Codice di Procedura Civile art. 421 - Poteri istruttori del giudice 1 2 .

Vito Amendolagine

Poteri istruttori del giudice1 2

[I]. Il giudice indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti [182, 316].

[II]. Può altresì disporre d'ufficio [115 1] in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile [2721 ss., 2729 2, 2735 2 c.c.], ad eccezione del giuramento decisorio [233 1], nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti [425]. Si osserva la disposizione del comma 6 dell'articolo 420  3  4.

[III]. Dispone, su istanza di parte, l'accesso sul luogo di lavoro, purché necessario al fine dell'accertamento dei fatti, e dispone altresì, se ne ravvisa l'utilità, l'esame dei testimoni sul luogo stesso  5.

[IV]. Il giudice, ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell'articolo 246 o a cui sia vietato a norma dell'articolo 247  6.

 

 

[2] In tema di rito speciale per la controversie in materia di licenziamenti, v. art. 1, commi 47-68, in particolare i commi 49 e 57, l. 28 giugno 2012, n. 92, recante « Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita ».

[3] L'art. 53 d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, ha sostituito le parole "dell'articolo precedente" con le parole "dell'articolo 420".

[6] Cfr. Corte cost. 23 luglio 1974, n. 248, sub art. 247.

Inquadramento

L'art. 447-bis c.p.c. richiama l'art. 421, comma 1, c.p.c. laddove quest'ultima norma dispone che il giudice indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti.

L'art. 421, commi 3, 4 e 5, c.p.c. non è richiamato dall'art. 447-bis c.p.c. per le controversie locatizie.

L'art. 447-bis, comma 3, c.p.c. prevede che il giudice può disporre d'ufficio, in qualsiasi momento, l'ispezione della cosa e l'ammissione di ogni mezzo di prova, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni, sia scritte che orali, alle associazioni di categoria indicate dalle parti.

In base all'art. 421, comma 2, c.p.c. il giudice può altresì disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti.

Il periodo di quest'ultima norma termina affermando che si osserva la disposizione dell'art. 420, comma 6, c.p.c.

Il potere del giudice di disporre d'ufficio, in qualsiasi momento, l'ammissione ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, oltre a riguardare tutte le parti del processo è di natura discrezionale (Socci, 199).

La ragione per cui l'art. 447-bis c.p.c. non richiama anche l'art. 421, comma 2, c.p.c. è dovuto principalmente alla ratio in forza della quale, nelle controversie locatizie il rito è disciplinato dalle norme del processo del lavoro in quanto applicabili.

Infatti, ponendo a raffronto i rispettivi periodi sopra evidenziati degli artt. 447-bis, comma 3, e 421, comma 2, c.p.c. emerge palese la sovrapponibilità degli stessi, con la differenza dovuta alla diversità delle relative controversie – locatizie o di lavoro – laddove nell'art. 421, comma 2, c.p.c. si precisa che le associazioni indicate dalle parti in causa destinatarie della richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, sono quelle sindacali, a differenza dell'art. 447-bis, comma 3, c.p.c. che invece si riferisce alle associazioni di categoria, risultando così implicito il rinvio alle rispettive associazioni di conduttori e proprietari di immobili.

Allo stesso modo, l'art. 421, comma 2, c.p.c. prevede che il giudice possa altresì disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, a differenza di quanto invece emerge testualmente dall'art. 447-bis, comma 3, c.p.c., in cui detto inciso è stato omesso dal legislatore, perché nel rito del lavoro al giudice si è inteso conferire un ampio potere istruttorio esercitabile d'ufficio, funzionale alla più efficace ricerca della verità dei fatti rilevanti ai fini della decisione.

La giurisprudenza ritiene che la disposizione dell'art. 421, comma 2, c.p.c. si riferisce ai limiti fissati alla prova testimoniale in via generale negli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c. (Cass., sez. lav., n. 17333/2005), e la deroga ai limiti del codice civile, così intesi, si applica ovviamente, per coerenza di sistema, non solo ai mezzi di prova disposti d'ufficio dal giudice, ma anche alle prove richieste dalle parti (Cass., sez. lav., n. 7465/2002).

In dottrina si sono evidenziate le differenze tra l'art. 447-bis, comma 3, c.p.c. e l'art. 421, comma 2, c.p.c., essendosi precisato che l'inciso contenuto nell'art. 421, comma 2, c.p.c. riferito alla possibilità di ammissione d'ufficio di ogni mezzo di prova anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile riguarda unicamente le controversie di lavoro, non anche quelle locatizie, in cui continuano invece a rimanere applicabili i divieti previsti dagli artt. 2721, 2722, 2723 c.c. (Attardi, 220; Lepri, 1275; Luiso 1996, 542, il quale, precisa che nelle controversie locatizie i limiti stabiliti dal codice civile valgono per le parti ma anche per il giudice), così come nell'art. 447 bis ,c.p.c. non è richiamato anche l'art. 421, comma 4, c.p.c. laddove prevede che il giudice possa sottoporre ad interrogatorio libero le persone incapaci di testimoniare ex art. 246, c.p.c. (Attardi, 221; Luiso 1996, 543; Picardi, 2322) e l'ultima parte dell'art. 421, comma 3, c.p.c. relativo alla possibilità per il giudice di interrogare i testi sul luogo dell'ispezione.

In buona sostanza, nelle controversie di lavoro, la scelta del legislatore è stata quella di conferire al giudice poteri istruttori – esercitabili d'ufficio – più ampi di quelli previsti nel processo civile ordinario.

La verifica della regolarità di atti e documenti

L'art. 421, comma 1, c.p.c. enuncia che il giudice indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti.

L'acquisizione in causa di documenti successivamente al deposito del ricorso introduttivo, o, rispetto al convenuto, rispetto alla memoria di costituzione e risposta, può aversi soltanto a ben precise condizioni, essenziali al fine di assicurare tenuta al principio di preclusione che governa il rito del lavoro.

La produzione tardiva può infatti essere ammessa in particolare se si tratti di documenti formati o giunti nella disponibilità della parte solo dopo lo spirare dei termini preclusivi, oppure se la loro rilevanza emerga in ragione dell'esigenza di replicare a difese altrui che in adeguamento agli sviluppi indotti dal contraddittorio, giustifichino l'ampiamento probatorio.

Altrimenti, l'acquisizione documentale potrebbe aversi d'ufficio, anche previa sollecitazione di parte, se i documenti risultino indispensabili per la decisione, e, cioè, necessari per integrare, in definizione di una pista probatoria concretamente emersa, la dimostrazione dell'esistenza o inesistenza di un fatto la cui sussistenza o insussistenza, altrimenti, sarebbe destinata ad essere definita secondo la regola sull'onere della prova.

Le produzioni tardive soggiacciono quindi, per essere utilizzabili rispetto alla decisione, alle regole di un'efficace ingresso nel processo, che postulano allegazioni giustificative ad opera delle parti o del giudice, se si tratti di acquisizione officiosa, secondo una delle dinamiche sopra esaminate (Cass. sez. lav., n.33393/2019).

In dottrina, si è osservato che sarebbe logico e razionale che l'esercizio da parte del giudice del suddetto potere di controllo sulla regolarità di atti e documenti già formati ed introdotti dalle parti costituite nel processo, sia compiuto all'inizio della prima udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., riservando al prosieguo della causa il controllo sulla regolarità di atti e documenti compiuti od acquisiti successivamente al processo nel rispetto dei termini stabiliti dal codice di rito (Tarzia, Dittrich, 143).

In ordine alla natura – ordinatoria o perentoria – del termine indicato dall'art. 421, comma 1, c.p.c. secondo un orientamento giurisprudenziale, si è affermato che la mancata indicazione della “perentorietà” del termine nell'art. 421, comma 1, c.p.c. consente di pervenire ad escludere una generale decadenza dalla possibilità dell'integrazione della prova documentale, non essendo quindi impedito alla parte di produrla anche dopo la scadenza di detto termine, anche in relazione al dettato dell'art. 152, comma 2, c.p.c. laddove afferma che i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori (Cass., sez. lav., n. 5639/1999).

A ciò aggiungasi che l'art. 152, comma 1, c.p.c. dispone espressamente che i termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge, e possono essere stabiliti dal giudice anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo permette espressamente.

Orbene, anche sotto tale ultimo aspetto, l'art. 421, comma 1, c.p.c. non prevede affatto che l'assegnando termine per sanare eventuali irregolarità di atti e documenti sia previsto a pena di decadenza, limitandosi soltanto a precisare che rimangono salvi gli eventuali diritti quesiti.

In occasione di un'altra fattispecie soggetta al rito del lavoro, riguardante però la mancata ottemperanza all'ordine di rinnovazione della notificazione del ricorso introduttivo, si è ritenuto che ciò comportasse gli effetti estintivi di cui all'art 307, comma 3, c.p.c. quand'anche il giudice abbia omesso di fissare il termine necessariamente perentorio entro il quale la notificazione del ricorso andava effettuata, giacché in tal caso deve ritenersi che il termine per la rinnovazione della notificazione sia implicitamente stabilito in misura tale da garantire, con riguardo all'udienza fissata, il rispetto del termine dilatorio di cui all'art. 415, comma 5, c.p.c. (Cass. III, n.7209/1999).

Infatti, posto che il regime di sanatoria delle nullità formali afferenti l'atto introduttivo del giudizio e la sua notificazione, di cui agli artt. 156,162,164 e 291, c.p.c., trova applicazione anche nel rito del lavoro in mancanza di una specifica deroga, e, non ostando ragioni di incompatibilità con le peculiarità strutturali di detto rito (Cass. S.U., n. 2166/1988), si è ritenuto che per le controversie soggette al rito del lavoro la rinnovazione va bensì disposta sulla base dell'art. 421, comma 1, c.p.c. per il quale, il giudice indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, ma va altresì considerato che tutti termini previsti per la rinnovazione di atti nulli hanno una matrice identica a quella dei termini formalmente qualificati perentori pur se non espressamente definiti tali (Cass. S.U., n. 6841/1996).

in dottrina si è osservato che il termine irregolarità è adoperato nel senso più vasto di nullità (Denti, Simoneschi, 125; Fazzalari, 4; Perone, 203), come può peraltro evincersi dal richiamo alla sanatoria ed alla salvezza dei diritti quesiti (Tarzia, 1987, 80).

L'esercizio dei poteri istruttori del giudice: la prova testimoniale

L'art. 421, comma 2, c.p.c. dispone che il giudice può altresì disporre d'ufficio, in qualsiasi momento, l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio.

Ciò in quanto è caratteristica precipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità materiale, dal che discende che quando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere, ai sensi dell'art. 421 c.p.c., di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza del fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti. In tale ottica, si è infatti precisato che nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 c.p.c., l'uso dei poteri istruttori da parte del giudice non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio il giudice è tenuto a dare conto (Cass., sez. lav., n. 20810/2024).

In dottrina (Luiso 1992, 197; Proto Pisani 1987, 722), si è avanzata la tesi secondo cui anche le richieste istruttorie delle parti – nelle controversie di lavoro – potrebbero superare i limiti del codice civile.

Il tenore letterale della norma – “può” – sembrerebbe non lasciare adito a dubbi circa la facoltà per il giudice di disporre l'ammissione di ogni mezzo di prova, e, tuttavia, l'orientamento della giurisprudenza non è stato univoco sulla questione qui considerata.

Infatti, in alcune pronunce si è sostenuto che l'esercizio dei poteri istruttori è rimesso all'assoluta discrezionalità del giudice nel rito del lavoro (Cass. III, n. 3505/2002; Cass., sez. lav.,n. 10658/1999; Cass., sez. lav.,n. 6903/1994; Cass., sez. lav., n. 3549/1994; Cass., sez. lav.,n. 2920/1987), mentre altre decisioni si inseriscono invece nell'indirizzo secondo il quale l'esercizio dei poteri istruttori del giudice non è meramente discrezionale bensì obbligato ove sussistano ragionevoli probabilità di accertare attraverso di essi la verità (Cass., sez. lav., n. 8220/2003; Cass., sez. lav.,n. 4180/2003; Cass., sez. lav.,n. 6531/2001; Cass., sez. lav.,n. 3026/1999; Cass., sez. lav.,n. 310/1998), con l'unico limite della necessaria allegazione dei fatti ad opera della parte (Cass., sez. lav.,n. 8220/2003; Cass., sez. lav.,n. 9034/2000).

Le Sezioni Unite, investite della composizione del contrasto, hanno condiviso quest'ultimo orientamento, atteso che i poteri istruttori del giudice nel rito del lavoro – proprio perché funzionalizzati al contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale – non possono mai essere esercitati in modo arbitrario, dovendo il giudice esplicitare le ragioni per le quali reputa di fare ricorso all'uso dei poteri istruttori o, se invece, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritiene, invece, di non farvi ricorso (Cass. S.U., n. 11353/2004).

In tale ottica, si è quindi affermata la regula iuris secondo la quale, nel rito del lavoro, l'esercizio del potere d'ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere-dovere (Cass., sez. lav., n. 26107/2014).

Una recente giurisprudenza ha confermato tale orientamento, precisando che nel rito del lavoro, l'omessa indicazione di un documento, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, e l'omesso deposito del medesimo contestualmente a tale atto, determina la decadenza del diritto alla produzione - e ciò non solo per il convenuto ma anche per l'attore, in virtù del principio di reciprocità fissato dalla Corte cost. n.13/1977, richiamato in motivazione - salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale nel tempo successivo al ricorso od alla memoria di costituzione, fermo restando che tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento - ispirato sempre alla esigenza della ricerca della cd. “verità materiale”, cui è funzionale il rito lavoristico, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento - nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ove indispensabili ai fini della decisione della causa (Cass. sez. lav., n.25346/2019).

L'esercizio dei poteri ufficiosi da parte del giudice nel processo del lavoro, è dunque possibile e doveroso solo allorquando si sia in presenza di allegazioni e di un quadro probatorio ritualmente delineati dalle parti e che, nonostante il suo svolgimento, presenti incertezze circa i fatti costitutivi o impeditivi dei diritti azionati (Cass., sez. lav., n. 16182/2011), senza però che il giudice possa porre rimedio ad una totale carenza di allegazione sui fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione, potendo soltanto supplire ad eventuali lacune delle risultanze di causa ai fini dell'accertamento della verità materiale.

Nel rito del lavoro, stante l'esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, il giudice, anche successivamente al verificarsi delle preclusioni istruttorie ed ove reputi insufficienti le prove già acquisite, può disporre d'ufficio l'ammissione di nuovi mezzi di prova per l'accertamento degli elementi allegati o contestati dalle parti od emersi dall'istruttoria, e deve assegnare il termine perentorio per la formulazione della prova contraria exartt. 421 comma 2 c.p.c. e 420 comma 6 c.p.c. se la parte interessata abbia inteso avvalersi del diritto di controdedurre (Cass. lav., n. 24024/2021).

In dottrina (Luiso 1992, 194; Tarzia, Dittrich, 174), si è infatti rilevato che i poteri istruttori del giudice non sarebbero legittimamente esercitabili per supplicare ad un'assoluta carenza di deduzioni probatorie, il cui compito di presentarle nei modi e tempi previsti ex lege è un onere delle parti costituite, ma soltanto per vincere dubbi istruttori eventualmente residuati.

Sta di fatto che anche successivamente all'orientamento espresso dalle Sezioni unite, sono susseguite altre pronunce di legittimità in cui – premesso che nel processo del lavoro, il potere del giudice di disporre d'ufficio mezzi istruttori tende a contemperare il principio dispositivo con quello di ricerca della verità materiale, e, pertanto, non può sopperire alla colpevole inerzia della parte interessata, alle carenze probatorie imputabili alla stessa ovvero alle decadenze o preclusioni nelle quali la stessa è colpevolmente incorsa, ponendosi in tale modo il giudicante in funzione sostitutiva degli oneri delle parti medesime, e, traducendosi siffatti poteri officiosi in un potere di indagine ed acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale (Cass., sez. lav., n. 9237/2018; Cass., sez. lav., n. 16297/2010; Cass., sez. lav., n.11847/2009; Cass., sez. lav., n. 12002/2002; Cass., sez. lav., n. 3516/2001) – si è tornati ad affermare il principio che l'esercizio del suddetto potere d'ufficio è del tutto discrezionale (Cass. III, n. 15899/2011; Cass., sez. lav., n. 17102/2009; Cass., sez. lav., n. 7011/2005).

Il giudice di legittimità non ha mancato di precisare che nel rito del lavoro applicabile ratione materiae alle controversie di natura locatizia, l'acquisizione di nuovi documenti o l'ammissione di nuove prove da parte del giudice rientra tra i poteri discrezionali allo stesso riconosciuti dall'art. 421 c.p.c., il cui esercizio è insindacabile anche quando manchi un'espressa motivazione in ordine all'indispensabilità o necessità del mezzo istruttorio ammesso ai fini della decisione, dovendosi la motivazione ritenere implicita nel provvedimento adottato (Cass. III, n.26117/2016; Cass. III, n. 209/2007).

Inoltre, il potere di allegazione dei fatti da provare spetta esclusivamente alle parti, trovando ingresso anche nel processo del lavoro la regola sancita dall'art. 2697 c.c. concernente l'assolvimento dell'onus probandi (proto pisani, 1993, 89), posto che l'esercizio dei poteri istruttori del giudice ex art. 421, comma 2, c.p.c. è preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull'onere della prova, sempre che la parte abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, con specifica istanza indicando i mezzi istruttori da assumere (Cass., sez. lav., n. 25374/2017; Cass., sez. lav., n. 22534/2014; Cass., sez. lav., n. 14731/2006), dovendo il giudice esplicitare le ragioni per le quali reputa di fare ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritiene, invece, di non farvi ricorso.

La dottrina ritiene invece che il giudice possa esercitare d'ufficio i poteri istruttori anche in assenza di una richiesta ad hoc della parte interessata (Punzi, 284), in ogni caso, osservando che la prova testimoniale possa essere assunta d'ufficio quando i testi già escussi o le stesse parti in causa si sono riferiti ad altre persone in grado di riferire su questioni rilevanti ai fini decisori e, quindi di conoscere la verità (Montesano, Vaccarella, 189; Proto pisani 1993, 86), ovvero, valorizzando l'intero materiale probatorio acquisito al processo, in tale modo, anche a prescindere dalla valutazione fatta dalla singola parte costituita (Luiso 1992, 192; Tarzia, Dittrich, 17).

L'omessa indicazione dei nominativi dei testimoni.

La non corretta modalità di formulazione della prova testimoniale per non essere stati indicati oltre ai capitoli di prova anche i nominativi dei testimoni corredati delle loro esatte generalità, si risolve in una mera irregolarità, ed in quanto tale, rientra nell'applicazione dell'art. 421, comma 1, c.p.c. che oltre alle controversie di lavoro riguarda anche le controversie locatizie, stante il richiamo specifico dell'art. 447-bis c.p.c.,

L'onere di allegazione concerne unicamente i fatti, non le prove documentali e non, delle quali basta la specifica indicazione prevista, nel rito speciale, dagli artt. 414 e 416 c.p.c. senza che le parti siano gravate dall'onere ulteriore di spiegarne rilevanza ed idoneità dimostrativa, che invece vanno valutate d'ufficio dal giudice.

In tale contesto, si è quindi affermato il principio che la specificazione dei fatti oggetto di richiesta di prova testimoniale è soddisfatta quando, sebbene non definiti in tutti i loro minuti dettagli, essi vengano esposti nei loro elementi essenziali per consentire al giudice di controllarne l'influenza e la pertinenza, e mettere in grado l'altra parte di proporre l'istanza di prova contraria, giacché la verifica della specificità e della rilevanza dei capitoli di prova, va condotta non soltanto alla stregua della loro letterale formulazione, ma anche in relazione agli altri atti di causa ed a tutte le deduzioni delle parti, nonché tenendo conto della facoltà del giudice di domandare chiarimenti e precisazioni ai testi (Cass. lav., n. 22254/2021; conf. Cass. lav., n. 19915/2016; Cass. lav., n. 13753/2004).

In particolare, è stato affermato che ove la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza della relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all'esercizio del potere-dovere di cui all'art. 421, comma 1, c.p.c. (Cass., sez. lav., n. 19915/2016, in cui si è affermato che poiché nel rito del lavoro i fatti da allegare devono essere indicati in maniera specifica negli atti introduttivi affinché le richieste probatorie rispondano al requisito di specificità è sufficiente indicare come mezzi di prova i fatti allegati a fondamento delle pretese iniziali, senza necessità di riformularli separatamente come capi di prova; Cass., sez. lav., n. 16529/2004; Cass., sez. lav., n. 14465/2000; Cass. III, n. 3343/2001), con la conseguenza che, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all'art. 420 c.p.c., il giudice, ove ritenga l'esperimento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l'ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio ed applicando, a tale fine, la particolare disciplina dettata dall'art. 420, comma 5, c.p.c., col corollario della decadenza nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine, espressamente dichiarato perentorio dal medesimo art. 420, comma 5, c.p.c.

Nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all'esercizio del potere-dovere di cui all'art. 421, comma 1, c.p.c., con la conseguenza che, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all'art. 420, il giudice, ove ritenga l'esperimento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l'ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio ed applicando, a tale fine, la particolare disciplina dettata dal comma 6 dell'art. 420 c.p.c., col corollario della decadenza nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine, espressamente dichiarato perentorio dal medesimo comma, atteso che, coerentemente con tale principio, si è ritenuto che, poiché nel rito del lavoro i fatti da allegare devono essere indicati in maniera specifica negli atti introduttivi, il giudice, nell'esercizio dei poteri di cui all'art. 421, comma 1, c.p.c., può assegnare alle parti un termine anche per rimediare alle irregolarità eventualmente rilevate nella capitolazione della prova testimoniale. Pertanto deve allora ritenersi che anche la riformulazione dei capitoli di prova, in quanto attività funzionale ad emendare una irregolarità che non consente allo stato l'ammissione della prova, possa essere consentita previa assegnazione del termine di cinque giorni prima dell'udienza di discussione previsto al comma 6 dell'art. 420 c.p.c., col corollario della decadenza della parte dalla prova nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di quel termine, ivi espressamente dichiarato perentorio (Cass., sez. lav., n. 6470/2024).

La giurisprudenza di legittimità ha confermato che l'art. 244 c.p.c. attribuisce al giudice un potere discrezionale circa l'assegnazione di un termine per formulare o integrare le indicazioni delle persone da interrogare o ai fatti sui quali debbono essere interrogate e, una volta che il giudice abbia esercitato tale potere, definisce il termine come perentorio, precludendo così la possibilità di concedere ulteriori dilazioni, per cui l'inosservanza di detto termine produce la decadenza dalla prova rilevabile anche d'ufficio e non sanabile nemmeno sull'accordo delle parti.

Il suddetto principio non è però del tutto condiviso in giurisprudenza, atteso che le parti hanno l'onere di formulare le richieste istruttorie in modo completo ab initio, in quanto, tanto nel rito civile ordinario, quanto in quello speciale lavoristico, le richieste istruttorie devono essere formulate entro termini perentori previsti a pena di nullità, ragione per cui nessuna sanatoria ex art. 421, comma 1, c.p.c., è più concepibile nel caso di richieste istruttorie incomplete, perché la norma anzidetta consente al giudice di assegnare alle parti un termine per emendare soltanto le irregolarità che possono essere sanate.

Nel rito del lavoro, qualora la parte abbia con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale mediante indicazione specifica dei fatti, formulati in articoli separati, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, incorre nella decadenza della relativa istanza istruttoria, con la conseguenza che il giudice non può fissare un termine, ai sensi dell'art. 421 c.p.c., per sanare la carente formulazione (Cass. III, n.7631/2016; Cass. III, n.5950/2014).

Qualora invece siano stati articolati i capitoli di prova e siano stati indicati i testimoni da escutere, non è richiesto altresì, a pena di inammissibilità, che venga precisato in ordine a quali capitoli i singoli testimoni siano chiamati a deporre, presumendosi che, in difetto di specificazione, ognuno di essi potrà rispondere su tutte le circostanze dedotte, perché basta la oggettiva formulazione dei capitoli di prova e la richiesta del mezzo istruttorio, con cui si vogliono dimostrare i presupposti di fatto su cui si fonda la domanda, per collegare logicamente quella formulazione alla istanza istruttoria, senza bisogno di formule sacramentali (Cass.,, sez. lav., n. 13753/2004; Cass. III, n. 5125/1984).

Secondo un'autorevole corrente di pensiero (Luiso 1992, 198; Montesano, Vaccarella, 197; Tarzia, Dittrich, 172), il richiamo dell'art. 421, comma 2, c.p.c. all'art. 420, comma 6, c.p.c. nell'eventualità che il giudice disponga d'ufficio l'ammissione dei mezzi di prova, comporterebbe che ciascuna parte avrebbe diritto ad un termine per formulare a sua volta, i mezzi di prova che si rendano necessari, in quanto il richiamo all'art.420, comma 6, c.p.c. comporta anche il richiamo all'art. 420, comma 7 c.p.c.

Gli ulteriori poteri istruttori del giudice previsti dall'art. 421 c.p.c.

L'art. 421 c.p.c. viene soltanto parzialmente richiamato dall'art. 447-bis c.p.c.

In particolare, risulta applicabile nelle controversie locatizie soltanto la prima parte dell'art. 421 c.p.c., precisamente, laddove detta norma si riferisce alla sanatoria delle irregolarità di atti e documenti ed al relativo potere di controllo giudiziale.

La ratio legis dell'omesso richiamo delle ulteriori disposizioni contenute nell'art. 421 c.p.c. è ravvisabile nella peculiarità delle controversie di lavoro disciplinate dall'anzidetta norma rispetto a quelle locatizie, in relazione alle quali, opera l'art. 447-bis, comma 3, c.p.c.

Conseguentemente, trova applicazione il principio generale secondo cui nel rito del lavoro il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull'onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia precedentemente investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tale senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori. Ciò in ogni caso, considerando che l'esercizio del potere d'ufficio in tale senso non può essere dilatato fino a richiedere che il giudice supplisca alle carenze di allegazione e prova delle parti, in assenza di una pista probatoria rilevabile dallo stesso materiale processuale già acquisito agli atti di causa (Cass. Lav., 2 agosto 2022 n. 23996).

Pertanto, nei paragrafi che seguono, si esamineranno singolarmente gli ulteriori poteri istruttori del giudice – la richiesta di informazioni ed osservazioni alle associazioni sindacali, indicate dalle parti in causa, l'accesso sul luogo di lavoro e l'interrogatorio libero delle persone nei cui confronti si applica l'incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c., preceduti dall'esame della disposizione che esclude l'assunzione del giuramento decisorio – previsti dalla norma in commento nelle parti non richiamate dall'art. 447-bis c.p.c.

L'art. 421, comma 2, c.p.c. e l'esclusione dai poteri ufficiosi del giuramento decisorio

L'art. 421, comma 2, c.p.c. dispone che il giudice può disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, ad eccezione del giuramento decisorio.

Allo stesso modo, l'art. 447-bis, comma 3, c.p.c. enuncia che il giudice può disporre d'ufficio, in qualsiasi momento, l'ispezione della cosa e l'ammissione di ogni mezzo di prova, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni, sia scritte che orali, alle associazioni di categoria indicate dalle parti.

La suddetta norma segue dunque – con gli opportuni adattamenti – le orme dell'art. 421, comma 2, c.p.c. laddove il dettato normativo prevede che nelle controversie di lavoro ex art. 421, comma 2, c.p.c. e locatizie ex art. 447-bis, comma 3, c.p.c., il giudice non può assumere d'ufficio il giuramento decisorio.

La ragione è semplice, come peraltro già evidenziato in dottrina (Mandrioli, 185; Masoni, 140): trattasi in realtà non tanto di uno strumento istruttorio, quanto decisorio, poiché sostanzialmente finalizzato a decidere la controversia sottoposta all'esame del giudice.

Ciò lo si desume dall'art. 239 c.p.c. concernente gli effetti promananti dalla mancata prestazione, atteso che la parte alla quale il giuramento decisorio è deferito, se non si presenta senza giustificato motivo all'udienza all'uopo fissata, o, comparendo, rifiuta di prestarlo o non lo riferisce all'avversario, soccombe rispetto alla domanda od al punto di fatto relativamente al quale il giuramento è stato ammesso, e del pari soccombe la parte avversaria, se rifiuta di prestare il giuramento che le è riferito.

A ben vedere, vi sarebbe anche un'altra ragione ostativa, in ragione della quale, tanto l'art. 421, comma 2, c.p.c. quanto l'art. 447-bis, comma 3, c.p.c. lo escludono espressamente dai poteri istruttori “ufficiosi” del giudice, quale soggetto terzo nel processo, ed è ravvisabile nell'essere il giuramento decisorio essenzialmente un atto squisitamente di parte, la cui decisione concernente l'opportunità se – riferirlo o meno alla controparte – non può che spettare esclusivamente alla singola parte interessata, od al suo difensore, munito di delega ad hoc, come peraltro si evince dall'art. 233 c.p.c., laddove afferma a chiare lettere che il giuramento decisorio può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore, con dichiarazione fatta all'udienza dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale o con atto sottoscritto dalla parte.

L'art. 421, comma 2, c.p.c. e la richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali

L'art. 421, comma 2, c.p.c. dispone che il giudice può disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione della richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti.

L'art. 425, comma 4, c.p.c. – richiamato dall'art. 447-bis c.p.c. – rubricato richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali, prevede che il giudice può richiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti e accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa.

L'art. 421, comma 2, c.p.c. va quindi ad integrare quanto disposto dall'art. 425, comma 4, c.p.c. in ordine al potere ufficioso del giudice esercitabile a fini conoscitivi ed interpretativi della materia contrattuale collettiva nella controversia di lavoro sottoposta al suo esame.

L'art. 447-bis, comma 3, c.p.c. riprende dunque le stesse misure contenute nell'art. 421, comma 2, c.p.c. per quanto concerne la richiesta di informazioninon anche di osservazioni come invece prescrive l'art. 421, comma 2, c.p.c. in quanto quest'ultime, contengono valutazioni (n dottrina, sulla differenza tra il significato assunto dalle “informazioni” e “osservazioni”, v. Tarzia 1980, 120) e non la semplice narrazione di fatti affermati dalle parti in causa – sia scritte che orali, alle associazioni di categoria indicate dalle parti, sostituendo il riferimento delle associazioni “di categoria” a quello delle associazioni “sindacali” cui si riferisce la norma lavoristica in commento, essendo evidente che la parte di quest'ultima norma, non richiamata dall'art. 447-bis c.p.c. ma sostanzialmente riprodotta quasi in fotocopia, è giustificata dalla diversità degli interessi riferiti alle rispettive tipologie di controversie.

Il dato che sembra accomunare la misura in esame, prevista con gli opportuni adattamenti sopra evidenziati tanto dall'art. 421, comma 2, c.p.c. quanto dall'art. 447-bis, comma 3, c.p.c. è l'assolvimento della relativa funzione in chiave chiarificatrice e non meramente istruttoria, atteso che mentre nella trattazione delle controversie di lavoro può tornare utile al giudice assumere informazioni ed anche osservazioni scritte od orali dai rappresentanti delle associazioni sindacali dei lavoratori, al fine di ammettere od escludere il riferimento ad un dato contratto collettivo, laddove invece, nel caso delle controversie locatizie, la finalità è di chiarire – attraverso le informazioni scritte od orali assunte dalle competenti associazioni di categoria, l'interpretazione di talune clausole contenute nel contratto collettivo di locazione implicato nella fattispecie devoluta all'attenzione del giudice.

Infatti, come osservato in dottrina (Masoni, 142), il senso del potere ufficioso riconosciuto al giudice delle locazioni di chiedere informazioni alle associazioni di categoria indicate dalle parti è in sostanza, un potere istruttorio integrativo il cui fine precipuo è la richiesta di chiarimenti sul significato di contratti collettivi di locazione qualora necessitino dubbi od incertezze interpretative (Frasca, 306), laddove l'analogo potere previsto dall'art. 421, comma 2, c.p.c., comprendente anche la richiesta di osservazioni alle associazioni sindacali indicate dalle parti, ha come finalità quella di chiarire al giudice il motivo della formulazione di una data clausola contenuta in un contratto collettivo od aziendale, al fine di conoscerne l'interpretazione, e, di conseguenza, definendone l'applicazione concreta (Proto Pisani 1987, 624).

La giurisprudenza ha affermato che è certo comunque come nè le informazioni, nè le osservazioni dotate, rispetto alle prime, di un qualche spessore valutativo inteso ad evidenziare la linea di interesse collettivo – omogenea o dissonante – sottesa alla controversia individuale deputata all'attenzione del giudice, rese unilateralmente in giudizio da un'associazione sindacale indicata dalle parti in causa, sia pure nel ruolo di amicus curiae, sono idonee ad identificare la comune intenzione delle parti stipulanti il contratto collettivo (Cass., sez. lav., n. 7103/1994; Cass., sez. lav., n. 6414/1993, in cui si è considerato che, in tema di interpretazione di un contratto collettivo, le informazioni e le osservazioni dei rappresentanti delle associazioni sindacali sono utili per la ricostruzione dello svolgimento della vicenda contrattuale, e, in particolare, per la determinazione dell'oggetto dibattuto tra le parti e della posizione da queste assunta nel corso delle trattative, ma non possono risolversi in valutazioni interpretative riservate al giudice, che deve procedere direttamente all'interpretazione della volontà negoziale – quale obiettivamente manifestatasi nelle clausole contrattuali – in base al criterio ermeneutico costituito dall'elemento letterale).

L'art. 421, comma 3, c.p.c. e l'accesso sul luogo di lavoro

L'art. 421, comma 3, c.p.c. dispone, su istanza di parte, l'accesso sul luogo di lavoro, purché necessario al fine dell'accertamento dei fatti di causa.

Tale norma – non richiamata dall'art. 447-bis c.p.c. – dovrebbe coordinarsi con quanto disposto dall'art. 425, commi 2 e, c.p.c. laddove quest'ultima norma precisa che le informazioni od osservazioni orali o scritte possono essere rese dall'associazione sindacale indicata dalla parte, in giudizio, tramite un suo rappresentante, od anche nel luogo di lavoro ove sia stato disposto l'accesso ai sensi dell'art. 421, comma 3, c.p.c., e, che a tale fine, il giudice può disporre ai sensi dell'art. 420, comma 6, c.p.c.

In dottrina, si è osservato come il luogo di lavoro cui si riferisce l'art. 425, comma 2, c.p.c. può essere inteso riferito al luogo in cui è posto l'immobile, (Frasca, 306; contra, Trisorio Liuzzi, 462, sulla scorta dell'inapplicabilità dell'art. 425, comma 2 e 3, c.p.c., per effetto del mancato richiamo dell'art. 421, comma 3, c.p.c. nell'art. 447-bis c.p.c.), correlandolo al potere cui si riferisce l'art. 447-bis, comma 3, c.p.c., laddove enuncia espressamente che il giudice può disporre d'ufficio, in qualsiasi momento, l'ispezione della cosa (in dottrina, Giancotti, 577, ritiene pleonastica la previsione dell'ispezione tra i poteri ufficiosi del giudice, attesa la possibilità offerta dall'art. 118, c.p.c., quale norma di carattere generale, che consente al giudice di ordinare alle parti ed ai terzi di consentire sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, e le possibili conseguenze derivanti dal rifiuto ingiustificato opposto dalla parte, valutabile ex art. 116, comma 2, c.p.c.; secondo altri autori, Montesano, Arieta 2002, 430; Masoni, 141, il giudice delle locazioni per ammettere l'ispezione della cosa locata o concessa in comodato, ovvero, dell'azienda, deve preventivamente verificarne l'ammissibilità nel rispetto dei limiti ex art. 118 c.p.c.; Comoglio, 434, ritiene che l'ispezione della res possa essere concessa quando risulti comunque utile per la conoscenza dei fatti di causa).

Ciò anche in considerazione del fatto che l'art. 447 bis c.p.c. richiama interamente l'art. 425 c.p.c. senza esclusioni di sorta, a differenza dell'art. 421, comma 1, c.p.c. il cui richiamo è invece parziale, in quanto riferito soltanto alla prima parte della suddetta norma.

È infatti evidente come il richiamo dell'art. 447-bis, c.p.c. all'art. 425 c.p.c. esige un necessario ed opportuno adattamento delle rispettive disposizioni, in punto di compatibilità delle stesse, in ossequio al principio generale enunciato dallo stesso art. 447-bis, comma 1, c.p.c., nel richiamare per le controversie in materia di locazione, comodato di immobili urbani ed affitto di aziende la disciplina propria del rito del lavoro, in quanto applicabile.

L'art. 421, comma 4, c.p.c. e l'interrogatorio libero

L'art. 421, comma 4, c.p.c. dispone che il giudice, ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell'art. 246 c.p.c. od a cui sia vietato a norma dell'art. 247 c.p.c., norma quest'ultima dichiarata incostituzionale perché ritenuta dalla Consulta contrastante con l'art. 24 Cost., limitando ingiustificatamente il diritto alla prova, che costituisce il nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa (Corte cost., n. 248/1974, in cui si è rilevato che a giustificare un regime di aprioristica valutazione negativa di credibilità, e di conseguente inattendibilità della deposizione testimoniale di chi é legato alla parte da uno stretto vincolo familiare, non basta addurre dei motivi di sospetto di non sincerità fondati su criteri di mera probabilità occorrendo affidarne invece la valutazione al prudente apprezzamento del giudice, da compiersi a posteriori, in relazione alla singola fattispecie concreta).

Pertanto, atteso che parenti ed affini possono essere sentiti come testimoni, l'interrogatorio libero previsto dall'art.421, comma 4, c.p.c. resta esperibile dinanzi al giudice del lavoro nei confronti dei soli terzi incapaci a testimoniare per essere portatori di un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio (Luiso 1992, 205; Tarzia, Dittrich, 183).

In dottrina (Frasca, 307), si è osservato come il mancato richiamo all'art. 421, comma 4, c.p.c. nell'art. 447-bis c.p.c. comporti l'esclusione della possibilità per il giudice delle locazioni di interrogare liberamente sui fatti di causa, agli effetti di cui all'art. 116, comma 2, c.p.c. quelle persone che avendo un'interesse nella causa, siano incapaci a testimoniare ex art. 246 c.p.c.

In ordine alle modalità di assunzione dell'interrogatorio, si ritiene che non sia necessaria la preventiva formulazione dei capitoli come accade nell'interrogatorio formale o nella prova testimoniale (Tarzia, Dittrich, 185) e che invece debba risultare la sua “indispensabilità” (Proto Pisani 1993, 92) ai fini del libero convincimento del giudice sui fatti di causa, trattandosi di un mezzo istruttorio a discrezionalità limitata come si evince dall'inciso “se necessario” contenuto nell'art. 421, comma 4, c.p.c.

In giurisprudenza, si è affermato il principio che la facoltà del giudice di ordinare la comparizione delle persone incapaci a testimoniare ai sensi dell'art. 421, comma 4, c.p.c. ove lo ritenga necessario, richiede che venga previamente accertata una motivata situazione di “necessità” che ne renda “indispensabile” il libero interrogatorio sui fatti di causa, conseguentemente, dovendo il giudice accertare preventivamente se ricorra o meno la capacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. dei medesimi soggetti (Cass., sez. lav., n. 3302/1994).

In dottrina si discute anche sull'efficacia dell'interrogatorio libero, nel silenzio del codice di rito. Secondo alcuni (Luiso 1992, 206; Montesano, Vaccarella, 203; Tarzia, Dittrich, 185), le dichiarazioni rilasciate sarebbero valutabili dal giudice alla stregua dell'art. 116, comma 2, c.p.c., mentre secondo altri (Fabbrini, 155) avrebbero lo stesso valore delle risposte date dai testimoni trovando applicazione l'art. 116, comma 1, c.p.c.

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