comma 2 dell'art. 3 precisa, poi, che il conduttore ha diritto di prelazione se il proprietario, terminati i lavori, concede nuovamente in locazione l'immobile. La prelazione, spiega la norma, deve esercitarsi con le modalità di cui all'art. 40 della l. n. 392/1978, il quale prescrive che il locatore, ove intenda locare l'immobile a terzi alla scadenza del contratto rinnovato, deve comunicare le offerte al conduttore mediante raccomandata con avviso di ricevimento almeno sessanta giorni prima della scadenza stessa. Il detto termine è tuttavia difficilmente applicabile nell'ipotesi di interventi edilizi: come è evidente, sarà poco probabile che il locatore, in procinto di riottenere la disponibilità di un immobile, il quale risulterà inutilizzabile per un certo arco di tempo, riceva o inoltri, prima dei sessanta giorni dalla scadenza contrattuale, offerte per una nuova locazione. In dottrina, si è così opinato che l'obbligo di comunicazione vada adempiuto, senza alcun riferimento al termine dei sessanta giorni, previsto dal comma 1 dell'art. 40 della l. n. 392/1978, in un momento non predeterminato, ma anteriore alla stipula del nuovo contratto con il terzo, ove tale contratto sia concluso nel termine di sei mesi dal rilascio, secondo quanto disposto dall'ultimo comma dell'art. 40 (Cosentino, 79). Per altri autori, invece, il termine di sessanta giorni decorrerebbe dalla data di ultimazione dei lavori (Verardi, 247; Lazzaro, Di Marzio, 618). La prelazione in esame ha natura obbligatoria, al pari di quella prevista dall'art. 40 della l. n. 392/1978, con riferimento alla quale la Cassazione ha per l'appunto rilevato come la norma non preveda che, nel caso di violazione del diritto di prelazione dell'originario conduttore, quest'ultimo possa essere autoritativamente sostituito al soggetto al quale l'immobile sia stato nuovamente locato (Cass. III, n. 12098/2003): il conflitto tra il conduttore uscente e quello nuovo trova quindi la propria regolamentazione nell'art. 1380 c.c., salvo, ovviamente, il diritto al risarcimento del danno che il primo potrà far valere nei confronti del locatore in ragione del mancato rispetto del diritto di prelazione in questione. La vendita dell'immobileIl diniego di rinnovo è consentito, secondo la lett. f) dell'art. 3, anche quando il locatore intenda vendere l'immobile a terzi e non abbia la proprietà di altri immobili ad uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione. La disposizione sembrerebbe condizionare il potere del locatore di dare disdetta motivata alla circostanza che il locatore sia proprietario, al massimo, di due immobili adibiti ad abitazione: quello locato e quello in cui egli vive stabilmente (così: Cosentino, 81; Mazzeo, 87; Lazzaro, Di Marzio, 620): in tale prospettiva l'avverbio “eventualmente” che compare nel testo normativo va dunque riferito alla proprietà dell'immobile, e non alla sua destinazione abitativa (in quest'ultimo senso, invece, Verardi, 241). Come è stato osservato, la scelta legislativa privilegia il locatore che non sia particolarmente abbiente e che non abbia, quindi, la necessità di conseguire il maggior prezzo di mercato dalla vendita dell'immobile: sennonché la detta disciplina, incentrata come è sulla proprietà di immobili ad uso di abitazione, pare effettivamente esporsi a censure di incostituzionalità per la sua irragionevolezza (v., in tema, Gabrielli, Padovini, 503, che rilevano come la norma, per come formulata, non trovi applicazione nel caso di locatore proprietario di diversi immobili ad uso non abitativo). Riguardo alla condizione del secondo immobile (quello non locato) è stato poi opportunamente precisato che per un verso il locatore debba adibirlo a sua abitazione primaria, non assumendo rilievo una destinazione del cespite a scopi voluttuari o sussidiari (come, ad esempio, quella di seconda casa): infatti la limitazione dell'esigenza abitativa del conduttore non trova fondamento, avendo riguardo alla ratio complessiva dell'articolo in commento (indirizzata a comprimere l'interesse del conduttore alla stabilità del rapporto locatizio solo in presenza di esigenze primarie del locatore) nel caso in cui il locatore possa smobilizzare una parte del proprio patrimonio venendo un immobile tenuto a propria disposizione per soddisfare esigenze abitative secondarie (Cosentino, 82). Parimenti condivisibile appare il rilievo per cui, parlando la norma di “propria abitazione”, il diniego di rinnovo non spetti al locatore che, proprietario di due immobili adibiti ad alloggio, adibisca uno di essi a residenza di un familiare, pur senza pretendere da questo un corrispettivo (Cosentino, 83). Proprio il requisito della destinazione a propria abitazione del diverso immobile di cui sia proprietario il locatore induce a ritenere che quest'ultimo non possa che essere una persona fisica (in senso contrario, però, Verardi, 242 che, in base a un'interpretazione adeguatrice, ipotizza la legittimità del diniego di rinnovazione di una società che sia proprietaria di un secondo appartamento destinato a propria sede). Il diniego di rinnovo è ammesso solamente in caso di vendita dell'immobile: in ciò la norma si differenzia da quella dell'art. 38 della l. n. 392/1978, in tema di locazioni non abitative, che configura il diritto di prelazione in dipendenza dell'intenzione del locatore di “trasferire a titolo oneroso l'immobile locato” (quindi, anche nel caso di permuta). La vendita che rileva, nel quadro della previsione dell'art. 3, lett. g), è, però, solo quella che il locatore si riprometta di attuare per denegare il rinnovo alla prima scadenza: e se si guarda a tale aspetto si coglie una ulteriore differenza rispetto alla disciplina dettata dal citato art. 38 della l. n. 392/1978. Questo, infatti, configura un generale diritto di prelazione del conduttore a fronte del trasferimento dell'immobile che il locatore intenda porre in essere; quale che sia il momento in cui, nel corso del rapporto, debba aver luogo il detto trasferimento, esso onera il locatore della comunicazione che è idonea a consentire l'esercizio della prelazione da parte del conduttore. Nel caso della locazione abitativa, invece, il locatore può vendere liberamente l'immobile a terzi, senza dover rispettare alcuna prelazione: il diritto di prelazione si delinea, però, se la vendita sia posta a fondamento del diniego di rinnovo di cui all'art. 3. Il particolare atteggiarsi del diritto di prelazione è ben colto dalla massima della Suprema Corte per cui, in tema di locazione di immobile adibito ad uso abitativo, nel vigore della l. n. 431/1998, al conduttore spetta il diritto di prelazione (e, quindi, di riscatto), nei confronti del terzo acquirente, solo nel caso in cui il locatore abbia intimato disdetta per la prima scadenza, manifestando in tale atto l'intenzione di vendere a terzi l'unità immobiliare, rispondendo la scelta normativa all'esigenza di compensare il mancato godimento dell'immobile per l'ulteriore quadriennio a fronte dell'utilità per il locatore di poter alienare il bene ad un prezzo corrispondente a quello di mercato degli immobili liberi: sicché, in caso di disdetta immotivata per la detta scadenza, il conduttore ha unicamente il diritto alla rinnovazione del contratto (Cass. III, n. 5596/2014; Cass III, n. 25450/2010). Il diritto di prelazione, dunque, compete nel solo caso in cui il locatore deneghi il rinnovo alla prima scadenza prospettando l'intenzione di vendere l'immobile. Ovviamente, la norma presuppone la piena identità tra immobile locato e immobile posto in vendita. Tale identità non viene a mancare nell'ipotesi di vendita cumulativa, mentre diverso è il caso della vera e propria vendita in blocco, la quale ricorre ove i vari beni alienati, tra loro confinanti, costituiscano un unicum e siano venduti non come una pluralità di immobili casualmente appartenenti ad un unico proprietario e ceduti (o cedendi) ad un soggetto diverso da colui che conduce in locazione uno di essi, ma come complesso unitario, costituente un quid differente dalla mera somma delle singole unità immobiliari. In caso di vendita in blocco di immobile locato all'uso non abitativo la prelazione non spetta e analoga conclusione deve valere per l'immobile locato per uso abitativo: tuttavia, come è stato osservato, ciò è conseguenza della regolazione giuridica della fattispecie dettata, tramite il rinvio all'art. 38 della l. n. 392/1978, dall'art. 3, lett. g), in commento, onde tale evenienza non è idonea a paralizzare il diritto del locatore di dare disdetta per la prima scadenza (così Cosentino, 87). L'art. 38 della l. n. 392/1978 contiene altre due limitazioni all'esercizio della prelazione: essa non opera nel caso di alienazione della quota ereditaria (art. 732 c.c.) e nell'ipotesi di trasferimento dell'immobile a favore del coniuge o dei parenti entro il secondo grado. È stato osservato, al riguardo, che l'intento di cedere soltanto una quota ereditaria non legittima la disdetta, che la legge consente nel diverso caso della vendita dell'immobile, sicché in questa ipotesi non può configurarsi nemmeno il diniego di rinnovo. Si è rilevato, poi, come il locatore che voglia liberare l'immobile alla prima scadenza contrattuale, per venderlo ad uno dei familiari sopra indicati, il quale si riprometta di adibirlo ad uso proprio, possa e debba fondare la disdetta sulla previsione di cui all'art. 3, lett. a), cui non è associato alcun diritto di prelazione; ove, invece, la vendita allo stretto congiunto non sia motivata dall'intento di consentire il godimento diretto a quest'ultimo, non vi sarebbe ragione di negare al conduttore quella prelazione al fine dell'acquisto che la legge vuole assicurargli nei confronti di qualsiasi altro soggetto disposto all'acquisto dell'immobile (così Gabrielli, 527). Sul piano soggettivo, invece, è da rimarcare come il diritto di prelazione competa al solo conduttore, con esclusione, dunque, del subconduttore: sul punto è sufficiente rilevare che la prelazione è correlata al diritto, da parte del locatore, di dare disdetta per la prima scadenza in ragione della vendita dell'immobile: diritto di cui non può evidentemente avvalersi il sublocatore (il quale ha il godimento del proprietario come conduttore, e non come proprietario). La giurisprudenza ha avuto modo di precisare, per la verità, che il diritto di prelazione e di riscatto ex artt. 38 e 39 della l. n. 392/1978, ancorché espressamente riferito alla sola ipotesi tipica della locazione stipulata dal proprietario, ricorre anche nel caso di locazione stipulata dall'usufruttuario dell'immobile, qualora quest'ultimo e il nudo proprietario concordino di vendere congiuntamente la nuda proprietà e l'usufrutto (Cass. III, n. 2080/1992). Al quesito se analoga conclusione possa valere con riguardo al diritto di prelazione all'acquisto in caso di locazione abitativa si è risposto in senso negativo, osservandosi come la cessazione della locazione non possa dipendere dal concorso della volontà di un soggetto estraneo al rapporto (Mazzeo, 90). Si esclude che il diritto di prelazione sussista in capo al coniuge assegnatario dell’alloggio: e ciò in quanto la tutela degli interessi, prioritariamente dei figli alla stabilità dell'abitazione, sottesi alla predetta assegnazione, è soddisfatta in modo adeguato dal regime di trascrivibilità del provvedimento con il quale essa è disposta, nonché in modo proporzionato, rispetto alla tutela di altri interessi concomitanti, garantiti e tutelati, in caso di compravendita, mediante la provvista monetaria costituita dal corrispettivo della stessa (Cass. II, n. 12305/2023). La sollecitazione all'esercizio del diritto di prelazione va operata con comunicazione in cui devono essere indicati il corrispettivo, le altre condizioni alle quali deve avvenire la vendita e l'invito al conduttore ad avvalersi o meno del menzionato diritto (art. 38, comma 2, l. n. 392/1978); non vi è necessità di indicare il contratto preliminare eventualmente già concluso con il terzo (Cass. III, n. 5464/1991). La denuntiatio, secondo quanto ritenuto in dottrina, deve essere poi contestuale al diniego di rinnovo (Lazzaro, Di Marzio, 620; Mazzeo, 90; precisa Cosentino, 85, che essa, al pari dell'indicazione circa il mancato possesso di altri immobili abitativi oltre a quello destinato ad alloggio del locatore, debba essere contenuta nella comunicazione di diniego di rinnovo, a pena di nullità della stessa per difetto di specificità). In realtà, che le due comunicazioni debbano essere contestuali, o addirittura contenute nel medesimo atto, non è imposto dalla legge; è indubitabile, però, che l'invito all'esercizio della prelazione debba pervenire al locatario quantomeno nel termine stabilito per la comunicazione della disdetta: ciò si spiega avendo riguardo al fatto che tale termine è stabilito nell'interesse del conduttore, al fine di consentirgli il reperimento di un diverso alloggio, in assenza del suo diritto di continuare ad occupare quello locato: finalità che non potrebbe attuarsi se allo stesso conduttore non fosse dato di conoscere tempestivamente le condizioni di acquisto, e quindi di sapere se sia in grado di formulare un'offerta che gli consenta di acquistare il bene, così da non essere più costretto a rilasciare l'immobile per cui ha ricevuto disdetta. La prelazione, in base alla disciplina contenuta nell'art. 38 della l. n. 392/1978, va esercitata dal conduttore nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione con cui il locatore gli comunica la propria intenzione di vendere, con atto notificato al proprietario a mezzo di ufficiale giudiziario, offrendo condizioni uguali a quelle comunicategli; ove il diritto di prelazione sia esercitato, il versamento del prezzo di acquisto, salvo diversa condizione indicata nella comunicazione del locatore, deve essere effettuato entro trenta giorni decorrenti dal sessantesimo giorno successivo a quello dell'avvenuta notificazione della comunicazione da parte del proprietario. Il diritto di prelazione del conduttore è assistito da riscatto. Se si ritiene che la denuntiatio debba essere formulata nella disdetta motivata, a pena di nullità di quest'ultima – se si crede, cioè, che il diniego di rinnovo non possa prescindere, nell'ipotesi di vendita dell'immobile, dall'invito al conduttore ad avvalersi della prelazione alle condizioni indicate – è giocoforza escludere che il diritto di riscatto trovi applicazione nel caso in cui la disdetta non la contenga affatto (questa è la conclusione cui pervengono Bucci, 64 e Cosentino, 88): in tale ipotesi, difatti, il contratto si rinnoverebbe tacitamente per effetto della nullità dell'atto che doveva provocarne la cessazione. Mette conto di ricordare, da ultimo, che il diritto di prelazione è suscettibile di rinuncia: ciò, però, solo una volta che il diritto sia venuto ad esistenza, vale a dire dopo che il locatore ha espresso il proposito di vendere l'immobile (Carleo, 181); il diritto non è invece suscettibile di essere dismesso al momento della conclusione del contratto (Marinelli, Panico, Silvestrini, 104; in senso contrario, Cuffaro, 5, secondo cui la clausola alla rinuncia della locazione non potrebbe essere colpita dalle nullità comminate dall'art. 13, commi 3 e 4, della l. n. 431/1998). Il conduttore che abbia la disponibilità di altro alloggioLe ipotesi di cui alle lett. c) e f) si differenziano dalle precedenti perché valorizzano l'esigenza abitativa del conduttore. La ratio della previsione di cui alla lett. c), che ammette il diniego di rinnovo quando il conduttore abbia la piena disponibilità di un alloggio libero e idoneo nello stesso comune, è quella di dissuadere il locatario dal tenere sfitto un immobile di cui abbia la disponibilità (Verardi, 248), ma anche quella di attenuare la tutela nei confronti di quei conduttori che possano soddisfare la propria esigenza abitativa con l'utilizzo di altro alloggio (Lazzaro, Di Marzio, 616; Carleo, 185). La norma, sul punto, richiede la piena disponibilità di un alloggio libero: è peraltro da segnalare che, nella vigenza dell'art. 59 n. 6), della l. n. 392/1978 – norma che, per la verità, presentava una formulazione diversa dall'art. 3, lett. c), che qui viene in esame – la giurisprudenza aveva conferito rilievo alla semplice possibilità di conseguire il godimento della diversa abitazione, sempre che tale possibilità fosse concreta ed effettiva (Cass. III, 2862/1990; Cass. III, 3731/1989; Cass. III, 1142/1987, secondo cui la causa di recesso prevista dalla detta norma si configurava qualora la disponibilità dell'alloggio, pur non attuale, dipendesse da iniziative amministrative o materiali agevolmente attuabili dal conduttore, ovvero allorché l'immobile, del quale il conduttore avesse la disponibilità, potesse essere reso idoneo alle sue esigenze familiari con opere non gravose o complesse; cfr. però Cass. III. n. 4055/1985, che ha reputato esatta la statuizione del giudice del merito, il quale aveva escluso la possibilità per il conduttore di disporre del proprio appartamento locato a terzi, osservando che la possibilità di esperire azione giudiziaria di recesso non integrava il presupposto di cui all'art. 59, n. 6, in ragione dei fattori di incertezza che presentava un siffatto giudizio). Esulano, ovviamente, dalla indicata disponibilità i casi in cui il conduttore abbia una detenzione precaria di altro alloggio (come nel caso in cui egli sia ammesso all'utilizzo dello stesso per mera tolleranza o per ragioni di ospitalità). La disponibilità dell'alloggio deve sussistere al momento in cui è intimata la disdetta che si fondi su tale evenienza: ove la disponibilità venga meno successivamente occorre distinguere. Se essa cessa per fatto imputabile al conduttore la legittimità del diniego di rinnovo non può essere negata; nel caso opposto, invece, la cessazione della locazione non si produce (Cosentino, 73; Mazzeo, 77). Con riferimento alla prima delle ipotesi sopra esaminate, Cass. III, n. 4964/1988, misurandosi con la analoga fattispecie contenuta nell'art. 59 della l. n. 392/1978, ha ammesso il recesso del locatore ove il conduttore, successivamente alla comunicazione del preavviso da parte del locatore, trasferisca la proprietà di un immobile di cui poteva disporre. Quanto alla condizione di idoneità dell'immobile, può richiamarsi quanto detto supra. È utile pure ricordare che, con particolare riferimento alla “corrispondente” fattispecie di cui all'art. 59, n. 6), della l. n. 392/1978, la Corte regolatrice ebbe ad osservare che l'abitazione dovesse essere tale da soddisfare tutte le esigenze del conduttore, comprensive di quelle aventi ad oggetto lo svolgimento, al di fuori di ogni presenza estranea, delle consuete operazioni inerenti alla vita domestica e di relazione correlate all'attività lavorativa (Cass. III, n. 6845/1986) e che si imponesse, in definitiva, di tener conto anche delle necessità di vita non appagabili al chiuso delle mura di casa, rilevando non solo le caratteristiche interne e strutturali dell'alloggio, ma anche altre, attinenti alla sua ubicazione topografica ed al suo inserimento in un dato contesto ambientale, tutte rilevanti per l'idoneità dell'abitazione realisticamente intesa come centro domestico di vita aperto verso l'esterno (Cass. III, n. 569/1988). Il conduttore che non occupi in modo continuativo l'immobile locatoCon la lett. f), il legislatore ha inteso conferire rilievo ad una situazione – quella del mancato godimento dell'alloggio, senza giustificato motivo, da parte del conduttore – reputata idonea ad escludere il protrarsi del rapporto per la durata minima di otto anni, per le locazioni a canone libero, o di cinque, per le locazioni a canone concordato: in ciò è possibile cogliere il senso della scelta di campo del legislatore, il quale ha tutelato l'esigenza abitativa del conduttore, attraverso il meccanismo del rinnovo alla prima scadenza, fin tanto che tale esigenza dovesse essere soddisfatta con il godimento dell'immobile locato; in assenza di tale condizione – che è resa evidente in caso di mancata e ingiustificata occupazione dell'alloggio (come pure lo è nell'ipotesi, in precedenza esaminata, della disponibilità di altro immobile da destinare ad abitazione) – la stabilità del rapporto non è reputata meritevole di protezione. La norma esclude il diniego di rinnovo ove si sia verificata una “legittima successione nel contratto”: ma si tratta di una specificazione superflua, giacché ove si determini una delle ipotesi di subentro previste dall'art. 6 della l. n. 392/1978, la qualità di conduttore viene a radicarsi in capo a un soggetto diverso dall'originario locatario e, in conseguenza, il dato dell'abbandono nell'immobile da parte di quest'ultimo è evidentemente irrilevante. Si sono fatte rientrare nella mancata occupazione disciplinata dall'art. 59, n. 8), della l. n. 392/1978 il trasferimento definitivo del conduttore, insieme al suo nucleo familiare, in altra città (Cass. III, n. 6338/1985; Cass. III, n. 3497/1984), l'abbandono dell'immobile o la sua occupazione in maniera del tutto occasionale, come pure le assenze che esulino da quelle normali, avendo riguardo alle necessità e agli usi comuni, ove ripetute e di lunga durata, se non giustificate da validi motivi (Cass. III, n. 3407/1983; cfr. pure Cass. III, n. 1676/1989, che ha ritenuto legittimo il recesso del locatore in presenza di un'occupazione limitata a sette mesi l'anno). All'opposto, facendosi applicazione della norma vincolistica contenuta nell'art. 3, n. 1), della l. n. 253/1950, si era ritenuto che il conduttore non decadesse dalla proroga legale quando si fosse trovato nella necessità di trasferirsi da solo o con una parte del proprio nucleo familiare in altro comune o all'estero, lasciando nell'alloggio locato alcuni componenti della famiglia impossibilitati a seguirlo per apprezzabili esigenze di vita o di lavoro (Cass. III, n. 4517/1985). La giurisprudenza aveva poi precisato che il locatore non potesse recedere dal contratto ai sensi dell'art. 59, nn. 6), 7), 8), della l. n. 392/1978 nemmeno se i familiari restati nell'alloggio fossero entrati a far parte del nucleo familiare in un momento successivo all'inizio del rapporto locatizio: ma ciò a condizione che l'appartenenza al detto nucleo avesse carattere effettivo, ed il conduttore fosse tenuto ad adempiere un dovere di assistenza verso i familiari medesimi (Cass. III, n. 807/1991). Esercizio illegittimo del diniego di rinnovo e mancata destinazione dell'immobile all'uso indicatoLa disciplina della disdetta alla prima scadenza si esaurisce con le disposizioni contenute ai commi 3 e 5 dell'art. 3. Il comma 3 prevede che, qualora il locatore abbia riacquistato la disponibilità dell'alloggio a seguito di illegittimo esercizio della facoltà di disdetta ai sensi del presente articolo, il locatore stesso è tenuto a corrispondere un risarcimento al conduttore da determinare in misura non inferiore a trentasei mensilità dell'ultimo canone di locazione percepito. In base al comma 5, inoltre, ove il locatore abbia riacquistato, anche con procedura giudiziaria, la disponibilità dell'alloggio e non lo abbia adibito nel termine di dodici mesi dalla data in cui ha riacquistato la detta disponibilità, agli usi per i quali ha esercitato facoltà di disdetta, il conduttore ha diritto al ripristino del rapporto di locazione alle medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al risarcimento di cui al comma 3. Dunque, il comma 3 si riferisce all'ipotesi del rilascio attuato dal conduttore in conseguenza di un diniego di rinnovo esercitato illegittimamente, mentre il comma 5 replica, nella sostanza, l'art. 31 della l. n. 392/1978 e contempla il caso in cui la disdetta sia legittima e l'immobile, a seguito del rilascio, non sia adibito all'uso prospettato. Di tale disegno legislativo, incentrato sulla individuazione di due diverse fattispecie di responsabilità, è precisa traccia nei lavori parlamentari: nella Relazione della VIII Commissione permanente sulla proposta di legge presentata alla Presidenza della Camera dei Deputati dal Relatore, on. Alfredo Zagatti, il 25 novembre 1998, si legge infatti, che le modifiche introdotte dal Senato andavano verso “una più chiara distinzione tra le due ipotesi”, poi contemplate dai commi e 3 e 5 dell'art. 3, le quali, “nella precedente formulazione, tendevano in parte a sovrapporsi”. Si ritiene che l'ipotesi del diniego di rinnovo esercitato contra legem non si configuri nel caso di rilascio pronunciato in sede giudiziaria: militerebbe in tal senso il silenzio del comma 3, che andrebbe rapportato all'espressa previsione, contenuta nel quinto, della fattispecie del riacquisto della disponibilità dell'alloggio “anche con procedura giudiziaria” (di tal che, in proposito, dovrebbe trovare applicazione il canone ermeneutico ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit); ma assumerebbe soprattutto rilievo la considerazione per cui quando il locatore consegue il rilascio per mezzo di un provvedimento giurisdizionale la legittimità dell'esercizio della facoltà di disdetta è vagliata dal giudice e non può quindi formare oggetto di una nuova cognizione (Cosentino, 91). Se è vero, tuttavia, che la pronuncia circa la legittimità dell'esercizio della disdetta elimina definitivamente il presupposto di operatività dell'eventuale pretesa del conduttore che avrebbe dovuto necessariamente eccepire nel giudizio promosso dal locatore la illegittimità del suo comportamento (così Paparo, 94), non può tuttavia escludersi che il conduttore rilasci l'immobile in esecuzione di un provvedimento di rilascio che, nell'ulteriore corso del giudizio, sia caducato: e pare difficile escludere che in tale ipotesi al conduttore che abbia operato il rilascio a seguito del primo provvedimento sia precluso agire per il risarcimento del danno. L'illegittimo esercizio della facoltà di disdetta di cui al comma 3 potrà ricorrere nei casi di disdetta tardiva o mancante dell'enunciazione del motivo, recante un motivo generico o estraneo a quelli tassativamente previsti, ma pure nell'ipotesi della disdetta intimata in assenza dell'intenzione seria di porre in atto la destinazione prospettata, anche se un tale difetto sarà normalmente verificabile ex post attraverso la condotta del locatore che non adibisca l'immobile all'uso indicato: evenienza, quest'ultima, che consentirà al conduttore di avvalersi delle forme di tutela previste dal comma 5. Passando alla fattispecie contemplata da tale comma, occorre anzitutto precisarne l'ambito di applicazione. La formulazione della norma, incentrata sull'eventualità che il locatore non adibisca l'immobile “agli usi per i quali ha esercitato la facoltà di disdetta” parrebbe infatti escludere che essa si riferisca alle ipotesi di diniego di rinnovo motivate dall'esecuzione degli interventi edilizi e dalla vendita dell'immobile: e cioè ai casi di cui alle lett. d), e) e g) dell'articolo in commento, in cui non viene propriamente in discorso alcun uso della cosa locata. Si è così ritenuto che l'omessa esecuzione degli interventi edilizi o la mancata vendita dell'immobile assumano rilievo quale indice sintomatico dell'originaria mancanza del proposito manifestato, nel quadro della tutela di cui al comma 3 (Cosentino, 94). In altre parole, la presa d'atto del mancato realizzarsi dei propositi riconducibili alle lett. d), e) e g) non darebbe titolo alla tutala di cui al comma 5, ma, in quanto espressione di un motivo insussistente o di una intenzione fittizia, potrebbe essere fatta valere ai fini del risarcimento di cui al comma 3. Si tratta, però di una soluzione che preclude ingiustificatamente al conduttore l'accesso al rimedio del ripristino del contratto, che è previsto dal solo quinto comma, e che, oltretutto, pone in atto, con riferimento alle fattispecie degli interventi edilizi, una disparità di trattamento che potrebbe essere sospettata di incostituzionalità avendo riguardo alle analoghe ipotesi contemplate, in materia di locazioni non abitative, dall'art. 29 della l. n. 392/1978, per le quali è per l'appunto prevista la detta forma di tutela, giusta l'art. 31 della stessa legge. Pare allora più convincente l'opinione espressa dalla dottrina maggioritaria, che suggerisce di interpretare estensivamente la previsione normativa del comma 5 dell'art. 3 in commento, ricomprendendovi le fattispecie di cui alle lett. d), e) e g) (Bucci, 69; Verardi, 252; Lazzaro, Di Marzio, 630). Ha precisato la Cassazione che, per realizzare la fattispecie risarcitoria del comma 3 e del comma 5, è necessario che prima della scadenza del termine previsto da tale disposizione il locatore concretamente destini l'immobile ad uso diverso da quello indicato nella disdetta e che la prova dell'uso diverso si possa desumere dalla semplice manifestazione dell'intenzione, in quanto la disposizione richiamata fa esplicito riferimento alla effettiva utilizzazione (non avendo così rilievo l'intendimento di porre in essere una destinazione dell'immobile difforme dal proposito manifestato dalla disdetta, ove lo stesso non sia seguito da una attività corrispondente; la stessa Suprema Corte ha poi precisato che, al fine di realizzare la responsabilità prevista dall'art. 3, commi 3 e 5, non sia sufficiente che il locatore abbia ottenuto la disponibilità giuridica dell'immobile (nella specie, per effetto dell'emanazione del provvedimento di rilascio per la prima scadenza), essendo invece necessario che ne abbia ottenuta anche la disponibilità materiale, per effetto dell'eventuale riconsegna, e che da questa sia decorso il termine di dodici mesi entro il quale avrebbe dovuto adibire l'immobile all'uso per il quale era stata esercitata la facoltà di disdetta, non potendosi altrimenti verificare l'avvenuta diversa utilizzazione della cosa locata, rispetto a quella dichiarata nella disdetta; pertanto, la circostanza che il conduttore sia rimasto nel possesso dell'immobile impedisce di configurare tale responsabilità (Cass. III, n. 9043/2010). Quanto alla responsabilità del locatore si deve ritenere che essa, al pari di quella contemplata dall'art. 31 della l. n. 392/1978 per le locazioni non abitative (su cui v. Cass. III, n. 23794/2014), abbia natura contrattuale: dal che i corollari in tema di prescrizione (decennale, non quinquennale) e in tema di onere della prova circa la non imputabilità della condotta (a carico del locatore inadempiente). Il tema dell'onere probatorio circa la colpevolezza del comportamento assume, del resto, rilievo nella materia che qui interessa, in quanto le sanzioni del ripristino della locazione o del risarcimento del danno, previste a carico del locatore che abbia esercitato il diritto di diniego del rinnovo del contratto di locazione per una finalità non più realizzata (art. 31 l. n. 392/1978 e art. 3, commi 3 e 5, l. n. 431/1998) non sono applicabili qualora la tardiva o mancata destinazione dell'immobile all'uso dichiarato siano giustificate da esigenze, ragioni o situazioni non riconducibili al comportamento doloso o colposo del locatore stesso (così Cass. III, n. 1050/2016, che ha ritenuto non imputabile al locatore, e quindi non sanzionabile, la mancata esecuzione dei lavori di ristrutturazione, per i quali era stata esercitata la facoltà di diniego del rinnovo, perché la causa di tale omissione era addebitabile alla conduttrice, che aveva instaurato un infondato giudizio di opposizione al rilascio, conclusosi solo dopo la scadenza del termine per l'inizio dei lavori stessi, previsto nel permesso di costruire). Con riferimento ai rimedi, prendendo in esame la diversità delle previsioni di cui, rispettivamente, al comma 3 e al comma 5, si è osservato come la scelta del legislatore determini conseguenze incongrue. Infatti, la fattispecie di cui al comma 5, in cui la disdetta risulta legittimamente intimata, viene ad essere sanzionata più gravemente, essendo in questa ipotesi concessa anche la tutela reale (Carleo, 190). In contrario, si è spiegato che l'insussistenza del rimedio ripristinatorio, nel caso di diniego di rinnovo non validamente comunicato, troverebbe la propria ragione nel fatto che il rilascio spontaneo lascerebbe presumere che il conduttore abbia reperito altra sistemazione abitativa, mentre la riconsegna attuata in esecuzione di un provvedimento provvisorio, poi revocato, farebbe ritenere che la ricostituzione del rapporto sia non conciliabile col tempo necessario per l'accertamento del diritto (Bucci, 68). Il risarcimento del danno è fissato in una misura non inferiore a trentasei mensilità di canone. A parte la discutibilità della soluzione, che non opera alcuna differenziazione tra locazioni a canone libero e a canone concordato (finendo oltretutto per prevedere, con riferimento alle seconde, un risarcimento che eccede della metà l'ammontare dei canoni che il conduttore avrebbe dovuto corrispondere in caso di rinnovo), è da segnalare come la norma, nell'indicare la misura minima dell'importo da liquidare, adotti un criterio opposto a quello contemplato dall'art. 31 della l. n. 392/1978, che prevede un limite massimo, ma non un limite minimo, di risarcimento. Si è osservato come la deroga alla prescrizione normativa attuata con un accordo delle parti che preveda una misura del risarcimento inferiore alle trentasei mensilità non possa escludersi in base alla previsione dell'art. 13 della l. n. 431/1998, a meno che non si sostenga che l'illegittimo esercizio del diniego di rinnovazione si risolva in un'indiretta e surrettizia violazione delle norme sulla durata (V. Nasini, P. Nasini, 53). Per il ripristino del contratto si è dubitato delle concrete modalità con cui rimedio possa operare. La giurisprudenza formatasi in tema di locazioni non abitative è per la verità nel senso che il ripristino del rapporto di locazione, una volta venuto meno il provvedimento di rilascio, comporta che il rapporto prosegua sino all'originaria scadenza, restando escluso che quest'ultima possa essere prorogata per un periodo eguale alla durata del mancato godimento dell'immobile da parte del conduttore, salvo restando il diritto del conduttore medesimo al risarcimento dei danni (Cass. III, n. 4198/1997; v. pure Cass. III, n. 1796/1994, secondo cui il ripristino sanzionatorio del contratto di locazione, previsto dal non più vigente art. 60 della l. n. 392/1978, alternativamente con il risarcimento del danno, per il caso in cui il locatore non abbia adibito l'immobile all'uso per il quale ne aveva ottenuto la disponibilità in sede di recesso, importa che il rapporto prosegua fino alla originaria scadenza, restando per l'appunto escluso che tale scadenza possa essere prorogata per un periodo uguale alla durata del mancato godimento dell'immobile da parte del conduttore, che, pertanto, dopo la scadenza del termine di durata del contratto locativo, non ha più diritto al ripristino del rapporto ma solo al risarcimento del danno). In dottrina, con riferimento alla fattispecie di cui al comma 5 dell'art. 3, si è invece proposto di ammettere che il ripristino del contratto determini una nuova decorrenza contrattuale: e ciò valorizzando il riferimento della norma alle “medesime condizioni di cui al contratto disdettato”: inciso che risulterebbe del tutto superfluo se la legge intendesse il rapporto come mera reviviscenza della precedente locazione (Cosentino, 102). È da segnalare, da ultimo, che l'art. 31 della l. n. 392/1978 prevede, al comma 1, che, in caso di ripristino, siano comunque salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede. L'art. 3 non contiene tale precisazione, ma si ritiene comunemente che il ripristino non possa attuarsi in danno del terzo acquirente e del terzo conduttore, incontrando esso i limiti segnati dalle norme di cui agli artt. 1380, 1599 e 1600 c.c. (v., in tema: Verardi, 253; Cosentino, 101; Mazzeo, 101), oltre che dai principi generali in tema di affidamento (Lazzaro, Di Marzio, 631). Il recesso per gravi motivi: la fattispecieL'ultimo comma dell'articolo in commento contempla il recesso che il conduttore può esercitare in qualsiasi momento qualora ricorrano gravi motivi: è stabilito che, in tal caso, debba essere dato al locatore recesso con preavviso di sei mesi. La disposizione reca una disciplina avente ad oggetto la stessa materia di cui all'art. 4, comma 2, della l. n. 392/1978, per cui deve ritenersi che essa abbia abrogato quest'ultima norma (pur non cancellata in modo espresso dall'art. 14 della l. n. 431/1998), in base alla previsione dell'ultima parte dell'art. 15 delle preleggi. È da aggiungere, peraltro, come a differenza del citato art. 4, comma 2, l'art. 3, comma 6, in esame non rechi alcuna regolamentazione quanto alla forma dell'atto di recesso. Il concetto di “gravi motivi” è stato fissato fin dai primi commentatori della l. n. 392/1978 (che – come si è detto – conteneva disciplina analoga a quella che viene qui in esame), avendo riguardo alle seguenti connotazioni: essi devono insorgere dopo l'instaurazione del rapporto, devono essere di natura tale da rendere impossibile, o sommamente gravosa, la prosecuzione della locazione e non possono essere determinati dal comportamento dell'inquilino, dovendo ricollegarsi a cause non prevedibili e comunque estranee alla sua sfera soggettiva (Bozzi, Confortini, Del Grosso, Zimatore, 1022). Sulla stessa linea è venuta ad attestarsi la giurisprudenza, che fa applicazione costante della seguente massima: i gravi motivi che consentono il recesso del conduttore dal contratto di locazione, ai sensi degli artt. 4 e 27 della l. n. 392/1978, devono essere determinati da fatti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere oltremodo gravosa la sua prosecuzione (Cass. III, n. 12291/2014; Cass. III, n. 10980/1996; più frequente è la declinazione del principio con esclusivo riferimento alle locazioni ad uso non abitativo (così, tra le pronunce più recenti: Cass. III, n. 26711/2011; Cass. VI, n. 5911/2011; Cass. III, n. 9443/2010). Si è sottolineato, però, che la fattispecie del recesso per gravi motivi non duplica quella della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta: tale risoluzione esige, infatti, l'eccezionalità dell'evento sopravvenuto e la sua incidenza sulla sinallagmaticità delle prestazioni (Scarpa, 113). In termini generali, sul tema della estraneità dei motivi alla sfera volitiva del conduttore, va richiamato quanto precisato dalla Corte di legittimità, secondo cui il requisito dell'estraneità del motivo alla volontà del conduttore implica che il comportamento debba essere consequenziale a fattori obiettivi, non che esso sia involontario (Cass. III, n. 17042/2003): infatti, “il recupero della estraneità rispetto alla volontà del conduttore afferisce alle circostanze che rendano oltremodo gravosa per lui la persistenza del rapporto e non alle determinazioni che il conduttore medesimo, in dipendenza di tali circostanze, venga ad adottare” (così Cass. III, n. 10980/1996, in materia di locazione non abitativa, con riferimento all'ipotesi di un andamento della congiuntura economica, sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile – quando fu stipulato il contratto – che obblighi il conduttore ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo). In sostanza, dunque, il recesso per gravi motivi non esige che il motivo sia completamente avulso da un processo decisionale del conduttore; è invece necessario, ma anche sufficiente, che la scelta di questo si innesti su una situazione sopravvenuta idonea ad alterare radicalmente lo stato di fatto che, a suo tempo, venne assunto a fondamento della determinazione di prendere in locazione il bene (Di Marzio, Falabella, 2231). La dottrina distingue i gravi motivi in soggettivi ed oggettivi. Tra i primi si ricomprendono quelle cause di improseguibilità del rapporto inerenti alla persona del locatore e del conduttore; sono gravi motivi oggettivi, di contro, quelle cause di improseguibilità del rapporto inerenti al suo oggetto, cioè all'immobile (così Cosentino, Vitucci, 393). Il fatto che il recesso possa basarsi su motivi riferiti alla persona del conduttore non significa, però, che l'apprezzamento di essi vada attuata con minor rigore; infatti, anche i gravi motivi di natura soggettiva prescindono dalla volontà del conduttore: come è stato precisato, essi devono pur sempre originarsi da fattori estrinseci sopravvenuti e imprevedibili (Bernardi, Coen, Del Grosso, 42). La giurisprudenza di legittimità si è limitata a osservare come nell'apprezzamento del giudice del merito quanto all'esistenza dei gravi motivi assumano particolare rilievo le qualità soggettive del conduttore (Cass. III, n. 9689/2003, in motivazione). È stata, tuttavia, la dottrina ad individuare le ipotesi in cui potrebbe configurarsi un recesso per gravi motivi riferibili alla persona del conduttore nelle locazioni abitative (v., esemplificativamente, al riguardo: Bernardi, Coen, Del Grosso, 42; Cosentino, Vitucci, 394; Lazzaro, Di Marzio, 569): possono così rilevare il trasferimento ad altra sede del conduttore lavoratore subordinato, con esclusione, secondo alcuni, del caso in cui il mutamento del luogo di lavoro sia ottenuto su domanda dell'interessato (in senso contrario, tuttavia, Gabrielli, Padovini, 664), o le ragioni di salute, tali da imporre, la lunga degenza in una casa di cura, o ancora il trasferimento in un'abitazione con diverse caratteristiche; altre fattispecie sono più discusse, come l'aumento del nucleo familiare o il peggioramento delle condizioni economiche del conduttore. Si è poi ritenuto che in caso di fallimento del conduttore, questi possa avvalersi del recesso per gravi motivi per sciogliersi dal vincolo contrattuale relativo alla casa di abitazione, che non rientra tra i beni compresi nel fallimento ai sensi dell'art. 46 l.fall. (per la nuova disciplina v. art. 146 d.lgs. n. 14/2019 – Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza) (Gabrielli, Padovini, 662): è stato osservato, infatti, che in questo caso il sopravvenuto fallimento posa fondare il recesso sulla base del principio per cui nessun conduttore deve essere costretto a rendersi inadempiente (sicché rileverebbe l'insorgere di condizioni patrimoniali che, ove il rapporto di locazione continuasse, provocherebbero fatalmente un inadempimento). Le situazioni riferibili alla persona del conduttore (come del resto tutte le altre che possono rilevare come gravi motivi ai fini del recesso) devono assumere, comunque, una particolare consistenza: ad esempio, la circostanza che il conduttore, a seguito di intervento chirurgico al menisco, si trovi in mera situazione di “difficoltà ad abitare lo stabile” ovvero in condizione di “disagio”, ma non di impossibilità abitativa, per quanto l'immobile locato si sviluppi su due livelli, è stata ritenuta tale da non impedire la prosecuzione del rapporto locativo in essere, così da precludere l'esercizio del diritto potestativo di recesso (Trib. Modena 25 gennaio 2013). Con riguardo ai gravi motivi di natura soggettiva riconducibili al locatore è da ricordare l'opinione, espressa da diversi autori, secondo cui il recesso potrebbe essere giustificato dagli inadempimenti di detto soggetto alle obbligazioni fondamentali del contratto locatizio (sul punto: Bernardi, Coen, Del Grosso, 43 s.; Cosentino, Vitucci, 393; Fantachiotti, 100; Gabrielli, Padovini, 658): tesi, questa, che porterebbe a ritenere il concorso del rimedio del recesso con quello della risoluzione per inadempimento. Di opposto avviso è la giurisprudenza. La Suprema Corte ha rilevato, in particolare, che la non conseguita disponibilità dell'immobile locato (così come, più in generale, la violazione di obblighi contrattuali) non è riconducibile a motivo di recesso, vertendosi in tema di inadempimento dell'obbligazione del locatore di consegnare il bene locato, da far valere mediante domanda di risoluzione del contratto; con la conseguenza che è resa in violazione di legge la sentenza che – nel caso in cui il locatore abbia chiesto la condanna del conduttore, previo accertamento della inefficacia del suo recesso, al pagamento dei canoni di locazione ed il conduttore abbia a sua volta chiesto dichiararsi risolto il contratto per grave inadempimento del locatore – dichiari, nel contempo, risolto il contratto ed efficace il recesso per i medesimi motivi (Cass. III, n. 15620/2005; in senso conforme: Cass. VI, n. 5911/2011). In tale prospettiva, i motivi di natura soggettiva riconducibili al locatore andrebbero circoscritti ad altre condotte: rileverebbero cioè quei comportamenti che, ancorché non integranti violazioni di obblighi contrattuali, determinino, per arroganza, petulanza, abuso del diritto o altro, un notevole turbamento della pace e della tranquillità familiare (così Trifone, 548). Tra i gravi motivi di natura oggettiva, si sono individuati i vizi della cosa locata, la cui presenza, come è noto, non configura propriamente un inadempimento del locatore alle obbligazioni assunte ai sensi dell'art. 1575 c.c., ma altera l'equilibrio delle prestazioni corrispettive, incidendo sull'idoneità all'uso della cosa stessa (Cass. III, n. 24459/2011). È stato osservato, in particolare, che riconoscere al conduttore la facoltà di recesso in presenza dei vizi significa non obbligarlo a proporre domanda giudiziale di risoluzione, potendo egli più semplicemente sciogliersi dal vincolo contrattuale avvalendosi della comunicazione di recesso, salva sempre la possibilità di una domanda autonoma di risarcimento dei danni ove sussista colpa del locatore ex art. 1578, comma 2, c.c. (Bernardi, Coen, Del Grosso, 44). È dubbio, tuttavia, che il recesso possa essere esercitato a fronte di vizi preesistenti la conclusione del contratto, diversi da quelli insorti nel corso della locazione ex art. 1581 c.c.: e ciò in quanto, come si è visto, il recesso per gravi motivi tutela il conduttore a fronte di vere e proprie sopravvenienze. L'esperibilità del rimedio in presenza di vizi originari della cosa locata, ma scoperti dal conduttore solo in corso del rapporto, potrebbe però giustificarsi in base all'opinione secondo cui gravi motivi in forza dei quali viene meno o si riduce considerevolmente l'interesse del conduttore alla continuazione della locazione sono anche quelli che preesistono alla conclusione del contratto e che il locatario stesso ignora in tale momento, scoprendoli solo successivamente (per una tale soluzione, Gabrielli, Padovini, 662). Fuori dall'ipotesi dei vizi, vengono in questione altre situazioni in cui l'intollerabilità della prosecuzione della locazione è da ascriversi alle condizioni che riguardano in modo diretto o indiretto l'immobile locato: così, secondo le indicazioni della dottrina, le ipotesi di scadimento delle condizioni dell'edificio o del quartiere in cui questo è ubicato, la minaccia di provvedimenti ablativi, le immissioni. In giurisprudenza, sul tema, si segnalano: Trib. Bari 30 novembre 2004, che ha riconosciuto i gravi motivi di cui all'art. 4, comma 2, della l. n. 392/1978 nella presenza in alcuni ambienti dell'appartamento locato di vistosi fenomeni di umidità e di condensa, tali da compromettere, per la loro consistenza, la salubrità dei predetti ambienti; Trib. Reggio Calabria 17 maggio 2005, che in tema di locazione non abitativa ha ritenuto legittimo il recesso giustificato dal crollo di parte di intonaco dal soffitto. Anche le molestie di fatto da parte di un terzo, in presenza delle quali il conduttore ha unicamente la facoltà, e non l'obbligo, di agire personalmente contro il terzo stesso ai sensi dell'art. 1585 c.c. possono assurgere a gravi motivi di recesso, come ritenuto da Cass. III, n. 12291/2014, che ha confermato la sentenza di merito secondo la quale la dismissione della detenzione dell'immobile era legittimamente dipesa dal disturbo della quiete e del riposo notturno arrecato al conduttore dal continuo abbaiare di un cane. Il recesso per gravi motivi: la disciplinaÈ anzitutto controverso se le parti possano convenire una deroga alla disposizione contenuta nel comma 6 dell'articolo in esame, escludendo che il conduttore abbia il diritto di recedere dal contratto per gravi motivi. Nella vigenza della l. n. 431/1998 manca, per le locazioni abitative, una disposizione, come l'art. 79 della l. n. 392/1978, che commini la nullità delle pattuizioni che attribuiscano al locatore vantaggi in contrasto con le singole disposizioni della legge stessa. Si è quindi sostenuto che una clausola dell'indicato tenore derogatorio sarebbe da considerare senz'altro valida, in assenza di espressa comminatoria di nullità e stante l'impossibilità di desumere l'invalidità della pattuizione dalla disposizione di cui all'art. 13 della l. n. 431/1998 (Izzo, 176; Carleo, 196). In contrario, si è detto che la disposizione di cui al comma 3 di quest'ultimo articolo, sull'inderogabilità dei limiti legali di durata, potrebbe estendersi alla fattispecie in esame: in particolare, tra i limiti di durata potrebbe considerarsi compreso anche quello che consente ad ogni contratto di locazione di continuare a produrre i suoi effetti fintanto che non sopravvenga in capo al conduttore un fatto che lo induca giustificatamente a recedere (Gabrielli, Padovini, 665). Può tuttavia obiettarsi che i limiti legali di durata siano solo quelli minimi, direttamente stabiliti dalla legge (cfr. art. 2 l. n. 431/1998) e posti a presidio della stabilità del rapporto locatizio. La questione resta aperta; peraltro, una interpretazione nel senso della derogabilità induce il sospetto di una irragionevole disparità di trattamento tra le ipotesi di recesso per gravi motivi in materia delle locazioni ad uso abitativo e, rispettivamente, in materia di locazioni ad uso diverso (ove ancora opera la nullità di cui al richiamato art. 79). La soluzione del problema relativo alla derogabilità della disciplina contenuta nell'art. 3, comma 6, condiziona, come è evidente, anche la risposta al quesito circa la legittimità di una pattuizione che onerasse il conduttore dell'osservanza di un termine di preavviso più ampio di quello semestrale. Come in precedenza accennato, il comma 6 dell'articolo in esame nulla dice quanto alla forma del preavviso di recesso: ciò diversamente da quanto stabilito, per il recesso convenzionale dalle locazioni abitative, dall'art. 4, comma 1, della l. n. 392/1978 e, per il recesso, sia convenzionale che per gravi motivi da quelle non abitative, dall'art. 27, commi 7 e 8, della stessa legge. Si è nondimeno evidenziato, in dottrina, che, essendo la locazione ad uso abitativo un contratto solenne, il recesso dallo stesso debba essere necessariamente esercitato con atto scritto (Cosentino, 110; Bucci, 71; Mazzeo, 102). Un responso in tal senso, in giurisprudenza, è stato offerto da Trib. Salerno 14 dicembre 2007). Secondo la Corte di legittimità, poi, nella locazione abitativa come in quella non abitativa, il conduttore, contestualmente alla dichiarazione di recesso, deve comunicare, a pena di inefficacia, i gravi motivi al locatore, onde consentirgli di poterli contestare tempestivamente (Cass. III, n. 10677/2008; il principio è stato ribadito, più di recente, per le locazioni non abitative, da Cass. III, n. 549/2012 e da Cass. III, n. 13368/2015; in senso contrario, App. Roma 24 dicembre 1998, secondo cui ai fini del valido ed efficace esercizio della facoltà di recesso prevista dall'art. 27, ultimo comma della l. n. 392/1978 non è necessario che il conduttore, nel preavviso diretto al locatore, specifichi quali siano i gravi motivi posti a fondamento del diritto di sciogliersi dal contratto, essendo sufficiente la mera enunciazione della sussistenza degli stessi. Si segnalano, in dottrina, opinioni critiche rispetto all'indirizzo espresso dalla Suprema Corte (Del Prato, 1584; Grisi, 511). L'onere di identificazione del motivo di recesso non implica, peraltro, che il conduttore sia tenuto a spiegare le ragioni di fatto, di diritto o economiche su cui tale motivo è fondato, né di darne la prova, dal momento che queste attività devono esser svolte in caso di contestazione da parte del locatore (Cass. III, n. 549/2012; Cass. III, n. 6095/2006). Il giudice è tenuto a verificare la corrispondenza delle ragioni del recesso a quelle enunciate nell'atto di preavviso, quando vi sia contestazione al riguardo. In giurisprudenza si è spiegato che in base all'art. 1324 c.c. gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona cui sono indirizzati: nella norma – si afferma – è contenuto un principio di vincolatività della dichiarazione, che non può essere più revocata dopo la conoscenza da parte del destinatario. In tal modo la legge ha voluto stabilire uno specifico requisito di certezza dell'atto unilaterale, il contenuto del quale non può essere affidato alle mutevoli determinazioni del dichiarante. Ciò – viene precisato – rileva anche nel caso del recesso unilaterale, sicché una volta espressa la volontà di recesso, il conduttore non potrebbe affidarne l'effetto ad elementi causali non contenuti nell'atto di preavviso richiesto dalla norma. Pertanto, il giudice chiamato a verificare la legittimità del recesso del conduttore, deve verificare anche che questo corrisponda ai motivi espressi nell'atto di preavviso e la comunicazione dei motivi (di quei particolari motivi) produce necessariamente l'effetto di limitare ad essi l'ambito dell'eventuale giudizio introdotto dal locatore per contrastare l'iniziativa del conduttore, dato che altrimenti si finirebbe per frustrare lo scopo della legge (Cass. III, n. 954/1996). Secondo una pronuncia della Cassazione, poi, alla necessità dell'indicazione, nella dichiarazione di recesso, dei motivi posti a fondamento dello stesso dalla parte conduttrice non può non corrispondere l'onere, della parte locatrice, di una contestazione tempestiva e specifica degli stessi, e ciò anche in chiave di tendenziale contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti del contratto, in una prospettiva di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici e di certezza delle situazioni giuridiche: in tal senso, è stata cassata la sentenza della corte di merito con cui si era ritenuto irrilevante che locatori avessero risposto alla comunicazione di recesso dei conduttori a distanza di quasi tre mesi e con cui si era reputata parimenti ininfluente la doglianza dei conduttori circa la genericità e vaghezza della contestazione dei locatori (Cass. III, n. 24266/2020). È da segnalare che, indipendentemente dalla necessità dell'enunciazione specifica del motivo di recesso nel preavviso, assumerà rilevo il dato dell'accertata insussistenza delle ragioni che lo potrebbero giustificare: in particolare, se i gravi motivi si intendono come presupposto causale del recesso, la loro mancanza, determinando il difetto di un elemento essenziale e costitutivo dell'atto, condurrà alla nullità del recesso stesso, mentre se i medesimi si intendono come elemento esterno alla struttura negoziale, operante quale condizione di efficacia del recesso, il difetto di essi ne determinerà l'inefficacia (Scarpa, 116). Resta fermo, però, che il recesso ha effetto automatico e che esso provoca lo scioglimento del contratto alla scadenza del semestre di legge. L'efficacia del recesso non richiede dunque alcuna pronuncia giudiziale costitutiva, ne sia o meno contestata la legittimità da parte del locatore. Il contratto di locazione dunque si scioglierà ope legis una volta decorso il semestre previsto dalla legge, per il solo fatto che la dichiarazione di recesso sia pervenuta al domicilio del locatore, secondo la regola generale di cui all'art. 1334 c.c.: l'eventuale contestazione del locatore circa l'esistenza o la rilevanza dei motivi invocati dal conduttore a fondamento del diritto di recesso non introduce una azione costitutiva finalizzata ad una sentenza che dichiari sciolto il recedente dal contratto, ma introduce una mera azione di accertamento, il cui scopo è stabilire se esistessero, al momento del recesso, i gravi motivi invocati dal conduttore (Cass. III, n. 6895/2015, Cass. III, n. 24266/2020). Condizione per l'operatività del recesso è, ovviamente, l'esistenza in vita del contratto: il recesso non potrebbe operare dopo che il contratto stesso si sia sciolto, per scadenza del termine o per altra causa. Il fatto che il conduttore abbia manifestato l'intento di non volere rinnovare la locazione non può allora incidere sul diritto di tale soggetto di recedere dal contratto, ove i presupposti per l'applicabilità del recesso si manifestino prima della scadenza (Cass. III, n. 6895/2015): ciò proprio in quanto in una tale ipotesi il recesso opererà su un rapporto ancora in essere. In tema è da segnalare pure Cass. III, n. 15082/2000, che ricusa l'assunto secondo cui se la situazione che genera il grave motivo di recesso si produce quando il conduttore può ancora impedire la rinnovazione del contratto, dando disdetta, il mancato esercizio del relativo diritto preclude quello di recedere dal contratto. Il recesso può essere esercitato anche in pendenza del giudizio di risoluzione per inadempimento intrapreso dal locatore: deve però considerarsi che, retroagendo l'eventuale effetto risolutivo del rapporto contrattuale al momento dell'introduzione del detto giudizio, la concreta idoneità del recesso stesso a determinare la cessazione del rapporto dipenderà dal rigetto della domanda di risoluzione (Cass. III, n. 8071/2008). L'esercizio illegittimo del recesso da parte de conduttore (si pensi alla mancata enunciazione dei gravi motivi nell'atto di preavviso, o all'insussistenza in facto degli stessi, o ancora alla mancata osservanza del prescritto periodo di preavviso) impone di considerare scenari diversi. Può, anzitutto, accadere che il locatore aderisca alla manifestazione di volontà del locatore. In tal caso il contratto si risolverà per mutuo consenso. Si è ritenuto, in particolare, che qualora il conduttore si allontani dall'immobile locato prima della scadenza del contratto, in corrispondenza di un accordo raggiunto in tal senso con il locatore e risultante dalla condotta delle parti espressa attraverso fatti univoci e concordanti, si è in presenza di uno scioglimento consensuale del rapporto, e non del recesso del conduttore: sicché in capo a quest'ultimo non si configura l'obbligo di preavviso previsto dall'art. 4 della l. n. 392/1978(Pret. Modena 27 novembre 1995). Allo stesso modo, se il conduttore abbia esercitato il diritto di recesso effettuando la riconsegna dell'immobile prima della scadenza del termine semestrale di preavviso e il locatore abbia accettato l'anticipata riconsegna, il locatore stesso non ha diritto al pagamento dei canoni dovuti fino alla scadenza, e ciò perché l'accettazione della riconsegna determina la risoluzione della locazione per mutuo consenso delle parti (Trib. Macerata 29 marzo 2007; ad analoga conclusione perviene Trib. Firenze 30 gennaio 2008). Se il locatore non manifesta una adesione alla volontà del conduttore di recedere illegittimamente dal contratto le conseguenze sono diverse ed è da escludere che si attui alcuno scioglimento consensuale del vincolo. È utile in questo caso comprendere se l'obbligazione avente ad oggetto i canoni che maturino fino alla naturale scadenza sia in tutto e per tutto riconducibile alla previsione dell'art. 1587, n. 2) c.c., o non abbia, piuttosto, natura risarcitoria, costituendo il lucro cessante di un contratto che si è comunque definitivamente risolto. Il quesito ha una sua pratica rilevanza, giacché solo nel caso dell'illecito produttivo di effetti risarcitori è possibile fare applicazione della regola di cui all'art. 1227, comma 2 c.c., secondo cui il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza: danno non risarcibile sarebbe, ad esempio, quello costituito dal mancato introito del canone nel caso in cui il locatore, ricevuto in restituzione l'immobile, pur potendo locare nuovamente il bene a condizioni non deteriori rispetto alle precedenti, manchi di farlo, lasciando l'alloggio inutilizzato. Secondo la Cassazione, il conduttore, qualora receda dal contratto prima della scadenza del termine di durata, senza il prescritto preavviso, è tenuto al risarcimento dei danni che il locatore provi di aver subıto per l'anticipata restituzione dell'immobile, a meno che dimostri che l'immobile è stato egualmente utilizzato dal locatore direttamente o indirettamente (Cass. III, n. 17833/2007, con cui, nel confermarsi il rigetto della pretesa risarcitoria del locatore, è stato rilevato che nessun pregiudizio era derivato a quest'ultimo dall'anticipato rilascio dei locali, essendo stati gli stessi locati ad altro soggetto senza alcun apprezzabile intervallo tra il rilascio e la nuova locazione e non essendo stato dimostrato dal locatore che il mancato ripristino dell'immobile, prima che il medesimo fosse concesso di nuovo in locazione, avesse comportato la pattuizione di un canone di importo inferiore rispetto ad altro proprio per la mancata eliminazione dei danneggiamenti riscontrati di recente, nel senso che Il danno da mancata percezione dei canoni per anticipata cessazione del rapporto di locazione può essere riconosciuto solo qualora il locatore abbia fornito la prova che l'immobile sia rimasto libero e non utilizzato: Trib. Catanzaro 2 febbraio 2023). È da osservare, tuttavia, che in altre occasioni la Suprema Corte ha associato l'illegittimo esercizio del recesso all'obbligazione di pagamento dei canoni maturati fino allo scadere del contratto. Così, secondo Cass. III, n. 12020/2002, qualora il conduttore, deducendo il proprio diritto alla risoluzione anticipata del rapporto, riconsegni l'immobile al locatore, il quale accetti la consegna con riserva, (nella specie: facendo mettere a verbale l'espressa volontà di mantenere ferme le domande di ripetizione di tutti i canoni non corrisposti), egli non è liberato ai sensi dell'art. 1216 c.c. dall'obbligo del pagamento dei canoni ancora non maturati e il successivo accertamento della insussistenza del diritto di recesso comporta che il conduttore medesimo sia tenuto al pagamento dei canoni fino alla scadenza del contratto. Ancora, afferma Cass. III, n. 25136/2006 che l'esercizio della facoltà di recesso da parte del conduttore diviene produttivo di effetti giuridici, con la cessazione del rapporto locatizio, alla scadenza del termine semestrale di preavviso previsto in contratto: il conduttore, pertanto, indipendentemente dal momento (anteriore alla scadenza di detto preavviso) di materiale rilascio dei locali, rimane obbligato alla corresponsione dei canoni sino alla cessione de jure del contratto e, cioè per sei mesi, a decorrere dalla data del preavviso. Nel medesimo senso si segnala, nella più recente giurisprudenza di merito: Trib. Bari 28 maggio 2021; Trib. Trapani 7 luglio 2020 . È da segnalare, poi, la distinzione introdotta nei termini che seguono da Cass. III, n. 10677/2008: se il conduttore di un immobile (nella specie adibito ad uso non abitativo) recede anticipatamente ed ingiustificatamente dal contratto, il locatore per pretendere il risarcimento del danno rappresentato dalla mancata percezione del canone cui avrebbe avuto diritto sino alla scadenza naturale del rapporto deve preliminarmente domandare la declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento; ove per contro il locatore si dolga del mancato pagamento di canoni già scaduti, ma non chieda accertarsi la risoluzione del contratto, l'unico danno di cui potrà pretendere il risarcimento sarà quello conseguente al ritardato pagamento del canone. Da ultimo, merita di ricordare il recente arresto di Cass VI, n. 13092/2017: intervenuta la disdetta del locatore, il conduttore è tenuto al pagamento dei canoni fino alla scadenza del contratto, salva la possibilità di esercitare, ricorrendone le condizioni, il recesso per gravi motivi (nella specie: quello di cui all'art. 27, ultimo comma, della I. n. 392/1978, trattandosi di locazione non abitativa) e fermo restando che, in questo caso, il pagamento dei canoni è dovuto fino alla scadenza del termine semestrale di preavviso, indipendentemente dal fatto che il rilascio sia avvenuto in un momento anteriore. BibliografiaBernardi, Coen, Del Grosso, Art. 4. Recesso del conduttore, in Bianca, Irti, Lipari, Proto Pisani, Tarzia (a cura di), Equo canone. 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