Il Tribunale di Crotone e la distinzione tra responsabilità medica contrattuale ed extracontrattuale

10 Novembre 2020

Il principio secondo il quale la struttura sanitaria assume nei confronti dei propri pazienti una responsabilità contrattuale vale solo rispetto a questi ultimi e non rispetto ai loro eredi?
Massima

Il principio secondo il quale la struttura sanitaria assume nei confronti dei propri pazienti una responsabilità contrattuale vale solo rispetto a questi ultimi e non rispetto ai loro eredi.

Si tratta di un importante distinguo, operato con la sentenza n. 557 del 26 giugno 2020 dal Tribunale di Crotone, che interviene a rimarcare il disposto della l. n. 24/2017, in merito alla natura della responsabilità medica.

Il caso

Il coniuge di un paziente deceduto per le complicazioni sorte in seguito ad una artoprotesi totale dell'anca, effettuata presso un ospedale di Crotone, invoca la responsabilità della struttura e del chirurgo ortopedico che aveva eseguito l'operazione, accusando i convenuti di negligenza, imperizia ed imprudenza nell'esecuzione dell'intervento e di aver dimesso il paziente in modo frettoloso e superficiale.

Lo stesso, infatti, non aveva potuto ricevere le cure necessarie per la grave infezione postoperatoria contratta in occasione dell'intervento stesso, che ne aveva in definitiva determinato il decesso.

Il legale della reclamante chiede quindi di accertare e dichiarare la responsabilità solidale della struttura e del chirurgo ed un risarcimento complessivo di circa 390.000 euro, oltre alle spese.

Convenuti in giudizio, l'ospedale ed il medico chiedono il rigetto della domanda. Chiamata in causa da quest'ultimo, inoltre, si costituisce in giudizio la compagnia Assicuratrice Milanese, la quale richiede in via principale di rigettare la domanda di risarcimento avanzata dalla vedova e, in via subordinata, nella denegata ipotesi di ritenuta responsabilità professionale del chirurgo, di accertare a quali convenuti la stessa fosse addebitabile, determinando l'eventuale grado delle rispettive colpe nel causare il danno.

In surroga dei diritti del medico, infine, l'assicuratore chiede che venga dichiarata la responsabilità risarcitoria esclusiva della struttura sanitaria, spettando allo stesso di essere tenuto indenne dal proprio datore di lavoro, o dalla relativa compagnia assicurativa, che avrebbe operato in primo rischio anche a favore dei sanitari.

La questione

Il principio secondo il quale la struttura sanitaria assume nei confronti dei propri pazienti una responsabilità contrattuale vale solo rispetto a questi ultimi e non rispetto ai loro eredi?

Le soluzioni giuridiche

Il rilievo mosso in prima battuta dalla Corte riguarda il fatto che la parte attrice abbia invocato la natura contrattuale della responsabilità dei convenuti.

È pur vero che all'articolo 7, comma 3, della l. n. 24/2017 (nota come legge Gelli), la responsabilità medica venga generalmente individuata come contrattuale. Il Tribunale, tuttavia, osserva come tale natura si riferisca al rapporto che si instaura tra il paziente e la casa di cura o l'ospedale, essendo questo dipendente da “un autonomo contratto a prestazioni corrispettive, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (….), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo "lato sensu" alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze”.

La responsabilità della casa di cura nei confronti del paziente ha dunque natura contrattuale e deriva non solo dall'inadempimento delle obbligazioni a suo carico, ai sensi dell'art. 1218 c.c., ma anche dall'inosservanza della prestazione medico-professionale svolta dai sanitari che operano al suo interno, in virtù del disposto dell'art. 1228 c.c.

Gli stessi sono infatti suoi ausiliari necessari, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, poiché esiste un collegamento tra la prestazione da loro effettuata e l'organizzazione aziendale della struttura, anche qualora risultassero sanitari di fiducia, scelti dal paziente, come a più riprese e da lungo tempo attestato dalla Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2004 n. 13066; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 577).

Tuttavia, nella fattispecie in esame, l'azione della parte attrice, finalizzata al ristoro dei danni patiti iure proprio, deve essere in questo caso ricondotta alla responsabilità extracontrattuale ex artt. 2049 e 2043 c.c.

Come più volte rimarcato in giurisprudenza, la vittima secondaria non può in alcun modo considerarsi legata da un rapporto contrattuale, né con la struttura sanitaria e nemmeno col personale medico di quest'ultima (inter alia, Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2015 n. 5590; Cass. civ., sez. III, 8 maggio 2012 n. 6914; Trib. Milano, sez. I, 12 aprile 2019; Trib. Torre Annunziata, sez. II, 10 settembre 2018 n. 1943).

Ne consegue un diverso regime di distribuzione dell'onere della prova.

Se si fosse trattato di una responsabilità di natura contrattuale, infatti, il congiunto della vittima avrebbe potuto limitarsi ad allegare “un inadempimento qualificato, ovvero astrattamente idoneo alla produzione dell'evento dannoso”. In questo caso, sarebbe gravato sulla struttura e sul medico l'onere di provare che l'inadempimento non sussisteva o che fosse dipeso da cause ad essi non imputabili.

Nel caso in esame, invece, l'allegazione avrebbe dovuto essere non solo tempestiva (ovvero precisata nel termine previsto dall'art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c.), ma soprattutto specifica. Essa avrebbe dovuto, cioè, indicare esattamente la regola di diligenza, prudenza e perizia violata dai convenuti: “L'addebito di una responsabilità colposa postula, dunque, la violazione di un “sistema normativo esterno”, i cui precetti, nella colpa generica, sono individuabili mediante il criterio della condotta cui si sarebbe attenuto l'“agente modello” (homo ejusdem professionis et condicionis), laddove, nella colpa specifica, risultano invece già positivizzati”.

Resta quindi all'attore l'obbligo di chiarire l'oggetto della contestazione, indicando la regola di perizia che si considerava violata, i criteri adottati per la sua individuazione e le ragioni tecniche ed oggettivamente valutabili che avrebbero dovuto indurre il sanitario a disattendere le leges artis, in quanto inadeguate per il caso concreto. Saranno dunque gli attori a dovere allegare e dimostrare tutti gli elementi costitutivi della colpa medica:

  1. la negligenza, imprudenza ed imperizia dei sanitari;
  2. la causalità della colpa, ravvisabile solo se l'evento dannoso sia riconducibile agli eventi che la norma cautelare violata mirava a prevenire e che si sarebbe potuto evitare adottando un comportamento alternativo conforme a tale regola cautelare;
  3. l'esigibilità di tale condotta nelle specifiche condizioni in cui i medici avevano operato.

Solo ove sia assolto l'onere di specifica contestazione dell'inadempimento colposo addebitato ai convenuti, può applicarsi il principio di diritto, ribadito dalla Suprema Corte, secondo cui “in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, il rispetto, da parte del sanitario, delle "linee guida" - pur costituendo un utile parametro nell'accertamento di una sua eventuale colpa, peraltro in relazione alla verifica della sola perizia del sanitario - non esime il giudice dal valutare, nella propria discrezionalità di giudizio, se le circostanze del caso concreto non esigessero una condotta diversa da quella da esse prescritta” (Cass. civ., sez. III, 15 giugno 2018 n. 15749).

Un altro rilievo fondamentale risiede nel fatto che la dimostrazione del danno, a prescindere dalla natura - contrattuale o extracontrattuale - della responsabilità invocata, resta comunque a carico del danneggiato.

Nel caso specifico e relativo alla richiesta di risarcimento del danno iure proprio formulata dai congiunti della vittima, la corte osserva che la perdita del rapporto parentale integra il solo “danno-evento”, cioè la lesione del diritto costituzionale all'intangibilità della sfera affettiva nell'ambito familiare, ricollegabile agli artt. 2,29 e 30 della Costituzione, così come esplicato dalle sentenze numero 8827 e 8828 del 7 maggio 2003 della Corte di Cassazione (sezione III).

Ad essere meritevoli di ristoro sono soltanto le conseguenze pregiudizievoli che derivano da tale perdita, suscettibili di essere ricondotte in seno al danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., ovvero danno morale, danno biologico e danno alla sfera del fare areddituale, di cui alle note sentenze di San Martino (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 nn. 26972-26975).

Trattandosi di “danni-conseguenza”, il riconoscimento della relativa pretesa risarcitoria presuppone ancora che il pregiudizio venga compiutamente descritto e che ne vangano allegati e provati gli elementi costitutivi (cfr. Cass. civ., sez. III, 17 luglio 2012 n. 12236). Rimangono difatti fermi i principi generali che presiedono all'identificazione delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una dimostrazione, anche presuntiva, ma in ogni caso rigorosa della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale. Tale onere di allegazione va adempiuto in modo circostanziato, non potendosi risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche” (cfr. Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2016 n. 21060; Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019 n. 28989).

Tutto ciò premesso, la Corte di Crotone ha ritenuto inammissibili le doglianze degli attori in merito all'essere prevedibile ed evitabile l'infezione nosocomiale contratta dalla vittima. Le stesse venivano infatti dedotte esclusivamente in sede di CTU e mai contestate in sede di citazione o di memoria, così come previsto dall'art. 183 del c.p.c.

Le sole censure avanzate tempestivamente riguardavano l'errata esecuzione del primo intervento nel 2003, le frettolose dimissioni in seguito al secondo intervento eseguito nel 2009, senza che il paziente fosse indirizzato ad un centro specializzato che ne avrebbe potuto garantire la sopravvivenza, ed il terzo impianto di una nuova protesi nel 2011, senza che fosse stata accertata la guarigione dall'infezione.

Tutte censure non corroborate da prove, come consulenze di parte, che avrebbero potuto rendere specifiche le contestazioni avanzate, indicando ad esempio le linee guida ed i criteri di condotta cui i sanitari avrebbero dovuto attenersi nell'affrontare lo specifico caso clinico.

In pratica, cioè, la parte attrice si sarebbe solo lagnata “della negligenza, imprudenza, imperizia dei sanitari operanti”, devolvendo integralmente al CTU il compito di accertare l'errore diagnostico, terapeutico e chirurgico, nonché la causa nosocomiale dell'infezione, ed attribuendo al consulente d'ufficio un “ruolo integralmente sostitutivo degli oneri assertivi e probatori delle parti”.

La Corte riteneva quindi generica la contestazione relativa all'errore nell'esecuzione del primo intervento ed insufficiente ad addebitare ai sanitari alcuna responsabilità. Allo stesso modo, non essendo stato indicato il fondamento medico legale che rendeva obbligatorio il ricovero presso un centro specializzato, veniva respinta la censura relativa alle dimissioni troppo frettolose in occasione del secondo intervento.

Non essendo poi fondata su “alcuna allegazione scientifica plausibile idonea a giustificare l'addebito di una responsabilità ai sanitari”, veniva poi respinta anche l'ultima allegazione, essendo stato il paziente dimesso con terapia antibiotica congrua e sottoposto ad accertamenti e terapie congrue, secondo i protocolli relativi alla diagnosi dell'infezione riscontrata.

La domanda attorea (jure hereditario e jure proprio) è stata quindi rigettata.

Tenuto poi conto della natura della controversia e delle questioni giuridiche ad essa sottese è stata inoltre disposta la compensazione delle spese di lite e revocata l'ammissione dell'attrice al patrocinio a spese dello Stato, “in forza del principio secondo cui la valutazione della “non manifesta infondatezza” della domanda ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 122 e 136 T.U.S.G. va compiuta non in astratto, ma in concreto, tenuto conto della enunciazione delle ragioni in fatto ed in diritto a tal fine addotte e della specifica indicazione delle prove di cui si intende chiedere l'ammissione (cfr. Cass. civ., 10 novembre 2017 n. 26661; Cass. civ., sez. II, 17 ottobre 2018 n. 26060). Anche le spese di CTU, infine, sono state poste definitivamente a carico della parte attrice.

Osservazioni

La questione della corretta attribuzione della natura della responsabilità medica, non è certo di poco conto. Essa permea l'intera impostazione della l.n. 24/2017, la quale si è posta come necessaria chiosa ad innumerevoli decisioni delle corti di ogni grado, al termine di un lunghissimo iter giuridico e normativo.

La decisione in esame, però, compie un passo importante, determinando con chiarezza le conseguenze pratiche di una corretta allocazione della natura della responsabilità medica, in relazione ai protagonisti che operano sulla scena individuata dal procedimento giuridico.

Se di responsabilità contrattuale parliamo, infatti, la stessa si caratterizza e determina nell'allineamento degli interessi in gioco, come stigmatizzato recentemente dalla Suprema Corte: La figura del contratto con effetti protettivi verso terzi è giustificata con l'argomento che il terzo ha un interesse identico a quello dello stipulante, un interesse che viene coinvolto dalla esecuzione del contratto nello stesso modo in cui è coinvolto l'interesse della parte contrattuale, del creditore della prestazione. (…..) queste osservazioni bastano ad escludere che la figura (ndr: natura contrattuale della responsabilità della struttura nei confronti delle figlie di una paziente deceduta in seguito ad un intervento) possa ragionevolmente essere utilizzata nella fattispecie: qui infatti l'interesse delle figlie non è il medesimo di quello dedotto in contratto dalla madre. Quest'ultima si era affidata alla struttura per la cura della salute, e l'inadempimento della obbligazione assunta dalla struttura ha leso due beni diversi: la salute, per l'appunto, della donna (o la vita, più precisamente), ed il rapporto parentale invece quanto alle figlie. Manca, quindi, la ragione che giustifica la figura degli effetti protettivi verso terzi: l'identità dell'interesse coinvolto dalla esecuzione del contratto”. (Cass. civ., ord. sez. III, 15 settembre 2020n. 19188).

Nel caso in specie tutto questo ha conseguenze pratiche determinanti, perché, oltre all'importante questione che attiene al termine di prescrizione, invocare una responsabilità contrattuale comporta un'impostazione del procedimento affatto diversa che, se pianificata erroneamente, implica un esito nefasto dell'azione giudiziaria promossa.

Per la chiarezza delle sue argomentazioni, questa sentenza potrebbe essere adoperata come una sorta di vademecum per il legale che volesse istruire una causa per il risarcimento di danni agli eredi di una presunta vittima di malpractice medica.

In quanto vittime secondarie dell'illecito, la natura della responsabilità che grava sui sanitari nei loro confronti, infatti, è di natura extracontrattuale e risale al disposto degli artt. 2043 e 2049 c.c.

Premesso che, a prescindere dalla natura della responsabilità evocata, la dimostrazione del danno resta comunque in carico alla parte danneggiata, perché il procedimento abbia l'esito sperato è dunque necessario che le allegazioni siano non solo tempestive, e dunque proposte nei termini previsti dall'art. 183 del c.p.c., ma perfettamente specifiche e circostanziate.

È quindi determinante dimostrare gli elementi costitutivi della colpa medica

,

ovvero la negligenza, imprudenza ed imperizia dei sanitari, la causalità della colpa loro ascritta, con indicazione della norma cautelare violata, e l'esigibilità del rispetto di tale norma nelle condizioni particolari in cui i sanitari stessi si siano trovati ad operare.

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