Legge - 27/07/1978 - n. 392 art. 29 - Diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza.

Mauro Di Marzio

Diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza.

Il diniego della rinnovazione del contratto alla prima scadenza di cui all'articolo precedente è consentito al locatore ove egli intenda:

a) adibire l'immobile ad abitazione propria o del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta;

b) adibire l'immobile all'esercizio, in proprio o da parte del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta, di una delle attività indicate nell'articolo 27, o, se si tratta di pubbliche amministrazioni, enti pubblici o di diritto pubblico, all'esercizio di attività tendenti al conseguimento delle loro finalità istituzionali;

c) demolire l'immobile per ricostruirlo, ovvero procedere alla sua integrale ristrutturazione o completo restauro, ovvero eseguire su di esso un intervento sulla base di un programma comunale pluriennale di attuazione ai sensi delle leggi vigenti. Nei casi suddetti il possesso della prescritta licenza o concessione è condizione per l'azione di rilascio; gli effetti del provvedimento di rilascio si risolvono se, prima della sua esecuzione, siano scaduti i termini della licenza o della concessione e quest'ultima non sia stata nuovamente disposta;

d) ristrutturare l'immobile al fine di rendere la superficie dei locali adibiti alla vendita conforme a quanto previsto nell'articolo 12 della legge 11 giugno 1971, n. 426 e ai relativi piani comunali, sempre che le opere da effettuarsi rendano incompatibile la permanenza del conduttore nell'immobile. Anche in tal caso il possesso della prescritta licenza o concessione è condizione per l'azione di rilascio; gli effetti del provvedimento di rilascio si risolvono alle condizioni previste nella precedente lettera c) (1).

Per le locazioni di immobili adibiti all'esercizio di albergo, pensione o locanda, anche se ammobiliati, il locatore può negare la rinnovazione del contratto nelle ipotesi previste dall'articolo 7 della legge 2 marzo 1963, n. 191, modificato dall'articolo 4-bis del decreto-legge 27 giugno 1967, n. 460, convertito, con modificazioni, nella legge 28 luglio 1967, n. 628, qualora l'immobile sia oggetto di intervento sulla base di un programma comunale pluriennale di attuazione ai sensi delle leggi vigenti. Nei casi suddetti il possesso della prescritta licenza o concessione è condizione per l'azione di rilascio. Gli effetti del provvedimento di rilascio si risolvono alle condizioni previste nella precedente lettera c). Il locatore può altresì negare la rinnovazione se intende esercitare personalmente nell'immobile o farvi esercitare dal coniuge o da parenti entro il secondo grado in linea retta la medesima attività del conduttore, osservate le disposizioni di cui all'art. 5 della L. 2 marzo 1963, n. 191, modificato dall'art. 4-bis del D.L. 27 giugno 1967, n. 460, convertito, con modificazioni, nella L. 28 luglio 1967, n. 628.

Ai fini di cui ai commi precedenti il locatore, a pena di decadenza, deve dichiarare la propria volontà di conseguire, alla scadenza del contratto, la disponibilità dell'immobile locato; tale dichiarazione deve essere effettuata, con lettera raccomandata, almeno 12 o 18 mesi prima della scadenza, rispettivamente per le attività indicate nei commi primo e secondo dell'articolo 27 e per le attività alberghiere.

Nella comunicazione deve essere specificato, a pena di nullità, il motivo, tra quelli tassativamente indicati nei commi precedenti, sul quale la disdetta è fondata.

Se il locatore non adempie alle prescrizioni di cui ai precedenti commi il contratto s'intende rinnovato a norma dell'articolo precedente.

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 9 ottobre 1998, n. 348, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'ultima parte della presente lettera, nella parte in cui prevede che la scadenza, nel corso del processo, del termine per l'inizio dei lavori, indicato nella licenza o concessione, impedisce l'emanazione del provvedimento di rilascio.

Inquadramento

L'art. 29 l. n. 392/1978, rubricato: «Diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza», va letto in combinato disposto, da un lato, con l'art. 28 della stessa legge, laddove stabilisce, al comma 2, che alla prima scadenza contrattuale il locatore di un immobile destinato ad uso non abitativo può esercitare la facoltà di diniego della rinnovazione soltanto per i motivi e con le modalità e termini di cui all'art. 29, dall'altro lato con l'art. 30, che regola la procedura giudiziale di rilascio, per l'ipotesi che il conduttore non aderisca all'intimato diniego.

La norma in commento, poi, può dividersi in due parti.

La prima parte elenca i motivi che giustificano il diniego di rinnovazione; la seconda fissa i requisiti di contenuto e forma della disdetta motivata mediante la quale la facoltà di diniego della rinnovazione deve essere esercitata.

La disposizione stabilisce infine, a tal riguardo, che se il locatore non osserva le prescrizioni concernenti contenuto e forma della disdetta motivata, il contratto di rinnova ai sensi del precedente art. 28, al cui commento, a tal riguardo, è sufficiente rinviare.

Quanto alle successive scadenze, il principio da applicare si sintetizza in ciò, che ai contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, anche se stipulati dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in qualità di locatori, è applicabile la disciplina dettata dagli artt. 28 e 29 della l. n. 392 del 1978, in quanto in base a tali norme, a differenza dell'ipotesi regolata dall'art. 1597 c.c., la protrazione del rapporto, anche alle scadenze successive alla prima, non costituisce l'effetto di una tacita manifestazione di volontà - successiva alla stipulazione del contratto e presunta in virtù di un comportamento concludente - ma deriva direttamente dalla legge; ne consegue che il contratto dovrà intendersi automaticamente rinnovato in mancanza di tempestiva disdetta, la quale inoltre, alla prima scadenza, potrà ritenersi idonea a impedire la rinnovazione solo se esercitata per uno dei motivi di cui all'art. 29 con le modalità e i termini ivi previsti (Cass. III, n. 34010/2023).

Ciò detto, occorre anzitutto soffermarsi sui singoli motivi legittimati l'esercizio della facoltà di diniego della rinnovazione.

Destinazione dell'immobile ad abitazione del locatore e dei suoi familiari

Il diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza è previsto nell'ipotesi in cui il locatore intenda adibire l'immobile ad abitazione propria, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta.

Per sua natura, nel caso indicato, il diniego può essere fatto valere dal solo locatore-persona fisica (Scannicchio, 288), quantunque il locatore-persona giuridica (o ente di fatto) intenda destinare l'immobile ad abitazione di un proprio dipendente (Bucci, Malpica, Redivo, 390) o di un proprio socio.

Secondo alcuni il coniuge, cui allude la norma, sarebbe anche quello divorziato. Una parte della dottrina si è difatti mostrata favorevole a un'estensione in tal senso (Scannicchio, 289). In senso opposto si è osservato che, all'esito dello scioglimento del matrimonio, non vi è un coniuge, ma un ex coniuge (Bucci, Malpica, Redivo, 390; Trifone, 600). Coniuge è viceversa senz'altro anche quello separato.

Dibattuto è poi se per coniuge debba intendersi anche il convivente more uxorio. Il dato testuale depone evidentemente in senso negativo, ma occorre rammentare che proprio nella materia della locazione si è da tempo manifestata una sostanziale equiparazione del convivente al coniuge, essendo stato ammesso il primo a succedere nel contratto di locazione abitativa. Sicché la mutata considerazione sociale del rapporto familiare di fatto dovrebbe indurre alla soluzione meno restrittiva (Lazzaro, Preden, 372).

Dopo la legge sullo stato unico di filiazione (l. n. 219/2012) non ha più senso, ovviamente, interrogarsi se i figli cui la norma si riferisce siano anche quelli olim naturali, legittimati e adottivi.

La disposizione in commento esclude per contro, in maniera inequivocabile, i parenti collaterali (quindi anche i fratelli) e gli affini.

Spetta al locatore, in caso di contestazione, provare il rapporto di parentela che lo lega al soggetto in favore del quale è richiesto il rilascio (Cass. III, n. 11734/1992).

Il motivo deve avere ad oggetto la destinazione dell'immobile ad uso di abitazione primaria, esclusa, dunque, l'adibizione ad usi secondari o voluttuari, quale la seconda casa di vacanza.

Se la destinazione dell'immobile ad uso abitativo richiede lavori di ristrutturazione, non occorre che il locatore si munisca preventivamente del titolo eventualmente necessario all'esecuzione degli interventi edilizi. Il locatore, cioè, non è tenuto a giustificare le modalità secondo cui intende attuare la destinazione prevista ma semplicemente a comunicare un realizzabile proposito (Scannicchio, 290).

La Suprema Corte ha parimenti ritenuto che, ai sensi dell'art. 29 l. n. 392/1978 il possesso delle prescritta licenza o concessione costituisce una condizione dell'azione quando il rilascio dell'immobile locato sia richiesto per ricostruirlo, o ristrutturarlo, ovvero restaurarlo, non anche quando venga chiesto con la finalità di cui alla lett. a) ed occorra ristrutturare l'immobile per adattarlo alle (nuove) esigenze abitative fatte valere, con la conseguenza che in quest'ultima ipotesi il mancato conseguimento della licenza per i necessari lavori può comportare la sopravvenuta impossibilità di destinare l'immobile all'uso per il quale è stato ottenuto il rilascio, e l'eventuale applicazione delle sanzioni previste dall'art. 31 l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 1739/1987; Cass. III, n. 204/1988).

La giurisprudenza attribuisce inoltre rilievo all'impossibilità assoluta di destinare l'immobile ad uso abitativo, in senso giuridico. Si è affermato, al riguardo, che l'interesse del locatore ad esperire l'azione di recesso nel caso di cui alla lett. a) – ma anche della lett. b) – dell'art. 29 postula la possibilità giuridica del soddisfacimento dell'esigenza posta a fondamento della domanda, mediante il rilascio dell'immobile. Il suddetto interesse, pertanto, va negato quando gli strumenti urbanistici, i regolamenti locali e gli atti applicativi di questi gli precludano, in via inderogabile, la facoltà di usare del bene per la destinazione programmata, va invece riconosciuto quando la medesima normativa, nella ricorrenza di certi requisiti e presupposti, consenta detta destinazione, sia pure previa autorizzazione in deroga a quella generalmente imposta, mentre l'eventualità che i competenti organi del comune rifiutino l'autorizzazione in deroga non rileva per escludere il suddetto interesse, né per consentire una pronuncia di rilascio condizionata, ma solo per la possibilità del conduttore di agire per il successivo ripristino del rapporto locativo od il risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 31 della citata legge (Cass. III, n. 4646/1983). Tuttavia, l'assoluta impossibilità di destinazione non ricorre in ipotesi di destinazione d'uso diversa (da quella allegata per il recesso) prevista per tale immobile dalle norme del piano regolatore generale, integranti direttive di massima inidonee, prima di ulteriore specificazione attraverso i relativi strumenti di attuazione, a creare vincoli su beni privati (Cass. III, n. 4611/1984).

Destinazione dell'immobile all'esercizio di una delle attività contemplate dall'art. 27

Il diniego di rinnovo è previsto inoltre nell'ipotesi in cui il locatore intenda adibire l'immobile all'esercizio, in proprio o da parte del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta, di una delle attività indicate dall'art. 27, sia nell'ipotesi in cui venga si tratti dell'inizio di una nuova attività, sia nel caso in cui l'uso dei locali serva ad ampliare un'attività già in essere (Cass. III, n. 4844/1983; Cass. III, n. 217/1985).

Nell'ipotesi considerata il diniego può essere esercitato anche dal locatore-persona giuridica, purché svolga svolgere una delle attività di cui all'art. 27. Non è nemmeno richiesto che l'attività che si intenda intraprendere rientri nell'oggetto sociale (Scannicchio, 291).

Qualora il locatore sia una persona fisica, assume rilievo anche l'attività svolta all'interno di una società di persone: in tal senso è stato affermato che, ai sensi dell'art. 29 in esame deve ritenersi del tutto equivalente la situazione di colui che eserciti, come imprenditore individuale, una attività commerciale, rispetto a chi tale attività abbia a svolgere nella qualità di socio illimitatamente responsabile di una impresa collettiva, dovendosi privilegiare, in proposito, in relazione agli interessi tutelati dalla norma, il dato sostanziale costituito dalla posizione del socio illimitatamente responsabile il cui patrimonio costituisce base e supporto indispensabile per l'attività esercitata nell'ambito societario, rispetto alla rigida distinzione tra società priva di personalità giuridica, ma centro autonomo di imputazione di rapporti, con la conseguenza che legittima si appalesa l'affermazione della sussistenza del presupposto soggettivo onde negare, ex artt. 27 e 29 l. n. 392/1978, il rinnovo contrattuale di immobile locato per uso commerciale qualora il locatore manifesti l'intendimento di destinare detto immobile alla attività imprenditoriale svolta dal coniuge nella qualità di socia accomandataria (e, dunque, illimitatamente responsabile) di una società di persone (Cass. III, n. 9954/1997; v. pure, con riferimento al recesso per necessità in periodo transitorio, Cass. III, n. 464/1982; Cass. III, n. 4809/1982; Cass. III, n. 6535/1984; Cass. III, n. 4061/1985; con riferimento all'ipotesi della società di fatto v., Cass. III, n. 3629/1988). Al contrario, poiché nella società in accomandita semplice il compimento degli atti d'amministrazione della società è riservato ai soci accomandatari, cui appartiene in modo esclusivo la determinazione della volontà sociale, il socio accomandante non è legittimato a far valere, ai fini del recesso dal contratto di locazione di un immobile adibito ad uso non abitativo, ai sensi degli artt. 73 e 29 l. n. 392/1978, l'intenzione della società di esercitare nell'immobile stesso la propria attività commerciale (Cass. III, n. 4824/1986; Cass. III, n. 1547/1982).

Secondo la dottrina, il diniego può essere esercitato anche in caso di conferimento dell'immobile in società di persone, quando ciò sia il presupposto per l'esercizio dell'attività propria: è stato infatti osservato che la legge non richiede al locatore di rimanere proprietario del bene; essa gli impone, più semplicemente, di svolgere nei locali la propria attività (Scannicchio, 291).

È viceversa da escludersi che l'immobile possa essere adibito all'esercizio dell'impresa di una società di capitali: e ciò perché in tal caso l'attività stessa farebbe capo a un soggetto diverso dal locatore, dal suo coniuge o dai suoi parenti in linea retta (erroneo è perciò da ritenere il responso di Pret. Brindisi 3 novembre 1992).

La Suprema Corte considera legittimo il diniego di rinnovo anche qualora sia strumentale ad un'attività svolta nell'impresa familiare. Costituisce valido motivo di diniego della rinnovazione del contratto di locazione di immobile adibito ad uso non abitativo l'intenzione di destinarlo, ai sensi dell'art. 29, lett. b), della l. n. 392/1978, all'esercizio dell'attività commerciale praticata dalla figlia del locatore in regime di impresa familiare insieme al di lei marito, ancorché titolare ne sia quest'ultimo, atteso che la disciplina dettata al riguardo dall'art. 230-bis c.c. conferendo ai familiari ed al coniuge collaboratori nell'impresa poteri direttivi e di gestione patrimoniale consente, in presenza di idonei elementi presuntivi, di considerarli contitolari dell'impresa stessa (Cass. III, n. 2122/1988). Il diritto di recesso dal contratto di locazione di immobili destinati ad uso diverso dall'abitazione, preveduto dagli artt. 73 e 29, lett. b), l. n. 392/1978, va dunque riconosciuto nel caso che la necessità riguardi un parente in linea retta del locatore, ancorché l'attività commerciale da trasferire nei locali chiesti in restituzione sia svolta dal detto familiare del locatore nell'ambito di un'impresa familiare senza che la licenza di esercizio sia intestata allo stesso, concretandosi, con la sua partecipazione alla gestione dell'impresa familiare e l'interesse al relativo svolgimento, la situazione protetta dal legislatore con l'attribuzione del diritto di recesso (Cass. III, n. 3238/1990).

Quanto all'associazione in partecipazione, poiché in questa la titolarità di tutti i rapporti che si incentrano nell'azienda appartiene all'associante, mentre l'associato vi rimane estraneo, il diritto di denegare il rinnovo potrà configurarsi solo ove l'associante si identifichi in uno dei soggetti menzionati dall'art. 29, lett. b) (Pret. Genova 1° marzo 1982, concernente fattispecie in cui l'associante era figlia del locatore e l'associato genero di questo).

Con riguardo al quesito se la società sia legittimata a intimare il diniego di rinnovazione prospettando l'uso che dell'immobile locato debba fare il socio, è consolidato in giurisprudenza il principio per cui la facoltà di diniego del rinnovo del contratto alla prima scadenza può esser fatta valere da una società di persone per la necessità di destinare l'immobile all'esercizio di una attività di un socio che sia compresa nell'oggetto sociale poiché, non essendo l'attività imprenditoriale di detta società – priva di personalità giuridica ancorché dotata di autonomia patrimoniale – imputabile ad un soggetto distinto dal singolo socio, la destinazione dell'immobile a quella determinata attività si pone come una necessità del socio, non individualmente considerato, ma quale membro della società, con conseguente coincidenza dell'interesse della società e del socio ad ottenere la disponibilità dell'immobile (Cass. III, n. 5802/1997; Cass. III, n. 335/1990).

Anche nel caso della destinazione dell'immobile ad una delle attività di cui all'art. 27 rileva l'assoluta impossibilità giuridica di destinare l'immobile all'uso voluto. Peraltro, il diniego di rinnovo alla prima scadenza di un immobile urbano non abitativo per l'intenzione del locatore di destinare l'immobile all'esercizio della propria attività commerciale, non può trovare ostacolo nella mancanza di elementi di carattere amministrativo – quali l'autorizzazione all'esercizio della nuova attività o l'iscrizione alla camera di commercio – che oltre a presupporre, nella generalità dei casi, la raggiunta disponibilità dei locali, non possono incidere nell'ambito della disciplina del rapporto privatistico della locazione, stante la loro attinenza alla normativa pubblicistica (Cass. III, n. 537/2002; Cass. III, n. 463/1999; Cass. III, n. 4568/1997). Egualmente, non impedisce l'accoglimento della domanda la circostanza per cui il locatore non abbia assolto ad incombenti amministrativi previsti per l'attuazione del proposito manifestato (Trib. Napoli 1° ottobre 1991). Rileva, invece, l'esistenza di una situazione ostativa, in senso assoluto, all'esercizio dell'attività. Ad esempio, nel giudizio di diniego di rinnovazione del contratto di locazione alla prima scadenza per l'intenzione del locatore di adibire l'immobile locato ad esercizio della propria attività commerciale, il giudice del merito, di fronte all'eccezione del convenuto di impossibilità giuridica della progettata destinazione perché vietata dal piano di sviluppo comunale previsto dall'art. 11 l. n. 426/1971 (applicabile anche nel caso di trasferimento di un esercizio già esistente), sia in ordine all'insufficiente ampiezza dei locali, sia in ordine al divieto di nuove autorizzazioni nella zona in cui è ubicato l'immobile locato, è tenuto a verificare la sussistenza o meno di tali circostanze obiettivamente impeditive dell'attività commerciale progettata dal locatore. E ciò perché, ove tali impedimenti risultino sussistenti, viene meno il diritto del locatore di far cessare la locazione alla prima scadenza per la dedotta necessità di esercitare attività commerciale nell'immobile locato (Cass. III, n. 1808/1991). Nella stessa prospettiva, la Suprema Corte ha affermato non potersi accogliere la domanda del locatore nell'ipotesi in cui esista una normativa, anche solo comunale, che escluda in modo assoluto la destinazione dell'immobile all'esercizio dell'attività indicata. In detta prospettiva, secondo un'altra pronuncia, il diritto di recesso del locatore previsto dalla legge dell'equo canone andrebbe escluso in presenza di strumenti urbanistici che impediscano inderogabilmente la destinazione prospettata, senza che rilevi la previsione dell'art. 31 della richiamata legge – il quale consente al conduttore di agire per il ripristino del contratto ove all'immobile non sia data la dedotta destinazione – riguardando essa situazioni successive alla cessazione della locazione (Cass. III, n. 4920/1990). Occorre aggiungere che non rileva la difformità della destinazione menzionata nel diniego di rinnovo rispetto a quella prevista nel piano regolatore generale, posto che quest'ultimo contiene delle prescrizioni di massima prive di valore vincolante per i privati (Cass. III, n. 4611/1984). Il diniego è poi senz'altro legittimo in presenza di una normativa urbanistica che consenta l'uso prospettato, seppure a mezzo di autorizzazione in deroga (Cass. III, n. 4646/1983).

Quanto alle autorizzazioni amministrative richieste per i lavori che il locatore debba eseguire per rendere l'immobile idoneo all'attività – industriale, commerciale, artigianale o professionale – che vuole intraprendere, la Suprema Corte ha stabilito che, nel caso in cui il locatore (nella specie, una banca che intendeva aprire nei locali una propria filiale), per utilizzare l'immobile, debba eseguire lavori di ristrutturazione e trasformazione, non costituiscono condizioni necessarie dell'azione di rilascio né il possesso della prescritta concessione edilizia per l'esecuzione delle opere predette, né il rilascio dell'autorizzazione amministrativa per il mutamento della destinazione d'uso, salvo che la disciplina urbanistica precluda in modo assoluto e inderogabile l'adozione dei predetti provvedimenti, così da rendere impossibile l'attuazione della nuova destinazione (Cass. III, n. 3421/1995; Cass. III, n. 4518/1997). Neppure vale ad integrare un caso di impossibilità giuridica «assoluta» il vincolo ostativo alla progettata destinazione che sia impresso da una variante al piano regolatore adottata, ma non ancora approvata, malgrado la previsione di misure di salvaguardia, considerato che in tal caso l'impossibilità di realizzazione delle opere o del mutamento di destinazione è transitoria e suscettibile di venir meno per effetto della mancata approvazione della variante (Cass. III, n. 4003/1995).

Destinazione dell'immobile all'esercizio di attività con finalità istituzionali degli enti pubblici

Il diniego di rinnovo può essere intimato anche nell'ipotesi in cui pubbliche amministrazioni, enti pubblici o di diritto pubblico vogliano esercitare, all'interno dell'immobile, attività che siano tendenti al conseguimento delle loro finalità istituzionali.

Non possono dunque esercitare il diniego le associazioni private portatrici di interessi collettivi (come i partiti e i sindacati). Sul punto, la corte di legittimità ha ritenuto manifestamente infondata – per pretesa violazione degli artt. 2 e 3 Cost. – la questione di legittimità costituzionale dell'art. 29, lett. b), della l. n. 392/1978 in quanto la diversità di regolamentazione del diniego della rinnovazione del contratto di locazione alla prima scadenza, ammesso soltanto se la qualità del locatore sia rivestita da pubbliche amministrazioni e non pure da associazioni private (come i partiti e i sindacati) che perseguono finalità collettive, trova fondamento nel fatto che l'una categoria è portatrice di interessi collettivi che realizza in modo esclusivo, mentre l'altra persegue interessi di parte, anche se talvolta non egoistici (Cass. III, n. 2727/1985). Egualmente non sono ricompresi nella previsione gli enti con scopi di assistenza e beneficenza, anche di origine religiosa, come le Opere Pie, che, non essendo di diretta creazione statale, hanno natura di enti privati (Cass. III, n. 8380/1993).

Non è richiesto che l'esigenza del locatore, relativa allo svolgimento di attività rientranti nelle proprie finalità istituzionali, abbia carattere di definitività (Cass. III, n. 1194/1989).

Destinazione dell'immobile ad attività agricole per connessione

Secondo la Suprema Corte, le norme di cui agli artt. 27 ed al combinato disposto degli artt. 29 e 73 l. n. 392/1978 mirano ad assicurare la stabilità dei rapporti locatizi (art. 27) ed a privilegiare il locatore rispetto al conduttore (artt. 29 e 73) in riferimento al concreto svolgimento nell'immobile locato di determinate attività, come quella commerciale o industriale, considerate per la loro effettiva natura, e, quindi, indipendentemente dalla loro eventuale accessorietà e complementarietà rispetto all'attività agricola, di per sé esulante dall'ambito di operatività della citata normativa (Cass. III, n. 2273/1988).

Difatti, l'art. 29 prescinde dalla qualificazione del soggetto locatore che faccia valere uno dei motivi di recesso previsti in quella norma, ed incentra il precetto sull'utilizzazione concreta che egli intenda fare dell'immobile di cui chiede la disponibilità. In aderenza a tale interpretazione deve così ritenersi che anche il locatore titolare dell'impresa agricola e che intenda esercitare tale impresa possa ottenere la disponibilità dell'immobile locato, quando intenda adibirlo all'esercizio dell'attività commerciale o industriale connessa a quella tipicamente agraria di cui all'art. 2135 c.c. o, ancora, quando intenda utilizzare l'immobile per deposito merci, in quanto anche tale utilizzazione deve considerarsi attinente alle attività privilegiate dal legislatore con la conseguenza che può anch'essa giustificare il recesso da parte del locatore (Cass. III, n. 1307/1987; v. sulla materia Cass. III, n. 2972/1983; Cass. III, n. 572/1988, con riferimento all'attività di conservazione dei prodotti del fondo, in vista della futura vendita; Cass. III, n. 5020/1983, che ammette la prospettazione di un utilizzo dell'immobile per il deposito di merci; Cass. III, n. 3830/1983, secondo cui, ai fini che interessano, rilevano le esigenze del lavoro agricolo del coltivatore diretto, esercitato in maniera professionale nell'ambito più generale delle occorrenze dell'impresa agricola).

È escluso, invece, che tra le attività idonee a giustificare il diniego di rinnovo rientri la mera coltivazione del fondo, attività non riconducibile alla previsione dell'art. 27 (Cass. III, n. 2615/1990; ma v. Corte cost. n. 40/1984).

Interventi edilizi

Il diniego di rinnovo può essere intimato in vista dall'esecuzione, sull'immobile locato, di opere consistenti in demolizione ai fini della ricostruzione, nell'integrale ristrutturazione o nel completo restauro; il diritto del locatore a riottenere la disponibilità del bene si configura anche nel caso in cui egli intenda eseguire un intervento sulla base di un programma pluriennale di attuazione o ristrutturare l'immobile al fine di rendere la superficie dei locali adibiti alla vendita conforme a quanto previsto dall'art. 12 l. n. 426/1971.

Come ha avuto modo di osservare la dottrina, il momento particolare in cui la legge sull'equo canone è stata discussa e approvata, che vedeva all'esame del Parlamento anche il provvedimento sull'edilizia residenziale; un certo invecchiamento del patrimonio edilizio esistente e la ricerca di strumenti per sollecitare i proprietari a interventi conservativi su di esso; il buon funzionamento di taluni similari istituti della normativa vincolistica hanno sollecitato il legislatore del 1978 a valorizzare una tale finalità. Così, in tema di determinazione dell'equo canone degli immobili adibiti a uso di abitazione, è stato stabilito l'azzeramento del coefficiente della vetustà (che indica proprio l'invecchiamento dell'immobile) in caso di interventi di integrale ristrutturazione o di completo restauro (art. 20). Inoltre, questi, o altri, interventi sono stati posti a base della facoltà del locatore di recedere dai contratti in corso (sia con riferimento agli immobili destinati ad uso di abitazione ex art. 59, che a quelli non abitativi) ovvero – ed è il tema in esame – per denegare il rinnovo del contratto alla prima scadenza (Lazzaro, Preden, 216).

Ai fini del diniego di rinnovo rilevano i lavori edilizi concernenti la sola unità immobiliare locata. Perché il locatore possa esercitare la facoltà di diniego, cioè, i progettati lavori devono riguardare l'immobile locato, e non necessariamente l'intero edificio in cui esso si trova situato. Ciò – come è stato detto – è reso evidente anzitutto dalla lettera della legge che usa la dizione «immobile» e non quella di «edificio», termini che il legislatore del 1978 mostra peraltro di adoperare in un ben preciso significato, tant'è che, a proposito della analoga situazione disciplinata dall'art. 59, n. 3) l. n. 392/1978, parla di «immobile locato [...] compreso in un edificio gravemente danneggiato». È ben possibile, poi, che vi sia una indipendenza funzionale del singolo immobile locato dall'edificio di cui fa parte. Infine, anche l'integrale ristrutturazione o il completo restauro del singolo immobile possono essere impediti dalla permanenza in esso del conduttore (Cass. III, n. 5021/1983; Cass. III, n. 4740/1984; Cass. III, n. 3018/1985; Cass. III, n. 296/1991; Cass. III, n. 3266/1995).

Si osserva parimenti in dottrina che il conduttore non può paralizzare l'avversa azione sull'assunto che gli aggettivi «completo» e «integrale» – riferiti rispettivamente al restauro e alla ristrutturazione – dovrebbero necessariamente coinvolgere l'intero edificio per essere apprezzabili ai fini che qui interessano. Del pari, il locatore non può esercitare la facoltà di diniego di rinnovazione qualora i lavori, pur investendo in maniera più o meno massiccia l'edificio in cui l'immobile locato si trova, non coinvolgano necessariamente quest'ultimo (Lazzaro, Preden, 217).

Né è richiesto, ai fini del diniego di rinnovo, che la permanenza del conduttore all'interno di un immobile non interessato alle opere edilizie, comporti un disagio per il locatore: e cioè l'intervento edilizio deve riguardare l'immobile oggetto del contratto, a nulla rilevando che i progettati lavori interessino altre parti dell'edificio in cui detto immobile è situato, o che per la loro esecuzione il locatore abbia a subire un aggravio di spesa in conseguenza della permanenza del conduttore nello stesso, venendo quest'ultima situazione in rilievo solamente nella diversa ipotesi, prevista dalla lett. d) del medesimo art. 29 (Cass. III, n. 2929/1984).

Ai fini della differenziazione delle tipologie dei vari interventi edilizi, con particolare riguardo alla distinzione tra ristrutturazione e restauro da un lato, e manutenzione dall'altro) è stato attribuito primario rilievo a quanto previsto dall'art. 31 l. n. 457/1978, che, nelle definizioni degli interventi edilizi, ha carattere di norma generale e fondamentale in considerazione della sua collocazione tra le «norme generali per il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente», nonché del disposto dell'ultimo comma dello stesso articolo per il quale le definizioni in questione prevalgono «sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi» (Cass. III, n. 4033/1988; Cass. III, n. 5021/1983, Cass. III, n. 403/1984; Cass. III, n. 4740/1984; Cass. III, n. 6508/1984; Cass. III, n. 3018/1985; Cass. III, n. 4849/1985).

La catalogazione dell'art. 31 l. n. 457/1978 va ricercata oggi nell'art. 3 d.P.R. n. 380/2001, più volte modificato — T.U. edilizia.

Compete al giudice la qualificazione delle opere giustificative del diniego. Come osservato dalla Suprema Corte, il combinato disposto degli artt. 73 e 29, lett. c), l. n. 392/1978 prevede l'intenzione del locatore di effettuare lavori di un certo rilievo, specificati nella demolizione, nell'«integrale ristrutturazione o completo restauro» ecc.: sicché, allorché l'attore agisca sul presupposto di dover eseguire degli interventi edilizi, il thema della lite viene ad incentrarsi sulla loro idoneità ad essere attratti in una delle suddette categorie, legittimanti il diniego, senza che la qualificazione che la parte ne abbia dato, in ipotesi in maniera errata, escluda il potere del giudice di inquadrarli nell'esatta categoria e pronunciare, di conseguenza, sulla domanda. Il che, d'altra parte risponde al principio che la domanda giudiziale deve essere considerata non solo nella sua formulazione letterale ma, soprattutto, nel suo contenuto sostanziale e con riguardo alle finalità che la parte intende perseguire, tenendo conto dei fatti esposti anche nella parte motiva nonché della volontà che possa essere desunta implicitamente o indirettamente. Sicché il giudice del merito che, applicando tali criteri, pervenga alla precisa determinazione dell'oggetto della lite, fa corretto uso del potere decisionale, laddove incorrerebbe nel vizio di omesso esame ove limitasse la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa e trascurasse la ricerca dell'effettivo contenuto sostanziale di essa (Cass. III, n. 4740/1984).

Né la legittimità del diniego di rinnovo rimane influenzata dalla sussunzione delle opere edilizie che il locatore intende realizzare, nella disdetta motivata, in una categoria giuridica inappropriata (Pret. Benevento 20 marzo 1990).

Nello stesso senso, è la dottrina (Lazzaro, Preden, 208).

Si è già si è visto che l'art. 31 l. n. 392/1978 non menziona tra i vari interventi di recupero dell'esistente patrimonio immobiliare la demolizione e successiva ricostruzione dell'edificio. Difatti, ai sensi dell'art. 29, lett. c), l. n. 392/1978, la ricostruzione dell'edificio previa demolizione comporta la cessazione dell'oggetto del rapporto, generato dal contratto di locazione, che è sostituito da un bene diverso, ancorché riproduca la struttura di quello demolito (Cass. III, n. 5452/1982).

Secondo la Suprema Corte, infine, tenuto conto della ratio legis, diretta a consentire al locatore di un immobile urbano destinato ad uso diverso da quello di abitazione una diversa utilizzazione o un migliore godimento dell'immobile, il recesso previsto dall'art. 29, lett. c), della l. 27 luglio 1978, n. 392 trova applicazione anche quando il locatore di un terreno inedificato sul quale il conduttore abbia costruito un immobile intenda costruire un nuovo immobile previa demolizione di quello esistente, ferma restando l'applicazione della disciplina, tuttora vigente, sui miglioramenti e le addizioni dettata dagli artt. 1592 e 1593 c.c. (Cass. III, n. 11496/1990).

Nel distinguere, poi, gli interventi di integrale ristrutturazione e completo restauro, la Suprema Corte ha in un primo tempo stabilito che l'integrale ristrutturazione comporta, come risultato, la modificazione della struttura dell'edificio, che viene ad assumere un diverso modo d'essere e, perciò, il sorgere di un quid novi; il completo restauro comporta il ripristino dell'edificio nel suo modo di essere originario, attraverso il quasi integrale rifacimento delle parti distrutte o deteriorate e la eliminazione di aggiunzioni sovrapposte (Cass. III, n. 5452/1982). In seguito, si è affermato che rientrano nella nozione di integrale ristrutturazione (distinta dalla manutenzione straordinaria, avente finalità solo conservative) gli interventi che comportano, come risultato, modificazione della struttura dell'immobile, che viene a costituire una entità ontologicamente o qualitativamente diversa da quella precedente (Cass. III, n. 5058/1987). E si è aggiunto che il completo restauro consiste in un intervento caratterizzato da un insieme sistematico di opere, tra loro coordinate ed effettuate in una visione di compiutezza su una pluralità di parti dell'immobile, sì da conferire a questo, pur nel rispetto dei suoi elementi tipologici, formali e strutturali, una nuova identità, o comunque un quid novi che presenti l'immobile come ontologicamente e qualitativamente diverso da quello precedente (Cass. III, n. 4934/1988).

Il concetto di quid novi, che connota anche i lavori di ricostruzione, attesa la maggiore estensione dell'intervento in questa ipotesi attuato, comporta l'assimilazione delle diverse fattispecie prese in considerazione dal legislatore. Difatti, nelle differenti ipotesi della ristrutturazione, della ricostruzione del restauro, rileva la diversità ontologica o qualitativa tra il prima e il dopo, graduata in dipendenza del tipo dei lavori: così il restauro mira a riportare a nuovo l'immobile, mentre le prime due ipotesi realizzano, oggettivamente, un qualcosa di diverso (nel modo di essere per la ristrutturazione, nella sua entità in ipotesi di ricostruzione previa demolizione) (Giove, 52).

Sicché, il completo restauro comprende i lavori diretti a realizzare la conservazione e la funzionalità dell'immobile nel rispetto degli elementi tipologici e strutturali di esso, quali il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi, l'inserimento di impianti richiesti dalle esigenze di uso e l'eliminazione di elementi estranei alla fisionomia architettonica dell'edificio (Cass. III, n. 3018/1985); l'integrale ristrutturazione può implicare, oltre che il rifacimento o rafforzamento degli elementi essenziali dell'immobile, anche i casi di modificazione e trasformazione, che lo interessino nella sua totalità e si traducano nella realizzazione, dal punto di vista qualitativo, di un'entità del tutto diversa da quella preesistente (Cass. III, n. 3266/1995; Cass. III, n. 3098/1986).

È da escludere che ristrutturazione e restauro presuppongono la demolizione, anche parziale, dell'immobile: difatti il legislatore ha parlato di demolizione in contrapposto alla ricostruzione, separando nettamente gli altri due concetti di ristrutturazione e di restauro che – se pur ammettono possibilità di demolizione parziale – non la presuppongono di certo, avendo proprio per loro fine la conservazione dell'esistente (Pret. Savona 29 settembre 1979). Non è necessario inoltre che si agisca sulle strutture fondamentali della cosa locata (Cass. III, n. 3266/1995; Cass. III, n. 4934/1988).

Dal momento che l'integrale ristrutturazione e il completo restauro richiedono la modificazione ontologica o qualitativa del bene locato, la Suprema Corte ha qualificato come riparazioni straordinarie le opere consistenti in «rifacimento globale di pavimentazioni, intonaci, servizi igienici, infissi e rifacimento copertura», dovendosi escludere che una siffatta attività edilizia, pur sempre di natura conservativa ancorché consistente e migliorativa, abbia arrecato modificazioni alla struttura dell'immobile così da far assumere a questo una nuova identità, un diverso modo di essere, ponendosi come un quid novi. Situazione che si sarebbe verificata, ad esempio, se i lavori avessero determinato, con l'abbattimento delle tramezzature o l'inserimento di ulteriori, una diversa distribuzione dei locali interni o l'aggiunta di uno o più vani, mentre nella specie le opere sono consistite in un improrogabile risanamento edilizio non modificativo degli ambienti interni ed esterni (Cass. III, n. 12397/1995). Anche tali interventi devono presentare peraltro una loro sistematicità e compiutezza, sicché è da escludere che possa farsi rientrare nella fattispecie prevista dalla legge la mera unificazione di locali contigui (Cass. III, n. 4581/1985). È dunque da escludere che l'integrale ristrutturazione e il completo restauro possano consistere nella costruzione di un bagno, nella installazione di un impianto di riscaldamento e di un citofono (Cass. III, n. 758/1991).

Con riguardo ai lavori di manutenzione straordinaria si è osservato, in dottrina, che la manutenzione, sia ordinaria o straordinaria, è attività intesa alla conservazione dell'edificio, per impedirne il deterioramento o per riparare un deterioramento verificatosi. E la distinzione tra manutenzione ordinaria e manutenzione straordinaria dipende dalla consistenza delle opere da eseguire, se normali (nel senso di ordinaria, periodica ricorrenza) o eccedenti la normalità, e dall'entità della spesa. Perciò trattandosi di attività edilizia di conservazione, non ne risulta un quid ontologicamente o qualitativamente diverso (Lazzaro, Preden, 220). Non può del resto ammettersi che l'inerzia del locatore ai propri obblighi contrattuali (tra i quali è certamente compresa la manutenzione straordinaria dell'immobile, pena altrimenti lo snaturarsi del contratto di locazione) si traduca in un vantaggio del medesimo soggetto (Cosentino, Vitucci, 429).

In giurisprudenza, è pure costantemente affermato che gli interventi di manutenzione straordinaria difettano delle connotazioni – di sistematicità, di compiutezza e di idoneità a dar vita al «nuovo» – che, si è visto, sono proprie delle opere di completo restauro e integrale ristrutturazione: onde non possono essere assimilati all'una o all'altra fattispecie. Si rileva, così, che gli interventi di manutenzione straordinaria, i quali non danno luogo alla facoltà di recesso, pur consistendo, in genere, in opere di una certa consistenza dirette a rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell'immobile, sono privi del detto carattere di sistematicità e di compiutezza, e si concretano in un'attività edilizia di conservazione che non comporta una modificazione ontologica di risultato rispetto a ciò che preesisteva, né, in relazione all'estensione dell'intervento, una diversità qualitativa dell'immobile (Cass. III, n. 4934/1988).

L'art. 29, lett. c), consente ancora di denegare il rinnovo anche nel caso in cui il locatore intenda eseguire sull'immobile un intervento sulla base di un programma pluriennale di attuazione, a sensi delle leggi vigenti, nonché nel caso in cui intenda ristrutturare l'immobile per adeguarlo alle previsioni della normativa di settore in tema di distribuzione. Questa fattispecie è prevista dalla lett. d), dell'art. 29, il quale richiama, a tal fine, l'art. 12 l. n. 426/1971. È peraltro da rimarcare che la citata l. n. 426/1971 risulta abrogata in forza dell'art. 26, comma 6, d.lgs. n. 114/1998 sulla riforma della disciplina del commercio.

Diniego di rinnovo nelle locazioni alberghiere

Con riferimento a detta tipologia locatizia, è stabilito che il locatore possa denegare la rinnovazione del contratto nelle ipotesi previste dall'art. 7 l. n. 191/1963, modificato dall'art. 4-bis, d.l. n. 460/1967, convertito, con modificazioni, nella l. n. 628/1967, qualora l'immobile sia oggetto di intervento sulla base di un programma pluriennale di attuazione. È poi previsto che il locatore possa altresì intimare disdetta ove nell'immobile egli intenda esercitare personalmente, o farvi esercitare dal coniuge o dai parenti entro il secondo grado in linea retta, la medesima attività del conduttore, osservate le disposizioni di cui all'art. 5 l. n. 191/1963, come sopra modificato. La l. n. 191/1963 è stata abrogata dall'art. 24, d.l. n. 112/2008, convertito con modificazioni dalla l. n. 133/2008.

Con riguardo al caso dell'esercizio dell'attività alberghiera da parte del locatore o dei suoi parenti non occorrono particolari approfondimenti. Sul punto possono essere richiamati i rilievi precedentemente svolti con riferimento all'ipotesi di cui all'art. 29, lett. b).

La concessione amministrativa quale condizione del diniego

Nelle fattispecie di cui all'art. 29, comma 1, lett. c) e d), e comma 2 è stabilito che il possesso della prescritta licenza o concessione edilizia costituisce condizione per l'azione di rilascio e che gli effetti del provvedimento del giudice si risolvono se, prima dell'esecuzione dello stesso, siano scaduti i termini della licenza o della concessione e quest'ultima non sia stata nuovamente disposta.

La norma fa menzione della licenza, già prevista dalla l. n. 1150/1942 (legge urbanistica) ancorché il regime amministrativo normale dell'attività edilizia al momento dell'entrata in vigore della l. n. 392/1978 era quello della concessione, ai sensi dell'art. 1, l. n. 10/1977: invero, all'epoca, la precedente normativa trovava una residua applicazione in forza di eventuali proroghe (Cosentino, Vitucci, 560). Il richiamato disposto dell'art. 29 non poteva quindi che riferirsi alla concessione amministrativa, mentre, all'attualità, rileva l'atto assentivo definito permesso di costruire dall'art. 10 d.P.R. n. 380/2001T.U. edilizia.

Il possesso della prescritta concessione amministrativa (oggi del permesso di costruire) costituisce condizione dell'azione di rilascio e deve sussistere al momento della decisione (Cass. III, n. 8460/1986; Cass. III, n. 15018/2004), anche se sopravvenga in grado d'appello (Cass. III, n. 638/1991). È irrilevante che il provvedimento di concessione edilizia sia intestato ad uno solo dei locatori (Cass. III, n. 13115/1995). È necessario solo il possesso della concessione legittimamente rilasciata, mentre resta irrilevante il pagamento di eventuali contributi (Cass. III, n. 2066/1985).

Con riguardo alla scadenza dei termini della concessione vale osservare che, ai sensi dell'art. 15 T.U. edilizia, nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori, ed è disciplinato il decorso e la proroga di essi.

Per quanto attiene poi all'inizio dei lavori, è stato ritenuto, in giurisprudenza, che l'operatività della concessione venga meno a causa del mero decorso del tempo, senza che sia necessario un espresso atto amministrativo di revoca (Trib. Pistoia 10 giugno 1983). Va ancora ricordato che la sopravvenuta inefficacia della concessione, per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno, impedisce la pronuncia di rilascio (Cass. III, n. 8460/1996; Cass. III, n. 5158/1987). Viceversa, ove il termine della concessione scada successivamente alla decisione e prima dell'esecuzione, si risolvono gli effetti della sentenza che è stata pronunciata (Cass. III, n. 5158/1987).

Quest'ultimo principio, nella misura in cui esponeva il locatore a subire gli effetti del decorso del termine anche in ipotesi di non imputabilità del mancato inizio dei lavori, ha dato luogo all'intervento della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l'illegittima costituzionale dell'art. 29, lett. d), ultima parte, in relazione alla lett. c), ultima parte, ove prevede che la scadenza, nel corso del processo, del termine per l'inizio dei lavori, indicato nella licenza o concessione, impedisce l'emanazione del provvedimento di rilascio (Corte cost., n. 348/1998). In conseguenza della pronuncia della Corte Costituzionale, la scadenza, nel corso del processo di cognizione, del termine per l'inizio dei lavori, indicato nella licenza o concessione, non impedisce più l'emanazione del provvedimento di rilascio, poiché l'esistenza di una valida licenza o concessione si configura solo come condizione per l'esecuzione della stessa pronuncia di rilascio, ottenibile, perciò, dall'esecutante anche nelle more del processo esecutivo, con l'effetto che, in assenza di una licenza o concessione efficace, il conduttore – che, anche dopo l'emanazione del provvedimento di rilascio esecutivo, rifiuti la riconsegna dell'immobile – non può essere considerato in mora, analogamente a quanto si ritiene in caso di ingiustificato rifiuto del locatore, che pure si sia munito di un provvedimento di rilascio, di corrispondere al conduttore, alla cessazione del rapporto, l'indennità di avviamento prevista dall'art. 34 della citata l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 258/2006).

Resta da dire degli interventi che non esigono la concessione.

Secondo un primo indirizzo, il congegno del diniego non opera nel caso di interventi di recupero abitativo, dal possesso dell'autorizzazione del sindaco ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 9/1982: è stato osservato, al riguardo, che l'applicazione della nuova disposizione non avrebbe potuto essere fondata sull'analogia, posto che nella fattispecie non si sarebbe dovuto colmare alcuna lacuna normativa; si è rilevato, poi, che l'art. 7 non sarebbe stato dotato di alcun effetto abrogativo rispetto alla norma che correla la facoltà di recesso del locatore al possesso della concessione edilizia (Pret. Chieti 17 maggio 1985). In senso opposto si sono pronunciate altre due pronunce di merito (Pret. Verona 21 maggio 1986; Pret. Gallarate 14 maggio 1987).

Successivamente la questione si è intersecata con la previsione dettata dall'art. 4, comma 7, l. n. 662/1996, la quale prescriveva che il privato, proprietario dell'unità immobiliare, presentasse al sindaco una denuncia di inizio attività accompagnata da una relazione tecnica di un professionista abilitato alla progettazione. Sul punto si è quindi ritenuto fosse venuta meno la condizione dell'azione così come formulata dall'art. 29 l. n. 392/1978 e che l'atto amministrativo potesse essere sostituito dalla «relazione del professionista» (Lazzaro, Preden, 249). Analoghe considerazioni paiono prospettabili con riferimento alla previsione dell'art. 22 d.P.R. n. 380/2001, il quale prevede la denuncia di inizio attività, per diverse tipologie di opere, tra cui gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica (qualora siano disciplinati da piani attuativi, compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale) e gli interventi di nuova costruzione, qualora siano attuati in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.

Infine, fermo l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la giurisdizione del giudice ordinario, nella controversia che il locatore promuova nei confronti del conduttore per ottenere la cessazione del rapporto, in relazione alla dedotta esigenza di procedere ad integrale ristrutturazione dell'immobile, non resta esclusa, in favore della giurisdizione del giudice amministrativo, per il fatto che si debba accertare, quale condizione di legge della domanda, il conseguimento da parte dell'istante di licenza o concessione edilizia per l'esecuzione di dette opere (nella specie, ai sensi dell'art. 29, lett. c), l. n. 392/1978), nonché la legittimità, formale e sostanziale, di tale licenza o concessione, poiché la relativa indagine ha carattere meramente incidentale, in una causa che investe diritti soggettivi scaturenti da un rapporto privatistico (e rispetto alla quale resta estranea la autorità amministrativa che ha adottato detto provvedimento) (Cass. S.U., n. 6449/1985).

La disdetta motivata

Lo strumento attraverso cui si esercita il diniego di rinnovazione alla prima scadenza è la disdetta motivata (art. 29, comma 4, l. n. 392/1978). Questa assolve alla medesima funzione della disdetta di cui all'art. 1596 c.c., impedendo la prosecuzione del rapporto alla scadenza: non si distingue, quindi, dal punto di vista degli effetti, della comune disdetta.

Quanto alla forma della disdetta motivata, la disciplina delle locazioni non abitative prevede espressamente che essa debba essere inviata «con lettera raccomandata».

Va subito chiarito, poi, che secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, con il consenso pressoché unanime della dottrina (fanno eccezione i soli Bucci, Malpica, Redivo, 687) la disdetta motivata non può essere contenuta nel ricorso con cui la parte domandi il rilascio dell'immobile per la prima scadenza.

L'affermazione trova fondamento sulla lettera dell'art. 30 l. n. 392/1978, il quale prevede che solo quando sia «avvenuta la comunicazione di cui al terzo comma dell'art. 29» il locatore possa «convenire in giudizio il conduttore». In tal senso – secondo un avviso parimenti accolto da Cass. III, n. 2777/2003, e Cass. III, n. 15547/2002, nelle cui massime è ribadito che la comunicazione deve precedere l'introduzione del giudizio; Cass. III, n. 8934/1998; Cass. III, n. 1865/1995, le quali hanno qualificato la disdetta motivata come condizione di procedibilità della domanda di rilascio – la Suprema Corte ha affermato che il tempestivo invio della disdetta motivata costituisce condizione di procedibilità della successiva domanda di rilascio: L'art. 30 l. n. 392/1978, è stato detto, prevede quale condizione di procedibilità della domanda di rilascio la dichiarazione della volontà di escludere la rinnovazione del contratto di locazione non abitativa con riguardo alla prima scadenza contrattuale nella forma di comunicazione a mezzo di raccomandata con la specificazione d'uno dei motivi previsti dall'art. 29 della citata l. n. 392/1978, senza che tale forma possa essere sostituita da quella contenuta nell'atto introduttivo del giudizio di rilascio, sottoscritto da procuratore cui sia stata conferita procura nello stesso atto, ancorché con riguardo ad una successiva riproposizione della domanda di rilascio (Cass. III, n. 1574/1990). Anche successivamente è stato ribadito che l'invio, da parte del locatore, del diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza, pur possedendo un contenuto negoziale, dato l'effetto sostanziale di far cessare il rapporto locativo, costituisce, ai sensi dell'art. 30 l. n. 392/1978, una condizione di procedibilità della domanda di rilascio; ne consegue che detta comunicazione deve precedere l'introduzione del giudizio e non può sopravvenire in corso di causa (Cass. III, n. 2777/2003). Ne discende la rilevabilità d'ufficio del difetto della menzionata condizione di procedibilità.

L'enunciazione del motivo

L'art. 29 l. n. 392/1978 prevede che nella comunicazione debba essere specificato, a pena di nullità, il motivo, tra quelli tassativamente indicati dalla norma, sul quale la disdetta è fondata.

La giurisprudenza è oramai ferma nell'interpretare con rigore il dettato della disposizione di legge relativa all'indicazione del motivo. La comunicazione del diniego di rinnovazione alla prima scadenza del contratto di locazione di un immobile adibito ad uso diverso da quello abitativo non può limitarsi ad una generica dichiarazione dell'intento di svolgere, da parte del locatore, nell'immobile stesso, una attività non meglio specificata (Cass. III, n. 4714/2019; Cass. III, n. 8669/2017), ma deve contenere, a pena di nullità, inequivoche indicazioni in relazione alla medesima, sia perché, in mancanza, il conduttore non sarebbe in grado di valutare la serietà dell'intenzione indicata (né il giudice potrebbe verificare, in sede contenziosa, la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento del diritto al rinnovo), sia perché verrebbe così impedito il successivo controllo sulla effettiva destinazione dell'immobile all'uso indicato, ai fini dell'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 31 della legge citata (invocabili anche quando l'immobile sia stato adibito ad un uso riconducibile, sì, ad una delle ipotesi previste dall'art. 29, ma diverso da quello indicato) (Cass. III, n. 5637/1997).

Nella medesima prospettiva si muove la giurisprudenza di merito. Difatti, in tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, nella comunicazione del diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza, ai sensi dell art. 29 l. 27 luglio 1978 n. 392, deve essere specificato quale particolare attività il locatore (o chi per lui) intenda svolgere. A tale specificità è attribuito rilievo non soltanto per la soddisfazione delle esigenze di informazione e di controllo spettanti al conduttore, ma anche per consentire al giudice di verificare la conformità della pretesa alla fattispecie legale delineata dagli articoli 28 e 29 della citata legge, implicante una disdetta caratterizzata da un ben preciso contenuto, e ciò in considerazione peraltro dell'esigenza di tutela della stabilità delle locazioni non abitative, consentendone la cessazione alla prima scadenza del periodo legale di durata solo nelle tassative ipotesi previste per il diniego di rinnovazione (App. Reggio Calabria 6 ottobre 2020, n. 640).

Sulla base del menzionato indirizzo – che è condiviso, tra le tante, da Cass. III, n. 15547/2002; Cass. III, n. 792/2001 – si trova affermato che il locatore non può limitarsi a fare generico riferimento al proprio intendimento di svolgere, all'interno dell'immobile, un'attività non meglio specificata, dovendo invece precisare in cosa questa consista (Cass. III, n. 10709/1996; Cass. III, n. 7342/1996; Cass. III, n. 980/1995; Cass. III, n. 281/1994; da ult. Trib. Firenze 3 luglio 2021, n. 344; App. Reggio Calabria 6 ottobre 2020, n. 640).

Si è così negato che costituisca valido motivo di diniego il generico richiamo all'intento di destinare l'immobile locato all'esercizio di un'attività professionale del locatore, o di un suo parente entro il secondo grado in linea retta (Cass. III, n. 8775/1991); oppure di destinare l'immobile ad uso personale, ai sensi dell'art. 29, lett. a) e b) (Cass. III, n. 3894/1993). Si è escluso che l'ente locatore possa limitarsi al richiamo dei propri fini istituzionali, dovendo all'opposto menzionare la concreta attività che voglia svolgere all'interno del bene locato (Cass. III, n. 7040/2017; Cass. III, n. 15752/2000; Cass. III, n. 5150/1993; Cass. III, n. 2036/1988). Con riguardo all'intenzione di attuare interventi edilizi, non è stato considerato sufficiente il semplice riferimento al «completo restauro» dell'immobile, senza precisare nel dettaglio le opere da realizzare (Cass. III, n. 15547/2002).

Analoga impostazione è condivisa dall'affermazione che non potesse considerarsi adeguata, ai fini del diniego di rinnovo, l'espressione dell'intenzione, non meglio specificata, di adibire l'immobile ad uso di ufficio (Pret. Rimini 25 febbraio 1988); che dovesse considerarsi nulla la disdetta contenente il riferimento all'intenzione di destinare lo stesso all'esercizio di attività commerciali non specificate (Trib. Firenze 4 dicembre 1986; Pret. Firenze 4 marzo 1986); che non fosse valida la disdetta contenente l'indicazione della necessità del locatore di svolgere nell'immobile attività diretta, attesa la sua indeterminatezza (Pret. Cremona 30 maggio 1988); che il generico richiamo alla volontà del locatore di adibire il locale a «proprie attività aziendali», senza indicazione della concreta attività da svolgere nell'immobile, non fosse sufficiente (Trib. Napoli 26 luglio 2001).

La specificazione puntuale ed analitica della situazione dedotta deve riguardare, poi, non solo la destinazione d'uso con la menzione per l'uso non abitativo del tipo di attività commerciale, artigianale o professionale che si intende esercitare, ma anche quella del soggetto beneficiario dell'uso medesimo, essenzialmente quando vi siano più persone nella condizione di ottenere l'immobile, per la particolare destinazione d'uso comunicata, e il locatore intenda favorire una sola di esse, oppure alcune congiuntamente (Cass. III, n. 792/2001).

Indicazione di una pluralità di destinazioni

Dall'esigenza di specificazione del motivo deriva che l'indicazione di una pluralità di intenzioni tra loro diverse e contrastanti si risolve in una mancata specificazione delle ragioni del diniego, che devono essere determinate sin dal momento della comunicazione, senza che sia consentito al locatore una scelta, successiva alla scadenza del termine per la comunicazione stessa, tra le varie possibili utilizzazioni del bene, in relazione alle quali è ammesso dalla legge il diniego di rinnovazione alla prima scadenza del contratto (Cass. III, n. 3891/1993; Cass. III, n. 3891/1993; Cass. III, n. 3894/1993; Cass. III, n. 10208/1994; Cass. III, n. 4480/1995; Cass. III, n. 9373/1995).

Parimenti inidoneo è stato considerato il semplice richiamo alla lettera che nell'articolo di legge raggruppa diversi ordini di fattispecie che possono motivare l'intimazione di disdetta (per varie ipotesi v. Cass. III, n. 9055/1995; Cass. III, n. 5376/1991; Cass. III, n. 10208/1994).

Mancata indicazione del riferimento normativo

Non è invece necessario che il locatore indichi con precisione la disposizione che individua la fattispecie corrispondente al motivo in concreto addotto a giustificazione del diniego. La Suprema Corte ha dunque condiviso l'affermazione secondo cui la specificazione del motivo è requisito che attiene alla concreta indicazione delle ragioni, per le quali è negata la rinnovazione del contratto di locazione, e alla loro riconducibilità ad uno specifico motivo (e a uno solo) tra quelli contemplati in astratto nella norma, mentre è irrilevante che la comunicazione contenga un più o meno esatto riferimento all'articolo, comma e lettera, sotto i quali la fattispecie è enunciata (Cass. III, n. 9043/1995).

La disdetta motivata, dunque, non deve obbligatoriamente contenere né il preciso referente normativo su cui essa si fonda, né l'esatta qualificazione giuridica della fattispecie invocata dal locatore.

Impossibilità della successiva integrazione dei motivi

Nonostante la difforme opinione di qualche giudice di merito (Trib. Milano 8 ottobre 1990), la Suprema Corte esclude che alla genericità del motivo possa ovviarsi in sede giudiziale.

La soluzione è diretta conseguenza della regola secondo cui la disdetta non può essere contenuta nel ricorso con cui è introdotto il giudizio di rilascio: poiché la motivata comunicazione della disdetta deve necessariamente precedere l'azione di rilascio, così come dispone il primo comma dell'art. 30, la disdetta si pone come condizione di procedibilità della domanda di rilascio, con la conseguenza che il successivo atto introduttivo del giudizio deve essere fondato su identici petitum e causa petendi, non potendo indicare diversi motivi (Cass. III, n. 1865/1995). Con analoghe considerazioni si è ribadito che il ricorso non può indicare un motivo diverso, mentre un atto introduttivo, che contenga motivi nuovi rispetto a quelli espressi nella disdetta, costituirebbe atto autonomo e farebbe venir meno il nesso di necessaria coincidenza voluto dal legislatore a garanzia del conduttore, allo stesso modo di come una specificazione del motivo, formulata nel corso del giudizio, non varrebbe a sanare la iniziale nullità della disdetta medesima (Cass. III, n. 15547/2002).

In altri termini, il motivo non può essere né modificato, né integrato nella fase processuale, in quanto l'integrazione non potrebbe comunque ritenersi tempestiva, dovendo la disdetta stessa essere comunicata, a mezzo di lettera raccomandata, rispettivamente 12 o 18 mesi prima della scadenza (Cass. III, n. 8934/1998). E dunque deve restare fermo il principio secondo cui l'atto introduttivo del giudizio non può concorrere neppure ad integrare la ragione del diniego indicata nella comunicazione del locatore, cui è anche preclusa nel corso del giudizio ogni altra specificazione a riguardo (Cass. III, n. 792/2001).

Disdetta generica e rilievo della nullità

Sebbene si sia ritenuto, nell'àmbito della giurisprudenza di merito, che la nullità della disdetta per mancata specificazione del motivo potesse essere eccepita dal solo conduttore (Pret. Bergamo 5 ottobre 1985; contra, però, Pret. Monza 19 aprile 1990) la Suprema Corte non dubita che la nullità della disdetta possa essere non solo dedotta dal locatore ma anche rilevata d'ufficio dal giudice (v. l'approfondita motivazione di Cass. III, n. 9545/1997; più sinteticamente Cass. III, n. 1230/1997).

Un'applicazione del principio esposto si rinviene in una pronuncia la quale ha formulato il principio che segue. La sanzione di nullità, comminata dall'art. 29, comma 4, l. n. 392/1978, e la natura giuridica di condizione di procedibilità dell'azione, assegnata dalla legge alla precedente comunicazione, escludono, da un verso, l'applicabilità, nel relativo giudizio, degli artt. 183 ss. c.p.c., nella parte in cui consentono all'attore di modificare la domanda nel corso di esso, e, dall'altro, che tali questioni ove prospettate per la prima volta in appello dal convenuto, possano essere considerate eccezioni e, come tali, ricondotte al regime del divieto del ius novorum di cui all'art. 437, comma 2, c.p.c. la nullità della comunicazione deve, infatti, essere rilevata d'ufficio dal giudice (art. 1421 c.c.: norma da ritenersi applicabile anche agli atti unilaterali, quale la comunicazione in questione) e lo stesso giudice, del pari d'ufficio, deve verificare se sussista la condizione di procedibilità dell'azione (Cass. III, n. 9373/1995).

L'intenzione e le sue caratteristiche

L'art. 29 attribuisce al locatore il diritto di far cessare il rapporto alla prima scadenza sol che egli «intenda» attuare le destinazioni, o eseguire le opere, indicate dalla norma stessa. Intenzione e disdetta sono, così, intimamente collegati. In giurisprudenza, in proposito, è ricorrente l'affermazione che, in tema di locazioni di immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, le norme di cui agli artt. 28 e 29 della l. n. 392/1978, che consentono al locatore di escludere alla prima scadenza la rinnovazione del contratto, non richiedono la necessità, ma solo l'intenzione del locatore stesso di servirsi dell'immobile per uno dei motivi indicati nello stesso art. 29, senza però escludere che, in caso di controversia, il giudice debba verificare la serietà e la realizzabilità dell'intento del locatore (Cass. III, n. 9732/1995; Cass. III, n. 7965/1995; Cass. III, n. 10758/1991; sulla sufficienza dell'intenzione e l'assenza di rilievo della necessità: Cass. III, n. 813/1995; Cass. III, n. 5413/1993).

La serietà e realizzabilità dell'intenzione è da intendere come realizzabilità tecnica e giuridica (Cass. III, n. 12209/2003; Cass. III, n. 15075/2000; Cass. III, n. 358/2000; Cass. III, n. 1324/1996; Cass. III, n. 10423/1994; Cass. III, n. 9550/1994). Insomma – come è stato efficacemente detto – al locatore incombe di dar conto che l'asserito proposito non costituisce un mero pretesto per ottenere la disponibilità dell'immobile, ma corrisponde a una concreta realtà (Cass. III, n. 2966/1983; Cass. III, n. 15075/2000). L'intenzione in parola non concreta, quindi, una causa cessazione del rapporto ad libitum del locatore. La Suprema Corte, quanto alla questione della serietà dell'intento, ritiene che detto requisito debba assistere l'intenzione di utilizzazione dell'immobile da parte del locatore. L'art. 29 statuisce che il diniego di rinnovazione è consentito al locatore che «intenda» destinare l'immobile a particolari usi o eseguire sullo stesso particolari lavori. Il significato del verbo «intendere» aveva sorretto in dottrina un indirizzo, propugnato attualmente dal ricorrente, secondo il quale non era consentito alcun controllo sulla determinazione volitiva del locatore, in quanto la specificazione del motivo nella disdetta aveva la sola finalità di rendere agevole il controllo successivo al rilascio da parte del conduttore circa l'avvenuta destinazione dell'immobile all'uso indicato. Sennonché detto orientamento non può essere condiviso, non potendo ritenersi che l'ordinamento accordi tutela ad un mero proposito, che già ex ante non appaia serio o realizzabile. Infatti, l'intenzione del locatore non concreta una causa di cessazione del rapporto ad libitum dello stesso, ma deve esprimere un intento serio, cioè realizzabile tecnicamente e giuridicamente. La «serietà» dell'intenzione significa che essa deve essere realizzabile sul piano pratico, con la conseguenza che incombe al locatore provare che l'asserito proposito non costituisce un mero pretesto per ottenere la disponibilità dell'immobile, ma corrisponde ad una concreta realtà (Cass. III, n. 15075/2000).

Esorbitano dall'indagine sulla serietà dell'intenzione i profili che attengono al merito della scelta adottata, e che appartengono alla sfera delle valutazioni del locatore, sicché sono irrilevanti le considerazioni circa l'opportunità o la convenienza che il locatore possa avere o non avere nell'adibire l'immobile alla destinazione enunciata. È perciò irrilevante che il locatore, prima del diniego, abbia venduto un altro immobile, anche se ipoteticamente più idoneo all'attività dallo stesso indicata nella disdetta (Cass. III, n. 11445/1998). Né rileva la disponibilità di altri immobili utilizzabili per la destinazione addotta, avendo il locatore il diritto insindacabile di scegliere quello ritenuto più idoneo (Cass. III, n. 537/2002).

È bene poi rilevare che la deduzione della mancata serietà dell'intenzione non integra un'eccezione in senso stretto, con la conseguenza che il conduttore è legittimato a sollevare la questione anche dopo che siano maturate le preclusioni di cui all'art. 416, comma 3, c.p.c., e perfino in grado di appello (Cass. III, n. 9373/1995).

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