Codice di Procedura Civile art. 610 - Provvedimenti temporanei.

Vito Amendolagine

Provvedimenti temporanei.

[I]. Se nel corso dell'esecuzione sorgono difficoltà che non ammettono dilazione, ciascuna parte può chiedere al giudice dell'esecuzione (1), anche verbalmente, i provvedimenti temporanei occorrenti [183 att.].

(1) Le parole « giudice dell'esecuzione » sono state sostituite alla parola « pretore » dall'art. 93 d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51, con effetto, ai sensi dell'art. 247 comma 1 dello stesso decreto quale modificato dall'art. 1 l. 16 giugno 1998, n. 188, dal 2 giugno 1999.

Inquadramento

L'art. 610 c.p.c. concerna i provvedimenti temporanei nell'esecuzione per consegna o rilascio, e dispone che se nel corso dell'esecuzione sorgono difficoltà che non ammettono dilazione, ciascuna parte può chiedere al giudice dell'esecuzione, anche verbalmente, i provvedimenti temporanei occorrenti, i quali, possono anche consistere nel differimento dell'esecuzione forzata già in corso.

In particolare, le “difficoltà” cui si riferisce l'art. 610 c.p.c. abilitano le parti e l'ufficiale giudiziario a sollecitare al giudice provvedimenti temporanei anche per la soluzione di problemi interpretativi del titolo esecutivo, ai fini dell'individuazione della sua portata soggettiva o dell'identificazione dei beni, ma esclusivamente in vista dell'attuazione della tutela esecutiva.

L'incidente di esecuzione sollevato dall'ufficiale giudiziario non ha effetto sospensivo, essendo tale potere riservato unicamente al giudice dell'esecuzione, cui compete la direzione dell'esecuzione forzata (Cass. III, n. 10882/1995).

L'ufficiale giudiziario potrà dunque soltanto desistere temporaneamente dal proseguire le operazioni di consegna o rilascio del bene, rinviandole, ed a tale fine, dando contestualmente atto delle difficoltà incontrate nel processo verbale redatto alla presenza delle parti e dei loro difensori, depositandolo nella cancelleria del giudice dell'esecuzione a cui spetta prendere ogni conseguente decisione in merito, sia in ordine alla richiesta di sospensione delle operazioni sia in ordine alla loro immediata prosecuzione.

I provvedimenti temporanei che possono essere disposti in forza dell'art. 610 c.p.c. riguardano sia l'esecuzione per consegna di bene mobile sia l'esecuzione per rilascio di bene immobile, e, anche laddove le problematiche affrontate si risolvano incidenter tantum con l'intervento del giudice dell'esecuzione ex art. 610 c.p.c., in dottrina si ritiene siano esperibili anche le opposizioni esecutive ex art. 617 c.p.c. (Luiso 1989, 8).

La norma in esame è applicabile in presenza di difficoltà insorte durante l'esecuzione forzata il cui superamento è urgente, al fine di non pregiudicare i diritti delle parti contrapposte nella procedura esecutiva in corso, con la precisazione che le parti interessate dalla stessa disposizione normativa sono sia l'esecutante sia l'esecutato, in quanto le difficoltà possono riguardare tanto la posizione dell'esecutante quanto quella dell'esecutato nel non vedersi pregiudicare i rispettivi diritti derivanti rispettivamente dalla prosecuzione o sospensione delle relative operazioni.

La pretesa nascente da un decreto di trasferimento di immobile pignorato, avente ad oggetto il potere di fatto sull'immobile oggetto di esecuzione, trova tipica attuazione coattiva con le modalità ad hoc stabilite dal procedimento di esecuzione per rilascio disciplinato dagli artt. 605 e ss. c.p.c., poichè ad una diversa conclusione – ovvero alla necessità di adoperare le differenti forme dell'esecuzione per obblighi di fare di cui agli artt. 612 e ss. c.p.c. – non potrebbe indurre la presenza di una recinzione impeditiva dell'accesso all'immobile od a fortiori, ad una parte di esso, trattandosi di un mero ostacolo materiale integrante una difficoltà da superare mediante l'adozione dei provvedimenti temporanei previsti dall'art. 610 c.p.c. (Cass. III, n. 24037/2023).

Nell'ottica considerata dalla norma in commento, non si sottrae al sindacato del g.e. la valutazione del l'esistenza del titolo esecutivo che, notoriamente costituisce la condizione necessaria dell'esercizio dell'azione esecutiva, in relazione alla quale, deve, necessariamente, convenirsi che la sua esistenza, indipendentemente dall'atteggiamento delle parti, deve essere sempre verificata d'ufficio dal giudice. In particolare, mentre il giudice dell'esecuzione ha il potere-dovere di verificare, con un accertamento che esaurisce la sua efficacia nel processo esecutivo, non solo la presenza del titolo esecutivo nel momento in cui l'azione esecutiva è sperimentata, ma anche la sua permanente validità ed efficacia in tutto il corso del processo di esecuzione, in sede di opposizione all'esecuzione l'accertamento dell'idoneità del titolo a legittimare l'azione esecutiva si pone come preliminare dal punto di vista logico per la decisione sui motivi di opposizione, anche se questi non investano direttamente la questione (Cass. III, n. 21264/2024).

La proposizione dell'istanza

L'urgenza di provvedere sulla difficoltà rivelatasi nell'esecuzione, rende ammissibile la proposizione anche solo verbalmente dell'istanza, la quale potrà dunque anche essere raccolta dallo stesso ufficiale giudiziario in sede di verbalizzazione delle relative operazioni, depositando il verbale contenente la richiesta della parte interessata nella cancelleria del giudice dell'esecuzione affinchè quest'ultimo possa provvedere.

Il provvedimento reso dal giudice dell'esecuzione sarà di carattere temporaneo – in quanto volto a dirimere una questione che non riguarda il diritto dell'esecutante a procedere ad esecuzione forzata, ovvero, l'esistenza di un contrapposto diritto idoneo a paralizzare il titolo esecutivo azionato – bensì impedimenti ostativi all'esecuzione di carattere materiale, riguardante un determinato stato di fatto, od anche giuridico, laddove trattasi dell'esatta individuazione del bene od interpretazione del titolo per cui si procede nel corso dell'esecuzione.

Le difficoltà che richiedono l'intervento del giudice dell'esecuzione

L'art. 610 c.p.c. consente alla parte interessata di chiedere con ricorso od anche verbalmente al giudice dell'esecuzione i provvedimenti temporanei che non servono quali rimedi contro gli atti dell'ufficiale giudiziario od in genere, contro gli atti esecutivi, trovando applicazione soltanto laddove i poteri conferiti ex lege al pubblico ufficiale non siano sufficienti a risolvere e superare le difficoltà, improvvise, e, quindi, inaspettate, che possono sorgere nel corso dell'esecuzione forzata per consegna o rilascio.

In buona sostanza, trattasi di difficoltà che non ammettendo alcuna dilazione al fine di non arrecare pregiudizio alla parte interessata, necessariamente devono essere risolte con provvedimenti temporanei, ed in quanto tali, modificabili ed adattabili dallo stesso giudice dell'esecuzione alla situazione concreta di fatto, e, dunque, per tale ragione, in quanto privi di carattere decisorio, i suddetti provvedimenti temporanei non sono impugnabili ex art. 111 Cost.

Le difficoltà cui si riferisce l'art. 610 c.p.c. sono dunque di ordine “materiale”, nel senso di ostacoli allo svolgimento delle operazioni di consegna o rilascio (Arieta, De Santis, 1464).

L'individuazione delle difficoltà che possono richiedere l'intervento del giudice dell'esecuzione per dare i provvedimenti temporanei nel corso dell'esecuzione forzata per consegna o rilascio è legata ai poteri di direzione del giudice dell'esecuzione nel processo esecutivo, per quanto concerne i fondamenti dell'azione e dell'intera attività dell'ufficio esecutivo (Consolo, 1305).

Le difficoltà che la norma sembra prendere in considerazione, sono quelle che riguardano questioni di fatto e di diritto sull'uso dei poteri discrezionali dei quali l'ufficiale giudiziario può avvalersi nell'esecuzione per consegna o rilascio (Sassani, Miccolis, Perago, 137), come l'interpretazione del titolo esecutivo (Sassani, Miccolis, Perago, 137) o la sua portata soggettiva (Sassani, Miccolis, Perago, 137), la sua concreta eseguibilità, l'identificazione dei beni da sottoporre ad esecuzione forzata (Sassani, Miccolis, Perago, 137) o la loro stessa situazione giuridica, vale a dire se liberi, o se invece sottoposti a pignoramento o sequestro (Denti, 115).

In dottrina si è altresì evidenziata la circostanza che il giudice dell'esecuzione è chiamato esclusivamente a verificare se le difficoltà segnalate hanno origine dalle circostanze fattuali nell'ambito delle quali, si devono svolgere le operazioni esecutive, dando se del caso, indicazioni all'ufficiale giudiziario sulle modalità attraverso le quali compiere le stesse operazioni (Arieta, De Santis, 1465).

Quid juris nel caso in cui il cespite su cui insiste una locazione divenga destinatario di un ordine di liberazione emanato dal giudice dell'espropriazione immobiliare intrapresa sullo stesso bene immobile?

In dottrina si è evidenziato che l'art. 560 comma 3 ultima parte c.p.c., esplicitamente contempla un ordine di liberazione in presenza di un possibile conflitto con il terzo titolare di un diritto di godimento del bene opponibile alla procedura, ragione per cui è possibile affermare che l'ordine di liberazione può essere impartito tutte le volte in cui mediante cognizione sommaria sia possibile escludere l'esistenza di diritti personali di godimento di un terzo in grado di incidere nei tempi o nelle valutazioni sulla liquidazione del bene (Olivieri, 2016, 1).

In base all'art. 560 comma 3 c.p.c. l'ambito di applicazione del provvedimento del g.e. riguardante l'emanazione dell'ordine di liberazione dell'immobile colpito dal procedimento di espropriazione, non è impedita dalla presenza di diritti di godimento di terzi che si affermino opponibili alla stessa procedura (Olivieri, 2016, 2).

L'ordine di liberazione del giudice dell'esecuzione immobiliare, va attuato dal custode senza l'osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 e ss. c.p.c. non senza evidenziare che se è vero che non opera l'art. 608 comma 1 c.p.c., è pur vero che non è concepibile la liberazione di un immobile per così dire “seduta stante” (Olivieri, 2016, 8).

 Il terzo, originariamente estraneo al processo esecutivo, locatario del bene immobile pignorato, può opporsi all'ordine di liberazione del bene emanato ai sensi dell'art. 560 c.p.c. sul presupposto della non opponibilità del contratto stesso per essere il canone ritenuto inferiore di un terzo a quello giusto ai sensi dell'art. 2923 comma 3 c.c. (Cass. III, n.9877/2022).

Ma ciò non toglie che in tesi, è pienamente legittima l'emanazione diretta da parte del giudice dell'esecuzione, con la successiva diretta attuazione da parte del custode da lui nominato e senza bisogno di munirsi preventivamente di un titolo giudiziale conseguito in sede cognitiva, di un ordine di liberazione sul presupposto della non opponibilità, all'aggiudicatario in futuro ed al ceto creditorio procedente nell'attualità, di un contratto di locazione a canone c.d. vile: restando tutelati i soggetti a vario titolo coinvolti o pregiudicati da tale provvedimento dai rimedi interni al processo esecutivo, nel quale essi sono restati coinvolti, a tutela delle superiori esigenze pubblicistiche cui quello è ordinato (Cass. III, n.9877/2022). Pertanto, il provvedimento giurisdizionale così adottato non diventa anche autonomo titolo esecutivo idoneo a fondare una separata esecuzione per rilascio, ma resta esclusivamente atto del processo di espropriazione immobiliare, idoneo a dispiegare i suoi effetti nei confronti di coloro che in esso sono coinvolti e, quindi, anche del terzo destinatario dell'ordine di liberazione, e gli uni e l'altro troveranno tutela delle loro ragioni davanti al giudice dell'esecuzione, ma ormai esclusivamente nelle forme dell'opposizione agli atti esecutivi avverso quel provvedimento.

Al g.e., dunque, è dato allora di adottare l'ordine di liberazione anche nei confronti del terzo, ferma restando la possibilità per quest'ultimo di avvalersi dei rimedi cognitivi interni al processo esecutivo ed in primis dell'opposizione agli atti esecutivi (Metafora, 6). In tale ottica, sebbene la decisione sembri correttamente confinare la tutela del terzo destinatario dell'ordine nel solo ambito dell'opposizione ex art. 617 c.p.c. prima di provvedere all'adozione dell'ordine di liberazione, sarebbe opportuno convocare in contraddittorio non solo le parti ma anche il terzo eventualmente coinvolto, perché ascoltarne le ragioni prima di decidere sulla liberazione o meno dell'immobile pignorato può rivelarsi coerente alle ragioni dell'economia processuale, evitando l'emanazione di un provvedimento destinato ad essere revocato, ove impugnato (Metafora, 6).

I soggetti legittimati a chiedere l'intervento del giudice dell'esecuzione

I soggetti legittimati a chiedere l'intervento del giudice dell'esecuzione per risolvere le difficoltà sorte nel corso della procedura esecutiva ai sensi dell'art. 610 c.p.c. sono sia le parti del procedimento esecutivo, che l'ufficiale giudiziario – il quale, è opportuno ricordarlo, può comunque affrontare e risolvere le difficoltà materiali avvalendosi dei poteri di cui all'art. 513 c.p.c., che gli consentono anche di avvalersi della forza pubblica – ed i terzi eventualmente coinvolti nell'esecuzione (Montesano 1966, 557).

Il sindacato del giudice dell'esecuzione nel concedere i provvedimenti temporanei

Le difficoltà a cui si riferisce l'art. 610 c.p.c. abilitano le parti e l'ufficiale giudiziario a sollecitare al giudice l'emanazione di provvedimenti temporanei anche per la soluzione di problemi interpretativi del titolo esecutivo, ai fini dell'individuazione della sua portata soggettiva o dell'identificazione dei beni, ma esclusivamente in vista dell'attuazione della tutela esecutiva (Trib . Latina 7 luglio 2020).

Al riguardo, è stato infatti affermato che nella procedura di esecuzione per consegna o rilascio, posto che scopo della medesima è il trasferimento del potere di fatto sul bene indicato nel titolo dall'esecutato all'esecutante, di talché il suo effetto consiste in una modificazione della situazione materiale, il giudice dell'esecuzione è privo della potestà di risolvere questioni giuridiche in ordine al diritto di procedere in executivis ed il suo ambito di intervento è conseguentemente limitato alla soluzione di problemi pratici relativi al modus procedendi in concreto necessario per adeguare la realtà fattuale al comando da eseguire, con la conseguenza che le “difficoltà”, le quali, a norma dell'art. 610 c.p.c., abilitano le parti e l'ufficiale giudiziario a sollecitare al giudice i provvedimenti temporanei ritenuti necessari ed opportuni, possono implicare, per la loro soluzione, anche l'interpretazione del titolo esecutivo, ai fini dell'individuazione della sua portata soggettiva o dell'identificazione dei beni, ma esclusivamente in vista dell'attuazione della tutela esecutiva (Trib . Ancona 29 ottobre 2019).

In tale ottica, va altresì considerato che la struttura del processo esecutivo non è assimilabile al normale processo di cognizione, posto che esso non si presenta come una sequenza continua di atti preordinati ad un unico provvedimento finale, bensì come una successione di sub-procedimenti, e cioè una serie autonoma di atti ordinati a distinti provvedimenti successivi (App. Roma 6 settembre 2021).

Le difficoltà che possono sorgere nel corso dell'esecuzione in relazione alle quali può trovare applicazione l'art. 610 c.p.c. rientra la soluzione di questioni, anche di ordine giuridico, che, senza porre in discussione la validità del titolo esecutivo azionato, possono incidere sulla sua concreta eseguibilità, come nell'ipotesi di provvedimenti normativi destinati ad influire, limitandone l'applicazione, sull'esecuzione di provvedimenti di rilascio di immobili, i quali, necessitano di interpretazione in ordine alla portata applicativa riferita alla singola fattispecie (Trib. Torino 12 febbraio 2001).

Infatti una pronuncia giudiziale, per poter assurgere a titolo esecutivo ai sensi dell'art. 474 comma 2 c.p.c., deve contenere un'espressa statuizione di condanna che, sebbene possa anche essere desunta da un'interpretazione extra-testuale del provvedimento in forza del quale si agisce in executivis, facendo riferimento ad elementi ritualmente acquisiti nel processo, sempre che siano stati esplicitamente trattati ed univocamente definiti nello stesso giudizio, non può invece fondarsi su una condanna cd. “implicita” (App. Venezia 15 settembre 2021).

Queste “difficoltà” non sono vere e proprie contestazioni di natura giuridica sulla legittimità del “se” e del “come” dell'esecuzione forzata, poiché in questo caso sarebbe necessario ricorrere ad un vero e proprio giudizio di cognizione.

Si tratta, piuttosto, di questioni che riguardano le modalità di svolgimento dell'esecuzione – generalmente sono impartite all'ufficiale giudiziario le istruzioni per l'identificazione delle cose da consegnare o rilasciare – nelle quali, si ricorre al potere direttivo del giudice anche nella fase esecutiva del procedimento, senza per questo incidere sul diritto di procedere all'esecuzione forzata.

Conseguentemente, nell'esecuzione per consegna o rilascio i provvedimenti adottati dal giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 610 c.p.c., per loro definizione, non sono destinati ad avere alcun riflesso sulle posizioni sostanziali delle parti.

Inoltre, i provvedimenti temporanei adottati nell'ambito dell'art. 610 c.p.c. non vincolano il giudice che li ha emessi, il quale può sempre modificarli per adattarli alla concreta situazione di fatto (Cass. III, n. 8874/1992; Cass. III, n. 3735/1989).

I provvedimenti ex art. 610 c.p.c. sono esplicazione dei poteri di direzione del giudice nel processo esecutivo per consegna o rilascio e servono a risolvere non solo difficoltà materiali ma anche dubbi o divergenze di opinioni in relazione al processo esecutivo (Cass. III, n. 14640/2014; Cass. III, n. 20648/2006).

La difficoltà materiale addotta dal conduttore nella documentazione da quest'ultimo allegata all'istanza di differimento dell'esecuzione dello sfratto, se ritenuta sussistente dal giudice dell'esecuzione con riguardo alle circostanze esposte nel ricorso, consente il differimento dell'esecuzione, disposta ai sensi dell'art. 610 c.p.c. (Trib. Bari 20 giugno 2005).

Le difficoltà ex art. 610 c.p.c. possono essere relative, nel corso del procedimento esecutivo per rilascio o consegna, anche all'identificazione dei beni oggetto del provvedimento da eseguire, ed a tali fini, è consentito al giudice dell'esecuzione di interpretare il titolo esecutivo (Trib. Cassino 19 settembre 2006).

Il Giudice dell'esecuzione ha anche il potere di interpretare il titolo esecutivo ai soli effetti della soluzione delle questioni che rientrano nella sua competenza funzionale (Cass. III, n. 1365/1994), ma ove tale provvedimento, per quanto emesso nella forma dei provvedimenti di cui all'art. 610 c.p.c., risolva questioni inerenti al diritto di procedere all'esecuzione forzata, esso ha natura di sentenza appellabile (Cass. III, n. 18257/2014, Cass. III, n. 20648/2006, secondo cui, tale fattispecie si verifica – ad esempio – nell'ipotesi di esecuzione forzata di obbligo di rilascio allorché con il provvedimento il giudice non si limita a chiarire la localizzazione del bene di cui al titolo esecutivo, ma ad individuare la stessa consistenza, nella discrepanza fra la situazione fattuale rilevata dall'ufficiale giudiziario e quella apparentemente risultante dallo stesso titolo).

Il provvedimento emesso dal giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 610 c.p.c. non ha contenuto decisorio bensì ordinatorio, in quanto diretto a superare le difficoltà materiali insorte durante l'esecuzione, al fine di adeguare la realtà fattuale al comando da eseguire, incidendo sul modus procedendi, non è perciò idoneo al giudicato, poiché non destinato a risolvere questioni inerenti al diritto di procedere all'esecuzione forzata e poichè modificabile e revocabile dallo stesso giudice, con la conseguenza che avverso detto provvedimento non è proponibile l'appello (Cass. III, n. 14640/2014).

Al riguardo, si è tuttavia precisato che il provvedimento emesso ai sensi dell'art. 610 c.p.c. non ha contenuto decisorio sempre che non risolva questioni relative al diritto di procedere all'esecuzione forzata, nel qual caso ha natura di sentenza appellabile, bensì ordinatorio, in quanto diretto a superare le difficoltà materiali insorte durante l'esecuzione, e non è definitivo, perché sempre modificabile e revocabile dallo stesso giudice con la conseguenza che avverso detto provvedimento non è proponibile ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. I, n. 4925/1998).

La riforma delle opposizioni esecutive di cui alla l. n. 52/2006 avendo scisso la fase del giudizio di opposizione all'esecuzione che si svolge dinanzi al giudice dell'esecuzione da quella che si svolge dinanzi al giudice competente per il giudizio di merito sull'opposizione, non consente di riconoscere più in capo al primo giudice poteri decisori della controversia, non essendo perciò mai equiparabili i provvedimenti del giudice dell'esecuzione ad una sentenza, per conseguire la quale è necessario che le parti introducano il relativo giudizio di merito (Cass. n. 22033/2011).

Infatti, l'assenza, nel giudice dell'esecuzione, della potestà di risolvere questioni giuridiche in ordine al diritto di procedere ad esecuzione forzata, e la limitazione di ogni possibilità di intervento alla soluzione di problemi pratici relativi al modus procedendi in concreto necessario per adeguare la realtà fattuale al comando da eseguire, comporta che soltanto entro questi limiti all'ufficio esecutivo spetta anche una funzione cognitiva, che, ovviamente, non ha né le forme, né gli effetti di quella propria del processo di cognizione, ma che è comunque insopprimibile, in quanto l'attività allo stesso demandata presuppone pur sempre la ricognizione dei presupposti e dei contenuti dell'ordine da attuare (Cass. III, n. 10865/2012).

L'art. 610 c.p.c. non determina se non indirettamente il contenuto del provvedimento del giudice, e, nulla dice in ordine alle forme del suo controllo.

Il procedimento configurato dall'art. 610 c.p.c. non costituisce un antecedente necessario dell'atto conclusivo dell'esecuzione forzata per rilascio, in quanto ha la sola funzione di evitare che la dovuta attuazione del titolo esecutivo risulti operata in modo illegittimo avuto riguardo alla situazione che si prospetta in concreto.

Pertanto, con riferimento ad una fattispecie di esecuzione per rilascio, una volta intervenuta l'immissione nel possesso del cespite immobiliare, se questa si presenti intrinsecamente viziata, la parte interessata dovrà proporre l'opposizione agli atti esecutivi da esperirsi ex art. 617, comma 2, c.p.c. dal rilascio dell'immobile, mentre, se l'immissione in possesso, quale atto conclusivo dell'esecuzione forzata non si presenti di per sè viziata, risulterà irrilevante, in rapporto ad essa, la circostanza che il procedimento configurato dall'art. 610 c.p.c. si sia concluso con un provvedimento in ipotesi viziato (Cass. III, n. 11346/1992).

A fronte della richiesta promossa dall'esecutando ex art. 610 c.p.c. di determinazione delle modalità di esecuzione, il giudice – in presenza di minore nell'immobile oggetto di sfratto – può disporre che i servizi sociali comunali assicurino la presenza di un operatore per eventuali interventi a favore del minore medesimo, nonché – ove l'assistente sociale non sia presente al momento dell'accesso e non risulti alcuna prospettiva di una sistemazione idonea – l'ufficiale giudiziario provveda, ai sensi dell'art. 403 c.c., a segnalare – direttamente o tramite la forza pubblica – la necessità di un intervento urgente dei servizi sociali (Trib. Milano 17 maggio 2013).

La forma del provvedimento reso dal giudice dell'esecuzione

La forma del provvedimento ai sensi dell'art. 183 disp. att. c.p.c. è quella del decreto, in quanto detta norma stabilisce espressamente che i provvedimenti temporanei di cui all'art. 610 c.p.c. sono dati dal giudice dell'esecuzione con decreto motivato, dando conto delle ragioni espresse dal giudice dell'esecuzione (Arieta, De Santis, 1466), anche se in dottrina non si esclude l'uso dell'ordinanza (D'Onofrio, 203).

Il decreto che si limiti ad impartire i provvedimenti temporanei occorrenti, proprio perché non contiene alcuna statuizione capace di provocare un giudizio di cognizione, non deve essere emesso previa audizione dell'altra parte (Cass. III, n. 8079/1994), ma ciò non esclude che il giudice possa comunque disporre l'audizione delle parti sulle difficoltà (Arieta, De Santis, 1466).

Bibliografia

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