Legge - 27/07/1978 - n. 392 art. 32 - Aggiornamento del canone (1).Aggiornamento del canone (1). Le parti possono convenire che il canone di locazione sia aggiornato annualmente su richiesta del locatore per eventuali variazioni del potere di acquisto della lira. Le variazioni in aumento del canone, per i contratti stipulati per durata non superiore a quella di cui all'articolo 27, non possono essere superiori al 75 per cento di quelle, accertate dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati (2). Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai contratti di locazione stagionale ed a quelli in corso al momento dell'entrata in vigore del limite di aggiornamento di cui al secondo comma del presente articolo (3). (1) Articolo sostituito dall'art. 1, comma 9-sexies, del D.L. 7 febbraio 1985, n. 12. (2) Comma modificato dall'articolo 41, comma 16-duodecies, lettera a), del D.L. 30 dicembre 2008, n. 207. (3) Comma modificato dall'articolo 41, comma 16-duodecies, lettera b), del D.L. 30 dicembre 2008, n. 207. InquadramentoL'art. 32 della l. n. 392/1978 detta una disposizione di rilievo apparentemente modesto, ma dalla quale la giurisprudenza ha per lungo tempo desunto conseguenze rilevantissime, le quali possono riassumersi in ciò che la libera determinazione del canone, nelle locazioni non abitative, sarebbe circoscritta al momento della stipulazione iniziale, mentre la misura di esso, nel corso del rapporto, non potrebbe subire modificazioni alcuna all'infuori dell'aggiornamento previsto dalla norma in commento. Essa, sotto la rubrica: «Aggiornamento del canone», stabilisce, nella formulazione oggi vigente, che: – le parti possono convenire che il canone di locazione sia aggiornato annualmente su richiesta del locatore per eventuali variazioni del potere di acquisto della moneta; – le variazioni in aumento del canone, per i contratti stipulati per durata non superiore a quella sessennale (o novennale per gli alberghi), non possono essere superiori al 75 per cento di quelle, accertate dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati; L) le disposizioni che precedono si applicano anche ai contratti di locazione stagionale. La richiesta di aggiornamentoLa norma – occorre anzitutto dire – non contempla un automatico aggiornamento del canone operante in dipendenza della stipulazione del contratto di locazione, ma richiede (in ragione della formulazione secondo cui «le parti possono convenire») un'apposita convenzione concernente l'aggiornamento ISTAT. La giurisprudenza ripete infatti che l'aggiornamento del canone di locazione per le variazioni del costo della vita può essere domandato dal locatore ai sensi dell'art. 32 della l. n. 392/1978 soltanto se convenuto dalle parti nel contratto (Cass. III, n. 5008/1996), il che è stato ribadito anche dal giudice tributario (Comm Trib. II grado Milano 7/11/2023, n. 3280). . Una volta riconosciuto che l'aggiornamento del canone, ai sensi dell'art. 32 della l. n. 392/1978, può essere preteso dal locatore solo se espressamente convenuto con il conduttore, è stato altresì precisato che il locatore per vedere riconosciuto il suo diritto in giudizio ha l'onere di allegare e provare con ogni mezzo l'esistenza del patto che lo prevede, che può essere verbale o scritto, contestuale o posteriore alla formazione del contratto (Cass. III, n. 4800/1989). Poiché la pattuizione dell'aggiornamento Istat è senz'altro lecita, in quanto prevista dalla legge, non può dubitarsi che la convenzione concernente l'aggiornamento possa essere successiva alla stipulazione del contratto. La clausola di aggiornamento annuale della misura del canone, su richiesta del locatore, per le eventuali variazioni del potere di acquisto della moneta non deve cioè necessariamente essere coeva alla stipulazione dell'originario contratto di locazione, ma può anche essere contenuta in un patto posteriore alla formazione del contratto medesimo (Cass. III, n. 15948/2000). Perché sorga in concreto il diritto l'aggiornamento, inoltre, non è sufficiente che il contratto contenga l'apposita convenzione, ma occorre ancora che il locatore faccia richiesta con cadenza annuale («su richiesta del locatore», recita la norma) senza alcun obbligo di forma, e dunque anche verbalmente. La richiesta di aggiornamento del canone può dunque essere formulata, in mancanza della previsione di una forma determinata, anche verbalmente nonché implicitamente o per fatti concludenti (Cass. III, n. 14655/2002). La richiesta non opera retrospettivamente, bensì soltanto per il futuro. E cioè, qualora il locatore abbia omesso per un dato anno di richiedere l'aggiornamento, egli potrà l'anno successivo avanzare la richiesta in relazione all'intera variazione (nell'esempio fatto maturata nel biennio) medio tempore intercorsa: ma l'aggiornamento sarà dovuto soltanto dal mese successivo alla richiesta effettuata. È l'iniziativa del locatore che attua l'inserimento della clausola nel contratto, sicché la richiesta di aggiornamento si pone come condizione per il sorgere del relativo diritto, con la conseguenza che il locatore può pretendere il canone aggiornato solo dal momento della stessa, senza che sia configurabile un suo diritto ad ottenere il pagamento degli arretrati, non esistendo prima del suo attivarsi alcun credito per l'aggiornamento (Cass. III, n. 325/1987). Da ciò discende altresì la nullità della clausola contrattuale che consenta al locatore di richiedere gli arretrati ISTAT. È cioè contraria al disposto normativo la clausola che preveda una richiesta preventiva dell'aggiornamento con effetto attributivo di tutte le variazioni ISTAT che interverranno nel corso del rapporto ovvero una richiesta successiva riferita ad anni diversi da quello immediatamente precedente, e ciò perché la richiesta si pone come condizione per il sorgere del relativo diritto (Cass. III, n. 2417/2005;Cass. III, n. 27287/2021). Il principio è stato ribadito con riguardo alla specifica ipotesi della clausola con cui le parti avevano convenuto che il locatore potesse chiedere tutti gli aggiornamenti ISTAT maturati nel corso del rapporto e non solo quelli relativi all'anno precedente: poiché la richiesta di aggiornamento del canone, da effettuarsi anno per anno, si configura come un onere del locatore, al cui adempimento è legato il suo diritto a ottenere tale adeguamento con riferimento al solo anno cui essa è riferibile in base alla legge e cioè quello precedente, ne consegue che una clausola che mira a esonerarlo da detto onere, facendo conseguire al locatore con un'unica richiesta il diritto ad avere tutti gli aggiornamenti Istat maturati nel corso del rapporto, si configura come clausola nulla ai sensi dell'art. 79 della l. n. 392 del 1978, in quanto diretta ad attribuirgli un vantaggio in contrasto con le previsioni della medesima legge (Cass. III, n. 24753/2008). Resta peraltro inteso, quanto alle modalità di calcolo, che la mancata richiesta dell'aggiornamento Istat in relazione ad un'annualità non esclude che la variazione intervenuta debba essere considerata al momento della richiesta effettuata l'anno successivo o negli anni successivi: è ininfluente che per qualche annualità intermedia non sia stato richiesto in precedenza l'aggiornamento, in quanto tale mancata richiesta impedisce solo l'accoglimento della domanda degli aggiornamenti arretrati (Cass. III, n. 23836/2006). È parimenti affetta da nullità la clausola di un contratto di locazione non abitativa con la quale le parti convengano l'aggiornamento automatico del canone su base annuale senza necessità di richiesta espressa del locatore (da ult. Trib. Roma 15 luglio 2021, n. 13213). Difatti, il citato art. 32 introduce la possibilità di aggiornamenti annuali presupponendo che gli aumenti possano avvenire soltanto su specifica richiesta del locatore, da operarsi successivamente all'avvenuta variazione degli indici di riferimento (e non anche, genericamente, al momento stesso della stipula del contratto), la certezza dell'entità dell'obbligazione del conduttore risultando tutelata soltanto dalla previsione di tale, specifica (e necessaria) richiesta, puntualmente riferita all'avvenuta variazione degli indici Istat (Cass. III, n. 1290/1998). Ancora, è nulla la clausola di aggiornamento Istat nella misura del 100%. In tal senso (Cass. III, n. 9458/1995; Cass. III, n. 6246/1992). A conferma può richiamarsi l'ultima novella dell'art. 32 della l. n. 392/1978, la quale ha confermato l'operatività dei limiti all'aggiornamento nella misura del 75% «per i contratti stipulati per durata non superiore a quella di cui all'art. 27». Resta ancora da accennare al problema, che dovrebbe avere ormai perso di rilievo, dell'operatività dell'art. 32 della l. n. 392/1978 nei riguardi delle locazioni preesistenti alla novella del 1985, problema risolto nei termini che seguono. Nell'ipotesi di rinnovazione obbligatoria di un contratto di locazione per uso non abitativo, concluso prima dell'entrata in vigore della novella legislativa del 1985 che prevede, innovativamente, la possibilità di pattuire l'aggiornamento del canone con cadenza annuale ma a richiesta del locatore, non può trovare applicazione immediata tale nuova normativa, in quanto il rapporto continua ad essere regolato dal contratto originario, in coerenza con la disciplina applicabile nel caso di rinnovazione tacita per mancata disdetta, per cui, in caso di clausola di aggiornamento automatico del canone contenuta nel contratto originario, non è necessaria la periodica richiesta di aggiornamento da parte del locatore, secondo il regime previgente, considerato che la novella non ha inteso introdurre una disposizione complessivamente più favorevole per il conduttore che, pertanto, non può invocarla solo per la parte a lui più favorevole (Cass. III, n. 16321/2007; Cass. III, n. 5615/1994). Pattuizione del canone in misura differenziata e crescenteSi deve passare, ora, ad esaminare una importante questione che riguarda il canone delle locazioni non abitative. Le parti, in tal caso, sono assolutamente libere, nella fase di formazione del vincolo, di determinarne l'entità. L'art. 32 della l. n. 392/1978, tuttavia, nel contemplare l'aggiornamento Istat, mostrerebbe a contrario che il canone inizialmente pattuito non potrebbe subire ulteriori maggiorazioni né in dipendenza dell'accordo iniziale (nel caso dei c.d. canoni a «scaletta»), né in dipendenza di accordi sopravvenuti (nel caso di maggiorazioni del canone convenute in pendenza della locazione). Occorre allora approfondire, anzitutto, la questione se i contraenti, nello stipulare il contratto di locazione, possono stabilire un canone differenziato, destinato ad accrescersi, in genere anno per anno, indipendentemente dalla menzionata variazione. Secondo un primo indirizzo, la clausola contrattuale avente ad oggetto la preordinata maggiorazione annuale del canone è illegittima, ove integri una subdola forma di aggiornamento, per contrasto con il citato art. 32, il quale – ha osservato la Suprema Corte – nel porre rigidi limiti cronologici e quantitativi alle convenzioni di aggiornamento, tende a conservare un attenuato sistema di blocco dei canoni. In tal senso, si trova affermato che l'art. 32 concernente l'aggiornamento del canone, nel porre i limiti legali alla convenzione di adeguamento del canone per rivalutazione monetaria, tende all'evidenza a conservare un attenuato sistema di blocco dei canoni. La norma infatti vieta alcun aggiornamento per i primi tre anni del rapporto; quindi riserva all'autonomia contrattuale delle parti la previsione di un adeguamento del canone per rivalutazione a partire dall'inizio del quarto anno ma limitato al 75% della variazione accertata dall'ISTAT, vincolandolo per giunta a periodi di invariabilità biennale. Attesa la ratio del cennato art. 32, da individuarsi in correlazione all'intero sistema normativo posto dalla l. n. 382/1978, non può denegarsi che se si riconoscesse la liceità di una convenzione avente ad oggetto la preordinata maggiorazione annuale del canone – in misura fissa o differenziata anno per anno, a partire dal primo anno dopo la stipulazione del contratto avente durata legale – resterebbe frustrata la logica dei rigidi limiti posti all'aggiornamento biennale a partire dal primo giorno del quarto anno dalla data di inizio della locazione, con riferimento alla variazione ISTAT dei 24 mesi precedenti (Cass. III, n. 6896/1987; Cass. III, n. 8377/1992). Un secondo indirizzo, invece, considera legittima la clausola che abbia ad oggetto la preordinata maggiorazione annuale del canone ogni qualvolta essa sia ancorata ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull'equilibrio economico del sinallagma contrattuale, i quali siano estranei alle variazioni del potere di acquisto della moneta. E ciò salvo che non risulti che le parti abbiano in realtà surrettiziamente perseguito lo scopo di eludere il limite all'aggiornamento del canone stabilito dall'art. 32 della l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 6695/1987; indirizzo stabilizzato: v. Cass. III, n. 4210/2007; Cass. III, n. 11608/2010; Cass. n. 10834/2011; Cass. III, n. 20014/2016; da ult. nella giurisprudenza di merito Trib. Torino 12 agosto 2020, n. 2818). Da ultimo si è ribadito che, alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso diverso da quello di abitazione, devono ritenersi legittimi, tanto il patto con il quale le parti, all'atto della conclusione del contratto, predeterminano il canone in una misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto; quanto il patto successivo con il quale le parti provvedono consensualmente, nel corso del rapporto, a stabilire una misura del canone diversa da quella originariamente stabilita; la legittimità di tali patti (iniziali o successivi) dev'essere peraltro esclusa là dove risulti (dal testo del patto o da elementi extratestuali) che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall'art. 32 l. n. 392 del 1978, così incorrendo nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, primo comma, della stessa legge (Cass. III, n. 33884/2021). Una volta riconosciuta la liceità della pattuizione di canoni differenziati in corso del rapporto, se il preordinato aumento è ancorato ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull'equilibrio economico del sinallagma contrattuale, occorre dunque che le ragioni dell'aumento risultino dal contratto, salva la verifica della loro corrispondenza alla realtà delle cose. Quanto al relativo onere probatorio, non può dubitarsi che esso incomba sul locatore. In un caso in cui nulla risultava dal contratto, la Suprema Corte ha censurato il giudice dell'appello il quale aveva pretermesso di dare rilevanza alla funzione squilibrante della clausola, come emergeva dalla sua semplice lettura, sicché si rendeva subito manifesto un elemento letterale e chiaro di valutazione nel senso di una presunzione di intento elusivo e contra legem, e quindi competeva alla parte che di detta clausola si giovava (il locatore) dedurre idonei elementi di valutazione (ovverosia prove) diretti a superare tale evidenza (Cass. III, n. 1070/2000). La menzionata pronuncia dunque ha avuto modo di osservare che la clausola in questione, per essere secundum legem, deve chiaramente riferirsi ad elementi predeterminati, desumibili dal contratto, ed idonei ad influire sull'equilibrio economico del rapporto, in modo autonomo dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta. Non basta, tuttavia, che il contratto giustifichi gli aumenti in relazione all'evoluzione del sinallagma, occorrendo che il locatore assolva l'onere di provare la sua conformità al dettato normativo, ossia la corrispondenza della previsione contrattuale alla realtà dei fatti. Merita accennare, in conclusione, che il risultato di neutralizzare integralmente l'inflazione oltre il limite consentito dal legislatore può in astratto essere perseguito – ma, in concreto, l'adozione dell'euro dovrebbe aver reso la questione inattuale – anche attraverso la clausola che preveda il pagamento del canone in una moneta straniera «forte», meno sensibile al fenomeno inflattivo: va quindi rammentato che la Suprema Corte, nell'unica pronuncia che si rinviene sul punto, ha ammesso la liceità di una simile clausola, ma in un caso in cui le parti non soffrivano alcun limite alla libertà di determinazione del canone (Cass. III, n. 431/1986), mentre, in caso contrario, le conclusioni avrebbero dovuto essere ben diverse. Nel commentare l'indirizzo così riassunto, è stato posto in evidenza come la Suprema Corte sembri aver enormemente sopravvalutato il significato dell'art. 32 della l. n. 392/1978. Quest'ultimo, nel quadro di una disciplina incentrata sulla libertà delle parti di determinare liberamente il corrispettivo della locazione, restando l'autonomia contrattuale dei contraenti compressa essenzialmente dal versante della durata, pare piuttosto aver perseguito un esclusivo e marginale scopo – ritenuto all'epoca, caratterizzata da un'inflazione «a due cifre», particolarmente rilevante – di contenimento della spirale inflazionistica. Vi è in altri termini il fondato dubbio, se non la ragionevole certezza, che, se il legislatore, nel consentire alle parti di determinare liberamente la misura del corrispettivo, avesse però inteso precludergli la previsione, ab origine, di canoni progressivamente crescenti, in ragione della libera regolamentazione dell'assetto negoziale voluto tra le parti, lo avrebbe detto con chiarezza, e non si sarebbe affidato ad una norma nel quale leggere siffatta indicazione è, eufemisticamente, decisamente arduo (Di Marzio, Falabella, 1278). Ed in effetti la giurisprudenza pare essersi talora avveduta dei termini della questione, come emerge dalla pronuncia – pur apparentemente rispettosa dell'indirizzo dominante – secondo cui l'art. 32 in esame, nel consentire, in caso di locazioni non abitative, l'aggiornamento del canone solo nella misura corrispondente al 75% degli incrementi dell'indice dei prezzi al consumo, si riferisce solo all'aggiornamento legato alle variazioni del potere di acquisto della moneta e, atteso il suo carattere eccezionale, non può essere esteso – in via di interpretazione analogica – al di fuori del predetto settore e con riferimento ad altre clausole contrattuali che, conformemente alla comune volontà delle parti, siano volte a incrementare il corrispettivo della locazione in relazione a eventi diversi dalla svalutazione monetaria. Deriva da quanto precede, pertanto, che la pattuizione, per le locazioni a uso non abitativo – all'atto dell'accordo iniziale – di un canone variabile, e anche crescente, di anno in anno, è da ritenere legittima (Cass. III, n. 5349/2009). Aumento del canone in corso del rapportoAl tema da ultimo affrontato si collega quello della liceità degli aumenti di canone pattuiti dalle parti nel corso del rapporto di locazione non abitativa: è ciò perché l'art. 32 costituisce il fondamentale indice normativo dal quale la Suprema Corte ha tratto la soluzione del problema. Secondo l'indirizzo accolto, ogni pattuizione che, nell'ambito di una locazione non abitativa, abbia ad oggetto non già l'aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell'art. 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex art. 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto a non corrispondere aumenti non dovuti (Cass. III, n. 2932/2008; Cass. III, n. 24433/2009; Cass. III, n. 13826/2010; Cass. III, n. 6124/2018). E cioè, con riferimento alla locazione di immobili ad uso diverso da quello di abitazione, le clausole con le quale le parti, all'atto della conclusione del contratto, predeterminano il canone in una misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto, o con patto successivo stabiliscono una misura del canone diversa da quella originariamente prevista, sono illegittime se tendono (ma solo se) a neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria (Cass. III, n. 5554/2023; Cass. III, n. 33884/2021). Ha osservato la Suprema Corte che la l. n. 392/1978 consente alle parti la libera determinazione del canone iniziale, ma prevede che questo sia suscettivo soltanto di aggiornamento, nel corso del rapporto, onde neutralizzare l'incidenza della perdita del potere di acquisto della moneta, nelle forme e nei limiti di cui all'art. 32. Consegue che ogni pattuizione avente ad oggetto, non già l'aggiornamento del corrispettivo ai sensi e nei limiti di cui all'art. 32, ma veri e propri aumenti del canone di locazione ad uso non abitativo, deve ritenersi colpita da nullità, ai sensi dell'art. 79, comma 1, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone maggiore di quello previsto dalla l. n. 392/1978. Nullità che deve ritenersi operante non soltanto per le pattuizioni intervenute nel momento della instaurazione del rapporto, ma anche per le pattuizioni che intervengono nel corso del rapporto (Cass. III, n. 10286/2001, cui si è uniformata la giurisprudenza poc'anzi richiamata). La nullità prevista dal combinato disposto degli artt. 32 e 79 della l. n. 392/1978, dunque, deve, per la Suprema Corte, ritenersi operante non soltanto per le pattuizioni intervenute nel momento della stipulazione del contratto, ma anche per le pattuizioni concluse nel corso del rapporto. Tale conclusione discende dalla coordinata valutazione del comma 1 e del comma 2 dell'art. 79. In forza di tale disposizione, il diritto a non erogare somme in misura eccedente il canone legalmente dovuto sorge al momento della conclusione del contratto, persiste durante tutto il corso del rapporto, e può essere fatto valere, in virtù di espressa disposizione legislativa, dopo la riconsegna dell'immobile locato, entro il termine di decadenza di sei mesi. Ora, se il diritto in esame può essere fatto valere dopo la riconsegna dell'immobile, non è sostenibile che di esso possa disporre il conduttore in corso di rapporto, accettando aumenti non dovuti: la validità di una rinuncia espressa o tacita del conduttore ad avvalersi del diritto a non subire aumenti non dovuti, eventualmente intervenuta in corso di rapporto, appare infatti inconciliabile con la facoltà, attribuita al conduttore, di ripetere «le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla presente legge» entro sei mesi dalla riconsegna dell'immobile. Il momento della riconsegna dell'immobile individua, per espressa scelta del legislatore, il giorno a decorrere dal quale il diritto alla ripetizione di quanto indebitamente pagato può essere fatto valere dal conduttore «liberamente», e cioè senza la remora che il locatore possa agire in ritorsione nei suoi confronti. Remora non esclusa, in corso di rapporto, dalla stabilità che a questo assicura la previsione normativa di una durata minima inderogabile, poiché è agevole opporre che, anche in corso di rapporto, sono configurabili, nei confronti del conduttore renitente ad accettare richieste di aumenti non dovuti, ritorsioni che, pur non avendo immediata incidenza sulla durata della locazione, sono suscettive di rendere deteriore la condizione del conduttore (Cass. III, n. 10286/2001). Si deve, però, rammentare che un diverso e precedente indirizzo era pervenuto ad opposte conclusioni (Cass. III, n. 11402/1993). Indipendentemente dalla disputa sull'ammissibilità di aumenti di canone concordati in corso di rapporto, è da condividere l'affermazione che non costituisce violazione della disciplina imperativa di cui all'art. 32 della l. n. 392/1978 la stipulazione di un nuovo contratto di locazione, con relativo nuovo canone, avvenuta dopo la comunicazione di disdetta motivata da parte del locatore (artt. 28 e 29 l. n. 392/1978), per effetto della quale il primo contratto è definitivamente cessato, essendo la costituzione di nuova locazione necessaria per superare gli effetti della disdetta intimata (Cass. III, n. 11777/2002). Ergo, in tema di aggiornamento del canone di locazione di immobile ad uso diverso da abitazione, non costituisce violazione della disciplina imperativa di cui all'articolo 32 della legge n. 392/1978 la stipulazione di un nuovo contratto di locazione, con relativo nuovo canone, avvenuta dopo la comunicazione di disdetta motivata da parte del locatore, per effetto della quale il primo contratto è definitivamente cessato, essendo la costituzione di nuova locazione necessaria per superare gli effetti della disdetta intimata (Cass. III, n. 15840/2022). Clausola ISTATOccorre ora passare all'esame della clausola di aggiornamento del canone, in dipendenza dell'inflazione, attraverso l'applicazione degli appositi indici elaborati dall'ISTAT. Lo scopo della clausola ISTAT consiste non già nel determinare un aumento, in termini assoluti, del canone di locazione, bensì nel mantenere sostanzialmente inalterato il valore delle rispettive prestazioni dedotte in contratto, giacché, in mancanza di essa, il conduttore si troverebbe nel corso del tempo a corrispondere un canone sempre minore, in ragione della perdita di valore della moneta medio tempore occorsa. Il congegno, però, prevede che l'aggiornamento non possa eccedere la misura del 75% dell'indice inflativo da applicarsi. La Suprema Corte ha stabilito, con riguardo al contratto di locazione di immobili urbani non abitativi, che la clausola che stabilisce aumenti di canone, nel corso del rapporto, in misura diversa da quella legale (e cioè superiore al 75 per cento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, accertato dall'ISTAT) è nulla, ai sensi dell'art. 79 della l. n. 392/1978, per contrasto con l'art. 32, comma 2, della medesima legge, con la conseguenza che per effetto dell'art. 1339 c.c. l'aggiornamento del canone deve essere effettuato nei limiti stabiliti dal suindicato art. 32, comma 2 (Cass. III, n. 14655/2002). Parimenti, è stata ritenuta nulla, per contrasto con l'art. 79 della l. n. 392/1978, la clausola contrattuale di aggiornamento automatico del canone, ossia in mancanza della richiesta. La clausola di un contratto di locazione con la quale le parti convengano l'aggiornamento automatico del canone su base annuale senza necessità di richiesta espressa del locatore è affetta da nullità in base al combinato disposto degli artt. 32 e 79 della legge dell'«equo canone», perché il citato art. 32 (non prevedendo più, come nella sua originaria formulazione, la possibilità di aggiornamento soltanto biennale, svincolato da ogni riferimento alla richiesta del locatore), introduce, all'esito della modifica, la possibilità di aggiornamenti annuali presupponendo che gli aumenti possano avvenire soltanto su specifica richiesta del locatore, da operarsi successivamente all'avvenuta variazione degli indici di riferimento (e non anche, genericamente, al momento stesso della stipula del contratto), la certezza dell'entità dell'obbligazione del conduttore risultando tutelata soltanto dalla previsione di tale, specifica (e necessaria) richiesta, puntualmente riferita all'avvenuta variazione degli indici ISTAT (Cass. III, n. 1290/1998; Cass. III, n. 15799/2003; Cass. III, n. 3014/2012 ; da ult. nella giurisprudenza di merito Trib. Roma 22 gennaio 2020, n. 1499). Corresponsione anticipata del canoneSi discute se possa essere pattuito il pagamento del canone con qualsiasi periodicità, e se, in particolare, la libertà dei contraenti possa spingersi fino a consentire il pagamento anticipato del corrispettivo. Il problema si collega a quello del protrarsi della vigenza della norma secondo cui sono nulle le clausole contrattuali che contemplano l'obbligo di corresponsione anticipata del canone della locazione per periodi superiori a tre mesi, anche mediante rilascio di titoli di credito (art. 2-ter, d.l. n. 236/1974, convertito in l. n. 351/1974; legge abrogata dall'art. 24 d.l. n. 112/2008, con la decorrenza prevista dal comma 1 del medesimo art. 24). In proposito, la Suprema Corte, nel soffermarsi sul rapporto della disposizione con la legge dell'«equo canone» ha infatti dato risposte contrastanti. In un primo tempo si è sostenuta la perdurante vigenza della disposizione in esame, con riferimento alle locazioni abitative, sull'osservazione che essa non rientra tra le norme vincolistiche in senso stretto (Cass. III, n. 5376/1989). Successivamente si è ritenuto che la menzionata disposizione sia stata implicitamente abrogata, non essendo compatibile con la libertà di determinazione del canone locativo degli immobili per uso non abitativo. La tesi della perdurante vitalità dell'art. 2-ter della l. 12 agosto 1974, n. 351, implicante la nullità delle clausole contrattuali che contemplano l'obbligo di corresponsione anticipata del canone della locazione per periodi superiori a tre mesi, anche mediante rilascio di titoli di credito – è stato detto – non può certamente trovare applicazione o «sopravvivenza» per le locazioni relative ad immobili adibiti ad uso diverso dall'abitazione. Il legislatore con la l. n. 392/1978 ha ritenuto di non vincolare l'autonomia negoziale delle parti, se non per quanto riguarda la durata dei contratti, la tutela dell'avviamento, la prelazione, e non per quanto riguarda l'entità del canone che risulta libero e non predeterminato in base a schemi legislativamente precostituiti (Cass. III, n. 6247/1992). Opposto il responso di una ulteriore pronuncia, la quale – nel quadro di applicazione degli artt. 32 e 79 della l. n. 392/1978, ha posto in rilievo che con il pagamento anticipato in unica soluzione si viene normalmente a penalizzare la posizione economica e giuridica del conduttore oltre i limiti stabiliti (Cass. III, n. 6274/1996; Cass. III, n. 9971/2008). La Suprema Corte, dopo aver aderito all'orientamento giurisprudenziale che, con riguardo alle locazioni abitative, sostiene la tesi della sopravvivenza all'esaurimento del regime vincolistico dell'art. 2-ter citato, ha affermato quindi che la medesima soluzione deve essere accolta anche con riguardo alle locazioni non abitative, atteso che l'unico motivo posto a sostegno della tesi opposta (cioè dell'abrogazione per incompatibilità) si basa sul rilievo che per tali locazioni, essendo libera la determinazione del canone, deve essere conseguentemente libera anche la pattuizione circa le modalità di pagamento. In tal modo si viene a penalizzare la posizione economica e giuridica del conduttore oltre i limiti stabiliti dalla legge sull'equo canone. Quest'ultima, infatti, prevede la nullità di «ogni pattuizione diretta ... ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello previsto dagli articoli precedenti ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della presente legge» (art. 79). Orbene, ai sensi del precedente art. 32, sia nella formulazione originaria che in quella novellata, l'aggiornamento del canone per mantenerlo tendenzialmente aderente al valore reale della prestazione del conduttore, trova un limite invalicabile che vieta agli aumenti annui di canone di superare il 75% delle variazioni, accertate dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Ora essendo questo l'unico meccanismo di aggiornamento consentito, ne consegue che un pagamento anticipato del canone, che superasse certi limiti, avrebbe l'effetto di neutralizzare all'origine l'incidenza della eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta, dal momento che il locatore potrebbe disporre fin dall'inizio dell'intero ammontare del corrispettivo convenuto. Una pattuizione, pertanto, che lo consentisse non potrebbe non incorrere nella sanzione di nullità prevista dal citato art. 79 per tutte quelle clausole che attribuiscono al locatore un'utilità in contrasto con le altre disposizioni della legge sull'equo canone. Anche con riguardo al problema del pagamento anticipato del canone – così come in tema di aumento del canone in corso del rapporto e di pattuizione di un canone man mano crescente – la chiave di volta della soluzione adottata viene dunque individuata nell'art. 32. Oltre a ciò, la Suprema Corte ha osservato che, se si ammettesse l'integrale pagamento anticipato del canone sorgerebbero insuperabili difficoltà nella determinazione dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, e si porrebbe in contrasto anche con la norma, art. 11 della l. n. 392/1978, che limita l'entità del deposito cauzionale (Cass. III, n. 6274/1996). Anche di recente è stato ribadito che, in tema di locazione di immobili ad uso non abitativo, la pattuizione della corresponsione anticipata del canone di locazione, per un periodo superiore a tre mesi, incorre nella sanzione della nullità ai sensi degli art. 79 della l. n. 392/1978, e 2-ter della l. n. 351/1974 (applicabile ratione temporis), in quanto diretta ad attribuire al locatore vantaggi superiori a quelli previsti dalla disciplina legale delle locazioni (Cass. III, n. 5475/2015, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la nullità della pattuizione, contestuale al contratto di locazione di un locale ad uso commerciale, di un maggior canone anticipato, a scadenza biennale, per il primo quadriennio, ed aveva conseguentemente rigettato la domanda di risoluzione per inadempimento proposta dal locatore). Il pagamento anticipato del canone – seguendo l'indirizzo della Suprema Corte – è dunque ammissibile solo entro il limite delle tre mensilità. Riguardando invece più di tre mensilità, la clausola incorre nella sanzione di nullità, come, ad esempio, nel caso della previsione di rate annuali anticipate (Pret. Milano 23 gennaio 1981; Pret. Brescia 13 luglio 1985) o di pagamento in unica soluzione del canone dell'intero periodo contrattuale (Trib. Napoli 29 novembre 1991). Buona entrata e figure similiTanto la dottrina quanto la giurisprudenza manifestano un atteggiamento di netto sfavore – già condiviso in passato dallo stesso legislatore – nei confronti della c.d. buona entrata che, in sostanza non troverebbe giustificazione nel sinallagma contrattuale e sarebbe, dunque, un'attribuzione patrimoniale nulla perché senza causa. Soluzione, quella menzionata, senz'altro suscettibile di essere estesa, dall'ipotesi di versamento di una somma in coincidenza con il sorgere del rapporto, al caso che il pagamento venga posto in correlazione con la rinunzia da parte del locatore alla disdetta del contratto già sorto. È utile rammentare che, come si è accennato, già la legge sulle locazioni urbane del 1950 stabiliva che è nullo l'obbligo imposto al conduttore o al subconduttore dal locatore o dal conduttore uscente di adempiere, oltre al pagamento della pigione, ad altre prestazioni a titolo di buon ingresso o di buonuscita, qualunque sia la persona a favore della quale la prestazione è promessa e comunque questa sia dissimulata (art. 28, comma 1, l. n. 253/1950). E la norma, oltre a consentire la ripetizione di quanto pagato (art. 28, comma 2), conteneva finanche la sanzione penale della menzionata condotta (art. 23, comma 3). In riferimento all'ipotesi della buona entrata, in particolare, la Suprema Corte ha affermato che anche la legittimità di una pattuizione avente ad oggetto la prestazione di una buona entrata deve essere vagliata con riferimento all'art. 79 della l. n. 392/1978. Orbene, anche se il canone può essere liberamente determinato dai contraenti, il patto che preveda il pagamento di somme diverse dal canone a titolo di buona entrata è affetto da nullità ai sensi della menzionata disposizione, poiché la corresponsione delle dette somme non trova giustificazione nel sinallagma contrattuale (Cass. III, n. 8815/1996; Cass. III, n. 3896/1993). Non dissimile il principio affermato, più in generale, con riferimento al pagamento di somme a «fondo perduto», giacché, pur potendo le parti pattuire liberamente il canone, non è consentito al locatore pretendere il versamento di ulteriori somme che non avendo giustificazione nel sinallagma contrattuale incorrono nella sanzione di nullità prevista dall'art. 79 citato (Cass. III, n. 1418/1998; Cass. III, n. 3896/1993; Cass. III, n. 1936/1987). La «buona entrata» è colpita dalla sanzione di nullità nei termini indicati anche nel caso di somme versate da terzi, in un quadro di collegamento contrattuale (Cass. III, n. 25274/2008). Quanto alle fattispecie concrete, in ossequio al principio, si è dunque stabilito che il conduttore ha diritto a ripetere, stante la nullità del relativo accordo ai sensi dell'art. 79 della l. n. 392/1978, la somma da lui versata al locatore apparentemente a titolo di espromissione di un debito lasciato insoluto dal precedente inquilino, ma in realtà pretesa dal locatore stesso quale conditio sine qua non per poter ottenere in locazione l'appartamento (Trib. Milano 19 novembre 1998). Al contrario, è stata esclusa la nullità del patto che prevedeva la corresponsione al locatore di un corrispettivo per il consenso di questo all'anticipata risoluzione del contratto locativo con il conduttore che intendeva alienare l'azienda esercitata nell'immobile, trattandosi di accordo utile anche per quest'ultimo, dato che, in mancanza, la proposta di alienazione dell'azienda non sarebbe stata accettata dall'acquirente, che aveva interesse a stipulare un nuovo contratto locativo, piuttosto che a subentrare nel contratto in corso, prossimo alla scadenza (Cass. III, n. 2069/1995). È stata ritenuta egualmente conforme al dettato dell'art. 79 la convenzione negoziale diretta ad attribuire al conduttore uscente una somma a titolo di «buona uscita», ed intervenuta tra questi ed il conduttore subentrante nello stesso immobile, di proprietà di un terzo locatore estraneo alla pattuizione, non risultando tale pattuizione diretta a limitare la durata dei successivi contratti di locazione aventi ad oggetto il medesimo immobile, ovvero volta ad attribuire al locatore un canone maggiore od altro vantaggio non dovutogli, unico beneficiario della buona uscita essendo il conduttore uscente (Cass. III, n. 11232/1997). Parimenti, è stato reputato valido il patto – contenuto in un verbale di conciliazione – con il quale veniva scomputata mensilmente a titolo di canone la somma dovuta dal locatore per versamenti effettuati dalla controparte extra legem (Trib. Milano 18 marzo 1991). BibliografiaBarrasso, Di Marzio, Falabella, La locazione. 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