Sulla liquidazione del danno biologico in ipotesi di danno non contemplato dalle tabelle

31 Luglio 2020

Il risarcimento del danno non patrimoniale deve tenere conto o deve prescindere dalla effettiva durata della condizione minorativa del danneggiato, poi definitivamente venuta meno con il decesso?
Massima

In tema di risarcimento del danno biologico, laddove il giudice di merito si trovi di fronte ad un'ipotesi non contemplata dalle tabelle ritenute idonee per la liquidazione, è tenuto a fornire specifica indicazione degli elementi della fattispecie concreta considerati, ritenuti essenziali alla valutazione del danno e giustificativi del criterio di stima adottato, ben potendo ricorrere anche al sistema tabellare come base di calcolo e dando congrua rappresentazione delle modifiche apportate.

Il caso

Nel caso di specie, il Tribunale di Macerata, in primo grado, condannava in solido il conducente di un'auto, la proprietaria e la Compagnia assicurativa al risarcimento dei danni cagionati ad una donna investita dal veicolo medesimo mentre camminava lungo la strada, la quale decedeva nel corso del processo dopo 810 giorni di coma.

Il Tribunale, in particolare, riconoscendo la responsabilità esclusiva in capo all'automobilista, liquidava agli eredi della donna il danno non patrimoniale secondo i criteri delle Tabelle di Milano edite nell'anno 2006 (essendo stato corrisposto in tale anno dalla Compagnia assicurativa della RCA, l'acconto di Euro 100.000,00 a valere sul risarcimento complessivo), tenendo conto del grado massimo di invalidità permanente (in quanto la danneggiata era stata ridotta in coma irreversibile), e dell'aspettativa di vita media della persona offesa che, al momento del sinistro, aveva 87 anni (ciò in quanto la morte, intervenuta nel corso del processo all'età di 90 anni, non era da ritenere eziologicamente riconducibile al fatto lesivo); aveva inoltre aumentato del 50% il valore del punto base per l'accertato danno morale. Sulla complessiva somma di Euro 495.276,17 - liquidata a valori 2006 e previa detrazione dell'acconto già ricevuto - aveva poi riconosciuto la rivalutazione monetaria dal 17 dicembre 2006 fino alla data della sentenza (pubblicata il 22 settembre 2010), nonchè gli interessi al tasso legale sulla somma annualmente rivalutata, oltre ulteriori interessi maturati sulla predetta somma.

La Corte d'Appello di Ancona - investita dalla impugnazione proposta dal conducente, dalla proprietaria e dalla Società assicurativa soccombenti - con sentenza del 12 luglio 2017, n. 1066, confermava la condanna al risarcimento del danno patrimoniale e del danno biologico subìto dalla donna, in quanto la durata in vita della stessa, in stato di coma per 810 giorni dalla data del sinistro, consentiva di ravvisare quell'apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni e l'exitus necessario all'accertamento ed alla valutazione di uno status minorativo della capacità biologica e dinamico-relazionale del soggetto; tuttavia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, correggeva il criterio di liquidazione del danno biologico jure hereditatis: anzichè utilizzare i valori tabellari corrispondenti al grado del 100% di invalidità permanente di un soggetto di anni 87, ricorreva ad un distinto calcolo, ritenuto più aderente ad esprimere il valore del danno in considerazione della "effettiva durata della vita" della vittima, deceduta ad anni 90. A tal fine, applicava il valore massimo tabellare giornaliero corrispondente all'inabilità temporanea assoluta (euro 145,00: Tabelle milanesi anno 2006, incrementato fino ad Euro 150,00 in dipendenza del periodo trascorso dal 2006 fino alla data di elaborazione delle più recenti Tabelle milanesi edite nel 2014); e, in considerazione dell'intensità ed entità del danno della donna rimasta in coma, adeguava detto importo alla peculiarità del caso concreto, incrementandolo del 50% (misura massima prevista in Tabella). La Corte d'appello procedeva poi alla aestimatio moltiplicando tale importo per gli 810 giorni in cui era rimasta in vita la danneggiata (ossia dalla data del sinistro, fino all'exitus avvenuto in data 18 marzo 2008), e detraendo infine le somme già corrisposte agli eredi della donna.

Ritenendo quindi di dover commisurare l'entità del danno alla durata della vita effettiva ed al valore monetario pro die della inabilità temporanea assoluta (aggiornato in relazione al tempo trascorso dal primo grado ed incrementato nella misura massima del 50%, avuto riguardo alla intensità ed entità del danno), e non già, invece, ai valori tabellari previsti per la invalidità permanente, il giudice d'appello ha inoltre ritenuto la liquidazione onnicomprensiva anche del danno da sofferenza interiore, avendo il CTU rilevato che, nel corso del tempo, si erano manifestati lievi miglioramenti dello stato comatoso che inducevano a ritenere che la donna avesse sviluppato una pur minima percezione della gravità della propria condizione. Confermava tuttavia il criterio di rivalutazione e di ristoro del danno da ritardata disponibilità della somma spettante agli eredi della danneggiata, mediante il calcolo degli interessi al tasso legale sull'importo annualmente via via rivalutato.

Avverso questa sentenza, gli eredi e i familiari della danneggiata proponevano ricorso per Cassazione.

La questione

La Suprema Corte, in questa pronuncia, torna a parlare del risarcimento del danno spettante alla vittima di sinistro stradale mortale, in cui la morte sia seguita dopo un lungo, o per lo meno apprezzabile, lasso temporale e sia avvenuta per una causa non riconducibile al fatto dannoso originario.

La pronuncia si concentra interamente sulla quantificazione e sulla liquidazione del danno non patrimoniale, cercando di rispondere al seguente quesito: il risarcimento del danno non patrimoniale deve tenere conto o deve prescindere dalla effettiva durata della condizione minorativa del danneggiato, poi definitivamente venuta meno con il decesso? quale riflesso ha il prematuro decesso della persona offesa sulla quantificazione del danno risarcibile?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, in questa interessante quanto tecnica pronuncia, ritiene corretto il ragionamento della Corte d'appello, la quale ha individuato nella durata della vita effettiva della danneggiata, l'elemento destrutturante diretto ad inficiare l'argomentazione svolta dal primo Giudice.

Come è noto, nella liquidazione del danno biologico assume rilevanza fondamentale l'età della vittima al momento in cui sussiste il danno biologico permanente cagionato dal fatto illecito. Il sistema tabellare, infatti, per determinare l'entità del danno biologico permanente prende in considerazione l'aspettativa media di vita, commisurando il risarcimento al tempo che intercorre tra tale data (fine malattia) e il momento in cui, sulla base di criteri statistici, si collocherà il periodo presumibile del decesso. Tuttavia, qualora il danneggiato muoia per una causa non riconducibile all'illecito, il giudice, nel liquidare il danno, non dovrà più basarsi sull'aspettativa ipotetica di vita della persona offesa, ma dovrà prendere in considerazione la sua durata concreta ed effettiva, come tempo in cui essa ha effettivamente patito la lesione della propria integrità psico-fisica (in tal senso, anche Cass. civ., n. 2297/2011). In tale ipotesi l'organo giudicante, per determinare il risarcimento spettante alla vittima, prenderà come valore di riferimento l'entità del danno liquidabile in base alle tabelle commisurato alla ipotetica aspettativa di vita, per procedere poi ad una riduzione equitativa in ragione della sua durata effettiva.

Ebbene, ripercorrendo i ragionamenti svolti nei vari gradi di giudizio, va detto che secondo il Tribunale di primo grado, la durata della vita effettiva non assume rilevanza, e si è provveduto alla liquidazione del danno in base alle Tabelle milanesi, le quali quantificano la perdita della salute in relazione all'età della vittima al momento del sinistro e alla aspettativa di durata della vita media (definita secondo criteri di probabilità statistica, riferiti alla intera popolazione).

Viceversa, secondo la Corte d'appello, e così anche secondo la pronuncia della Corte di Cassazione in esame, è proprio il sopravvenuto decesso a definire la dimensione del danno biologico, nel senso che la diminuzione della capacità di agire nel quotidiano della danneggiata risulta esattamente stimabile in concreto, non occorrendo fare ricorso a criteri statistici, essendo noto il momento in cui gli effetti pregiudizievoli invalidanti sono venuti a cessare; con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale non può prescindere dalla effettiva durata della condizione minorativa del soggetto danneggiato, condizione definitivamente venuta meno con il decesso (in tal senso, anche Cass. civ., Sez. III, 24 ottobre 2007, n. 22338; Cass. civ., Sez. III, 31 gennaio 2011, n. 2297; Cass. civ., Sez. III, 14 novembre 2011, n. 23739; Cass. Civ., Sez. III, 26 maggio 2016, n. 10897; Cass. civ., Sez. III, 18 gennaio 2016, n. 679; Cass. civ., Sez. III, ord. 15 febbraio 2019, n. 4551).

Ebbene, spiega la Corte, appurato che l'esercizio del potere equitativo-integrativo riservato al giudice di merito dagli artt. 1226 e 2056 c.c. deve assicurare l'adeguatezza del risarcimento all'utilità effettivamente perduta e all'esigenza di uniforme liquidazione delle somme da corrispondere in situazioni identiche, qualora tali scopi non siano raggiungibili attraverso il criterio c.d. “tabellare” - venendo in questione un'ipotesi di danno biologico non contemplato dalle tabelle - il giudice è tenuto a fornire specifica indicazione degli elementi della fattispecie concreta ritenuti essenziali alla valutazione del danno, nonchè giustificativi del criterio di stima ritenuto confacente alla realizzazione dei risultati indicati; e così egli può ben ricorrere, come base di calcolo, anche al sistema tabellare, purchè tuttavia dia congrua rappresentazione delle modifiche che si siano rese necessarie con riferimento alla peculiarità della situazione oggetto della aestimatio.

Ne consegue che, spiega la Corte, nel caso in cui debba essere liquidato il danno biologico per invalidità permanente ad un soggetto deceduto per causa diversa dal fatto dannoso, e per il quale non possa quindi farsi applicazione del valore tabellare di riferimento per grado di invalidità ed età al momento del sinistro (dovendo essere commisurato l'ammontare del danno alla vita reale del soggetto, piuttosto che all'aspettativa di vita media), il giudice di merito ben può realizzare gli obiettivi cui deve conformarsi la discrezionalità equitativa, mediante l'applicazione del valore monetario tabellare giornaliero moltiplicato per il numero di giorni di vita del danneggiato. Fatta salva, in ogni caso - ricorrendone i presupposti, e purchè si dia compiutamente conto delle ragioni della preferenza accordata ad un dato criterio liquidatorio - la possibilità di incrementare tale valore attraverso la “personalizzazione” del danno risarcibile.

Infondata, ad avviso della Suprema Corte, va ritenuta altresì la censura sollevata dai ricorrenti volta a sostenere la prevalenza dei criteri liquidatori del danno biologico da premorienza del danneggiato adottati dalle più recenti Tabelle del Tribunale di Roma, rispetto al difforme criterio basato sulla inabilità temporanea assoluta applicato dalla Corte d'appello. In particolare, al fine di avvalorare la preferenza da attribuire alle Tabelle edite dal Tribunale di Milano, così da realizzare il principio di uniformità dei trattamenti risarcitori riservati al medesimo tipo di danno all'integrità psico-fisica della persona, la Suprema Corte richiama i suoi precedenti in materia (Cass. civ., Sez. III, 20 aprile 2017, n. 9950; Cass. civ., Sez. III, 21 novembre 2017, n. 27562; Cass. civ., Sez. III, 7 giugno 2011, n. 12408), ribadendo che le tabelle milanesi sono già da lungo tempo ampiamente diffuse sul territorio nazionale; esse forniscono il parametro alla stregua del quale valutare la legittimità dell'esercizio del potere equitativo integrativo ex art. 2056 c.c., salvo che non emergano, in concreto, circostanze idonee a giustificarne l'abbandono, e tali dunque da giustificare in sede di legittimità il rilievo del relativo vizio di "error juris", dipendente dalla applicazione di Tabelle differenti e dalla conseguente liquidazione di un quantum diverso (nello stesso senso, Cass. civ., 15 maggio 2018, n. 11754; Cass. civ., Sez. III, ord. 22 gennaio 2019, n. 1553; Cass. civ., ord. 5 maggio 2020, n. 8468, secondo cui «i parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore ammontare cui sia diversamente pervenuto, essendo incongrua la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l'adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di Milano consente di pervenire»).

Osservazioni

Come si può rilevare dall'analisi della pronuncia, i giudici di merito (Tribunale e Corte d'appello), sebbene abbiano entrambi escluso che l'exitus potesse essere eziologicamente ricondotto, quale conseguenza, al fatto lesivo originario (ossia l'incidente stradale), tuttavia sono pervenuti, in base ai diversi criteri equitativi applicati, ad una differente quantificazione del danno non patrimoniale subìto dalla danneggiata, complessivamente liquidato in euro 595.276,17 dal Tribunale, e in euro 182.250,00 dalla Corte d'appello.

Si tratta, a ben vedere, di una disparità di cifre non irrilevante.

L'evidente discrasia tra il risarcimento calcolato dal Tribunale di primo grado e quello del giudice d'appello nella valorizzazione dell'indicato presupposto della durata della vita effettiva ai fini della liquidazione equitativa del danno, si è risolta, in sostanza, a favore del secondo giudice: quest'ultimo si è in pratica conformato al consolidato principio di diritto secondo cui, ai fini della liquidazione del danno biologico, l'età assume rilevanza in quanto, col suo crescere, diminuisce l'aspettativa di vita; così che risulta progressivamente inferiore il tempo in riferimento al quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psico-fisica. Ne consegue che, quando invece la durata della vita futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statistica, e diventa un dato noto, per essere il soggetto effettivamente deceduto, allora il danno biologico (riconoscibile tutte le volte che la sopravvivenza sia durata per un tempo apprezzabile rispetto al momento delle lesioni) va correlato alla durata della vita effettiva, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative (di carattere non patrimoniale, e diverse dalla mera sofferenza psichica) della permanente lesione della integrità psico-fisica del soggetto per l'intera durata della sua vita residua.

Dunque, sostenere che, in tal modo, verrebbe a determinarsi una ingiustificata disparità di trattamento, a seconda che il decesso del danneggiato sopravvenga in corso o dopo la definizione del giudizio di risarcimento del danno, si pone in contrasto con il principio fondamentale della disciplina della responsabilità civile, secondo cui il danno risarcibile deve comprendere tutto quello - e non più di quello - che è necessario a reintegrare il valore del bene perduto, ovvero a reintegrare la differenza tra la situazione in cui versava il soggetto ante e postdamnum iniuria datum".

Difatti, dalla lesione del diritto alla salute possono derivare effetti invalidanti della capacità psico-fisica del soggetto che, se residuano dopo la guarigione, stabilizzandosi e connotando una nuova condizione psico-fisica della persona, assumono carattere permanente, ripercuotendosi sul soggetto per tutta la successiva durata della sua vita: pertanto, il danno biologico, risolvendosi in una diminuzione o nella soppressione della capacità di agire della persona nel quotidiano, non può essere altrimenti riferito ed apprezzato se non in relazione al tempo in cui perdura la vicenda esperienziale dell'essere umano. Intervenuta la morte, con il venire meno della esistenza del soggetto viene a cessare anche il suo stato di incapacità biologica, e dunque il pregiudizio al bene salute.

Ipotizzare, quindi, che il ristoro del danno deve comprendere anche il pregiudizio che il soggetto - se fosse vissuto più a lungo - avrebbe continuato a soffrire per la sua minorata condizione, significherebbe rivendicare senza alcun fondamento logico e giuridico un asserito diritto al risarcimento di un danno di fatto inesistente; ciò, in quanto riconosciuto sulla base di una prognosi priva di giustificazione, perchè basata su una valutazione fondata sulla proiezione futura dello status invalidante assunta con riferimento al momento anteriore all'exitus, e fondata sulla statistica relativa alla aspettativa media di vita della popolazione italiana, la quale risulta storicamente non avverata. Dunque, verrebbe a riconoscersi l'acquisto di un credito risarcitorio maturato su una aspettativa di vita che, nella realtà, si è rivelata essere errata.

Conclusivamente, nella liquidazione del danno biologico, prescindere dalle Tabelle ed utilizzare il criterio equitativo puro non è operazione corretta; ciò, secondo l'ormai consolidato principio per cui «l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 c.c., deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa». A tal fine, il criterio di liquidazione delle Tabelle di Milano - in quanto maggiormente diffuso sul territorio nazionale - è stato ritenuto parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono. Pertanto, in tema di danno non patrimoniale, i parametri delle Tabelle predisposte dal Tribunale di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del predetto danno, ovvero quale criterio di riscontro e verifica della liquidazione diversa alla quale si sia pervenuti.

Sebbene il Tribunale di Macerata e la Corte d'appello d'Ancona abbiano entrambi ritenuto di assumere le Tabelle del Tribunale di Milano a base della liquidazione equitativa del danno biologico in caso di premorienza, tale scelta non appare ex se censurabile, in quanto espressione dell'esercizio del potere di liquidazione equitativa: è infatti riservata al giudice di merito la scelta della tecnica ritenuta più adeguata al ristoro del pregiudizio in relazione alle circostanze concrete.

La discrezionalità rimessa in tale ambito al giudice di merito dagli artt. 1226 e 2056 c.c., e - nella specie - la scelta di ricorrere alle Tabelle milanesi, rimane estranea alla individuazione e definizione degli elementi essenziali contemplati nello schema normativo della fattispecie costitutiva del diritto di credito al risarcimento del danno.

Ciò posto, ed escludendo ogni dubbio sulla portata delle Tabelle di Milano quale riferimento ai fini della liquidazione del danno biologico, la Suprema Corte sposa il criterio di calcolo adottato dalla Corte d'Appello.

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