Codice di Procedura Civile art. 439 - Cambiamento del rito in appello 1 2 3 .[I]. La corte di appello, se ritiene che il procedimento in primo grado non si sia svolto secondo il rito prescritto, procede a norma degli articoli 426 e 427.
[1] Articolo sostituito dall'art. 1, comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533. [2] Articolo così modificato dall'art. 85 d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51, con effetto, ai sensi dell'art. 247 comma 1 dello stesso decreto quale modificato dall'art. 1 l. 16 giugno 1998, n. 188, dal 2 giugno 1999. InquadramentoL'art. 439 c.p.c. dispone che la Corte d'Appello se ritiene che il procedimento in primo grado non si sia svolto secondo il rito prescritto, procede a norma degli artt. 426 e 427 c.p.c. L'art. 439 c.p.c. riguarda il caso in cui il rito effettivamente adottato dinanzi al giudice di prime cure è ritenuto sbagliato, mentre se il gravame è stato iniziato con il rito differente rispetto a quello concretamente seguito dinanzi al giudice di prime cure, tale situazione integra l'ipotesi di una nullità dell'atto di appello con la sua possibile conversione (Celeste, Asprella, 414; Luiso, 304). Il provvedimento con il quale viene adottato il mutamento del rito è l'ordinanza, adottata dal collegio all'udienza di discussione (Luiso, 306; Tarzia, Dittrich, 360). Il mutamento del rito in appello, da un lato, non comporta la rimessione al primo giudice, e, dall'altro, non comporta la rinnovazione dinanzi al giudice d'appello (Proto Pisani, 791). L'errore che determina il mutamento del rito è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, e, qualora vi sia stato il pronunciamento del giudice di prime cure sulla relativa quaestio juris, occorre promuovere il giudizio di impugnazione al fine di impedire che si formi la preclusione (Luiso, 306; Montesano, Vaccarella, 347). La decisione sul rito applicabile alla controversia, non espressamente impugnata, preclude il riesame della relativa questione nel proseguimento del giudizio per il formarsi del giudicato interno (Cass., sez. lav., n. 285/1996). L'omesso cambiamento del rito, anche in appello, non spiega effetti invalidanti sulla sentenza, e non può quindi formare oggetto di impugnazione (Cass., sez. lav., n. 11148/1992), in quanto la distinzione tra giudice del lavoro e giudice ordinario, non involge una questione di competenza ma di semplice diversità di rito, salvo il caso in cui questa abbia inciso sulla determinazione della competenza in senso proprio, con la conseguenza che non è ammissibile dedurre dinanzi al giudice di legittimità la nullità del giudizio per avere il giudice di merito giudicato in funzione di giudice del lavoro anziché in sede ordinaria, o viceversa. Alla stessa conclusione deve pervenirsi ove sia stato legittimamente disposto il mutamento di rito e ciononostante il processo – revocato espressamente od implicitamente il relativo provvedimento – sia proseguito secondo le regole del rito precedentemente osservato, anziché secondo quelle del rito corrispondente alla natura della controversia. In particolare, l'impugnativa per essere ammissibile, occorre che venga dedotto uno specifico pregiudizio processuale che sia derivato dal rito adottato, con riferimento alla determinazione del giudice competente, od al regime delle prove, od infine, alle facoltà di cui le parti dispongano per l'esercizio del loro diritto di difesa, a tale fine, occorrendo che in relazione a ciò siano materia di doglianza gli specifici effetti negativi determinati dal rito adottato erroneamente (Cass., sez. lav., n. 5582/1994). In tale ottica, è da tempo consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il principio c.d. dell'apparenza, in forza del quale l'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile avverso un provvedimento giurisdizionale deve essere compiuta con riferimento esclusivo alla qualificazione dell'azione proposta effettuata dal giudice a quo, sia essa corretta o meno, a prescindere, cioè, dalla prospettazione o sussunzione sub specie juris operata dalle parti (Cass. III, n. 907/2024). Premesso che ai sensi degli artt. 426,427 e 439 c.p.c. il mutamento del rito può essere disposto anche in grado di appello (Cass., II, n. 2411/2024), alla controversia che, pur non riguardando un rapporto compreso tra quelli indicati dagli artt. 409 e 442 c.p.c., erroneamente non sia stata trattata con il rito del lavoro, sono comunque applicabili le regole ordinarie in ordine ai termini per la proposizione dell'impugnazione, atteso che il rito adottato dal giudice assume una funzione enunciativa della natura della stessa, indipendentemente dall'esattezza della relativa valutazione e costituisce per le parti criterio di riferimento. Per converso e specularmente, alla controversia che, pur non riguardando un rapporto compreso tra quelli indicati dall'art. 409 o dall'art. 442 c.p.c., sia stata trattata con il rito del lavoro, non è applicabile il regime della sospensione dei termini di impugnazione nel periodo feriale, giacché il rito adottato dal giudice assume una funzione enunciativa della natura della controversia, indipendentemente dall'esattezza della relativa valutazione, e perciò detto rito costituisce per le parti criterio di riferimento anche ai fini del computo dei termini per la proposizione dell'impugnazione, secondo il regime previsto dall'art. 3 della l. n. 742/1969 (Cass., sez. lav., n. 3288/2024). [*GIURI*] Nei giudizi soggetti al rito del lavoro, l'appello, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell'udienza non sia affatto avvenuta, non essendo consentito al giudice – alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2, Cost. – di assegnare, ex art. 421 c.p.c., all'appellante un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell'art. 291 c.p.c. Si tratta di un principio che è stato pacificamente ritenuto applicabile anche all'appello incidentale, ragione per cui la radicale inammissibilità dell'appello principale a causa del suo tardivo deposito, priva l'atto di qualsivoglia valenza processuale, risultando evidentemente impossibile ipotizzare che l'improcedibilità derivante dall'omessa notifica dell'appello incidentale possa essere sanata in virtù della notifica di un appello principale a propria volta tardivo ed inammissibile, in tale modo pervenendo alla singolare “combinazione” in un'unica sequenza procedimentale di due atti entrambi affetti da radicali carenze (Cass., sez. lav., n. 23159/2024). Nei giudizi soggetti al rito del lavoro, l'appello, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell'udienza non sia affatto avvenuta, non essendo consentito al giudice – alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2, Cost. – di assegnare, ex art. 421 c.p.c., all'appellante un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell'art. 291 c.p.c. Si tratta di un principio che è stato pacificamente ritenuto applicabile anche all'appello incidentale, ragione per cui la radicale inammissibilità dell'appello principale a causa del suo tardivo deposito, priva l'atto di qualsivoglia valenza processuale, risultando evidentemente impossibile ipotizzare che l'improcedibilità derivante dall'omessa notifica dell'appello incidentale possa essere sanata in virtù della notifica di un appello principale a propria volta tardivo ed inammissibile, in tale modo pervenendo alla singolare “combinazione” in un'unica sequenza procedimentale di due atti entrambi affetti da radicali carenze (Cass., sez. lav., n. 23159/2024). Cambiamento del rito da “ordinario” a “speciale”L'ipotesi che il giudice di primo grado non provveda al passaggio dal rito ordinario, erroneamente adottato, al rito speciale è prevista e disciplinata dall'art. 439 c.p.c., il quale dispone che, in tale ipotesi, il giudice di appello procede a norma dell'art. 426 c.p.c. Infatti, il giudice d'appello, quando rileva che una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti previsti dall'art. 409 c.p.c., fissa con ordinanza l'udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. ed il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante il deposito di memorie e documenti in cancelleria. La competenza – anche ai fini del mutamento di rito disposto ai sensi degli artt. 427 e 439 c.p.c. – si determina con riferimento alla domanda, ed in particolare, al petitum ed alla causa petendi con essa esposti, indipendentemente dalla fondatezza della stessa domanda. Pertanto, l'obbligo del giudice di provvedere al mutamento di rito, ove la causa riguardi un rapporto diverso da quelli menzionanti dall'art. 409 c.p.c., sussiste soltanto quando il rapporto dedotto in giudizio dall'attore si presenti fin dall'atto introduttivo della causa come estraneo alla previsione della suddetta norma, e non quando l'estraneità emerga a seguito dei risultati dell'istruzione probatoria, poiché questi, al pari delle eventuali eccezioni del convenuto circa l'inesistenza del rapporto controverso o la natura del medesimo, attengono al merito della pretesa (Cass., sez. lav., n. 1916/1993). Il passaggio dal rito ordinario al rito speciale del lavoro ha luogo quando una causa di lavoro è stata decisa nelle forme ordinarie, e la fissazione dell'udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. con assegnazione di termine per l'eventuale integrazione degli atti è finalizzata allo svolgimento del processo nei modi stabiliti per il primo grado, e, quindi, all'utile esplicazione delle facoltà di difesa delle parti per quanto concerne la precisazione dell'oggetto della controversia e la determinazione degli elementi di prova (Cass., sez. lav., n. 9774/1996). Tuttavia, in precedenza, la stessa giurisprudenza di legittimità aveva osservato che la concessione del termine di cui all'art. 439 c.p.c. in relazione all'art. 426 c.p.c. è volta solo a consentire alle parti di mettersi in regola con le prescrizioni introdotte dal rito del lavoro e non può quindi essere utilizzato per aggirare il divieto di proporre domande nuove in appello, con la conseguenza che è da escludere che la memoria integrativa di cui all'art. 426 c.p.c. possa contenere conclusioni di merito diverse e più ampie di quelle esposte con l'atto introduttivo del giudizio di impugnazione (Cass. IIIl, n. 4573/1993). La parte se è tenuta a proporre l'impugnazione nella forma e nei termini propri del rito ordinario o del lavoro adottato in concreto dal giudice, non può ad essa addossarsi anche l'onere della proposizione con i motivi di appello di eccezioni non consentite dallo stesso rito adottato, e, quindi, il giudice se ritiene che la causa decisa in primo grado secondo il rito speciale, riguarda un rapporto diverso da quelli previsti dall'art. 409 c.p.c., e dispone ai sensi dell'art. 439 c.p.c. il passaggio al rito ordinario, le nuove eccezioni, vietate dall'art. 437 c.p.c. e consentite invece dall'art. 345 c.p.c., possono essere proposte, ove non siano già state formulate con l'atto di appello, anche dopo il cambiamento del rito (Cass., sez. lav., n.11148/1992). Il principio dell'ultrattività del rito, in forza del quale, ove una controversia sia stata trattata in primo grado con il rito ordinario anziché con quello del lavoro, vanno seguite le forme ordinarie anche per la proposizione del relativo gravame, salva la possibilità che il giudice dell'appello, ricorrendone i presupposti, disponga il passaggio al rito speciale, ai sensi dell'art. 439 c.p.c., si applica anche per la determinazione della forma dell'eventuale atto di riassunzione del giudizio di appello, con la conseguenza che, qualora questo sia stato ritualmente introdotto con atto di citazione a udienza fissa in attuazione del detto principio, sebbene relativamente ad una controversia soggetta alle disposizioni introdotte con la l. n. 533/1973, anche la riassunzione va eseguita nei modi ordinari (Cass., sez. lav., n. 6161/1984). Cambiamento del rito da “speciale” a “ordinario”L'art. 427 c.p.c., applicabile anche in appello, a proposito del passaggio dal rito speciale al rito ordinario, dispone che quando il giudice rileva che una causa promossa secondo il rito del lavoro riguarda una causa ordinaria, se essa rientra nella sua competenza dispone la regolarizzazione tributaria e la trattiene, altrimenti la rimette con ordinanza al giudice competente, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con il rito ordinario. Il termine perentorio fissato dall'art. 427 c.p.c. per la riassunzione della causa con il rito ordinario decorre non già dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che abbia dichiarato l'incompetenza, ma dalla data di comunicazione della decisione, costituendo questo il primo atto con cui viene portata a legale conoscenza delle parti interessate la giuridica esistenza del provvedimento, ponendole, così, in condizione, da quel momento, di procedere alla riassunzione (Cass. II, n. 4567/1994). Le Sezioni Unite (Cass. S.U. , n. 7201/1987) hanno affermato il principio di diritto secondo cui il mancato passaggio, anche in grado di appello, dal rito speciale del lavoro a quello ordinario, in presenza di una diversa qualificazione della domanda, che esclude la riconducibilità della controversia fra quelle assoggettate al rito speciale, non spiega effetti invalidanti sul procedimento e sulla sentenza, ove non determini un difetto di competenza in senso proprio (Cass., sez. lav., n. 6811/1992). L'ipotesi che il giudice di primo grado non provveda al passaggio dal rito ordinario, erroneamente adottato, al rito speciale è prevista e disciplinata dall'art. 439 c.p.c., il quale dispone che, in tale caso, il giudice di appello procede a norma dell'art. 426 c.p.c. Il giudice di appello, constatato che si sarebbe dovuto adottare il rito speciale del lavoro, mentre in primo grado il processo si è svolto nelle forme ordinarie, dispone il passaggio dal rito ordinario al rito speciale, in applicazione dell'art. 426 c.p.c., fissando l'udienza di cui all'art. 420 c.p.c. ed assegnando alle parti un termine perentorio affinché provvedano all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante il deposito di memorie e documenti in cancelleria. Anche in tale ipotesi, stante il richiamo dell'art. 426 c.p.c. fatto dall'art. 439 c.p.c., la normativa del rito speciale si applica dal momento della trasformazione del rito disposta dal giudice di appello, per cui anche ricorrendo tale eventualità, resta valida l'attività procedurale svolta nelle forme ordinarie, sia in primo grado che in appello, prima della trasformazione del rito disposta dal giudice (Cass. III, n. 2405/1986). Alle prove acquisite con il rito speciale, viene riconosciuta l'efficacia consentita dalle norme del rito ordinario, come recita al riguardo l'art. 427, comma 2, c.p.c. L'art. 4 comma 5 d.lgs. n. 150/2011, nel prevedere che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento, e che restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento, recepisce una regola generale già affermata dalla precedente giurisprudenza di legittimità con riguardo a tutte le ipotesi di mutamento di rito, essendosi da tempo affermato in ordine al rito del lavoro, che il mutamento del rito da ordinario a speciale non comporta una rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa del rito ordinario, dovendosi correlare l'integrazione degli atti introduttivi prevista dall'art. 426 c.p.c. alle decadenze di cui alle conseguenti norme valevoli per il rito speciale. A ben vedere, un simile principio va esteso, per ovvia identità di ratio, al caso del mutamento di rito - da ordinario a speciale - di cui al citato d.lgs. n. 150/2011 atteso che per valutare la tempestività o meno dell'eccezione di decadenza o prescrizione occorre fare riferimento al rispetto delle decadenze stabilite alla stregua delle norme del rito anteriore al mutamento (Cass. I, n. 7696/2021; Cass. lav., n. 10569/2017). 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Dalla formazione all'esecuzione del titolo, Milano, 2011; Fabbrini, Dei mezzi di impugnazione nel nuovo processo del lavoro, in Riva Sanseverino, Mazzoni (diretto da), Nuovo trattato di diritto del lavoro, IV, Padova, 1975; Fraioli, Brattoli, Il giudizio di appello, in Vallebona (a cura di), Il diritto processuale del lavoro, Padova, 2011; Garbagnati, Cambiamento di rito in appello ed incompetenza del primo giudice, in Riv. dir. proc., 1975; Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992; Masoni, Le locazioni, II, Il processo (a cura di) Grasselli, Masoni, Padova, 2007; Montesano, Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996; Montesano, Arieta, Diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996; Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile, II, 1, Padova, 2002; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991; Proto Pisani, Controversie individuali di lavoro, Torino, 1993; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2014; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987; Tarzia, Dittrich, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2015; Tesoriere, Diritto processuale del lavoro, Padova, 2004; Verde, Olivieri, Processo del lavoro, in Enc. dir., Milano, 1987; Vocino, Verde, Appunti sul processo del lavoro, Napoli, 1989; Vullo, Il nuovo processo del lavoro, Bologna, 2015. |