Arbitrato societario e azione di responsabilità contro gli amministratori dopo la dichiarazione di fallimento

02 Aprile 2020

In tema di azione di responsabilità contro gli amministratori di s.r.l., valutata la natura inscindibile delle azioni esperibili dalla società e dai creditori, una volta dichiarato il fallimento della società, la clausola compromissoria contenuta nello statuto della società è inoperativa...
Massima

In tema di azione di responsabilità contro gli amministratori di s.r.l., valutata la natura inscindibile delle azioni esperibili dalla società e dai creditori, una volta dichiarato il fallimento della società, la clausola compromissoria contenuta nello statuto della società è inoperativa, con la conseguenza che il Presidente del Tribunale non può dar seguito alla richiesta avanzata dal curatore del fallimento di nominare, ai sensi dell'art. 810 c.p.c., gli arbitri.

Il caso

Il curatore del fallimento di una s.r.l. chiede, ai sensi dell'art. 810 c.p.c., al Presidente del Tribunale di provvedere alla nomina dei componenti del collegio arbitrale previsto dallo statuto di una s.r.l. evidenziando di avere intenzione di proporre, nei confronti di due amministratori della società, l'azione di responsabilità.

Il ricorso viene rigettato dal Presidente del Tribunale, il quale ritiene che il curatore fallimentare che intende esercitare nei confronti degli amministratori della società l'azione di responsabilità deve necessariamente cumulare tanto l'azione sociale che quella dei creditori sociali (dovendo, poi, nell'ambito dei singoli addebiti discriminare i presupposti delle due azioni). Considerata la natura inscindibile delle due azioni, il Presidente conclude per l'inoperatività della clausola compromissoria inserita nello statuto sociale della s.r.l. attesa la circostanza che il perimetro operativo di detta clausola non può ricomprendere l'azione che spetta ai creditori sociali.

Le questioni giuridiche

Il decreto del Presidente del Tribunale di Roma merita di essere brevemente commentato in quanto impatta fortemente sulla stessa possibilità di attivare arbitrati societari in tema di responsabilità di amministratori nella fase fallimentare della società.

Osservazioni

Come è noto, l'art. 34 comma 1 d.lgs. n. 5 del 2003 prevede che “gli atti costitutivi delle società […] possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale”.

Le clausole compromissorie sono piuttosto diffuse nelle piccole società di capitali italiane, in particolare nelle s.r.l. Vi sono peraltro due limiti:

  • la controversia deve insorgere fra i soci ovvero fra i soci e la società (non vengono menzionati né gli amministratori né i terzi);
  • la controversia deve avere a oggetto diritti disponibili.

Nel caso in esame l'azione che il curatore intende esercitare è un'azione di responsabilità contro gli amministratori. Dal testo del decreto non risulta se gliamministratori fossero anche soci. In caso affermativo, le persone fisiche che sono amministratori sarebbero vincolati dalla clausola compromissoria in quanto soci.

Tuttavia, anche nel caso in cui gli amministratori non fossero soci e avessero rivestito solo il ruolo di amministratori, la clausola compromissoria contenuta nello statuto potrebbe operare nei loro confronti. Bisogna difatti porre attenzione al dettato dell'art. 34, comma 4, d.lgs n. 5 del 2003, secondo cui “gli atti costitutivi possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti e, in tale caso, essa, a seguito dell'accettazione dell'incarico, è vincolante per costoro”. Dunque, se vi è una espressa previsione statutaria di estensione della clausola compromissoria anche agli amministratori, anche questi ultimi possono essere parte di un arbitrato societario.

La legge prevede poi che la controversia debba avere a oggetto diritti disponibili. Nel caso di specie la controversia è un'azione di responsabilità contro gli amministratori. La giurisprudenza è costante nell'affermare che l'azione di responsabilità contro gli amministratori riguarda diritti disponibili. L'oggetto dell'azione consiste difatti nell'accertare la responsabilità degli amministratori e, in caso di accoglimento, nel vederli condannati a risarcire il danno cagionato alla società oppure ai creditori. La natura economica della pretesa azionata (= una richiesta di risarcimento del danno) fa propendere per la natura compromettibile della controversia. Non si deve del resto dimenticare che il rapporto fra società e amministratori è molto probabilmente qualificabile come contratto di mandato e, in ogni caso (ossia indipendentemente dalla qualificazione che si voglia dare al rapporto in termini di contratto tipico), ha natura contrattuale. Agli amministratori dunque la società chiede i danni per inadempimento contrattuale.

Le azioni di responsabilità della società e le azioni di responsabilità dei creditori: la recente riforma dell'art. 2476 c.c.

È poi noto il rilievo che hanno le azioni di responsabilità nel contesto fallimentare. I curatori si trovano spesso di fronte a passivi immensi e attivi risicati, dovendosi sforzare di individuare azioni che possano portare un qualche attivo al fallimento. Le principali azioni astrattamente a disposizione sono quelle di responsabilità contro gli amministratori (e, invero, anche contro i sindaci), le azioni revocatorie e quelle contro le banche per concessione abusiva del credito.

Il problema specifico affrontato nella decisione del Tribunale di Roma è legato al fatto che esistono più possibili azioni di responsabilità contro gli amministratori: quella intentabile dalla società e quella intentabile dai creditori.

Nell'ambito della s.r.l., la disposizione di riferimento è l'art. 2476 c.c. Va però utilmente premesso che proprio tale ultima norma è stato oggetto di recentissima modifica ad opera del codice della crisi (d.lgs. n. 14/2019). Difatti l'art. 378 c.c.i. (rubricato “responsabilità degli amministratori”) ha modificato l'art. 2476 c.c., aggiungendo un nuovo comma che recita “gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale. L'azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti” (nuovo comma 6 dell'art. 2476 c.c.). È importante segnalare che questo nuovo comma dell'art. 2476 è già in vigore. Infatti la riforma della responsabilità degli amministratori rientra fra quel “pacchetto” di disposizioni che sono entrate in vigore 30 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del codice della crisi, ossia si tratta di norme in vigore già da metà marzo 2019.

Rimane fermo il diverso comma dell'art. 2476 c.c. (era il comma 6, ora è diventato il comma 7) che recitava (e recita): “le disposizioni dei precedenti commi non pregiudicano il diritto al risarcimento dei danni spettanti al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori”.

Tanto premesso, dal testo del decreto del Tribunale di Roma non emerge con certezza se, nel caso di specie, si sia data applicazione alla disciplina previgente oppure a quella nuova, in vigore da metà marzo 2019.

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, la situazione non si è modificata (o almeno non si è modificata radicalmente) prima e dopo la riforma apportata con il codice della crisi, nel senso che – sia prima sia dopo la riforma del 2019 – l'art. 2476 c.c. distingue (e distingueva) fra:

  • azione di responsabilità della società ai sensi del comma 1: “gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo”;
  • azione di responsabilità dei soci o dei terzi, ai senso del comma 6 (e ora commi 6 e 7) appena citati.

Dunque, prima della dichiarazione di fallimento della società, l'azione contro gli amministratori può essere intentata dalla società oppure da uno o più creditori della società: attore può essere, a seconda dei casi, la società oppure un creditore della società.

Se sono astrattamente intentabili due distinte azioni di responsabilità degli amministratori che hanno distinti presupposti, nel caso concreto la singola azione deve essere esaminata e trattata dal giudice verificando che sussistano gli specifici presupposti di essa.

Si fa un unico esempio per illustrare la portata di questa distinzione:

  • nel caso di azione sociale di responsabilità (comma 1 dell'art. 2476 c.c.) gli amministratori rispondono per i danni “derivanti dall'inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dell'atto costitutivo per l'amministrazione della società”;
  • nel caso di azione dei creditori sociali (nuovo comma 6 dell'art. 2476 c.c.), gli amministratori rispondono “per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale”

Nel primo caso le fattispecie di responsabilità sono maggiori (= qualsiasi inosservanza di doveri relativi all'amministrazione della società), nel secondo caso le fattispecie di responsabilità sono minori (= solo l'inosservanza degli obblighi sulla conservazione del patrimonio).

Le azioni di responsabilità dopo la dichiarazione di fallimento

Ad avviso di chi scrive, dopo la dichiarazione di fallimento la distinzione fra azione di responsabità della società e azione di responsabilità dei creditori diminuisce di importanza, fino a perderla del tutto. Si provano a spiegare i motivi di questa tesi.

La prospettiva cambia dopo la dichiarazione di fallimento della società, dal momento che “sono esercitate dal curatore previa autorizzazione del giudice delegato […] le azioni di responsabilità contro gli amministratori” (art. 146 comma 2 l.fall.). Dopo la dichiarazione di fallimento perde rilievo la distinzione fra azione della società e azione dei creditori, poiché l'unico soggetto legittimato all'azione di responsabilità è il curatore. La situazione non è cambiata con il codice della crisi, in quanto l'art. 255 c.c.i. prevede che il curatore può promuovere o proseguire, anche separatamente, l'azione sociale di responsabilità e l'azione dei creditori sociali (per un esame delle azioni di responsabilità alla luce del nuovo codice della crisi cfr. A Bartalena, Le azioni di responsabilità nel codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Fallimento, 2019, 298 ss.). Anche se l'art. 255 c.c.i. menziona espressamente sia l'azione sociale di responsabilità (lett. a) sia l'azione dei creditori sociali (lett. b), si tratta pur sempre di azioni esercitate dal solo curatore nell'interesse esclusivo dalla massa.

Il decreto del Tribunale di Roma in commento si sofferma esattamente su questo passaggio: dal momento che il curatore cumulerebbe (durante il fallimento) l'azione avviabile dalla società con l'azione avviabile dai creditori, non sarebbe legittimo un arbitrato societario dopo la dichiarazione di fallimento in ambito di azioni di responsabilità contro gli amministratori in quanto il creditore è terzo rispetto al contratto di società e la clausola compromissoria non sarebbe vincolante per esso creditore.

Ad avviso di chi scrive il decreto, seppure ampiamente motivato e pregevole, non convince appieno relativamente alle conclusioni a cui giunge per le considerazioni che seguono.

Anzitutto va sgombrato il campo da un possibile equivoco. Nel caso in esame non viene in considerazione l'art. 83-bis l.fall., secondo cui se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a causa del fallimento il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito. Difatti il contratto di società non si scioglie con il fallimento e dunque lo statuto che contiene la clausola compromissoria continua a essere vincolante. Ciò che invece muta è la posizione degli amministratori, i quali vengono “sostituiti” dal curatore, che gestisce il patrimonio sociale al fine della soddisfazione dei creditori sociali nel rispetto della par condicio creditorum. Nei confronti degli amministratori continua a operare lo statuto, o quantomeno essi possono essere convenuti in arbitrato sulla base della clausola compromissoria, operante nei loro confronti se – come si ricordava sopra - la clausola compromissoria prevede l'estensione agli amministratori del suo campo soggettivo di applicazione (altrimenti ordinariamente limitato a soci e società).

Il Presidente del Tribunale di Roma applica l'art. 810 comma 3 c.p.c., il quale prevede che “il presidente del tribunale competente provvede alla nomina richiestagli, se la convenzione d'arbitrato non è manifestamente inesistente”. Dunque il presidente del tribunale, astrattamente, deve verificare solo due aspetti:

  • se è competente;
  • se la convenzione d'arbitrato non è manifestamente inesistente.

Nel caso in esame il Presidente del Tribunale conclude nel senso che la convenzione d'arbitrato è “manifestamente inesistente”. Questo risultato non pare condivisibile in quanto, in realtà, detta convenzione esiste nello statuto della società (e non è venuta meno per effetto della dichiarazione di fallimento).

Prima del fallimento la convenzione arbitrale contenuta nello statuto non si applica alle controversie fra creditori (estranei alla società) e amministratori. Ma dopo il fallimento non si vedono ostacoli per applicare la convenzione a una controversia che ora è fra la sola società (che agisce tramite il curatore, previa autorizzazione del giudice) e amministratori (senza che giochino più alcun ruolo i creditori).

Pur esprimendo forte apprezzamento per la diligenza e serietà con cui il Presidente del Tribunale di Roma approfondisce la questione, ad avviso di chi scrive è da preferire la soluzione contraria a quella concretamente adottata. Difatti, vero è che, prima del fallimento, vi sono astrattamente due distinte possibili azioni di responsabilità contro gli amministratori: quella della società e quella dei creditori. Tuttavia, dopo il fallimento, la distinzione fra azione della società e azione dei creditori perde di significato, in quanto opera la normativa speciale: spetta al curatore un'unica azione nell'interesse della società (e, in sede di riparto, nell'interesse di tutti i creditori, nel rispetto delle cause di prelazione). In altre parole, proprio per il fatto che non sono possibili dopo la dichiarazione di fallimento autonome azioni dei creditori, va privilegiata la soluzione della legittimità del ricorso all'arbitrato societario.

In favore di questa soluzione milita un argomento centrale. In un contesto anteriore al fallimento, nell'azione sociale di responsabilità le somme recuperate dagli amministratori entrano a far parte del patrimonio della società. Al contrario, nell'azione del creditore le somme recuperate vanno ai creditori quali soggetti danneggiati e non entrano nel patrimonio della società.

Successivamente al fallimento, la situazione cambia radicalmente. Se alcuni singoli e specifici creditori potessero autonomamente aggredire il patrimonio degli amministratori, detto patrimonio verrebbe sottratto alla soddisfazione della massa dei creditori sociali. Si immagini che la condanna dell'amministratore ammonti a un milione di euro; detto milione – se il creditore potesse agire autonomamente - verrebbe incassato dal creditore. Ma, così facendosi, verrebbe alterata la par condicio creditorum, nel senso che i danari recuperati dagli amministratori verrebbero destinati a uno solo dei creditori (e non a tutti essi, proporzionalmente al credito vantato e nel rispetto delle cause di prelazione).

Per rendere più comprensibile il ragionamento, si immagini un fallimento con un passivo di due milioni di euro e un attivo di zero euro. Si ipotizzi altresì che l'amministratore abbia cagionato un danno di un milione di euro. Se il creditore potesse agire direttamente contro l'amministratore, il creditore recupererebbe un milione di euro, ma sarebbe l'unico soggetto soddisfatto (nell'esempio fatto al 100%). Vietando tuttavia la legge azioni dirette del creditore dopo la dichiarazione di fallimento (perché, appunto, il curatore da solo cumula le azioni della società e dei creditori), è invece solo la società – mediante il curatore – che può agire e recuperare il milione di euro che andrà a soddisfare nella misura del 50% tutti i creditori (e nel rispetto di eventuali cause di prelazione).

Conclusioni

Il decreto in commento ritiene non avviabile un arbitrato societario sulla base di una clausola compromissoria una volta che è fallita la società, perché l'azione del curatore cumulerebbe necessariamente la tutela della società con quella dei creditori: non essendo i creditori vincolati dalla clausola compromissoria, salta il meccanismo dell'arbitrato e bisogna ricorrere alla giustizia statale.

L'autore è invece dell'avviso che proprio il fallimento faccia venire meno la distinzione fra azione della società e azione dei creditori (non più esperibile nel fallimento per difetto di legittimazione attiva). I creditori possono trovare soddisfazione solo nell'ambito delle regole concorsuali di par condicio, dopo aver fatto domanda di ammissione al passivo. Per questa ragione ritiene l'autore che non vi debbano essere ostacoli a consentire l'arbitrato societario nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori successivamente alla dichiarazione di fallimento.

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