Codice di Procedura Civile art. 415 - Deposito del ricorso e decreto di fissazione dell'udienza. 1

Vito Amendolagine

Deposito del ricorso e decreto di fissazione dell'udienza.1

[I]. Il ricorso è depositato [nella cancelleria del giudice competente] insieme con i documenti in esso indicati2.

[II]. Il giudice, entro cinque giorni dal deposito del ricorso, fissa, con decreto, l'udienza di discussione, alla quale le parti sono tenute a comparire personalmente [418 1].

[III]. Tra il giorno del deposito del ricorso e l'udienza di discussione non devono decorrere più di sessanta giorni [420].

[IV]. Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, deve essere notificato al convenuto, a cura dell'attore, entro dieci giorni dalla data di pronuncia del decreto, salvo quanto disposto dall'articolo 417.

[V]. Tra la data di notificazione al convenuto e quella dell'udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni.

[VI]. Il termine di cui al comma precedente è elevato a quaranta giorni e quello di cui al comma 3 è elevato a ottanta giorni nel caso in cui la notificazione prevista dal comma 4 debba effettuarsi all'estero.

[VII]. Nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al quinto comma dell'articolo 413, il ricorso è notificato direttamente presso l'amministrazione destinataria ai sensi dell'articolo 144, secondo comma. Per le amministrazioni statali o ad esse equiparate, ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato competente per territorio 3.

 

[1] Articolo sostituto dall'art. 1, comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533.

[2] Comma così modificato dall'art. 3, comma 5, lett. b) d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164,  che ha soppresso le parole tra parentesi quadre. Ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023.

Inquadramento

L'art. 415 c.p.c. disciplina l'allegazione dell'atto introduttivo, redatto in forma di ricorso, disciplinato dal rito del lavoro a cui è ispirato quello locatizio, che segue scansioni diverse – ed acceleratorie – rispetto all'ordinario processo civile di cognizione a cominciare, dalla stessa costituzione in giudizio del ricorrente.

In particolare, nel rito locatizio, come già detto, modellato su quello lavoristico, il deposito del ricorso ex art. 414 c.p.c. nella cancelleria del giudice adito, oltre a rappresentare il momento determinante per la pendenza della lite agli effetti dell'art. 39 c.p.c. ed ai fini della perpetuatio jurisdictionis di cui all'art. 5 c.p.c., è anche il primo contatto tra il medesimo ricorrente ed il giudice che di fatto anticipa quello successivo, dell'instaurazione del contraddittorio nei confronti della parte resistente.

In dottrina (Socci, 125) si è infatti osservato come è questa la fase di necessario contatto tra la parte ricorrente ed il giudice che precede qualsiasi relazione processuale con l'altra parte resistente.

Infatti, è con il mero deposito del ricorso e dei relativi allegati racchiusi nel fascicolo di parte, che si realizza il momento della costituzione in giudizio del ricorrente.

La dottrina, ritiene quindi che per effetto della descritta modalità di costituzione del ricorrente, quest'ultimo non può mai essere contumace nel rito del lavoro (Tarzia, Dittrich, 103; Luiso, 1992, 117; Montesano, Vaccarella, 108; Boghetich, 176) e, dunque, anche in quello locatizio essendo quest'ultimo modellato sul primo.

In ciò si coglie già una prima differenza fondamentale rispetto alla costituzione dell'attore nell'ordinario giudizio di cognizione, che invece si realizza soltanto in un momento successivo rispetto alla litispendenza ed all'instaurazione del contradditorio con il convenuto.

Ulteriore differenza tra le due tipologie di rito è data anche nella differente modalità e tempistica di realizzazione della litispendenza e, quindi dell'instaurazione del contraddittorio, che nel rito ordinario di cognizione coincidono, determinandosi la litispendenza – e con essa l'instaurazione del contradditorio – con la semplice notifica dell'atto di citazione al convenuto, laddove invece, nel rito locatizio, disciplinato da quello del processo del lavoro, detti momenti risultando sganciati, l'uno dall'altro, in quanto mentre la litispendenza ex art. 39 c.p.c. è determinata dal deposito del ricorso ex art. 414 c.p.c. nella cancelleria del giudice adito, il contraddittorio nei confronti della parte resistente si realizza in un secondo momento, segnato dalla successiva notifica dello stesso ricorso ex art. 414 c.p.c. con il pedissequo decreto di fissazione dell'udienza di discussione – medio tempore – emesso ai sensi dell'art. 415 c.p.c. dal giudice designato.

In tema di litispendenza, premesso che l'unico criterio previsto dall'art. 39 c.p.c. è quello fondato sulla “prevenzione”, il quale non può tollerare eccezioni (Cass. S.U., n. 17443/2014), al fine di stabilire l'applicazione del suddetto criterio della prevenzione nel caso di ricorsi depositati lo stesso giorno, la giurisprudenza ha preso in considerazione i fatti processuali immediatamente successivi all'avvenuto deposito del ricorso, e, quindi, la data di notifica del ricorso e la data dell'udienza di discussione (Cass. VI, n. 22947/2016), atteso che in tale ipotesi, specificamente considerata, non si configura alcun vulnus al principio del giudice naturale, risultando la individuazione del giudice territorialmente competente ancorata ad elementi oggettivi fondati sulla normale scansione temporale delle attività processuali.

In tale ottica, la data di fissazione della udienza di discussione quale parametro al quale ancorare la verifica del giudice preventivamente adito – nel rito locatizio modellato su quello del lavoro – ai sensi dell'art. 39, comma 1, c.p.c., si pone in linea con l'elaborazione giurisprudenziale di legittimità in tema di criteri suppletivi, la quale, nell'ambito del processo civile a cognizione ordinaria, per l'ipotesi di atti di citazione notificati nel medesimo giorno, ha fatto costante riferimento alla data della udienza di comparizione più prossima alla data di notifica delle citazioni (Cass. III, n. 8690/1987; Cass. III, n. 1603/1962; Cass. II, n. 333/1959, in cui si è altresì specificato che il criterio della prevenzione nel caso di domanda proposta in forma diversa dall'atto di citazione e, quindi con ricorso, opera con riferimento alla data di comunicazione o notificazione all'altra parte dell'atto con cui viene formulata la relativa pretesa giudiziale).

L'onere di indicare i documenti presenti nel fascicolo di parte ricorrente

Ai sensi dell'art. 74 disp. att. c.p.c., gli atti ed i documenti di causa sono inseriti in sezioni separate del fascicolo di parte, ed il cancelliere, controllata la regolarità anche fiscale degli atti e dei documenti, sottoscrive l'indice del fascicolo ogni volta che viene inserito in esso un atto o documento.

È quindi importante che il fascicolo di parte ricorrente contenga un indice dei documenti sottoscritto dal cancelliere, così come dispone l'art. 74, comma 3, disp. att. c.p.c. la cui applicazione trova ingresso anche nel rito locatizio modellato su quello del lavoro.

Il fascicolo di parte, contiene infatti tutti gli atti destinati a trovare ingresso nel processo, tra cui in particolare, gli originali o le copie degli atti che si offrono in comunicazione ed ovviamente, l'atto introduttivo del giudizio, ovvero, il ricorso ex art. 414 c.p.c. Inoltre, ai sensi dell'art. 73 disp. att. c.p.c. il ricorrente deve consegnare al cancelliere insieme col proprio fascicolo le copie degli atti di parte, che a norma dell'art. 168, comma 2, c.p.c. devono essere inserite nel fascicolo d'ufficio, come la copia dello stesso ricorso ex art. 414 c.p.c. comunemente indicata con il nome di “velina”.

Le precisazioni che precedono sono funzionali alle modalità di produzione dei documenti stabilite dagli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c. atteso che, in mancanza di indicazione nell'indice del fascicolo di parte di un documento che si assume inserito nel medesimo all'atto della costituzione in giudizio, ovvero di deposito in cancelleria del documento che si assume prodotto dopo la costituzione in giudizio, e di comunicazione di esso alle altre parti ex art. 170, comma 4, c.p.c. o, se esibito in udienza, di menzione nel relativo verbale ai sensi dell'art. 87 disp. att. c.p.c., si presume che il documento non sia stato acquisito al processo.

Secondo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, è pertanto onere della parte – in questo caso ricorrente, ma identico discorso vale anche per quella resistente – dimostrare che, invece, malgrado la mancanza di prova dell'osservanza di dette formalità, il documento sia stato prodotto, ancorché senza le modalità predette, nel rispetto dei termini stabiliti dal codice di rito (Cass. I, n. 18949/2006; Cass. II, n. 24874/2006).

Più in particolare, la mancanza della sottoscrizione del cancelliere in calce all'indice dei documenti prodotti, anche se non rende irrituale la produzione, determina, in caso di contestazione, la necessità, per la parte interessata, di fornire, sia pure solo indirettamente ed anche attraverso il comportamento della controparte, la prova della produzione dei documenti di cui intende avvalersi (Cass. VI, n. 27313/2018; Cass. II, n. 9644/2011; Cass. II, n. 3778/1996, in cui si precisa che deve escludersi la possibilità di attribuire un analogo effetto certificativo alla sottoscrizione dell'indice da parte del difensore, atteso che la mancanza della firma del cancelliere in calce all'indice dei documenti prodotti, anche se non rende irrituale la produzione, determina, in caso di contestazione, la necessità, per la parte interessata, di fornire, sia pure solo indirettamente ed anche attraverso il comportamento della controparte, la prova della produzione dei documenti di cui intende avvalersi).

Aggiungasi che sempre secondo l'orientamento di legittimità assunto su tale quaestio, il rispetto del principio del contraddittorio – esigenza sottesa alle formalità di produzione dei documenti in giudizio ex artt. 170 c.p.c. e 74, 87 cod. disp. att. c.p.c. – nel caso in cui il documento sia prodotto senza tali garanzie, va positivamente provato per potersi ritenere raggiunto lo scopo di dette norme, non essendo sufficiente, a tal fine, la non contestazione della controparte, perché, se la produzione è avvenuta in violazione degli artt. 170, comma 4 c.p.c. e 87 cod. disp. att. c.p.c., è necessaria la prova della conoscenza del documento soltanto così potendosi ritenere garantito il diritto della controparte di esercitare il proprio diritto di difesa, ovvero, di accettare implicitamente il deposito tardivo (Cass. III, n. 15189/2005).

La nota di iscrizione a ruolo e la formazione del fascicolo d'ufficio

L'art. 168 c.p.c. enuncia che all'atto della costituzione dell'attore, o, se questi non si è costituito, all'atto della costituzione del convenuto, su presentazione della nota d'iscrizione a ruolo, il cancelliere iscrive la causa nel ruolo generale.

La nota d'iscrizione a ruolo, di cui agli artt. 168 c.p.c. e 71 disp. att. c.p.c., costituisce, in via di principio, un atto interno dell'ufficio giudiziario adito la cui funzione è, in primis, quella di portare la causa, in ordine alla quale il rapporto tra le parti è già sorto per effetto della notifica dell'atto di citazione, a conoscenza del giudice.

La dottrina (Picardi, 2173) ha evidenziato come in assenza di disposizioni particolari sulle modalità di costituzione del ricorrente, sono applicabili le norme del rito processuale civile ordinario, in quanto compatibili, e, ciò vale anche per la formazione del fascicolo d'ufficio ex art. 168 c.p.c. e la designazione del giudice cui assegnare il relativo procedimento, negli uffici giudiziari con più magistrati.

L'art. 71 disp. att. c.p.c. prescrive che la nota d'iscrizione della causa nel ruolo generale deve contenere l'indicazione delle generalità delle parti, nonché le generalità ed il codice fiscale ove attribuito della parte che iscrive la causa a ruolo, del procuratore che si costituisce, dell'oggetto della domanda, della data di notificazione della citazione, e dell'udienza fissata per la prima comparizione delle parti.

L'art. 72 disp. att. c.p.c. dispone altresì che insieme con la nota d'iscrizione a ruolo la parte deve consegnare al cancelliere il proprio fascicolo, ed è custodito in unica cartella col fascicolo d'ufficio che il cancelliere forma a norma dell'art. 168, comma 2, c.p.c.

Le irregolarità della nota di iscrizione a ruolo, al pari del suo omesso deposito, non comportano l'illegittimità dell'iscrizione a ruolo, e, quindi, della costituzione in giudizio della parte se la nota sia comunque tale da consentire di individuare con certezza il rapporto processuale in virtù del quale è stato adito il giudice.

Il fascicolo d'ufficio contiene l'originale degli atti dell'ufficio e la copia di tutti gli atti di parte, al fine di consentire al giudice od alle parti di prenderne conoscenza o comunque “visione” anche nell'eventualità in cui i fascicoli di parte non siano presenti in quanto ritirati dalla singola parte autorizzata al ritiro dal giudice adito.

Secondo la giurisprudenza, i vizi dell'iscrizione a ruolo ed in particolare, quelli che si risolvono in un errore materiale nell'indicazione del nome dell'attore agevolmente riconoscibile ed inidonee, in quanto tale a precludere al convenuto di rintracciare la causa, attraverso un esame diligente dei registri di cancelleria, non determinano nullità processuali (Cass. I, n. 3728/2004).

Infatti, il limite massimo di siffatta normale sterilità delle eventuali irregolarità riscontrate nella iscrizione a ruolo del procedimento è costituito – tenuto conto della inesistenza di espresse sanzioni di nullità – dalla possibilità di apprezzarle ai sensi dell'art. 156, comma 2 c.p.c., e, cioè, sotto il profilo della mancanza dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell'atto.

Ciò posto, si è quindi precisato che tali requisiti, in un ordinamento improntato alla salvaguardia del principio del contraddittorio e delle garanzie difensive ex artt. 111 e 24 Cost., devono ritenersi sussistenti quando la nota di iscrizione a ruolo sia comunque idonea a consentire di individuare con sicurezza il rapporto processuale sul quale è invocata la pronuncia del giudice, al contrario, difettando, quando il medesimo procedimento, ancorchè assegnato al giudice, non sia rintracciabile da chi non abbia preso l'iniziativa di iscriverlo a ruolo (Cass. III, n. 13528/2009; Cass. II, n. 11293/1993).

L'art. 168 c.p.c. prevede altresì che in relazione ad una determinata controversia abbia luogo una sola volta l'iscrizione a ruolo, quale atto, con il quale si determina la presa di contatto del giudizio con l'ufficio giudiziario presso il quale viene incardinato, come si desume dalla stessa disposizione normativa citata, laddove prevede l'alternativa dell'iscrizione a ruolo ad iniziativa dell'attore o del convenuto, e la formazione di un unico fascicolo d'ufficio, nel quale devono essere inseriti gli atti processuali.

La giurisprudenza ha infatti interpretato la portata dell'art. 168 c.p.c. affermando che il citato articolo esige contemporaneità fra prima costituzione ed iscrizione a ruolo (Cass. III, n. 15123/2007) e che in caso di duplice iscrizione della causa a ruolo, ove le due udienze di prima comparizione ed il giudice istruttore non vengano a coincidere e i due processi non vengano riuniti, l'unica iscrizione che dà luogo ad un processo regolare è quella effettuata per prima, in quanto solo rispetto a questa il meccanismo processuale consente una valida instaurazione del contraddittorio (Cass. III, n. 19775/2003; Cass. I, n. 1402/1996).

In particolare, si è affermato che la costituzione del convenuto può dare luogo ad iscrizione della causa a ruolo solo se avviene prima che si sia costituito l'attore, atteso che, sullo stesso atto di citazione, non possono aversi più iscrizioni a ruolo con formazione di più fascicoli di ufficio e designazione di più giudici, di tal che, se a costituirsi in giudizio per secondo è l'attore, alla sua costituzione in giudizio non può seguire altra iscrizione della causa nel ruolo.

Quando ciò avvenga, anche a questa situazione, per eliminarla, potrà applicarsi l'art. 273 c.p.c., con la conseguente riunione dei due procedimenti, considerato che se diversamente, ove detta strada risulti giuridicamente impraticabile, la sentenza emessa in violazione dell'art. 169 c.p.c., con la conseguente formazione di un secondo procedimento in base alla costituzione del convenuto successiva a quella dell'attore, traducendosi in una palese violazione del principio del contraddittorio sancito dall'art. 111, comma 2, Cost. sarebbe radicalmente affetta da nullità (Cass. III, n. 4376/2003).

Il deposito del ricorso ed il decreto di fissazione dell'udienza

Il ricorrente, depositato il ricorso nella cancelleria del giudice competente insieme con i documenti in esso indicati ed offerti in comunicazione, formato il fascicolo d'ufficio da parte del cancelliere ed assegnato – dal Presidente del tribunale od in caso di ufficio giudiziario diviso in più sezioni, dal presidente della sezione competente per materia – il relativo procedimento al giudice, e, quest'ultimo, emette il decreto di fissazione dell'udienza di discussione entro cinque giorni dal deposito del ricorso, fissando l'udienza di discussione alla quale le parti sono tenute a comparire personalmente.

A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164 noto come Correttivo alla riforma Cartabia, recante disposizioni integrative e correttive al d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a sua volta recante l'attuazione della l. 26 novembre 2021, n. 206, recante la delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonchè in materia di esecuzione forzata, il comma 1, dell'art. 415 c.p.c. attualmente prevede che il ricorso è depositato insieme con i documenti in esso indicati. In considerazione delle norme vigenti sul processo civile telematico è stato espunto dalla norma anzidetta il riferimento alla cancelleria, poiché il deposito del ricorso – anche quando il rito è quello speciale del lavoro – attualmente avviene telematicamente.

In dottrina (Tarzia, Dittrich, 106; Luiso 1992, 118; Montesano, Vaccarella, 113), si ritiene che nel particolare momento processuale che segna la costituzione in giudizio del ricorrente – di fatto, simile a quello di altro genere di procedimenti in cui è ugualmente presente una fase caratterizzata da uno stato preliminare di inaudita altera parte, ovvero a contraddittorio differito – disciplinata dall'art. 415 c.p.c.il giudice non possa esercitare altri poteri ufficiosi diversi da quello di fissare la prima udienza di discussione, stante appunto, in detta fase processuale l'inesistenza del contraddittorio nei confronti della parte resistente, alla quale va garantita la c.d. parità delle armi.

La parte ricorrente non riceve alcun avviso dell'avvenuto deposito del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, gravando sulla medesima il relativo onere informativo.

Pertanto, ai sensi degli artt. 82 e 15 disp. att. c.p.c., l'obbligo della cancelleria di comunicare il decreto che fissa la nuova udienza di discussione alle parti non presenti alla pronuncia del relativo provvedimento sussiste soltanto nel caso di rinvio disposto ad hoc per la singola causa, non anche nel caso di rinvio d'ufficio di tutti i procedimenti fissati per una determinata udienza, in tale ipotesi gravando sui difensori delle parti l'onere di accertarsi del disposto rinvio e di individuare l'udienza immediatamente successiva in base al calendario giudiziario (Cass., sez. lav., n. 10981/1992).

Ciò in quanto, se è vero che il processo del lavoro è regolato dal principio d'iniziativa di parte, è anche vero cha tale principio è temperato da quello d'impulso di ufficio, per il quale deve ritenersi che sia onere dell'ufficio dare comunicazione alle parti dei provvedimenti giudiziali essenziali a garantire il contraddittorio (Cass., sez. lav., n. 6490/2003).

L'art. 415, comma 3 c.p.c. prevede che tra il giorno di deposito del ricorso e l'udienza di discussione non devono decorrere più di sessanta giorni.

La dottrina ha osservato che i suddetti termini non sono perentori ma ordinatori (Montesano, Vaccarella 1996, 113), la cui eventuale inosservanza non determina alcuna conseguenza processuale, in quanto il tratto caratterizzante dei termini ordinatori sta nel non determinare né la decadenza dal potere di compiere l'atto, né la nullità dell'atto compiuto dopo la scadenza del termine: il che è in certo qual modo evidente, dal momento che se dalla violazione del termine ordinatorio discendessero le menzionate conseguenze, esso avrebbe natura perentoria e non ordinatoria.

Infatti, ai sensi dell'art. 152, comma 2 c.p.c., applicabile anche nel rito del lavoro, e, quindi, anche in quello locatizio, i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori.

In tale senso depone l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il termine di dieci giorni assegnato per la notificazione del decreto e del ricorso ai sensi dell'art. 415, comma 4 c.p.c. non è perentorio ma ordinatorio, e la sua inosservanza non produce automaticamente la vulnerazione della costituzione del rapporto processuale laddove risulta ampliamente garantito al convenuto un termine per la costituzione non inferiore ai trenta giorni (Cass. III, n. 26039/2005). Conforme risulta anche la posizione assunta dalla giurisprudenza di merito sullo stesso tema qui considerato (Trib. Catania 14 dicembre 2018).

La giurisprudenza di legittimità ritiene quindi che il termine di dieci giorni assegnato al ricorrente per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione al convenuto, ai sensi dell'art. 415, comma 4 c.p.c., non è perentorio, sicché la sua inosservanza non produce alcuna decadenza, nè incide sulla validità dell'atto processuale, sempreché siano rispettati i termini di comparizione fissati dall'art. 415, commi 4 e 5 c.p.c. (Cass. III, n. 1835/1988).

Allo stesso modo, si ritiene che il termine previsto dall'art. 415, comma 3 c.p.c. per la fissazione dell'udienza ha natura ordinatoria e non perentoria mancando in tal senso l'espressa dichiarazione legislativa, necessaria ai sensi dell'art. 152 c.p.c.

Al riguardo, giova osservare che nel rito del lavoro, l'instaurazione del rapporto giuridico processuale viene determinata con il deposito del ricorso in cancelleria, il quale perfeziona la costituzione dell'attore come quella dell'appellante, a norma degli artt. 415 e 434 c.p.c., con la conseguenza che, depositato tempestivamente il ricorso, l'anormalità della notificazione di esso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione comporta non le conseguenze che l'art. 163, ultimo comma c.p.c. ricollega all'inosservanza del termine perentorio per la notificazione, bensì il potere-dovere del giudice, posto dall'art. 421, comma 1 c.p.c., di assegnare alla parte un termine per provvedere ad una regolare notificazione (Cass. III, n. 1929/1984).

In consonanza con tale orientamento, la giurisprudenza di legittimità ha altresì affermato che l'identico termine di sessanta giorni per il giudizio di appello che è previsto dall'art. 435, comma 1 c.p.c.non ha carattere perentorio bensì ordinatorio non essendo così espressamente dichiarato dalla suddetta norma, nè avendo un'autonoma funzione nel regime delle impugnazioni, talché la sua inosservanza non comporta l'improcedibilità dell'appello.

La stessa giurisprudenza (Cass. II, n. 808/1999) ha quindi chiarito che a norma dell'art. 154 c.p.c., la proroga dei termini ordinatori può disporsi anche d'ufficio solo prima della scadenza di essi e, perciò, qualora siano fatti decorrere interamente senza l'emanazione di alcun provvedimento che ne protragga la durata, si verificano gli stessi effetti preclusivi derivanti dall'inosservanza dei termini perentori.

[*GIURI*]  Nelle controversie soggette al rito del lavoro, il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, previsto dall'art. 415, comma 4, c.p.c., ha natura ordinatoria ed è, pertanto, prorogabile ad istanza di parte, prima della scadenza, risultando garantite le esigenze del contenimento del processo entro limiti ragionevoli e di salvaguardia del diritto di difesa della controparte dalla natura perentoria del termine per la costituzione in giudizio del convenuto. In particolare, nel rito del lavoro, l'inosservanza dell'art. 420, commi 9 e 11, c.p.c., che prescrive al cancelliere od alla parte più diligente di notificare al terzo chiamato in causa il ricorso introduttivo, la costituzione del convenuto e l'ordine giudiziale di chiamata, non comporta alcuna nullità, ma solo l'obbligo del giudice di fissare un nuovo termine per il compimento degli atti omessi (Cass. lav., n. 26272/2024).

La modalità di presentazione del ricorso

Il deposito del ricorso nel rito locatizio, deve rispettare la modalità propria del rito lavoristico sul quale è modellato, costituendo il necessario strumento per portare all'esame del giudice adito l'atto introduttivo del giudizio, ragione per cui, il suddetto ricorso non può essere proposto a mezzo del servizio postale, ma deve essere depositato presso la cancelleria di detto giudice con consegna “a mani” del cancelliere (Cass., sez. lav., n. 21447/2007).

L'esame delle disposizioni processuali attinenti al rito delle controversie di lavoro induce, dunque, a concludere che l'atto introduttivo del giudizio davanti al giudice del lavoro deve essere depositato nella cancelleria del relativo ufficio giudiziario, posto che tanto dispone espressamente l'art. 415 c.p.c., per il processo del lavoro ed analogo principio si desume dal complesso delle disposizioni processuali attinenti alla costituzione della parte anche nel rito civile.

La spedizione a mezzo del servizio postale alla cancelleria integrando una modalità non prevista in via generale, salva l'espressa eccezione non suscettibile di interpretazione analogica rappresentata dall'art. 134 disp. att. c.p.c., non può condurre alla valida costituzione in giudizio del ricorrente ed alla regolare iscrizione della relativa causa nel ruolo generale, per cui la stessa risulta radicalmente inidonea ad investire validamente il giudice della cognizione e della decisione.

In altre parole, atteso che l'utilizzo di forme diverse di deposito richiederebbe una particolare e specifica normativa che ne disciplini le modalità ed i correlati obblighi di assolvimento da parte degli uffici di cancelleria, la spedizione dell'atto introduttivo a mezzo del servizio postale è carente del requisito formale indispensabile previsto ex lege, per il deposito nella cancelleria del giudice adito per il raggiungimento dello scopo cui questo è destinato, dovendo perciò concludersi che la prescelta modalità di proposizione è nulla ai sensi dell'art. 156, comma 2 c.p.c. e tale vizio è assoluto, rilevabile d'ufficio ed insanabile, anche se il cancelliere abbia erroneamente proceduto all'iscrizione a ruolo della causa (Cass., sez. lav., n. 21447/2007).

In ordine a tale conclusione, un diverso orientamento (Cass. I, n. 6968/1997) emerso in relazione ad un giudizio di opposizione avverso una sanzione amministrativa, aveva invece ritenuto che l'invio del ricorso a mezzo del servizio postale, sebbene determina una nullità dello stesso, per difetto di forma inerente al suo deposito ugualmente previsto ex lege, ove, in mancanza di una specifica normativa, la quale preveda gli adempimenti della cancelleria per fare constatare la tempestività del deposito, questa risulti incontrovertibilmente dagli atti, il giudice nel decidere sul ricorso non può dichiararlo inammissibile soltanto perché pervenuto alla cancelleria a mezzo del servizio postale, laddove risulti comunque in modo certo la tempestività dell'avvenuto deposito, e possa ritenersi che l'atto abbia quindi raggiunto il suo scopo, a ciò ostandovi il disposto dell'art. 156, comma 3 c.p.c.

Sul tema, è intervenuta anche la Corte Costituzionale, dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 415 e 645 c.p.c. censurati in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non consentono di utilizzare il servizio postale per proporre il ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo emesso su istanza dell'Inps per crediti aventi ad oggetto contributi omessi e le relative sanzioni, affermando altresì che l'introduzione della possibilità dell'utilizzo del servizio postale nel processo del lavoro, caratterizzato da una struttura processuale piuttosto complessa, sarebbe destinata, da un lato, a ripercuotersi negativamente sul funzionamento del sistema processualistico dello stesso rito del lavoro nel suo complesso e, dall'altro, determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento, costituzionalmente rilevante, fra controversie soggette a tale rito, nella insussistenza di condizioni particolari che la giustifichino (Corte cost., n. 34/2007).

La vocatio in ius del resistente: casistica

Il decreto di fissazione dell'udienza di discussione non è comunicato al ricorrente, ragione per cui, stante l'inesistenza a carico dell'ufficio giudiziario di un obbligo di comunicazione dell'avvenuto deposito in cancelleria del suddetto decreto, è onere del medesimo ricorrente attivarsi per averne materiale conoscenza e legale scienza, al fine di rispettare il termine previsto dall'art. 415, comma 4 c.p.c. per la notifica alla parte resistente dello stesso decreto unitamente al ricorso.

In buona sostanza, nella controversia locatizia, retta dal rito del lavoro, in primo grado, allorquando non si è ancora instaurato il contraddittorio, non vi è esigenza di tutelare legittime aspettative della controparte al consolidamento, entro tempi certi e brevi, di un provvedimento giurisdizionale già emesso, atteso che la fattispecie relativa all'incardinamento del giudizio di primo grado è diversa da quella relativa all'impugnazione di atti pregiudizievoli per la parte, concernendo solo la promozione del contraddittorio, ed essendo pertanto un onere non vessatorio di diligenza e collaborazione della difesa tecnica con l'ufficio giudiziario, informarsi dell'emissione del decreto di fissazione dell'udienza (Cass., sez. lav., n. 3251/2003).

Tuttavia, è la stessa giurisprudenza di legittimità a prevedere che nel rito del lavoro, nel caso di omessa od inesistente notifica del ricorso introduttivo del giudizio, dovuta a mancata comunicazione al ricorrente del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, è ammessa la concessione di un nuovo termine, perentorio, per la rinnovazione della notifica (Cass., sez. lav., n. 9142/2018; Cass., sez. lav., n. 2621/2017; Cass., sez. lav., n.11918/2015; Cass., sez. lav., n. 1483/2015).

Sulla quaestio juris riguardante l'ipotesi che il ricorrente, pur avendo ritualmente depositato il ricorso introduttivo del giudizio, non provveda alla notifica del ricorso unitamente al decreto in un momento anteriore all'udienza, o qualora tale notifica risulti giuridicamente inesistente, è emerso un contrasto in giurisprudenza alla luce del precedente orientamento delle Sezioni unite (Cass. S.U., n. 20604/2008) il quale, pur concernendo l'analoga fase introduttiva del giudizio di appello, ha escluso che al verificarsi di tale fattispecie, il giudice possa assegnare all'appellante ex art. 421 c.p.c. un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell'art. 291 c.p.c., sulla scorta di tale premessa, concludendo così per l'improcedibilità del giudizio di gravame.

Interessante risulta anche il passaggio motivazionale contenuto nel sopra richiamato precedente di legittimità (Cass. S.U., n. 20604/2008), secondo cui, nel processo del lavoro si è indubbiamente in presenza di un sistema, caratterizzato da una propria fase iniziale, incentrata sul deposito del ricorso, che è suscettibile di effetti prodromici e preliminari, suscettibili però di stabilizzarsi solo in presenza di una valida vocatio in ius, cui non può pervenirsi attraverso l'applicazione degli artt. 291 e 415 c.p.c., giacché non è pensabile la rinnovazione di un atto mai compiuto o giuridicamente inesistente, non esistendo una disposizione che consenta al giudice di fissare un termine per la notificazione, mai effettuata, del ricorso e del decreto, e non essendo consentito, nel silenzio normativo, allungare – con condotte omissive prive di valida giustificazione e talvolta in modo sensibile – i tempi del processo, sì dà disattendere il principio della sua ragionevole durata, ragione per cui, il ricorso, anche se valido, perde la sua efficacia di fronte alla invalidità degli atti successivi che non sia possibile sanare.

Al riguardo, si è osservato che se è vero che l'art. 415 c.p.c., non prevede che l'avvenuta fissazione d'udienza da parte del giudice debba essere comunicata dalla cancelleria al ricorrente, è ugualmente vero che, se quest'ultimo non ha avuto conoscenza del deposito del decreto, e, in ragione di ciò, non ha provveduto alla notificazione alla parte resistente, chiedendo ex art. 291, comma 1 c.p.c., la concessione di un nuovo termine per rinnovarla, ci si deve domandare se l'inosservanza dell'onere informativo incombente sulla difesa tecnica possa essere sanzionato con una pronuncia di inammissibilità od improcedibilità del ricorso.

In tale ottica, il legislatore può condizionare l'esercizio dell'attività difensiva nel giudizio al rispetto di termini ed al compimento di atti, anche a pena di improcedibilità o di inammissibilità del loro compimento, ma, in ossequio al principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, non è consentito presumere che una tale conseguenza sia prevista implicitamente in situazioni nelle quali non risulti al contempo garantita, in favore della stessa parte onerata del rispetto del termine, la tempestiva conoscenza del preciso momento dal quale esso comincia a decorrere.

Ciò non senza considerare l'ulteriore rilievo che ogni interpretazione che facesse derivare dai vizi della vocatio in ius conseguenze irreparabili sull'anteriore editio actionis, finirebbe con il contraddire l'autonomia, strutturale e formale, dei suddetti atti affermata costantemente in dottrina e giurisprudenza, posto che dichiarare l'improcedibilità dell'azione per l'omessa notifica del ricorso, senza concedere possibilità alcuna di avvalersi della tecnica di recupero di cui all'art. 291, comma 1, c.p.c., inevitabilmente finirebbe con il travolgere anche il ricorso ed il suo deposito, vale a dire l'editio actionis, che invece ha una propria autonomia funzionale rispetto alla successiva vocatio in ius.

Infatti secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale di legittimità (v., ex plurimis, Cass., sez. lav., n. 1399/1994), a differenza di quanto si verifica nel processo ordinario, la peculiarità delle forme introduttive del giudizio soggetto al rito speciale del lavoro determina la possibilità di distinguere i due separati momenti della editio actionis e della vocatio in ius, poiché, mentre il primo si perfeziona col semplice deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice competente, il secondo attiene ad una successiva fase che prevede l'intervento del giudice, con la pronuncia del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, e la notificazione alla controparte di questo provvedimento in una col ricorso ex art. 414 c.p.c.

A ciò aggiungasi che la fase introduttiva del rito del lavoro non prevede alcuna sanzione di inammissibilità od improcedibilità per l'omessa notifica del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione dell'udienza.

La notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione

L'art. 415, comma 4 c.p.c. enuncia espressamente che il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, deve essere notificato al convenuto, a cura dell'attore, entro dieci giorni dalla data di pronuncia del decreto, salvo quanto disposto dall'art. 417 c.p.c.

Pertanto il ricorso, pur tempestivamente depositato, è improcedibile ove ne sia stata omessa la notificazione unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, senza che il giudice possa concedere la rimessione in termini (Trib . Rovigo 8 maggio 2020).

In particolare, il ricorso va depositato presso la cancelleria del giudice competente, cui segue, ex art. 415 c.p.c., la fissazione da parte di quest'ultimo, con decreto, dell'udienza di comparizione. Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione della prima udienza, è notificato alla singola parte convenuta a cura del ricorrente. La mancata notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, da parte del ricorrente che abbia ritualmente depositato l'atto introduttivo, può essere sanata mediante assegnazione di un nuovo termine per la notifica ex art. 291 c.p.c., a condizione che almeno una delle parti sia comparsa all'udienza originariamente fissata, non potendo il giudice, in caso contrario, disporre d'ufficio la prosecuzione del giudizio contro il disinteresse della parte. Nella diversa ipotesi in cui alla prima udienza nessuno sia comparso, il procedimento non può proseguire, in quanto il giudice si porrebbe quale propulsore di un'attività processuale a fronte del disinteresse delle parti (Trib . Lanusei 24 febbraio 2021).

Il suddetto principio è stato costantemente affermato dalla giurisprudenza di merito (Ex multis cfr. Trib. Velletri 29 ottobre 2020; Trib. Roma 17 luglio 2019; Trib. Bari 8 aprile 2019; Trib. Treviso 7 marzo 2018).

Al riguardo si è affermato il principio che il termine di dieci giorni assegnato per la notificazione del decreto e del ricorso ai sensi dell'art. 415, comma 4 c.p.c.non è perentorio (Cass. III., n. 26039/2005; Cass., sez. lav., n. 8711/1993; Cass., sez. lav., n. 5551/1984) ma ordinatorio, assolvendo solo ad una funzione di mera accelerazione del processo.

Conseguentemente, il convenuto nei cui confronti sia stato rispettato il termine di comparizione non è legittimato a dolersi dell'inosservanza del termine di notificazione, che al pari di quello entro cui deve essere fissata l'udienza di discussione, non è istituito in funzione dell'interesse delle parti, ma per meri fini di ordine interno del procedimento e di accelerazione della trattazione della causa, senza, tuttavia, alcuna previsione di decadenza dalle facoltà e dai poteri cui tali ulteriori termini attengono.

Pertanto, nel rito del lavoro, il termine di dieci giorni concesso al ricorrente od all'appellante – rispettivamente dagli artt. 415, comma 4, c.p.c. e 435, comma 2 c.p.c. – per la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio ha natura ordinatoria e la sua inosservanza non determina nullità del menzionato atto, sempre che non si risolva in quella del correlato termine minimo di comparizione (Cass., sez. lav., n. 8711/1993).

Conseguentemente, anche nel c.d. rito locatizio, al quale, l'art. 447-bis c.p.c., estende le norme del rito lavoristico in quanto applicabili, il termine di dieci giorni assegnato al ricorrente per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione non è perentorio, e, pertanto, la sua inosservanza non comporta alcuna decadenza, sempre che resti garantito al resistente lo spatium deliberandi non inferiore a trenta giorni prima dell'udienza di discussione della causa, perché egli possa apprestare le proprie difese.

L'art. 415 c.p.c., nella parte in cui non prevede che l'obbligo di notifica al convenuto del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza contenga l'avvertimento di cui all'art. 163 comma 3 n.7 c.p.c., non comporta alcuna lesione del diritto di difesa o del giusto processo (Cass. VI, n. 18718/2021).

Nello stesso ordine di idee, si pone la migliore dottrina (Montesano, Vaccarella 1996, 115; Tarzia, Dittrich, 109).

Il termine minimo a comparire

L'art. 415, comma 5, c.p.c. enuncia altresì che tra la data di notificazione al convenuto e quella dell'udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni, considerato di natura perentoria, perché ha la l'obiettivo di concedere al resistente evocato in giudizio un congruo spazio temporale per apprestare le sue difese, e, pertanto, la sua eventuale inosservanza incide sulla validità della costituzione del contraddittorio, la cui inosservanza si risolve in una nullità afferente alla sola vocatio in jus, e non anche dell'editio actionis (Socci, 126, Montesano, Vaccarella 1996, 136).

Le Sezioni Unite hanno affermato (Cass. S.U., n. 14288/2007) che, nelle controversie assoggettate al rito del lavoro, al fine di verificare il rispetto dei termini fissati per il convenuto in primo grado ai sensi dell'art. 416 c.p.c. e per l'appellato in virtù dell'art. 436 c.p.c., con riferimento all'udienza di discussione, non si deve aversi riguardo a quella originariamente stabilita dal provvedimento del giudice, ma a quella fissata – ove, eventualmente, sopravvenga – in dipendenza del rinvio d'ufficio della stessa, che concreta una modifica del precedente provvedimento di fissazione, e che venga effettivamente tenuta in sostituzione della prima (Cass., sez. lav., n. 8684/2015, le cui conclusioni sono riprese da App. Lecce 8 febbraio 2016).

Il termine dilatorio minimo a comparire – al pari di quelli indicati nel processo civile ordinario di cognizione dall'art. 163-bis c.p.c. – deve intendersi libero, dovendosi escludere dal relativo computo il giorno iniziale di notifica e quello finale di costituzione, principio riassumibile nella massima che dies a quo e dies ad quem non computatur in termino.

Inoltre, si ritiene che al fine di verificare il rispetto dei termini di comparizione stabiliti ex lege con riferimento all'udienza di discussione, deve guardarsi non all'udienza originariamente fissata bensì a quella effettivamente tenuta dal giudice.

In tale senso, depone la prevalente giurisprudenza affermando che nelle controversie assoggettate al rito del lavoro, al fine di verificare il rispetto dei termini fissati con riferimento alla udienza dall'art. 416 c.p.c. per la costituzione del convenuto, deve aversi riguardo all'udienza eventualmente fissata in dipendenza del sopravvenuto rinvio d'ufficio della stessa, a modifica del precedente decreto di fissazione, ed effettivamente tenuta in sostituzione della prima (Cass., sez. lav., n. 8684/2015; Cass. S.U., n. 14288/2007).

La mancata osservanza del termine, non inferiore a trenta giorni, che, a norma dell'art. 415, comma 5, c.p.c., deve intercorrere tra la data di notificazione del ricorso introduttivo, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza di discussione e la data di quest'ultima, non costituisce un vizio del ricorso introduttivo in sè considerato, tale da comportare la nullità insanabile dello stesso in caso di contumacia del convenuto bensì vizio limitato all'atto di evocazione in giudizio del convenuto stesso, atto che, nel rito del lavoro, è autonomo rispetto all'atto introduttivo del giudizio, essendo la domanda compiutamente proposta con il deposito del ricorso. Questa è la ragione in base alla quale, ne segue, per l'effetto, che il vizio conseguente all'inosservanza di detto termine trova, in caso di mancata costituzione del convenuto, adeguato rimedio nella rinnovazione della notifica per altra udienza all'uopo fissata (Cass. S.U., n. 13862/1991).

La nullità dell'introduzione del giudizio, determinata dall'inosservanza del termine dilatorio di comparizione è sanata dalla costituzione del convenuto solo se questi, costituendosi, non faccia una richiesta di fissazione di una nuova udienza nel rispetto dei termini, poichè in tale caso, il giudice è tenuto ad accogliere la richiesta. La mancata fissazione della nuova udienza, sollecitata dal convenuto, impedisce allora alla costituzione di sanare la nullità, a nulla rilevando che questi si sia difeso nel merito, dovendosi presumere che l'inosservanza del termine a comparire gli abbia impedito una più adeguata difesa. Pertanto, deve escludersi che il giudice una volta accertato il mancato rispetto del termine a comparire da parte del ricorrente, possa negare la fissazione di altra udienza onde consentire alla parte comparsa, che ne abbia fatto richiesta, la possibilità di fruire dell'intero periodo stabilito dall'art. 415 comma 5 c.p.c., per l'approntamento delle proprie difese. Il diritto di difesa, che il Legislatore ha inteso garantire con la previsione della necessità del rispetto di un termine minimo di comparizione, non consente, poi, di condizionare l'accoglimento della richiesta di differimento dell'udienza, alla valutazione discrezionale del giudicante circa la necessità o meno per la parte convenuta di disporre di tale ulteriore periodo in relazione alle concrete difese da esplicare (Cass lav., n. 2673/2021).

Soccorrono tale costruzione i principi processuali contenuti nell'art. 159 c.p.c., per il quale la nullità di un atto non importa quello degli atti precedenti, ostando alla conclusione che le nullità afferenti alla notifica del ricorso influenzino la validità degli atti precedenti, nonché nell'art. 162 c.p.c., secondo cui il giudice che pronuncia la nullità deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende, ragione per cui, nel rito del lavoro, in caso di omessa od inesistente notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell'udienza, deve ritenersi ammissibile la concessione di un nuovo termine, perentorio, per rinnovare la notifica.

In questi termini, si pone la stessa giurisprudenza di legittimità, laddove afferma che la notifica al convenuto costituisce un tassello dell'unitaria fattispecie della vocatio in ius che nasce con il deposito del ricorso, è seguita dal decreto di fissazione dell'udienza e culmina nel procedimento notificatorio: ciò consente di affermare che l'omessa o giuridicamente inesistente notificazione determina la nullità e non già l'inesistenza della complessa fattispecie della vocatio in ius, con la conseguente possibilità per il giudice di rinnovarla, emettendo un nuovo decreto di fissazione dell'udienza ed assegnando un termine – questa volta perentorio – per la notifica (Cass., sez. lav., n. 2621/2017; nella giurisprudenza di merito, v., ex multis, Trib. Roma 3 ottobre 2017).

Indicazione errata della data dell'udienza di discussione nel decreto di fissazione emanato dal giudice

È principio consolidato in giurisprudenza, che affinché ricorra la causa di nullità prevista dall'art. 164, comma 1 c.p.c., deve aversi totale mancanza della data dell'udienza di comparizione davanti al giudice, a cui è equiparabile l'assoluta incertezza sulla medesima, e che è compito del giudice del merito esaminare se, l'erronea indicazione della data, sia da considerare insuperabile in base alle risultanze documentali, ovvero sia invece da escludere ogni incertezza in ordine all'individuazione della udienza di comparizione (Cass. I, n. 15498/2004).

Infatti, non solo la mancata indicazione ma anche l'assoluta incertezza della data dell'udienza di comparizione nella copia notificata dell'atto di citazione determinano la nullità dell'atto medesimo ai sensi dell'art. 164 c.p.c., senza che a tale fine possa sopperirsi attraverso le date indicate nell'originale in quanto la parte interessata non ha il dovere di eliminare le incertezze e di colmare le lacune dell'atto che le viene consegnato, ma deve riferirsi unicamente al suo contenuto per svolgere le attività processuali che le sono consentite a seguito della chiamata in giudizio (Cass. I, n. 8696/1998).

Inoltre, nel processo ordinario di cognizione, l'errata indicazione della data dell'udienza di comparizione perché anticipata rispetto a quella di notifica, non integra un'ipotesi di nullità della citazione stessa tutte le volte in cui l'errore sia immediatamente riconoscibile ed il convenuto possa superarlo intuitivamente, in base al tenore dell'atto, e tenendo presenti i termini a comparire, ovvero, quando la causa sia stata iscritta a ruolo, possa facilmente attivarsi, secondo buona fede ex art. 88 c.p.c., per conoscere la data esatta di comparizione (Cass. II, n. 7523/2006).

Sotto tale ultimo aspetto, si è infatti evidenziato che non potrà parlarsi di nullità dell'atto di citazione nel caso in cui l'errore, proprio per la sua intrinseca grossolanità, sia immediatamente riconoscibile, con l'uso dell'ordinaria diligenza, come errore materiale, in relazione al quale il convenuto può rendersi facilmente conto, tenendo presenti i termini a comparire, che l'anno indicato in citazione è quello immediatamente successivo alla notifica ovvero, quando la causa sia stata già iscritta a ruolo, potrà facilmente attivarsi per conoscere la data esatta di comparizione anziché, sottraendosi, anche inconsciamente, al dovere di lealtà processuale sancito nell'art. 88 c.p.c., omettere ogni accertamento e la stessa costituzione in giudizio per poi eccepire la nullità dell'atto di citazione sul presupposto della mancanza di certezza circa la data di comparizione, quando tale certezza poteva e doveva essere facilmente acquisita (Cass. I, n. 12546/2002).

Pertanto, anche nel rito locatizio, modellato su quello del lavoro, l'erronea indicazione dell'udienza di discussione nel decreto di fissazione emanato ex art. 415 c.p.c., dal giudice del lavoro, quando ad esempio dovuta ad anticipazione della data di fissazione dell'udienza rispetto a quella di redazione del decreto e quindi di notifica dello stesso, non integra un'ipotesi di nullità del ricorso tutte le volte in cui l'errore sia immediatamente riconoscibile e il convenuto possa superarlo intuitivamente in base al tenore dell'atto, tenendo presenti i termini a comparire, ovvero, tutte le volte in cui detto convenuto possa facilmente attivarsi, secondo il dovere di lealtà processuale ex art. 88 c.p.c., per conoscere la data esatta di comparizione (Cass., sez. lav., n. 30197/2008).

Omessa notifica del ricorso

La disciplina dei procedimenti soggetti al rito del lavoro non prevede espressamente quali conseguenze processuali derivino dalla mancata osservanza del termine di comparizione di cui all'art. 415, commi 5 e 6 c.p.c. sia essa dovuta al provvedimento del giudice, che abbia fissato un termine insufficiente, ovvero alla condotta del ricorrente che abbia fatto eseguire la notificazione senza assicurare il rispetto del termine dilatorio.

Una espressa previsione si rinviene invece nella disciplina del procedimento ordinario, introdotto mediante atto di citazione a comparire ad udienza fissa ex art. 163 c.p.c. laddove l'art. 163-bis, comma 1, c.p.c., stabilisce che tra il giorno della notificazione dell'atto di citazione e quello dell'udienza di comparizione devono intercorrere determinati termini liberi, mentre l'art. 164, comma 1, c.p.c., dispone che la stessa citazione è nulla se è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dal codice di rito, prevedendo espressamente le modalità per la sanatoria del vizio, ad opera del giudice o per effetto della costituzione del convenuto, con efficacia ex tunc.

Nel rito lavoristico, l'inosservanza del termine di comparizione di cui all'art. 415, comma 5, c.p.c. sia essa dovuta al provvedimento del giudice ovvero alla successiva condotta del ricorrente, è causa di invalidità della vocatio in ius, e non può quindi incidere sulla validità dell'editio actionis, perfezionata con il deposito del ricorso, in ragione del principio generale di cui all'art. 159, comma 1, c.p.c. secondo cui la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti.

Ciò posto, occorre tuttavia considerare che il mancato rispetto del termine dilatorio riguarda uno degli elementi costitutivi della fase della vocatio in ius, ma non attiene specificamente all'elemento di detta fase rappresentato dalla notificazione in senso proprio.

La questione controversa si pone, evidentemente, solo nel caso in cui il vizio sia dotato di autonoma rilevanza: se ad esso si aggiunge il vizio di nullità della notificazione del ricorso e del decreto, ai sensi dell'art. 160 c.p.c., tale causa di nullità è assorbente, e non v'è dubbio che in tale evenienza sarà applicabile l'art. 354, comma 1, c.p.c. essendo ravvisabile una delle ipotesi nelle quali la rimessione al primo giudice è espressamente prevista.

Nelle controversie soggette al rito del lavoro, il giudice d'appello che rilevi l'assenza della notificazione del ricorso introduttivo di primo grado al convenuto, ai sensi dell'art. 415, comma 4, c.p.c. deve dichiarare la nullità della sentenza impugnata e rimettere la causa al giudice di primo grado, atteso che in tale ipotesi deve escludersi in modo radicale l'instaurazione del contraddittorio, non rilevando che l'inesistenza della notificazione dell'atto introduttivo non sia – a differenza della nullità della suddetta notificazione – contemplata dall'art. 354 c.p.c., atteso che tale norma fa riferimento ai procedimenti introdotti con atto di citazione, nei quali non può verificarsi l'inesistenza della notificazione, dal momento che l'iscrizione della causa a ruolo presuppone che sia già intervenuta la notifica dell'atto di citazione, e non tiene conto della scissione tra editio actionis e vocatio in ius che invece si verifica nei procedimenti che, come quello disciplinato dal rito locatizio modellato sul rito del lavoro, sono introdotti dal ricorso (Cass., sez. lav., n. 5358/2004; Cass., sez. lav., n. 18081/2004).

Infatti, nel rito del lavoro, qualora il convenuto non si costituisca ed il giudice si trovi nell'impossibilità di verificare la regolarità dell'instaurazione del contraddittorio, per la mancata produzione del ricorso notificato dal ricorrente – che non alleghi e comprovi una situazione di legittimo impedimento all'assoluzione del relativo onere anteriormente all'udienza di discussione o nel corso di essa e, non sia, per tale ragione, legittimato alla sollecitazione dell'assegnazione, per provvedere all'incombente, di un termine compatibile con detta situazione – il procedimento è legittimamente definito con una pronuncia di mero rito, ricognitiva dell'inidoneità della proposta domanda giudiziale a determinare l'ulteriore corso del processo (Cass., sez. lav., n. 21587/2008; Cass. 14 ottobre 1992, n. 11227).

In precedenza, le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 122/2001) avevano affermato il principio che nelle controversie soggette al rito del lavoro, il giudice di appello che rilevi la nullità della introduzione del giudizio, determinata dall'inosservanza del termine dilatorio di comparizione stabilito dall'art. 415, comma 5, c.p.c., non può dichiarare la nullità e rimettere la causa al giudice di primo grado, non ricorrendo in detta ipotesi nè la nullità della notificazione dell'atto introduttivo ne alcuna delle altre ipotesi tassativamente previste dagli artt. 353 e 354, comma 1, c.p.c., ma deve trattenere la causa e, previa ammissione dell'appellante ad esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado se il processo si fosse ritualmente instaurato, decidere nel merito.

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