Codice di Procedura Civile art. 440 - Appellabilità delle sentenze 1 .

Vito Amendolagine

Appellabilità delle sentenze1.

[I]. Sono inappellabili le sentenze che hanno deciso una controversia di valore non superiore a 25,82 euro.

[1] Articolo sostituito dall'art. 1, comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533.

Inquadramento

L'art. 440 c.p.c. dispone che sono inappellabili le sentenze che hanno deciso una controversia di valore non superiore ad € 25,82.

In dottrina, si ritiene che il presupposto per applicare l'art. 440 c.p.c. è che deve trattarsi di una controversia disciplinata ed anche decisa dal rito del lavoro, in quanto, se erroneamente è stato applicato il rito del lavoro ad una controversia ordinaria di valore inferiore ad € 25,82 la sentenza dovrebbe considerarsi inappellabile, per essere invece soggetta, laddove ricorrano i relativi presupposti, al rimedio di cui all'art. 111 Cost. (Tarzia, Dittrich, 319; Montesano, Vaccarella, 302); la stessa dottrina, perviene invece a differente soluzione quando ad essere stata decisa dal giudice di prime cure è stata erroneamente con il rito ordinario una controversia rientrante nell'ambito dei rapporti di lavoro anche se al di sotto del limite legale indicato dall'art. 440 c.p.c., la cui decisione, in tale caso, si ritiene essere appellabile (Montesano, Vaccarella, 302).

Al riguardo, va considerato che il richiamo dell'art. 440 c.p.c. nell'art. 447-bis c.p.c. per quanto attiene alle controversie locatizie deve essere inteso in quanto applicabile.

L'inammissibilità della domanda proposta in violazione dell'art. 440 c.p.c. è rilevabile d'ufficio

L'art. 440 c.p.c. pone quindi un chiaro limite di valore alle sentenze appellabili, che restano però soggette all'impugnazione dinanzi al giudice di legittimità.

L'inammissibilità dell'appello, ai sensi dell'art. 440 c.p.c., avverso la sentenza che ha deciso una causa di valore non superiore a quello di € 25,82, ove al riguardo non sia intervenuta una esplicita pronuncia del giudice d'appello, è rilevabile anche d'ufficio, con la conseguente cassazione senza rinvio della sentenza che ha pronunciato nel merito omettendo di rilevare l'inammissibilità della domanda (Cass., sez. lav., n. 6698/1988).

Il valore di una controversia in materia di lavoro, previdenza ed assistenza obbligatorie, tenuto conto della misura degli accessori maturati dalla data della domanda giudiziale, se risulta essere inferiore a 25,82 euro, la sentenza non è appellabile ma ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 440 c.p.c. (Cass., sez. lav., n. 10838/2004).

La determinazione del valore della causa ex art. 440 c.p.c.

Ai fini dell'appellabilità delle sentenze che l'art. 440 c.p.c. ricollega al valore della controversia occorre tenere conto, non già del quod decisum bensì del quod disputatum quale criterio discriminante per fissare tale valore, che pertanto, non è influenzato dai mutamenti successivi che possono eventualmente verificarsi nel corso del giudizio, dovendosi tenere fermo il principio che la lite resta radicata secondo le prospettazioni dell'attore contenute nell'atto introduttivo del giudizio (Cass., sez. lav., n. 4922/1985).

In particolare, la determinazione del valore di una controversia, ai fini dell'appellabilità o meno della sentenza ai sensi dell'art. 440 c.p.c., va effettuata alla stregua del valore del bene preteso dall'attore, al quale vanno sommati, ai sensi dell'art. 10 c.p.c., soltanto gli interessi, le spese ed i danni anteriori alla proposizione della domanda e non anche le spese del procedimento instaurato per conseguire il bene anzidetto.

Al fine di stabilire il valore della causa decisa dal giudice di primo grado e, di conseguenza, se sia appellabile, non si può tenere conto, secondo quanto stabilito dall'art. 10 c.p.c., delle spese successive alla proposizione della domanda (Cass. VI, n. 10188/2021; Cass. III, n. 2966/2013; Cass. III, n.10626/2012).

Tale principio trova applicazione anche quando si tratti di stabilire l'appellabilità o meno della sentenza che ha concluso il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con la conseguenza che il valore originario della controversia non può essere dilatato con l'aggiunta delle spese liquidate con il decreto opposto, essendo queste non anteriori, ma successive, alla domanda proposta con il deposito del ricorso ex art. 638 c.p.c. (Cass., sez. lav., n. 680/1985).

In caso di variazione del valore della causa nel corso della sua trattazione, al fine della sua determinabilità, la dottrina è divisa tra coloro che ritengono debba guardarsi alla iniziale prospettazione della domanda attorea (Montesano, Vaccarella, 302), e chi invece ritiene debba considerarsi il valore definitivo della stessa, come acclarato nell'intrapreso giudizio (Tarzia, Dittrich, 318).

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che per individuare il suddetto valore, deve tenersi conto non soltanto della somma capitale indicata nella domanda giudiziale, ma anche della misura degli accessori maturati alla data della sua proposizione (Cass., sez. lav., n.16949/2004; Cass., sez. lav., n. 1100/1991).

In dottrina si è sottolineata l'applicabilità dell'art. 10, comma 1, c.p.c. secondo cui il valore della causa si determina dalla domanda (Luiso, 270; Montesano, Vaccarella, 301; Segrè, 647).

Pertanto, la determinazione del valore della controversia individuale di lavoro, ai fini di stabilirne l'appellabilità o meno ai sensi dell'art. 440 c.p.c., deve operarsi con riferimento al valore della lite fissato nell'atto introduttivo della causa, secondo le prospettazioni del ricorrente, senza che possano esplicare alcuna influenza i mutamenti successivi – ed in particolare la rinuncia ad alcuna delle domande originariamente proposte – che possano eventualmente verificarsi nel corso del giudizio (Cass., sez. lav., n. 4922/1985; contra, v. Cass., sez. lav., n. 2289/1985, la quale ritiene che per stabilire se una sentenza sia, o no, appellabile il valore della causa va determinato in base al contenuto della sentenza della cui inappellabilità si discute, e, che nel caso in cui il lavoratore non abbia precisato l'importo della somma richiesta, la sentenza del giudice che, rigettando la domanda, l'abbia ritenuta di valore inferiore a quello indicato dall'art. 440 c.p.c., è impugnabile mediante il ricorso per cassazione e non già mediante l'appello, restando preclusa al giudice di secondo grado la possibilità di verificare l'esattezza o meno della determinazione, da parte del primo giudice, del valore della controversia; conforme Cass., sez. lav., n. 1271/1981, in cui si è affermato che nelle controversie di lavoro, ove la causa abbia originariamente valore indeterminabile in conseguenza della relativa mancata specificazione della domanda, il valore della causa – ai fini dell'applicabilità dell'art. 440 c.p.c. – va determinato non in base al contenuto della domanda bensì sulla base delle correlative statuizioni che non siano state impugnate e specificamente contestate dall'interessato).

Recentemente si è affermato il principio che la dichiarazione del difensore è ininfluente ai fini dell'individuazione del valore della domanda, poiché essa è indirizzata al funzionario di cancelleria, cui compete il relativo controllo, sicché, non appartenendo tale dichiarazione di valore alle conclusioni della citazione, deve escludersi la possibilità di considerarla come parte della domanda, nel senso cui vi allude il comma 1 dell'art. 10 c.p.c., quando dice che il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle disposizioni seguenti (Cass., sez. lav., n. 1793/2024).

L'art. 429, comma 3, c.p.c. impone al giudice del lavoro di determinare, oltre gli interessi nella misura legale, anche il maggiore danno subito dal lavoratore in conseguenza della diminuzione di valore della moneta, utilizzando a tale fine, l'indice dei prezzi calcolato ex art. 150 disp. att. c.p.c., nonché di condannare il debitore al pagamento della relativa somma con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto.

L'art. 429, comma 3, c.p.c. – non richiamato dall'art. 447-bis c.p.c. per le controversie locatizie – che ha anche un contenuto di carattere sostanziale, tende ad evitare che il ritardo nell'adempimento dell'obbligazione dedotta in giudizio si traduca in un ingiustificato vantaggio per il debitore, ed attribuisce al lavoratore il diritto alla rivalutazione automatica del proprio credito, indipendentemente dalla colpevolezza o meno del ritardo, dalla costituzione in mora e della prova del maggior danno.

Pertanto, la rivalutazione monetaria costituisce parte integrante del credito di lavoro, configurandosi come una proprietà intrinseca del credito stesso, sia pur nei limiti del meccanismo di indicizzazione dell'indennità di contingenza, ragione per cui ne consegue che il maggiore danno non richiede una esplicita domanda da parte del creditore, ma deve essere liquidato ed attribuito dal giudice anche d'ufficio ed in grado di appello, anche ove difetti una specifica richiesta in tale senso. (Cass., sez. lav., n. 816/1990)

Il valore delle cause separatamente proposte da più parti contro il medesimo convenuto, e, successivamente riunite ai sensi dell'art. 151 disp. att. c.p.c. deve essere determinato con riferimento a ciascuna domanda, restando le cause riunite, ed i relativi rapporti processuali, sempre distinte nonostante la riunione ed essendo, altresì, irrilevante la circostanza che tutte abbiano ad oggetto prestazioni previste dalla medesima norma (Cass., sez. lav., n. 1416/1984).

Causa di valore indeterminabile

Ai fini dell'applicazione dell'art. 440 c.p.c., deve intendersi per causa di valore indeterminabile a norma dell'art. 9, comma 2, c.p.c. la cui decisione di primo grado dev'essere impugnata con l'appello, quella concernente una pretesa insuscettibile di valutazione economica, in cui cioè non sia possibile una conversione in denaro, mentre, di contro, si reputa di valore determinabile quella in cui le parti non abbiano precisato i limiti qualitativi e quantitativi della domanda giudiziale, ma sia possibile la sua valutazione economica mediante la riduzione in denaro attraverso l'esame degli atti.

È di valore indeterminabile la controversia che ha per oggetto la legittimità di una sanzione disciplinare perché essa può esplicare un'incidenza sullo status del lavoratore implicando un giudizio negativo che va oltre il valore strettamente economico della sanzione stessa ed involge invece la correttezza, diligenza e capacità professionale del lavoratore (Cass., sez. lav., n. 5443/1988).

In caso di valore indeterminabile della controversia introdotta con la relativa domanda giudiziale, la sentenza è sempre appellabile.

In dottrina, è stato osservato che ai fini dell'applicazione della disposizione in esame, deve intendersi per causa di valore indeterminabile quella in cui la pretesa azionata sia insuscettibile di valutazione economica, in cui, cioè, non sia possibile una conversione in denaro, mentre è di valore determinabile quella in cui le parti non abbiano precisato i limiti qualitativi e quantitativi della domanda, ma sia possibile, ancorché non agevole, la valutazione economica di essa mediante la riduzione in denaro attraverso l'esame degli atti (Di Marzio, 1).

Le spese processuali cumulabili alla domanda, al fine della determinazione del suo valore, sono soltanto quelle occorse per procedimenti autonomi del processo introdotto con la domanda giudiziale, non anche quelle sostenute prima di tale processo ed ai fini della sua instaurazione dinanzi al giudice adito (Cass., sez. lav., n. 6901/1982).

La determinazione del valore ex art. 440 c.p.c. nell'ipotesi di litisconsorzio

Nell'ipotesi in cui più parti abbiano agito o siano state convenute nel medesimo processo in cause fra loro connesse, ovvero in caso di chiamata iussu judicis o di domanda riconvenzionale, il valore di ogni causa deve essere considerato separatamente al fine di stabilire l'applicabilità dell'art. 440 c.p.c.

Nell'ipotesi di litisconsorzio facoltativo, caratterizzato da domande proposte da più parti contro una stessa parte convenuta in base a titoli autonomi anche se della stessa natura, non è applicabile l'art. 10, comma 2, c.p.c., sicché il valore delle singole controversie deve essere autonomamente determinato (Cass., sez. lav., n. 376/1986; Cass., sez. lav., n. 5730/1982; Cass., sez. lav., n. 3713/1979).

Tale principio è stato confermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità laddove ha statuito che nell'ipotesi di litisconsorzio facoltativo, caratterizzato da domande di più soggetti contro uno stesso convenuto in base a titoli autonomi anche se della stessa natura, non è applicabile il comma 2 dell'art. 10 c.p.c. che è richiamato soltanto dall'art. 104 c.p.c., relativo al cumulo oggettivo, sicché il valore delle singole controversie deve essere autonomamente determinato (Cass., sez. lav., n. 1793/2024).

In caso di litisconsorzio facoltativoex art. 103 c.p.c., il valore della causa non si determina sommando il valore delle singole domande proposte da un solo attore contro più convenuti o da più attori contro un solo convenuto, posto che queste, essendo cumulate soltanto dal lato soggettivo, vanno ritenute fra loro distinte ed autonome. Nella suddetta ipotesi si deve, invece, fare riferimento al criterio della domanda di valore più elevato, con la conseguenza che, anche ai fini della liquidazione degli onorari spettanti all'avvocato che ha assistito più parti, la misura del compenso standard va determinata nell'ambito dello scaglione di riferimento in relazione alla domanda od alla condanna di importo più elevato (Cass. III, n. 24144/2024).

Bibliografia

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