La responsabilità professionale dell'avvocato, tra correttezza e obblighi di informazione

31 Agosto 2020

Entro quali limiti la clausola di buona fede o correttezza può influire in concreto sulla modalità di atteggiarsi e sul contenuto della condotta dovuta dal professionista, al di là degli specifici obblighi contrattuali gravanti sullo stesso?
Massima

L'avvocato è tenuto all'esecuzione del contratto di prestazione d'opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata, di cui al combinato disposto degli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c., e della buona fede oggettiva o correttezza la quale, oltre che regola di comportamento e di interpretazione del contratto, è criterio di determinazione della prestazione contrattuale, imponendo il compimento di quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio. In particolare, il professionista deve fornire le necessarie informazioni al cliente, anche per consentirgli di valutare i rischi insiti nell'iniziativa giudiziale, con la conseguenza che l'omessa comunicazione all'assistito dell'interruzione del processo e della possibilità di riassunzione, al punto da fare decorrere il relativo termine massimo ed estinguere il giudizio, è fonte di responsabilità del difensore

Il caso

La vicenda oggetto della pronuncia in commento trae origine dall'azione di riduzione promossa da un erede legittimario pretermesso. Gli eredi di quest'ultimo, costituitisi in giudizio alla sua morte, agivano nei confronti dell'avvocato che li difendeva in tale processo, per aver egli omesso di avvertirli (rectius, aveva avvertito solo uno di loro il quale gli riferiva la propria volontà ma non quella degli altri eredi) che il giudizio era stato dichiarato interrotto e che, per evitarne l'estinzione (e la conseguente prescrizione del diritto), era necessario provvedere alla relativa riassunzione nel termine perentorio previsto dal codice di rito.

Essi quindi lamentavano che, per effetto della mancata riassunzione e della conseguente estinzione del giudizio, il diritto azionato si estingueva per intervenuta prescrizione. Secondo gli ex clienti, appariva infatti «ragionevolmente probabile che se il procedimento fosse stato tempestivamente riassunto avanti il Tribunale, gli attori si sarebbero potuti giovare della domanda originariamente proposta dal loro dante causa senza incorrere nella estinzione del giudizio e nella prescrizione del diritto azionato».

La domanda risarcitoria proposta nei confronti dell'avvocato veniva rigettata nei primi due gradi di giudizio poiché i giudici di merito, pur ravvisando una sua responsabilità professionale, ritenevano che gli attori non avessero fornito la prova dei danni asseritamente subiti per effetto dell'inadempimento.

Gli attori promuovevano ricorso per cassazione lamentando che la Corte d'appello non aveva considerato, da un lato, che la mancata informazione aveva provocato lo spirare del termine per la riassunzione a cui conseguivano l'estinzione del giudizio e la prescrizione del diritto azionato (diritto che invece, in caso di tempestiva riassunzione, avrebbe ottenuto la tutela richiesta) e, dall'altro lato, che era stata offerta la prova del nesso di causalità relativamente ai danni conseguenza.

La Suprema Corte, esaminando congiuntamente i due motivi di ricorso in quanto connessi, li ha dichiarati in parte inammissibili e in parte infondati.

La questione

Nella pronuncia in commento, la Suprema Corte si è interrogata su quali siano il ruolo e le funzioni che nel tempo la dottrina e la giurisprudenza hanno riconosciuto alla clausola generale di correttezza o buona fede oggettiva nel nostro ordinamento e, soprattutto, si è chiesta se ed entro quali limiti essa possa influire in concreto sulla modalità di atteggiarsi e sul contenuto della condotta dovuta dal professionista, al di là degli specifici obblighi contrattuali gravanti sullo stesso.

Le soluzioni giuridiche

La questione all'esame della S.C. ha assunto particolare rilievo solo in tempi relativamente recenti, sebbene già il codice civile del 1865 disciplinasse in un unico articolo (art. 1124) la buona fede oggettiva: alla chiarezza della disposizione fece infatti da contraltare un'operazione interpretativa che, in modo pressoché condiviso, ne svuotò la portata.

Nell'attuale codice il contenuto della norma previgente è stato scomposto in due disposizioni (l'art. 1374 e l'art. 1375 c.c.) a cui si sono però affiancati altri articoli (in primis l'art. 1175 c.c.) che, facendo espresso richiamo a correttezza o buona fede, hanno permesso alla regola di assurgere a rango di principio di portata generale, sebbene a tale approdo si sia giunti solo dopo decenni in cui a prevalere furono le interpretazioni di tipo riduttivo (si pensi, ad esempio, alla c.d. teoria valutativa sostenuta da NATOLI, a cui si era inizialmente conformata la giurisprudenza).

Si è quindi pervenuti all'impostazione richiamata dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento secondo cui la buona fede oggettiva, oltre ad essere canone di interpretazione del contratto ex art. 1366 c.c., è:

a) regola di comportamento ex artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., quale dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., che trova applicazione a prescindere dalla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, in base alla quale il soggetto è tenuto a tenere un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso (considerata in particolare l'asimmetria informativa che normalmente esiste tra le parti contrattuali), nonché volto alla salvaguardia dell'utilità altrui nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità;

b) criterio di determinazione della prestazione contrattuale, costituendo fonte - altra e diversa sia da quella eteronoma suppletiva ex art. 1374 c.c. che da quella cogente ex art. 1339 c.c. - di integrazione del comportamento dovuto, là dove impone di compiere quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte nei limiti dell'apprezzabile sacrificio; in questa prospettiva, e richiamando fattispecie inerenti all'applicazione dell'art. 1227 comma 2 c.c. (cfr. Cass. civ., 30 marzo 2005, n. 6735, e Cass. civ., 9 febbraio 2004, n. 2422), la Corte ha precisato che alla parte sono imposte (soltanto) quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.

Giurisprudenza (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725) e dottrina prevalente invece rifuggono la concezione della buona fede come regola di validità del contratto, salvo che ciò non sia eccezionalmente previsto dalla legge con riferimento a fattispecie specifiche.

Osservazioni

È da tempo che le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito, in termini generali, che «Il principio di correttezza e buona fede - il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, «richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore» - deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile» (Cass. civ., Sez. Un., 25 novembre 2008, n. 28056).

Nella sfera della responsabilità professionale, il mezzo principale per salvaguardare gli interessi del cliente/assistito è quello di fornire a quest'ultimo un'informativa tendenzialmente completa circa i potenziali rischi della posizione e le condotte da tenere per evitarli o minimizzarli, considerato che il cliente/assistito, di norma, non ha i mezzi per valutarli adeguatamente.

In altri termini, il canone di buona fede costituisce la fonte dei c.d. obblighi di protezione ai quali viene normalmente ricondotto anche l'obbligo di informazione (nel caso di specie, in executivis), la cui violazione comporta una responsabilità contrattuale dalla quale può risultare anche un'obbligazione risarcitoria.

Sul punto, la Cassazione ha però affermato che «Nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 1176 c.c., comma 2 e art. 2236 c.c., impone all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi» (ex plurimis, Cass. 19 luglio 2019, n. 19520, ord.). Non v'è chi non veda, quindi, che talvolta la giurisprudenza riconduce l'obbligo di informazione alla diligenza qualificata ex art. 1176 comma 2 c.c.

L'impostazione alla base della pronuncia in commento è invece, come già visto, differente. Peraltro, in un'ordinanza (Cass. civ., 6 maggio 2020, n. 8497, ord.) sostanzialmente “gemella” - sebbene relativa alla responsabilità professionale del notaio - la S.C. ha precisato ulteriormente che tale obbligo trova fondamento «non già nella diligenza professionale qualificata (in tal senso v. invero Cass. civ., 14 febbraio 2017, n. 3768) bensì nella clausola generale (nell'applicazione pratica e in dottrina indicata anche come "principio" o come "criterio") di buona fede oggettiva o correttezza ex artt. 1175 c.c. (cfr. Cass. civ., 20 agosto 2015, n. 16990; Cass.civ., 2 marzo 2012, n. 16754; Cass. civ., 11 maggio 2009, n. 10741)».

Emerge dunque con chiarezza che la buona fede rimane concettualmente distinta dalla diligenza di cui all'art. 1176 c.c. Infatti, mentre la diligenza individua – seppure in termini generali – la misura dell'impegno richiesto alla parte nell'adempimento dell'obbligazione, la buona fede ha assunto anche la funzione di strumento di integrazione dell'obbligazione. È stato quindi osservato che la diligenza nell'adempimento attiene anche agli obblighi integrativi imposti dalla buona fede, con riguardo ai quali è ipotizzabile un agire negligente (si pensi, appunto, agli obblighi di informativa).

Ed è questo il caso di specie: sebbene un'informativa vi sia stata, essa è stata palesemente carente, posto che alcuni degli assistiti ne sono stati totalmente esclusi.

Se infatti è indubbio che la decisione finale (nel caso di specie, riassumere o non riassumere il giudizio) competa esclusivamente alla parte assistita (e/o al cliente), è altrettanto evidente che l'avvocato debba metterla in condizione di determinarsi consapevolmente. In altri termini, non solo deve essere fornita un'informazione ma questa deve risultare tendenzialmente esaustiva, seppure nei soli limiti utili a consentire alla parte di prendere, in modo compiutamente informato e in relazione al caso concreto, la decisione di volta in volta necessaria. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza, anche con riferimento all'informativa dovuta, è quindi «da valutarsi alla stregua della causa concreta dell'incarico conferito al professionista» e il relativo impegno «va quindi correlato alle condizioni del caso concreto, alla natura del rapporto, alla qualità dei soggetti coinvolti».

In più ampia prospettiva, è senz'altro utile rammentare che, proprio in relazione agli obblighi di informativa, l'attuale art. 27 comma 7 del codice deontologico forense stabilisce che «l'avvocato deve comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di atti necessari ad evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso». Ebbene, secondo la giurisprudenza «le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative» (Cass. civ., Sez. Un., 20 dicembre 2007, n. 26810).

Ovviamente, l'esistenza di un inadempimento non è elemento sufficiente per consentire l'attivazione del rimedio risarcitorio poiché, a tal fine, è indispensabile che tale inadempimento abbia provocato un danno. È sulla base di questo consolidato principio che, nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto di confermare il rigetto della domanda risarcitoria, non essendo stato provato il danno cagionato dall'omissione del professionista: la Cassazione ha sostanzialmente escluso l'esistenza del danno conseguenza che, per regola generale, avrebbe dovuto essere provato dai pretesi danneggiati.

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