Il collaboratore fisso è un giornalista "professionista" e può essere iscritto nell'elenco dei pubblicisti
02 Luglio 2020
Abstract
In tema di rapporto di lavoro giornalistico, l'attività del collaboratore fisso espletata con continuità, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio rientra nel concetto di “professione giornalistica”.
Ai fini della legittimità del suo esercizio è condizione necessaria e sufficiente la iscrizione del collaboratore fisso nell'albo dei giornalisti, sia esso elenco dei pubblicisti o dei giornalisti professionisti: conseguentemente, non è affetto da nullità per violazione della norma imperativa contenuta nell'art. 45, l. n. 69 del 1963 il contratto di lavoro subordinato del collaboratore fisso, iscritto nell'elenco dei pubblicisti, anche nel caso in cui svolga l'attività giornalistica in modo esclusivo. Il caso
La Corte d'appello di Milano, in accoglimento dell'impugnazione proposta da nota testata giornalistica, riformava la pronuncia di primo grado dichiarando la radicale nullità del rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti per violazione di norme imperative.
La Corte territoriale, pur confermando la qualifica di collaboratrice fissa che il Tribunale aveva riconosciuto alla lavoratrice ai sensi dell'art. 2 del Contratto Collettivo Nazionale dei Giornalisti (in seguito CNLG) e la natura subordinata del rapporto di lavoro giornalistico intercorso tra le parti, deduceva l'insanabile nullità di quest'ultimo ex art. 45, l. n. 69 del 1963 vigente ratione temporis, in conseguenza dell'iscrizione della collaboratrice nell'elenco dei pubblicisti anziché in quello dei giornalisti professionisti, tenuto altresì conto che la suddetta svolgeva la propria attività lavorativa in via esclusiva.
Sosteneva, la Corte, che una diversa interpretazione non potesse trovare fondamento nell'art. 36 del CNLG, il quale si limita ad applicare ai pubblicisti il trattamento economico e normativo previsto per i giornalisti professionisti per il periodo in cui il rapporto abbia avuto esecuzione. Coerentemente, la Corte di merito riconosceva alla lavoratrice, ai sensi dell'art. 2126 c.c., il trattamento economico e previdenziale per il tempo in cui il rapporto nullo aveva avuto esecuzione, ma non il diritto di continuare a rendere la prestazione o di pretenderne lo svolgimento.
Avverso tale sentenza la lavoratrice proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui la società datrice resisteva con controricorso. Fissata inizialmente l'adunanza camerale, la Sezione Lavoro della Corte di cassazione riteneva di rinviare la causa a pubblica udienza, all'esito della quale il Collegio, esaminati i precedenti giurisprudenziali e prospettando una diversa soluzione, emetteva ordinanza interlocutoria di trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite; il Primo Presidente provvedeva in conformità. La questione
Il caso sottoposto all'esame delle Sezioni Unite consente di far luce su aspetti cruciali della disciplina del lavoro giornalistico. Per dirimere la questione, concernente la validità del rapporto di lavoro giornalistico tra un editore di giornale ed un collaboratore fisso che, pur svolgendo l'attività in via esclusiva, non sia iscritto nell'elenco dei giornalisti professionisti ma in quello dei pubblicisti, si rende infatti necessaria primariamente una puntuale disamina dei caratteri peculiari di ciascuna delle categorie in gioco (giornalista professionista, pubblicista, collaboratore fisso), e in secondo luogo l'individuazione certa del criterio discretivo tra le rispettive attività – in precedenza oscillante tra un parametro quantitativo, legato all'esclusività della prestazione svolta, ed uno qualitativo, commisurato al diverso percorso professionale che caratterizza tali prestazioni: operazioni, queste, rese particolarmente impervie dall'intrecciarsi di norme legali e disposizioni contrattuali collettive in un complesso ordito regolatorio.
Preliminare ad ogni ulteriore considerazione è un'analisi del quadro normativo di riferimento.
La l. 3 febbraio 1963, n. 69, istitutiva dell'Ordine dei giornalisti, dispone all'art. 1 che «È istituito l'Ordine dei giornalisti. Ad esso appartengono i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell'albo. Sono professionisti coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista. Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi».
Il successivo art. 26 (“Albo”), al comma 2 prevede che «L'albo è ripartito in due elenchi, l'uno dei professionisti l'altro dei pubblicisti».
L'art. 45 (“Esercizio della professione”), su cui la l. n. 168 del 2016 è intervenuta con rilevanti modifiche di cui si dirà, nel testo originario, applicabile ratione temporis al caso di specie, disponeva: «Nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell'albo professionale. La violazione di tale disposizione è punita a norma degli articoli 348 e 498 del codice penale, ove il fatto non costituisca un reato più grave».
Tra le fonti destinate a regolare i rapporti di lavoro giornalistico vi è poi il contratto collettivo di categoria, il cui testo, limitatamente alle disposizioni che qui ci riguardano, è rimasto sostanzialmente invariato a partire dal primo contratto nazionale di lavoro giornalistico del 1959, reso efficace erga omnes con d.P.R. n. 153 del 1961 in applicazione della l. n. 741 del 1959. La contrattazione collettiva ci consente di trarre ulteriori elementi definitori utili all'identificazione della figura del giornalista, innanzitutto, e, di poi, delle sue articolazioni: i) l'art. 1, nel circoscrivere il campo di applicazione del CNLG, stabilisce che esso regoli il rapporto di lavoro tra l'editore (o l'agenzia di informazioni, l'emittenza radiotelevisiva, l'ufficio stampa) ed «i giornalisti che prestano attività giornalistica quotidiana con carattere di continuità e con vincolo di dipendenza»; ii) l'art. 2 estende l'applicazione delle sue disposizioni ai collaboratori fissi, ovvero «i giornalisti […] che non diano opera giornalistica quotidiana purché sussistano continuità di prestazione, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio»; iii) l'art. 36, infine, stabilisce che «ai pubblicisti che esercitano attività giornalistica in via esclusiva e prestano opera quotidiana con orario di massima di 36 ore settimanali si applica il trattamento economico e normativo previsto per i giornalisti professionisti di cui al primo comma dell'art. 1 del presente contratto», e «ai pubblicisti che prestano la loro opera di collaboratori fissi ai sensi dell'art. 2 del presente contratto, spetta il trattamento retributivo previsto dall'art. 2».
La controversia in commento è perfettamente sovrapponibile a quella risolta dalla Corte di cassazione con sentenza n. 3177 del 2019, da cui le Sezioni Unite prendono le distanze. In tale arresto la Corte, respingendo le pretese dell'attrice, aveva dedotto dalle norme sopra citate la conseguenza che, poiché “per l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti non è necessario alcun esame, ma solo l'avvenuta pubblicazione di taluni articoli su testate giornalistiche”, il pubblicista è “un giornalista non professionale”, “una figura che può coincidere con quella di un medico, di un avvocato, di un architetto o semplicemente di una persona appassionata di uno specifico argomento […] che collabori con testate giornalistiche mettendo a disposizione le proprie competenze specifiche per scrivere e divulgare informazioni inerenti alla propria materia di interesse”. Sulla scorta di precedente giurisprudenza (cfr. Cass. n 21424 del 2015), in relazione alla figura del collaboratore fisso che svolga la sua attività con continuità ed esclusività, aveva poi argomentato che “il know how richiesto per fare il redattore o il collaboratore fisso ʻgiornalista professionistaʼ è lo stesso […] Quanto alla professionalità non vi sono differenze qualitative tra redattore e collaboratore fisso ove quest'ultimo svolga l'attività giornalistica con le caratteristiche della continuità ed esclusività”, consistendo tale differenza “in un dato meramente quantitativo (la quotidianità o meno della prestazione)”: se ne traeva la conclusione che, se per l'espresso disposto dell'art. 5 CNLG («È obbligatoria l'assunzione di giornalisti qualificati professionisti […] nelle direzioni e nelle redazioni») e per costante giurisprudenza (v. Cass. n. 10158 del 2017, Cass. n. 21884 del 2016, Cass. n. 27608 del 2006) il redattore deve necessariamente essere iscritto nell'elenco dei giornalisti professionisti, e posto che “la ratio dell'obbligo di iscrizione ad un determinato albo professionale è quella di garantire uno standard qualitativo di professionalità”, non essendo riscontrabile alcuna differenza nel livello di professionalità proprio delle due figure, “l'attività di giornalista svolta da un collaboratore fisso in modo continuativo ed esclusivo a scopo di guadagno [...] rientra pur sempre nel concetto di ʻprofessione di giornalistaʼ e, in quanto tale, è bisognosa di previa iscrizione nell'elenco dei giornalisti professionisti a pena di nullità del contratto (secondo la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità: v. la già citata Cass. 29 dicembre 2006, n. 27608, nonchè la già citata Cass. n. 23472 del 2007)”. Dunque, l'attività svolta da un collaboratore fisso avrebbe integrato il concetto di “professione di giornalista”, cui il pubblicista sarebbe estraneo: tale categoria si vedeva così negata la possibilità di impegnarsi a tempo pieno ed in via esclusiva per una testata giornalistica, prestando la propria attività da collaboratore fisso, in quanto un simile impiego sarebbe stato affetto da nullità per violazione delle norme imperative di cui alla l. n. 69 del 1963, a causa della mancata iscrizione nell'elenco dei giornalisti professionisti. Le soluzioni giuridiche
Le Sezioni Unite affrontano il precedente citato contestando, innanzitutto, che le locuzioni utilizzate dall'art. 45, l. n. 69 del 1963, “professione di giornalista” e “albo professionale”, siano volte ad identificare esclusivamente l'attività di coloro che sono iscritti all'elenco dei “giornalisti professionisti”.
A sostegno della propria, diversa, interpretazione procedono al vaglio degli elementi che legge e contratto collettivo forniscono per definire chi sia il giornalista e cosa sia la professione di giornalista: se non v'è dubbio che gli artt. 1 e 2 del CNLG, che abbiamo visto riferiti ai giornalisti cosiddetti professionisti ed ai collaboratori fissi – differenziandosi le due figure solo perché a questi ultimi non è richiesta la quotidianità della prestazione –, si rivolgono testualmente alla medesima categoria, generica, dei giornalisti, richiedendo che la loro attività sia caratterizzata da continuità e subordinazione, è evidente la mancanza di ogni riferimento all'esclusività della prestazione. La l. n. 69 del 1963, che all'art. 1 qualifica i giornalisti “professionisti” come «coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista» (comma 3) e i “pubblicistici” come «coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi» (comma 4), in prosieguo usa anch'essa genericamente i termini “giornalista”, indubbiamente comprensivo tanto del giornalista professionista quanto del pubblicista, e “professione”, adoperato in senso lato per indicare l'attività del giornalista, sia esso giornalista professionista o pubblicista, caratterizzata da continuatività e scopo di guadagno (cfr. artt. 2, 4, 11, 20, 26, 27 l. n. 69 del 1963). Un'interpretazione letterale e sistematica di tali norme impone dunque di affermare che “la legge, laddove include il giornalista professionista e il pubblicista in uno stesso ordinamento, sottoponendoli agli stessi poteri e doveri disciplinari, mostra di considerare unitariamente la professione di giornalista”, la cui attività– presupposta, ma non definita dalla l. n. 69 del 1963 – deve essere intesa, genericamente, come “la prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, al commento e all'elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisirne la conoscenza, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e predisporre il messaggio con apporto soggettivo e creativo, ed assumendo rilievo, a tal fine, la continuità o periodicità del servizio nel cui ambito il lavoro è utilizzato, nonché l'attualità delle notizie e la tempestività dell'informazione, che costituiscono gli elementi differenziatori rispetto ad altre professioni intellettuali e sono funzionali a sollecitare l'interesse dei cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli di attenzione per la loro novità” (cfr., ex plurimis, Cass. n. 1853 del 2016, Cass. n. 17723 del 2011, Cass. n. 1827 del 1995, Cass. n. 2166 del 1992).
Quanto precede consente di giungere ad una prima, rilevante conclusione. I “pubblicisti” sono anch'essi professionisti, e si distinguono dai “giornalisti professionisti”, la cui attività è caratterizzata dall'esclusività di esercizio, primariamente per il nulla osta allo svolgimento di «altre professioni o impieghi». La distinzione tra le due figure, precisano le Sezioni Unite, “torna a riemergere solo quando, per particolari ragioni (come la composizione dei consigli dell'ordine o del consiglio nazionale: art. 3, o l'attribuzione di particolari cariche: art. 19), viene in rilievo il diverso profilo professionale”: è proprio il diverso grado di professionalità, che emerge dall'entità dell'impegno profuso e dal diverso iter da seguire per l'iscrizione nell'albo – per l'iscrizione nell'elenco dei giornalisti professionisti la l. n. 69 del 1963 richiede l'esercizio continuativo della pratica giornalistica per almeno 18 mesi (art. 29) e l'accertamento dell'idoneità professionale mediante superamento di prove, scritte e orali, di tecnica e pratica del giornalismo integrate dalla conoscenza delle norme giuridiche attinenti il giornalismo (art. 32), a fronte della sufficienza, per l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti, di domanda corredata da giornali e periodici contenenti scritti a firma del richiedente, e da certificati dei direttori delle pubblicazioni comprovanti l'attività pubblicistica regolarmente retribuita da almeno due anni (art. 35) –, e che la Corte paragona a quello riscontrabile tra le varie qualifiche previste dalla contrattazione collettiva in ciascun settore, l'unico elemento che consente di differenziare le due diverse species del genus “giornalista”.
L'art. 36 del CNLG non si limita a suffragare il quadro fin qui delineato, vi aggiunge un importante elemento. Esso era stato interpretato, dalla Corte d'Appello, nel senso della sola applicazione del trattamento economico e normativo previsto per i giornalisti professionisti ex art. 1 del CNLG in linea con gli approdi giurisprudenziali sull'applicabilità dell'art. 2126 c.c., ad alcun altro fine valendo lo svolgimento di fatto dell'attività di giornalista (in particolare, non sarebbe stato possibile ordinare la riassunzione del lavoratore assumendone l'illegittimo licenziamento, atteso che nel contratto affetto da nullità per violazione di norma imperativa non è concepibile un negozio di licenziamento e non sono configurabili le conseguenze che la legge collega al recesso ingiustificato: cfr. Cass. n. 3177 del 2019 e Cass. n. 27608 del 2006). Converrà innanzitutto richiamare il disposto della norma contrattuale: nel regolare il trattamento economico riservato al pubblicista, l'art. 36 del CNLG stabilisce che, qualora egli eserciti «attività giornalistica in via esclusiva» e presti opera quotidiana, si applicherà il trattamento economico e normativo previsto per i giornalisti professionisti (con ciò confermandosi, è appena il caso di notare, che non ci si trovi in presenza di attività eterogenee e inconciliabili). È dunque lo stesso contratto nazionale di lavoro giornalistico a prevedere la possibilità che i pubblicisti esercitino attività giornalistica in via esclusiva – che, se prestata quotidianamente, comporta applicazione delle disposizioni indirizzate ai giornalisti professionisti, ma se il carattere della quotidianità manca, e purché sussistano continuità di prestazione, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio, rientra nell'alveo della figura del collaboratore fisso, il cui trattamento richiama.
Per concludere sulla professione del giornalista: essa è “caratterizzata dalla continuatività, da intendersi come sistematicità e abitualità della prestazione, in antitesi alla sporadicità e saltuarietà, nonché dalla onerosità, senza che rilevi l'esclusività o la prevalenza della stessa rispetto ad altre professioni o impieghi”. Tale approdo interpretativo si pone, del resto, in linea di continuità con la giurisprudenza della Corte costituzionale, che le Sezioni Unite procedono ad analizzare: il giudice delle leggi, con sentenza C. cost. n. 98 del 1968, dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'art. 46, l. n. 69 del 1963 nella parte in cui prevedeva che la carica di direttore e di vice direttore responsabile di un giornale potesse essere ricoperta solo da un giornalista iscritto nell'elenco dei giornalisti professionisti, perché ingiustificatamente limitativo della libertà di manifestazione del pensiero protetta dall'art. 21 Cost. Richiamando il precedente dato dalla sentenza C. cost. n. 11 del 1968, la Consulta ha affermato che la funzione dell'Ordine dei giornalisti è quella di garantire il rispetto della personalità e della libertà dei giornalisti e di assicurare “la vigilanza sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla”. La funzione dell'Ordine risulterebbe di certo frustrata ove “proprio i poteri direttivi di un quotidiano, di un periodico o di un'agenzia potessero essere assunti da un soggetto [...] che per il fatto di non essere iscritto nell'albo non possa essere chiamato a rispondere di fronte all'Ordine per eventuali comportamenti lesivi della dignità sua e dei giornalisti che da lui dipendono”, ma a soddisfare tali ragioni è sufficiente l'iscrizione del direttore e del vicedirettore nell'albo, indipendentemente dal fatto che l'elenco di appartenenza sia quello dei professionisti o dei pubblicisti: le due figure, infatti, rendendo parimenti possibile la vigilanza dell'Ordine – nella quale è dato ravvisare il solo fondamento di legittimità di quell'obbligo –, offrono le stesse garanzie di professionalità ed efficienza. Si discosta dai principi affermati dalla Corte costituzionale, sottolineano le Sezioni Unite, quel filone interpretativo che attribuisce lo status di giornalista al solo giornalista professionista, svalutando la funzione dell'iscrizione del pubblicista nel relativo elenco.
Un ultimo elemento è necessario approfondire, per poter giungere alla risoluzione della controversia. Chiariti quali siano i requisiti necessari e sufficienti ad integrare il carattere professionale dell'attività di giornalista (li si ricorda: continuatività ed onerosità del servizio prestato, a nulla rilevando l'esclusività rispetto ad ulteriori professioni), resta da affrontare la questione relativa alla diversa problematica riguardante le qualifiche e mansioni introdotte dalla contrattazione collettiva. Come si è accennato, l'art. 5 del CNLG richiede, per l'attribuzione della qualifica di redattore, l'iscrizione all'albo nell'elenco dei giornalisti professionisti; la giurisprudenza della Corte di cassazione ne ha ulteriormente delineato la figura, precisando che al redattore è richiesta una quotidianità dell'impegno e un inserimento concreto ed effettivo nell'organizzazione necessaria per la compilazione del giornale, vale a dire in quella apposita struttura costituita dalla redazione (Cass. n. 9119 del 2015; Cass. n. 22785 del 2013; Cass. n. 14913 del 2009; Cass. n. 12252 del 2003; Cass. n. 13945 del 2000). L'art. 2 delinea invece la figura del collaboratore fisso: egli è un giornalista la cui prestazione si caratterizza, a differenza di quanto vale per i giornalisti professionisti di cui all'articolo precedente, per l'assenza di quotidianità. L'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato è nondimeno indubbia (v. Cass. n. 29182 del 2018; Cass. n. 11065 del 2014; Cass. n. 5432 del 1997; Cass. n. 6512 del 1990), ove sussistano continuità di prestazione, intesa come svolgimento di un'attività non occasionale rivolta ad assicurare le esigenze formative e informative di uno specifico settore, vincolo di dipendenza, per effetto del quale l'impegno del collaboratore di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro permane anche negli intervalli fra una prestazione e l'altra, e responsabilità di un servizio, che implica la sistematica redazione di articoli su specifici argomenti o rubriche (è appena il caso di notare che, all'evidenza, quanto disposto dalla contrattazione collettiva si coordina perfettamente con il dato normativo, laddove l'art. 1, l. n. 69 del 1963 parla di attività giornalistica non occasionale, retribuita, e non necessariamente esclusiva, potendo il pubblicista esercitare anche altre professioni o impieghi). Le Sezioni Unite procedono a richiamare, a questo punto, quel filone giurisprudenziale che, pur muovendo dalla constatazione dell'esistenza di elementi comuni caratterizzanti le due figure professionali del redattore e del collaboratore fisso, aveva rinvenuto tra esse una differenza qualitativa, più che meramente quantitativa (in relazione alla quotidianità della prestazione; interpretazione, lo si ricorderà, cui aveva aderito Cass. n. 3177 del 2019 per la risoluzione di un caso analogo a quello qui analizzato): il maggior apporto professionale richiesto al redattore rispetto al collaboratore fisso giustifica un rapporto di sovraordinazione dell'uno rispetto all'altro, con la conseguenza che “ben può il giudice di merito, al quale sia stato richiesto in giudizio il riconoscimento della qualifica di redattore, prendere in esame le concrete modalità di esercizio dell'attività lavorativa, così come dedotte dallo stesso lavoratore e risultanti acquisite al giudizio in esito a regolare contraddittorio, al fine del riconoscimento della qualifica di collaboratore fisso, senza che sia perciò configurabile una violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, giacché, in tal caso, il giudice, sulla base degli stessi fatti oggettivi dedotti dal lavoratore, si limita, nell'ambito del principio iura novit curia, ad individuare l'esatta qualificazione giuridica del rapporto di lavoro in contestazione” (Cass. n. 7931 del 2000; Cass. n. 3168 del 1990). Si comprende, allora, in ragione della maggiore esperienza e professionalità che giustificano tale sovraordinazione, la scelta della contrattazione collettiva di attribuire la relativa qualifica al solo giornalista professionista, cui il legislatore, diversamente da quanto previsto per il pubblicista, impone lo svolgimento di un periodo di praticantato e il superamento di una prova di idoneità professionale e richiede l'esclusività della prestazione, stante l'“esigenza di imporre al giornalista con maggiore professionalità di impiegare le sue energie lavorative nell'ambito della sola attività giornalistica”.
In mancanza di analoghe ragioni di convenienza giustificanti la richiesta, nei confronti del collaboratore fisso, di requisiti più stringenti rispetto a quelli previsti dall'art. 2 CNLG, ed in difetto di un'espressa previsione normativa in tal senso, non è dato pretendere dal collaboratore fisso l'esclusività del lavoro giornalistico rispetto ad altre professioni o impieghi. L'esclusività si pone dunque come un quid pluris, necessariamente caratterizzante l'attività del giornalista professionista, ma indifferente alla qualificazione delle ulteriori figure: le Sezioni Unite richiamano in proposito l'orientamento dottrinale secondo cui il pubblicista “può, ma, evidentemente, non deve svolgere altra attività professionale” (Giugni 1973) per affermare analogamente che “il collaboratore fisso può ma non deve essere occupato in altri impieghi o professioni, non essendo la mancanza di esclusività (l'unico) elemento qualificante della sua prestazione”. “Appare così frutto di un salto logico”, si legge a continuazione nella sentenza in commento, “l'opzione interpretativa secondo cui, ove il collaboratore fisso svolga, per ragioni meramente accidentali ed esterne alla tipologia del rapporto di lavoro, attività giornalistica in via esclusiva, egli diventi per così dire ʻdi fattoʼ giornalista professionista, con la conseguente necessità della sua iscrizione nel relativo elenco”.
È a questo punto agevole pervenire alla soluzione della controversia. A motivo di tutto quanto finora osservato, non è condivisibile l'orientamento che ascrive carattere abusivo ai sensi dell'art. 45 della legge professionale all'attività del pubblicista iscritto nel relativo elenco, qualora egli non svolga al contempo ulteriori attività. L'iscrizione all'albo, senza che rilevi alcuna distinzione tra i due diversi elenchi di cui esso si compone, permette di «assumere il titolo» e di «esercitare la professione di giornalista» in via del tutto lecita: “una diversa e più restrittiva interpretazione non risulterebbe coerente con i principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze su richiamate e limiterebbe in modo ingiustificato l'esercizio di un'attività costituzionalmente protetta, creando un'ipotesi di nullità del rapporto di lavoro non sorretta dal dato normativo”.
Tale conclusione è peraltro suffragata dalla recente novella legislativa attuata con l. n. 198 del 2016, il cui art. 5 ha disposto la sostituzione dell'art. 45, l. n. 69 del 1963. Il testo attuale recita: «Art. 45. (Esercizio della professione). Nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista se non è iscritto nell'elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti dell'albo istituito presso l'Ordine regionale o interregionale competente. La violazione della disposizione del primo periodo è punita a norma degli articoli 348 e 498 del codice penale, ove il fatto non costituisca un reato più grave». La nuova formulazione della norma permette di confermare che l'espressione “professione di giornalista” connota oggi, senza distinzioni, l'attività del giornalista professionista e quella del pubblicista, e attribuisce definitivamente il crisma della legittimità all'attività del pubblicista regolarmente iscritto all'albo. Osservazioni
La pronuncia in esame segna una svolta radicale in materia di lavoro giornalistico. Per la prima volta, la Corte riconosce definitivamente la professionalità propria dell'attività prestata dai pubblicisti, valorizzando al contempo il ruolo svolto dall'iscrizione al relativo elenco dell'albo in quanto idonea alla costituzione di un regolare rapporto di lavoro subordinato. Il limite alla libertà di stipulare validi contratti per lo svolgimento della professione giornalistica è finalmente restituito al rispetto di requisiti concernenti il contenuto intrinseco delle mansioni da svolgere, in relazione al livello di professionalità raggiunto dal giornalista il cui nome figuri nell'uno o nell'altro elenco dell'albo, sottraendone le sorti al verificarsi di circostanze estranee al rapporto (contraddistinte, per di più, da una certa dose di aleatorietà) quali la quotidianità dell'impegno e il parallelo svolgimento di professioni o impieghi diversi da quello giornalistico.
L'argomentare delle Sezioni Unite ha il pregio di districare con scrupolo e precisione il portato delle varie fonti che incidono sulla materia, coordinandone le disposizioni. Assume particolare rilievo, in quest'ottica, il richiamo dei principi affermati dalla Corte costituzionale più di cinquant'anni orsono, in precedenza non valorizzati a dovere. Negli arresti nn. 11 e 98 del 1968 la Consulta aveva mosso dallo scopo proprio della Legge Professionale, emanata per rispondere alle esigenze di tutela di una particolare categoria – quella dei giornalisti –, per affermare che gli impedimenti da essa posti allo svolgimento di determinate mansioni non rispondono alle ragioni “di un pubblico interesse nè, a maggior ragione, di un interesse generale di grado tale da giustificare l'intervento della legge, la quale, quando si tratti di disciplinare l'esercizio di una libertà fondamentale, non può porre limitazioni che non siano in funzione della tutela di interessi direttamente rilevanti sul piano costituzionale”: nel rifarsi a tale insegnamento la Corte di legittimità sembra voler sottolineare che, se non può essere la legge a recare un vulnus alla libertà di stampa, garantita dall'art. 21 Cost., che non sia sotteso alla salvaguardia di più generali interessi pubblici, non si vede come esso possa nascere in via interpretativa. È per questa via ancora una volta confermata l'insussistenza di un'opzione interpretativa (“frutto di un salto logico”, nelle parole del collegio giudicante) che, ravvisando, senza essere sorretta dal dato normativo, una causa di nullità del contratto nel mancato svolgimento di ulteriori impieghi, limita in modo ingiustificato l'esercizio di un'attività costituzionalmente protetta.
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