La responsabilità personale del liquidatore ex art. 2495, comma 2, c.c. verso i creditori sociali dopo l'estinzione della società
08 Luglio 2020
Massima
Sussiste la responsabilità personale illimitata (extracontrattuale) dell'ex liquidatore nei confronti dei creditori sociali insoddisfatti qualora, dopo la cancellazione della società dal Registro delle Imprese, il terzo leso nei propri diritti creditori verso la società estinta dimostri in giudizio la sussistenza del proprio credito, certo, liquido ed esigibile al tempo della liquidazione, il danno subìto per effetto del comportamento doloso/colposo dell'ex liquidatore che abbia omesso di effettuare una completa ricognizione dei crediti/debiti sociali esistenti al tempo della liquidazione, con conseguente omessa considerazione del credito che è stato pretermesso e/o nell'aver violato il principio della par condicio creditorum senza tenere in dovuto conto le legittime cause di prelazione oppure effettuando pagamenti preferenziali, nonché il nesso causale tra il danno lamentato e il comportamento doloso/colposo dell'ex liquidatore nei termini appena indicati; l'ex liquidatore chiamato in causa potrà fornire la prova liberatoria dimostrando che l'insussistenza, nel bilancio finale di liquidazione, di massa attiva utile a soddisfare il creditore che lamenta la lesione del proprio diritto, non è dipesa da propri comportamenti omissivi/commissivi che abbiano cagionato la lesione della par condicio creditorum e/o pagamenti preferenziali e/o una incompleta ricognizione dei debiti/crediti sociali, di talchè non potrà essere ritenuto personalmente responsabile verso il creditore sociale insoddisfatto. Il caso
Con ricorso depositato presso la Suprema Corte di Cassazione, la Fondazione Enasarco ricorreva avverso la sentenza della Corte d'Appello di Roma che aveva riformato la sentenza di I grado del Tribunale adito da Enasarco, nella sua qualità di creditore privilegiato ex artt. 2753, 2754 c.c., per far accertare la responsabilità, ai sensi del comma 2 dell'art. 2495 c.c., dell'ex liquidatore di una società di capitali, sotto diversi profili: - il liquidatore avrebbe omesso di considerare il credito privilegiato di Enasarco, neppure appostato nel bilancio finale di liquidazione sebbene sussistente già in fase liquidatoria, circostanza della quale il liquidatore era consapevole, così come risultava per tabulas; - il liquidatore avrebbe utilizzato ed esaurito i proventi della liquidazione della massa attiva della società per pagare alcuni altri creditori sociali, violando il principio della par condicio creditorum avendo omesso di pagare il creditore privilegiato Enasarco nel rispetto delle legittime cause di prelazione; - il liquidatore non avrebbe attivato la procedura di fallimento in proprio ex art. 6 e 14 l.fall. (versione ante 2006), nonostante la società versasse in grave stato di insolvenza già in fase liquidatoria, e avesse anche perso tutto il capitale sociale, mentre la procedura fallimentare avrebbe (in astratto) consentito di evitare il danno lamentato da Enasarco poiché l'attivo risultante dalla liquidazione del patrimonio sociale avrebbe dovuto essere ripartito dal liquidatore nel rispetto del principio obbligatorio (in fase concorsuale) della par condicio creditorum. Enasarco quantificava il danno subìto per effetto della condotta colposa dell'ex liquidatore nell'importo del proprio credito pretermesso. Il Tribunale riteneva l'ex liquidatore responsabile verso Enasarco poiché, pur essendo emerso che fosse a conoscenza dell'esistenza, al tempo della liquidazione, del credito privilegiato vantato dalla Fondazione, aveva omesso di appostarlo nel bilancio finale e non lo aveva pagato, neppure parzialmente; contemporaneamente, l'ex liquidatore non aveva assolto al proprio dovere di avviare la procedura fallimentare in proprio, visto che la società, già dall'apertura della fase liquidatoria volontaria, versava in stato di grave insolvenza: così facendo, l'ex liquidatore avrebbe violato l'obbligo giuridico che, secondo il Tribunale, gravava sul medesimo in una situazione di tal specie e veniva quindi condannato a risarcire a Enasarco il danno subìto per effetto della propria condotta censurabile, corrispondendo al creditore pretermesso l'importo equivalente al suo credito. L'ex liquidatore impugnava la sentenza di primo grado e la Corte d'Appello di Roma riformava la sentenza del Tribunale rigettando la domanda di Enasarco sulla base delle seguenti osservazioni: i) trattandosi di responsabilità extracontrattuale, l'onere della prova imponeva al creditore che assumeva di essere stato pretermesso di dimostrare il comportamento attivo/omissivo, doloso/colposo, dell'ex liquidatore, il danno subìto e il nesso causale tra il comportamento censurabile del liquidatore e il danno: ebbene, la Corte d'Appello riteneva che il creditore non avesse fornito la prova del danno subìto, poiché nel bilancio finale di liquidazione non risultava nessuna somma a titolo di attivo patrimoniale residuo da poter distribuire a terzi e, eventualmente, ai soci; ii) non si poteva ravvisare alcuna responsabilità dell'ex liquidatore verso il creditore che lamentava di essere stato pretermesso poiché il mancato pagamento era dipeso dalla mancanza di attivo residuo, così come risultava dal bilancio finale di liquidazione e, dunque, non sussisteva alcun danno risarcibile; iii) quanto all'omessa attivazione della procedura di fallimento in proprio, l'ex liquidatore non poteva essere ritenuto responsabile sotto tale profilo, poiché il creditore non aveva fornito la prova che la procedura concorsuale avrebbe consentito (in concreto, nel caso specifico) l'effettivo pagamento del suo credito. Contro la sentenza della Corte d'Appello ricorreva in Cassazione la Fondazione Enasarco concentrandosi su due rilievi in particolare: 1) l'attivo ricavato dalla liquidazione del patrimonio sociale sarebbe stato ripartito dall'ex liquidatore tra i vari creditori omettendo di considerare il credito privilegiato di Enasarco, dunque con violazione del principio della par condicio creditorum nel rispetto delle legittime cause di prelazione, a prescindere dalla circostanza, ritenuta irrilevante, della mancata appostazione del credito medesimo nel bilancio finale di liquidazione, stante la dimostrata conoscenza da parte del liquidatore della sussistenza del credito in questione; 2) i giudici di appello non avrebbero considerato un documento fondamentale, ovvero il verbale di assemblea di approvazione del bilancio finale di liquidazione dal quale emergeva sia che il liquidatore era consapevole del grave stato di insolvenza in cui versava la società sia che l'esaurimento dell'attivo patrimoniale ricavato in fase liquidatoria - rivelatosi insufficiente a soddisfare tutti i creditori secondo le rispettive della cause di prelazione - era conseguenza dell'utilizzo del medesimo per diminuire il più possibile l'esposizione debitoria della società, dunque per pagare alcuni debiti sociali (ma non il debito/credito privilegiato verso/di Enasarco). Da parte sua, l'ex liquidatore si limitava a sottolineare la circostanza della mancanza di attivo residuo da ripartire tra i creditori ed, eventualmente, tra i soci sulla base delle risultanze del bilancio finale di liquidazione, senza entrare nel merito delle dinamiche e delle scelte adottate in fase liquidatoria che avevano portato, appunto, all'esaurimento dell'attivo patrimoniale ricavato dalla vendita dei beni sociali, di talchè, visto che Enasarco non avrebbe potuto beneficiare di alcuna somma residua per ottenere il soddisfacimento del proprio credito, così come risultava dal bilancio finale, visto che i soci non avevano percepito alcuna somma a titolo di riparto finale, e visto che i soci medesimi non avevano voluto ripianare le perdite, alcuna responsabilità poteva essere a sé medesimo addebitata per il mancato pagamento del debito sociale verso Enasarco. L'ex liquidatore eccepiva, infine, che non gravava sul medesimo alcun obbligo giuridico di attivare la procedura di fallimento in proprio della società, visto che non vi erano stati indici di aggravamento del dissesto patrimoniale societario in fase liquidatoria.
Le questioni
La Corte di Cassazione, innanzitutto, concorda con la Corte d'Appello circa l'insussistenza, in capo all'ex liquidatore, dell'obbligo di avviare la procedura fallimentare in proprio solo sulla base della circostanza che la società in liquidazione versasse in stato di grave insolvenza, poiché sarebbe stata necessaria la dimostrazione - con onere della prova a carico del creditore, nel caso di specie - che la mancata dichiarazione di fallimento e, dunque, la continuazione della liquidazione volontaria, aveva prodotto un aggravamento del dissesto rilevante in sede penale. In secondo luogo, la Suprema Corte si sofferma sul concetto di responsabilità “illimitata” dei liquidatori verso i creditori sociali insoddisfatti anche dopo la cancellazione della società, ai sensi del II comma dell'art. 2495 c.c., ribadendo che la fonte generatrice di siffatta responsabilità “illimitata” è il comportamento doloso/colposo del liquidatore che si ponga in contrasto con il dovere di conservazione, di non dispersione e di massimizzazione del patrimonio sociale che viene man mano liquidato, che deve essere destinato in primis al soddisfacimento dei creditori sociali secondo le rispettive cause di prelazione e, successivamente, qualora sia possibile, alla ripartizione tra i soci dell'attivo residuo. La Corte assimila quindi la tipologia di rischi e di oneri che assumono i liquidatori con l'accettazione dell'incarico a quella degli amministratori che, verificatasi una causa di scioglimento della società, devono accertarla senza indugio e adottare ogni provvedimento consequenziale, così come stabilito dal I comma dell'art. 2485 c.c, e mantengono solo il potere di “gestire la società conservando l'integrità e il valore del patrimonio sociale” ex art. 2486, comma 1, c.c. La Corte richiama quindi gli artt. 2487, 2489, 2491 c.c. che disciplinano poteri, doveri, responsabilità, dei liquidatori e i criteri che presiedono lo svolgimento della liquidazione per riaffermare che la garanzia per i creditori sociali del soddisfacimento dei propri diritti di credito è costituita dal patrimonio della società, anche in fase di liquidazione, e il liquidatore deve quindi orientarsi, nelle proprie scelte, secondo il principio della par condicio creditorum il quale, seppur non ancora codificato dal legislatore tra le norme di settore che regolano la fase di liquidazione volontaria delle società, non può che essere considerato vigente anche in tale fase, così come vige in fase fallimentare, valendo come “criterio generale per disciplinare la fase di pagamento dei debiti sociali nel corso della liquidazione”. Da tale premessa, consegue l'obbligo per il liquidatore di rispettare la par condicio creditorum nello svolgimento della propria attività. La Suprema Corte richiama quindi l'attuale giurisprudenza di merito in materia che si esprime nel senso appena indicato, ritenendo sussistente la responsabilità personale del liquidatore che non rispetti tale principio pretermettendo, ad esempio, un creditore privilegiato, oppure effettuando pagamenti preferenziali (parziali o integrali) all'interno di una stessa categoria di creditori, a scapito di alcuni di loro. Il risarcimento del danno è parametrato sulla base della somma che il creditore leso avrebbe invece percepito qualora il liquidatore fosse stato ossequioso ai criteri espressi nell'art. 2741 c.c., ovviamente in proporzione alla capienza della massa attiva liquidata. La Suprema Corte prosegue nel precisare che, attività prodromica ed essenziale per poter applicare la par condicio creditorum nel pagamento dei debiti sociali è l'accertamento di questi ultimi, obbligo del liquidatore, da effettuarsi anche “riparando gli eventuali errori od omissioni commessi dagli amministratori cessati dalla carica nel rappresentare la situazione contabile e patrimoniale della società, riconoscendo debiti eventualmente non appostati nei bilanci”; una volta effettuata una corretta e completa ricognizione dei debiti sociali, il liquidatore dovrà graduare i rispettivi crediti secondo le legittime cause di prelazione e procedere di conseguenza con i pagamenti dei creditori sociali nel rispetto della par condicio creditorum. Venendo al caso specifico sottoposto alla sua attenzione, la Corte di Cassazione rileva, innanzitutto, che il credito della ricorrente Enasarco è pacificamente assistito da privilegio generale mobiliare ai sensi degli artt. 2753 e 2754 c.c. e che, quindi, avrebbe dovuto essere pagato con l'attivo patrimoniale ricavato durante la liquidazione nel rispetto della relativa causa di prelazione; in secondo luogo, la Corte riconosce che l'ex liquidatore era consapevole della sussistenza di tale credito privilegiato in fase liquidatoria (sulla base della valutazione della Corte di merito non sindacabile in sede di legittimità) e, ciò nonostante, non lo ha pagato, neppure parzialmente, avendo però egli pagato – come dallo stesso liquidatore dichiarato in occasione dell'assemblea di approvazione del bilancio finale di liquidazione – alcuni altri crediti sociali, pagamenti che hanno comportato l'azzeramento dell'attivo nel corso della liquidazione, conducendo all'azzeramento di ogni attivo disponibile nel bilancio finale, in tal modo precludendo sia il pagamento di altri creditori sociali sino a quel momento non soddisfatti che l'eventuale riparto del residuo tra i soci. Quanto all'onere della prova, la Cassazione ribadisce quanto già osservato dalla Corte d'Appello ponendo a carico del creditore che agisce contro l'ex liquidatore la dimostrazione (i) della sussistenza del proprio credito, esistente, liquido ed esigibile, in fase liquidatoria; (ii) della condotta dolosa/colposa del liquidatore (i.e.: violazione del principio della par condicio creditorum) che costituisce inadempimento agli obblighi assunti con l'accettazione della nomina, con causazione del danno (credito ingiustamente pretermesso) e (iii) del nesso causale tra la predetta condotta del liquidatore e il danno subìto dal creditore, ma si discosta poi dalle conclusioni raggiunte dalla Corte di merito. La Suprema Corte, infatti, non ritiene rilevante né la sussistenza o meno di un residuo attivo che risulti dal bilancio finale di liquidazione, né la circostanza che il credito pretermesso, corrispondente al debito sociale non pagato, sia o non sia stato appostato nel bilancio finale, quanto piuttosto l'allegazione e la deduzione, da parte del creditore che agisce contro l'ex liquidatore, delle condotte di quest'ultimo che hanno violato la par condicio creditorum. L'ex liquidatore, da parte sua, per esimersi da ogni responsabilità, deve dimostrare di aver correttamente adempiuto ai propri obblighi agendo in fase liquidatoria nel rispetto della par condicio creditorum per quanto concerne il pagamento dei debiti sociali, dimostrando altresì di aver preliminarmente effettuato una completa e corretta ricognizione di tutti i debiti sociali sussistenti all'apertura della liquidazione, anche controllando i dati fornitigli dagli amministratori cessati dalla carica. La Suprema Corte conclude quindi dichiarando di non condividere l'affermazione, errata, della Corte d'appello che ha ritenuto insussistente un danno risarcibile in capo al creditore pretermesso limitandosi alle risultanze del bilancio finale di liquidazione, ove non figurava un attivo residuo da ripartire; di non condividere l'affermazione per cui il creditore pretermesso avrebbe dovuto provare come il suo credito sarebbe invece stato soddisfatto, in tutto o in parte, all'interno della procedura concorsuale, non attivata dall'ex liquidatore, al fine di dimostrare la condotta colposa di quest'ultimo, poiché l'inadempimento del liquidatore era già apparentemente dimostrato dall'aver egli esaurito l'attivo in fase liquidatoria pagando alcuni debiti sociali e pretermettendo, per intero, un credito privilegiato come quello di Enasarco. Infatti, ragiona la Corte, se il mancato pagamento del credito di Enasarco è stato cagionato da una condotta colposa del liquidatore posta in essere volando il principio della par condicio creditorum in fase liquidatoria, l'ex liquidatore deve essere ritenuto responsabile di tale proprio inadempimento. Ebbene, la Corte d'Appello avrebbe completamente trascurato di valutare e accertare proprio questo aspetto, limitandosi a considerare la circostanza del mancato appostamento del credito di Enasarco nel bilancio finale di liquidazione in uno con la mancanza di residuo attivo da ripartire prima della cancellazione della società, per dedurre l'insussistenza di un danno risarcibile in capo al creditore pretermesso. In conclusione, la Suprema Corte enuncia dunque il seguente principio di diritto: “In tema di responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società, ex art. 2495 c, comma 2, cod. civ., il conseguimento, nel bilancio finale di liquidazione, di un azzeramento della massa attiva non in grado di soddisfare un credito non appostato nel bilancio finale di liquidazione, ma comunque provato quanto alla sua sussistenza già nella fase di liquidazione, è fonte di responsabilità illimitata del liquidatore verso il creditore pretermesso, qualora sia allegato e dimostrato che la gestione operata dal liquidatore evidenzi l'esecuzione di pagamenti in spregio del principio della par condicio creditorum, nel rispetto delle cause legittime di prelazione ex art. 2741, secondo comma, cod. civ.. Pertanto, ove il patrimonio si sia rivelato insufficiente per soddisfare alcuni creditori sociali, il liquidatore, per liberarsi dalla responsabilità su di lui gravante in riferimento al dovere di svolgere un' ordinata gestione liquidatoria del patrimonio sociale destinato al pagamento dei debiti sociali, ha l'onere di allegare e dimostrare che l' intervenuto azzeramento della massa attiva tramite il pagamento dei debiti sociali non è riferibile a una condotta assunta in danno del diritto del singolo creditore di ricevere uguale trattamento rispetto ad altri creditori, salve le cause legittime di prelazione ex art. 2741, cod. civ.”e rinvia alla Corte d'Appello di Roma, in diversa composizione, affinchè esamini proprio la condotta dell'ex liquidatore alla luce dei principi enunciati e ai conseguenti oneri probatori.
Osservazioni
L'ordinanza in commento afferma a chiare lettere la valenza del principio della par condicio creditorum anche in fase liquidatoria, imponendo al liquidatore l'obbligo di rispettare tale principio nell'adempimento dei propri doveri di conservazione del patrimonio sociale in vista della liquidazione al meglio del medesimo e di utilizzazione di quanto ricavato per garantire, in primis, il soddisfacimento dei creditori sociali secondo le rispettive cause di prelazione, a maggior ragione nel caso in cui la procedura liquidatoria preveda la cessazione totale dell'attività d'impresa senza esercizio provvisorio. Già negli anni passati la giurisprudenza di merito (ad esempio: Tribunale di Genova, sentenza n. 1125 del 2 aprile 2013; Tribunale di Milano, Sez. Spec. in materia di Impresa B: sentenza n. 9972 del 6 agosto 2014; sentenza n. 7265 del 12 giugno 2015; sentenza n. 10635 del 23 settembre 2015; sentenza n. 4509 del 21 aprile 2017; sentenza n.6 del 2 gennaio 2019: “Ai fini della quantificazione del danno arrecato al patrimonio sociale è qui sufficiente richiamare quanto già affermato, nel senso che il danno subito dai creditori a seguito di pagamenti preferenziali fatti in violazione della par condicio creditorum da amministratori e liquidatori di una società dopo che il patrimonio della medesima sia divenuto insufficiente rispetto alla massa dei creditori, è danno specifico e diretto corrispondente alla minore misura in cui ciascuno dei creditori potrà concorrere sull'attivo liquidato, che dà luogo al diritto di risarcimento di cui all'art. 2395 c.c”) aveva affermato la necessità di applicare il principio espresso nell'art. 2741 c.c. anche alla fase liquidatoria, al fine di garantire i creditori sociali nei propri diritti verso la società debitrice che versa ormai in stato di insolvenza, magari grave, magari con perdita totale del capitale sociale, magari senza che sia stata prevista la prosecuzione, neppure parziale, dell'attività d'impresa in fase liquidatoria ai sensi dell'art. 2487, comma 1, lett.c), c.c.. Quanto alla dichiarata insussistenza, nella pronuncia in commento, dell'obbligo del liquidatore di attivare il fallimento in proprio (rectius, oggi: la procedura di liquidazione giudiziale), pur innanzi a una società che versi in stato di grave insolvenza, tale dictum deriva proprio dal principio – parimenti affermato – del doveroso rispetto della par condicio creditorum anche in fase liquidatoria volontaria: infatti, qualora il liquidatore si mostri ossequioso a tale principio, anche se la società versa in grave stato di insolvenza ma non si manifesta un aggravamento del dissesto procedendo con la liquidazione, non sussiste l'obbligo di avviare la procedura concorsuale, ritenendosi che i creditori sociali possano essere adeguatamente tutelati nei propri diritti anche in fase liquidatoria volontaria sulla scorta dell'obbligo imposto al liquidatore di procedere nei pagamenti secondo la par condicio. L'ordinanza in commento si dissocia quindi dai due risalenti precedenti di legittimità (Cass. 25 marzo 1970, n. 792, Foro it., Rep. 1970, voce Società, n. 390; Cass. 26 aprile 1968, n. 1273, Foro it., Rep. 1968, voce Società, n. 306) nei quali, diversamente, il liquidatore era stato ritenuto non responsabile delle accuse sollevate nei suoi confronti da un creditore privilegiato (assistito da privilegio generale mobiliare) rimasto insoddisfatto in fase di liquidazione volontaria sulla base del principio per cui un siffatto tipo di privilegio può attribuire al diritto di credito che ne è assistito un diritto di soddisfazione sul patrimonio sociale poziore rispetto ad altri diritti di credito solo in fase concorsuale e non di liquidazione volontaria. Infatti, quest'ultima era ritenuta una fase della vita della società predisposta nell'interesse dei soci e non a tutela della par condicio creditorum, così come affermano i due autorevoli precedenti citati: “La liquidazione ordinaria della società non ha lo scopo di tutelare la par condicio creditorum ma quello di definire i rapporti in corso, sottoponendo indistintamente tutti i creditori, privilegiati e chirografari, al medesimo trattamento e mettendoli in grado di essere pagati, entro i limiti delle concrete disponibilità patrimoniali, via via che si presentano ad esigere quanto è loro dovuto”. Ebbene, la pronuncia in esame ritiene non condivisibile un siffatto contesto in fase liquidatoria. In merito, autorevole dottrina (G. Niccolini, Foro it., marzo 2020, n. 3, 908-924) argomenta non condividendo l'enunciato principio che impone al liquidatore il rispetto della par condicio creditorum secondo le legittime cause di prelazione: proprio l'art. 2741 c.c., infatti, lascerebbe il debitore che non sia sottoposto a una procedura concorsuale o esecutiva individuale libero di pagare uno o l'altro dei suoi creditori e non sarebbe configurabile, in fase liquidatoria, una posizione di preminenza del creditore munito di titolo poziore tale da far ritenere indebito il pagamento effettuato in favore del creditore munito di titolo inferiore. La dottrina citata non condivide l'assunto, che sta a base dell'ordinanza in commento, della “staticità” del patrimonio della società in liquidazione, principio dal quale la suprema Corte fa derivare l'esigenza di rispettare la par condicio creditorum anche in fase di liquidazione volontaria: anche in fase liquidatoria, si sostiene ex adverso, vi può essere esercizio di attività imprenditoriale, pur volta alla liquidazione dell'attivo cercando di ottimizzare al massimo i profitti e di ottenere dai creditori le migliori condizioni di pagamento dei debiti sociali, così come previsto anche agli artt. 2487, comma 1, lett. c) e 2490, comma 5, c.c. L'ordinanza in commento sottolinea inoltre come sia necessario fornire la prova, da parte del creditore che agisce, della certezza, liquidità, esigibilità del proprio credito pretermesso, al tempo della liquidazione (in tal senso richiamando le note pronunce delle SS.UU. del 12 marzo 2013 nn. 6070, 6071, 6072 che chiariscono, tra le altre cose, l'irrilevanza delle “mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio” e dei “diritti di credito ancora incerti o illiquidi”) e, una volta fornita tale prova, è irrilevante che tale credito non sia stato appostato nel bilancio finale di liquidazione e tale eventuale omissione non può certo, di per sé, dimostrare l'insussistenza del danno lamentato. Particolarmente rigoroso, inoltre, risulta il compito assegnato al liquidatore che, nell'effettuare la ricognizione dei debiti sociali prima di procedere ai relativi pagamenti secondo la par condicio creditorum e il rispetto delle cause di prelazione, ha l'onere anche di riparare “gli eventuali errori od omissioni commessi dagli amministratori cessati dalla carica nel rappresentare la situazione contabile e patrimoniale della società, riconoscendo debiti eventualmente non appostati nei bilanci”: al liquidatore viene dunque imposta indubbiamente una diligenza professionale qualificata stringente. Conclusioni
A parere di chi scrive, l'ordinanza in commento è senz'altro condivisibile, pur dovendosi bilanciare certi principi alla luce delle esigenze concrete che in fase liquidatoria sono solite emergere, così come evidenziato anche da G. Niccolini, Foro it., marzo 2020, n.3, pp. 908-924. In particolare, pare doveroso imporre al liquidatore il rispetto della par condicio creditorum secondo le legittime cause di prelazione come generale modus procedendi nel pagare i debiti della società che si trova nella fase di liquidazione – volontaria – del proprio patrimonio al fine di tutelare le ragioni dei soggetti terzi – i creditori – che hanno dato fiducia alla società già nella fase “dinamica” della stessa e ora, nella fase “statica” (anche in caso di esercizio provvisorio, infatti, l'attività d'impresa residua, in genere parziale, che perdura, è volta esclusivamente a preservare il valore aziendale massimizzando i ricavi della liquidazione, non è tesa a creare nuova ricchezza, in senso dinamico) devono necessariamente essere garantiti nella soddisfazione dei propri diritti in base a un ordine di preferenza che sia certo e obbligatorio. Ciò premesso, tale principio dovrebbe essere contemperato con l'esigenza di evitare che la fase liquidatoria volontaria, che consente, in concreto, di trarre dalla liquidazione dei beni sociali profitti senz'altro migliori rispetto a quanto accade in fase concorsuale, nell'interesse di tutti i creditori e della società stessa, sia interrotta e convertita in liquidazione giudiziale a seguito, ad esempio, dell'iniziativa in tal senso intrapresa da uno o più creditori chirografari che ritengano di non essere adeguatamente tutelati in fase liquidatoria, se al liquidatore viene imposto di seguire, in maniera troppo rigida, cieca, il principio della par condicio e della cause di prelazione Infatti, può ben accadere, ad esempio, che sussista un debito sociale scaduto, con correlato diritto di credito non assistito da privilegio, e che il creditore non privilegiato esiga dal liquidatore l'immediato pagamento: ebbene, qualora il patrimonio sociale da liquidare sia costituito, ad esempio, soltanto da beni immobili assistiti da ipoteca a vantaggio di un terzo creditore, applicando rigidamente il criterio della par condicio creditorum alla luce delle rispettive cause di prelazione, il liquidatore non potrebbe pagare, neppure parzialmente, con parte dei profitti ottenuti dalla vendita di un bene ipotecato, il creditore chirografario e, dunque, il correlato debito sociale scaduto. Il creditore chirografario potrebbe dunque minacciare di far fallire la società e, in caso di perdurante diniego del liquidatore, potrebbe effettivamente procedere in tal senso vanificando il piano liquidatorio e i risultati sino a quel momento ottenuti, sottoponendo la liquidazione del patrimonio sociale alla procedura concorsuale con – come in concreto avviene – ricavi nettamente inferiori dalla vendita dei beni sociali, a danno di tutti i creditori, della società medesima e, finanche, dei soci. Pare dunque senz'altro necessario imporre al liquidatore l'obbligo di seguire il principio di cui all'art. 2741 c.c. nella fase di liquidazione volontaria, consentendogli però – senza incorrere in responsabilità – di contemperare tale principio con l'esigenza di portare al termine la liquidazione volontaria della società soddisfacendo le pretese dei diversi creditori alla luce della massimizzazione dei ricavi, a maggior ragione quando è chiaro che il patrimonio sociale liquidato non sarà sufficiente per soddisfare tutti i creditori: ad esempio, nel caso sopra delineato, ben potrebbe il liquidatore, innanzi al creditore chirografario che minaccia di far fallire la società se non viene pagato subito il suo debito scaduto, chiedere al creditore ipotecario il consenso (scritto) per poter pagare, con parte dei ricavi ottenuti dalla liquidazione di un bene ipotecato, una parte del debito scaduto, proponendo al creditore chirografario in questione di accettare una transazione sul punto, che andrebbe a favore della società e, dunque, complessivamente, anche degli altri creditori sociali; qualora esistano, poi, altri creditori chirografari - e correlati debiti scaduti - che abbiano richiesto parimenti il pagamento, acquisito sempre il previo consenso del creditore ipotecario, il liquidatore potrebbe pagare parzialmente (in misura eguale tra loro) anche questi altri creditori, transando anche con loro il relativo debito sociale. Per questi creditori chirografari il vantaggio sarebbe costituito dal ricevere da parte della società un pagamento immediato, seppur parziale, del debito scaduto, a fronte di nessun pagamento in fase concorsuale. Il vantaggio economico per la società sarebbe costituito dall'importo inferiore pagato per tali debiti scaduti, a seguito delle transazioni siglate con i rispettivi creditori chirografari, inoltre, la società eviterebbe di essere sottoposta a una procedura concorsuale. Da parte sua, il creditore ipotecario che acconsentisse a destinare parte dei ricavi della liquidazione dei beni ipotecati a tacitare le ragioni dei creditori chirografari che si sono attivati, pagando parzialmente i rispettivi debiti scaduti, potrebbe proseguire a vendere i beni immobili ipotecati in fase di liquidazione volontaria, ove essi – generalmente – sono allocati sul mercato a condizioni ben più vantaggiose di quanto accade in fase di liquidazione giudiziale, così potendo continuare a massimizzare i ricavi. L'imposto principio della par condicio creditorum alla luce delle cause di prelazione dovrebbe, in sintesi, a parere di chi scrive, poter essere derogato dal liquidatore in casi particolari, nei quali una eccessiva rigidità potrebbe portare a esiti economici svantaggiosi per gli stessi diritti creditori e per la società; la deroga dovrebbe essere fondata su una solida motivazione, nella quale il liquidatore spieghi, in fatto e in diritto, le ragioni che impongono un discostamento dalla par condicio e dovrebbe altresì essere sostenuta dal consenso (scritto) del/dei creditore/i privilegiato/i che legittima una tale deviazione dal rigido parametro di cui all'art. 2741 c.c. Ebbene, esaurita la liquidazione, estinta la società, il liquidatore non dovrebbe quindi essere ritenuto responsabile in una eventuale causa contro di lui incardinata da, ad esempio, un creditore chirografario che lamenti il mancato pagamento del correlato debito sociale scaduto al tempo della liquidazione, qualora tale creditore non si sia allora attivato, così come gli altri creditori chirografari, richiedendo il pagamento del proprio credito; così come non dovrebbe essere ritenuto responsabile per aver (motivatamente, ut supra) derogato alla par condicio/cause di prelazione il liquidatore che abbia dato seguito alla richiesta di pagamento parziale – in base a transazione con la società – di un credito chirografario correlato a un debito sociale scaduto in epoca precedente a un credito privilegiato che sia venuto a scadenza successivamente ad esso, in tal modo armonizzando il principio della par condicio creditorum con le esigenze effettive, pratiche, che connotano la fase di liquidazione volontaria delle società.
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