Società di persone, dichiarazione infedele, calcolo dell'imposta evasa fra responsabilità dell'amministratore e coinvolgimento di tutti i soci

02 Dicembre 2020

Il reato di dichiarazione infedele di cui all'art. d.lgs. n. 74 del 2000 può essere integrato anche con riferimento alla presenta di una dichiarazione fiscale inerente una società in accomandita semplice, ma in questo caso l'imposta evasa va calcolata avendo riguardo al reddito dei singoli soci.
Massima

Il reato di dichiarazione infedele di cui all'art. d.lgs. n. 74 del 2000 può essere integrato anche con riferimento alla presenta di una dichiarazione fiscale inerente una società in accomandita semplice, ma in questo caso l'imposta evasa – dovendo il reddito della società ricavabile dal risultato di esercizio essere imputato direttamente ai singoli soci, ovviamente ciascuno per la sua quota di partecipazione – va calcolata avendo riguardo al reddito dei singoli soci.

Il caso

Tre soci di una società in accomandita semplice erano indagati per il delitto di infedele dichiarazione con riferimento ai redditi ottenuti per tre anni dalla predetta persona fisica. Veniva così emesso un decreto di sequestro preventivo a fini di confisca per equivalente dei beni mobili ed immobili e delle somme di denaro nella disponibilità dei precisati indagati sino a concorrenza dell'imposta evasa, differenziando la posizione dei tre accusati, venendo i redditi per tutti e tre gli anni attribuiti a ciascuno a seconda del ruolo dagli stessi rivestito in tale lasso di tempo quale amministratore, di diritto o di fatto, dell'ente commerciale.

In sede di ricorso per Cassazione, le difese lamentavano in primo luogo che il sequestro aveva interessato dei rami d'azienda di altra società riferibile agli indagati, società effettivamente operante e relativamente alla quale non è contestata alcuna ipotesi di reato, mancando altresì qualsiasi indagini in ordine alla proporzione tra l'imposta evasa e quanto sottoposto a vincolo. Peraltro, si evidenziava che il sequestro era stato adottato nella forma per equivalente, prima di verificare se la società cui si riferiva l'infedele dichiarazione avesse o meno un patrimonio idoneo a garantire le pretese del Fisco.

Tuttavia, il punto centrale delle pretese difensive si appuntava sulla circostanza che il sequestro sarebbe stato applicato senza alcuna analisi dei redditi dei singoli soci, e dei riflessi dell'evasione su questi ultimi.

La questione

Il tema centrale della vicenda riguarda le modalità di calcolo dell'imposta evasa in caso di dichiarazione infedele – ma più in generale di ogni reato fiscale dichiarativo per il quale sia prevista una soglia di punibilità da calcolarsi appunto sulla base dell'imposta non pagata – quando il soggetto sottoposto ad obbligo fiscale sia una società di persone.

In proposito, due soluzioni sono prospettabili. In primo luogo, si può sostenere che in questi casi ai fini IRPEF i redditi prodotti sono imputati a ciascun socio pro quota e sono questi ultimi a dovere dichiarare, indipendentemente dalla effettiva percezione, il reddito di partecipazione in sede di redazione della loro dichiarazione dei redditi; per il calcolo dell'imposta evasa dunque si dovrebbe avere riguardo alla quota di reddito imputabile ai fini fiscali ai singoli soci e non alla intera compagine societaria, avendo riguardo solo in tale prospettiva alla soglia di legge prevista per la punibilità del reato.

In un'ottica opposta – assunta nella decisione Cass., sez. III, 7 maggio 2019 n. 19228 -, si afferma che le diverse fattispecie di reato di cui agli artt. 3, 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000 si incentrano letteralmente sulla presentazione (o mancata dichiarazione) della dichiarazione annuale effettuata dalla società, senza alcuna altra distinzione o specificazione per cui relativamente alla dichiarazione presentata (o omessa) da chi amministri una società di persone e più in particolare dal socio accomandatario, le norme incriminatrici pongono a carico di costui, nella veste rappresentativa così assunta e tale da imporre a suo carico l'obbligo dichiarativo, la condotta penalmente rilevante, con l'ulteriore portato della inevitabile valutazione unitaria, siccome riguardante la società di riferimento cui inerisce la dichiarazione, della imposta evasa, anche ai fini della verifica della soglia di punibilità.

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato rigettato per inammissibilità.

Quanto ai profili attinenti l'attribuzione del reato di dichiarazione infedele, la Cassazione sulla scorta della previsione di cui all'art. 1 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. Ricorda che le dichiarazioni in materia di imposte sui redditi delle società di persone debbono essere sottoscritte dal legale rappresentante della società e quindi nessuna censura può essere mossa con riferimento alla condanna di chi rivestisse tale ruolo al momento del fatto mentre quanto alla riferibilità dell'accusa a chi venga ritenuto quale amministratore di fatto della società – ruolo rinvenuto in capo ad uno dei tre indagati per tutti e tre gli anni fiscali presi in considerazione -, la giurisprudenza ripetutamente ha precisato che dei reati in materia di dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, l'amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni dì poter compiere l'azione dovuta, mentre l'amministratore di diritto, quale .mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento (artt. 40, comma 2, cod. pen. e 2932 cod. civ.), a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (Cass., sez. III, 28 agosto 2019, n. 36474; Cass., sez. III, 14 maggio 2015, n. 38780; Cass., sez. III, 28 aprile 2011, n. 23425).

Con riferimento alla mancata preventiva ricerca del profitto del reato nella disponibilità diretta della società cui si riferisce la infedele dichiarazione, la censura non si confronta con il costante insegnamento della giurisprudenza in tema di reati tributari, secondo cui il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per "equivalente", invece che in quella "diretta", all'esito di una valutazione allo stato degli atti della capienza patrimoniale dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato (Cass., sez. III, 21 giugno 2016, n. 35330), posto che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto anche quando l'impossibilità del reperimento dei beni, costituenti il profitto del reato, sia transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell'adozione della misura, non essendo necessaria la loro preventiva ricerca generalizzata (Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561).

Sulla scorta di tale impostazione, il provvedimento impugnato rappresenta che occorre disporre il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti dei soci della società in quanto il denaro provento di evasione fiscale è stato, almeno in parte, reinvestito in attività economiche, e non è nota l'esatta entità di tale reinvestimento, sicché non è possibile determinare l'ammontare delle somme rimaste nelle casse della società. Trattasi di motivazione corretta e coerente con la specifica disciplina fiscale relativa alle società di persone, giusta la quale – come meglio si dirà più innanzi - i redditi dell'attività di un ente collettivo appartenente a tale categoria debbono essere imputati direttamente ai soci, ciascuno in relazione alla propria quota di partecipazione; di conseguenza, è ragionevole ritenere che anche la liquidità rinvenuta nella disponibilità del socio della società in accomandita semplice costituisca profitto del reato tributario di evasione, ovviamente nei limiti degli utili dell'ente spettanti al medesimo socio.

Quanto alla questione afferente alla sproporzione tra quanto sequestrato e l'ammontare dell'imposta evasa, la scelta del giudice di indicare nel sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente il solo importo complessivo da sequestrare senza individuare i beni singoli da apprendere né il loro specifico valore, attività da demandare in fase esecutivo al pubblico ministero è del tutto in linea con l'ampiamente consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il giudice che emette il provvedimento non è tenuto ad individuare concretamente i beni da sottoporre alla misura ablatoria, ma può limitarsi a determinare la somma di denaro che costituisce il profitto o il prezzo del reato o il valore ad essi corrispondente, mentre l'individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al quantum indicato nel sequestro è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero (Cass., sez. VI; 25 ottobre 2017, n. 53832). Di conseguenza, nella specie, essendo stata effettuata dal Pubblico Ministero la concreta individuazione dei beni da sottoporre a vincolo, le questioni relative alla ritenuta sproporzione tra il quantum oggetto di sequestro ed i beni vincolati sono da proporre al pubblico ministero che, in caso di mancato accoglimento, deve trasmettere la richiesta, corredata di parere ex art. 321, comma 3, c.p.p., al giudice per le indagini preliminari, il cui provvedimento è impugnabile dinanzi al tribunale ex art. 322-bis c.p.p. (Cass., sez. II, 4 aprile 2019, 17456).

Il punto della vicenda era però quello inerente la denunciata mancata analisi dei riflessi dell'evasione sui singoli soci della società di accomandita semplice, censura che peraltro la Cassazione giudica inammissibile per genericità in quanto anche sei i ricorso avevano prospettato (in maniera condivisibile secondo la Corte, come vedremo) che l'imposta evasa in caso di dichiarazione riferita ad una società di persone andava calcolata avendo riguardo al reddito dei singoli soci, hanno omesso del tutto di indicare le conseguenze pratiche derivanti dall'applicazione di tale regola.

Ciò posto, nonostante la dichiarazione di inammissibilità la Cassazione si sofferma sulla problematica giungendo a conclusioni di un certo rilievo. Intanto, va evidenziato che il delitto di infedele dichiarazione può senz'altro essere contestato anche in relazione a condotte dichiarative che si riferiscono a persone fisiche, rispetto alle quali la persona fisica assume il ruolo di rappresentante: è quanto chiaramente si ricava dalla previsione di cui all'art. 1, comma 1, lett. c) d.lgs. n. 74 del 2000, secondo cui «per "dichiarazioni" si intendono anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società [...] nei casi previsti dalla legge», considerando altresì che la lett. f) della medesima disposizione prevede che «per "imposta evasa" si intende la differenza tra l'imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione [...]».

Queste previsioni del d.lgs. n. 74 del 2000 si ricollegano ad una serie di disposizioni di diritto tributario. Viene in rilievo in primo luogo l'art. 6 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 secondo cui che le società in accomandita semplice, come tutte le società di persone, sono tenute a presentare la dichiarazione «agli effetti dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche dovute dai soci [...]». Inoltre, secondo quanto prevede l'art. 1 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, la dichiarazione deve essere sottoscritta dal legale rappresentante dell'ente, o, in mancanza, da chi ne ha l'amministrazione anche di fatto. Inoltre, in ragione dell'art, 40, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, alla rettifica delle dichiarazioni presentate dalle precisate società, conseguente agli accertamenti delle Autorità preposte, «si procede con unico atto ai fini dell'imposta locale sui redditi [attualmente abrogata] dovuta dalle società stesse e ai fini delle imposte sul reddito delle persone fisiche o delle persone giuridiche dovute dai singoli soci [...]». Infine, per effetto dell'art. 5 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, i redditi delle società in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.

E' proprio muovendo da quest'ultima disposizione che la giurisprudenza civile di legittimità afferma che il maggior reddito operato in rettifica nei confronti della società in accomandita semplice ed imputato al socio ai fini dell'IRPEF, in proporzione della relativa quota di partecipazione, comporta anche l'applicazione allo stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione prevista dalla legislazione tributaria, essendo irrilevante l'estraneità di tale specie di soci all'amministrazione della società, in quanto ad essi è sempre consentito di verificare l'effettivo ammontare degli utili conseguiti; la sanzione non viene, quindi, irrogata all'accomandante sulla base della mera volontarietà, in contrasto con l'elemento della colpevolezza introdotto dall'art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997, consistendo, nel suo caso, la colpa nell'omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sull'esattezza dei bilanci della società, ai sensi dell'art. 2320, ultimo comma, c.c. (Cass., sez. V, 28 giugno 2017, n. 16116; Cass., sez. V, 7 novembre 2005, n. 21570 del 07/11/2005).

A questo principio, giusto il quale le società in accomandita semplice sono tenute a presentare le dichiarazioni ai fini delle imposte sui redditi, ma il risultato di esercizio deve essere imputato direttamente ai singoli soci, ovviamente ciascuno per la sua quota di partecipazione, si ricollega la decisione in commento che conclude nel senso che il reato di cui all'art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 può essere integrato anche mediante la presentazione della dichiarazione in nome della società in accomandita semplice, calcolandosi l'imposta sui redditi evasa avendo riguardo al reddito dei singoli soci.

Osservazioni

La soluzione che la sentenza in commento ha riservato al problema del calcolo dell'imposta evasa in caso di dichiarazione infedele con riferimento a società di persone pare condivisibile. Se infatti è vero che il reato ex art. 4 Dlgs 74/2000 è, in ambito societario, commesso da «colui che inserisce all'interno della dichiarazione fiscale per l'anno di riferimento elementi passivi fittizi o comunque dati che rendono quella dichiarazione infedele» e la commissione dell'illecito in questi casi è ricollegata esclusivamente alla posizione di rappresentanza e gestione fiscale della società in accomandita semplice assunta dal socio, è altresì vero che nel caso di specie l'imposta evasa è rinvenibile in capo alle persone fisiche dei soci e non in capo alla società.

Detto altrimenti, la tesi secondo cui i delitti di cui agli artt. 3, 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000 si perfezionano con la presentazione (o mancata presentazione) della dichiarazione annuale effettuata dalla società, con la conseguenza che il soggetto cui riferire l'imposta evasa, anche ai fini della verifica della soglia di punibilità è l'ente collettivo vale ed assume rilievo con riferimento a dichiarazioni dei redditi riferite a società di capitali giacché è questo il soggetto giuridico che dovrebbe versare il tributo e non lo fa, andando così a danneggiare gli interessi dell'erario. Di contro, nel caso di società di persone, costoro non sono soggetti d'imposta ma solo tenuti alla presentazione dei redditi i cui effetti vanno, come detto più volte, imputati ai singoli soci e sono costoro a provvedere al pagamento del dovuto sulla base della somma complessiva dei loro redditi, fra cui appunto rientrano anche i ricavi ottenuti sulla base della partecipazione sociale: ciò posto, è evidente che in tali circostanze il vulnus agli interessi dell'erario non si realizza nel momento della presentazione della dichiarazione riferita alla società ma quando la dichiarazione è presentata dai singoli soci se e nella misura in cui la stessa contiene dati inveritieri ed in questo momento quindi che va valutato l'entità dell'imposta evasa (da ogni singolo socio) e se la stessa o meno supera la soglia di punibilità.

Nella decisione è esaminato anche il problema della responsabilità penale per illeciti fiscali di carattere dichiarativo dell'amministratore di diritto che, in ambito societario, svolga il ruolo di mera testa di legno essendo l'impresa gestita da un terzo soggetto quale amministratore di fatto.

Sul tema del concorso di persone con riferimento al delitto di cui all'art. 5 d.lg. N. 74 del 2000 la giurisprudenza si èera già soffermata in altre occasioni, pervenendo ad esiti conformi a quelli odierni, giacché l'orientamento consolidato è nel senso che l'amministratore di diritto, per quanto rivesta un ruolo formale nell'ambito dell'azienda gestita di fatto da altri soggetti, risponde sempre di illeciti omissivi propri, come per l'appunto il delitto di omessa dichiarazione. E' quanto affermato ad esempio in una decisione in cui si sostenne che “il delitto di omessa dichiarazione dei redditi o Iva è reato omissivo proprio, che può essere commesso solo da chi, secondo la legislazione fiscale, è obbligato alla relativa presentazione; con la conseguenza che, salve le ipotesi di costringimento fisico e di errore determinato dall'altrui inganno, il concorso nel reato è ipotizzabile solo in forma morale, quando cioè chi vi è obbligato ha omesso di presentare la dichiarazione perché istigato o rafforzato nelle sue intenzioni o in attuazione di un accordo intercorso con altri soggetti” (Cass., sez. III, 30 ottobre 2015, n. 43809. In dottrina, VENTURATO, Note in tema di estero-vestizione e concorso eventuale nel reato omissivo proprio, in Giur. It., 2016, 976), mentre in altre decisioni può leggersi che “del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, l'amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l'azione dovuta, mentre l'amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento (artt. 40, comma secondo, cod. pen. e 2932 cod. civ.)” (Cass., sez. III, 24 settembre 2015, n. 38780. Nello stesso senso, Cass., sez. fer., 28 settembre 2018, n. 42897).

Al più, in decisioni più attente all'effettiva posizione in effetti rivestita dall'amministratore di diritto in società governate da un amministratore di fatto si è giunti a sostenere che “in tema di reati tributari, il prestanome non risponde dei delitti in materia di dichiarazione previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, solo se è privo di qualunque potere o possibilità di ingerenza nella gestione della società” (Cass., sez. III, 27 novembre 2013, n. 47110, decisione che peraltro si concluse con un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell'amministratore di diritto posto che la Cassazione in quella sentenza annullò la pronuncia impugnata che aveva assolto il legale rappresentante di una società, trascurando la circostanza che lo stesso era a conoscenza della dubbia regolarità della gestione societaria da parte dell'amministratore di fatto. A commento della decisione si veda AMATI, Reati tributari e responsabilità degli amministratori di fatto e di diritto, in Giur. Comm., 2014, 2, 556). In sostanza, la posizione della giurisprudenza – ribadita in questa decisione - con riferimento alla responsabilità per reato fiscali dichiarazione, in società in cui è presente un amministratore di diritto “testa di legno” ed un amministratore di fatto, è nel senso che entrambi rispondono del delitto in parola, il primo quale titolare dell'obbligo dichiarativo rimasto inadempiuto – e che avrebbe potuto comunque soddisfare nonostante la sua posizione marginale nell'impresa – ed il secondo quale soggetto cui di fatto spettava l'osservanza delle disposizioni penali in tema di obbligazioni fiscali gravanti sull'azienda (in dottrina, TURIS, Violazioni tributarie e concorso di persone nel reato. Il caso dell'amministratore di fatto di società, in Fisco, 2011, 4351; FONTANA, L'amministratore di fatto risponde dell'omessa dichiarazione, in Corr. Trib., 2011, 2622; CONSULICH, Poteri di fatto ed obblighi di diritto nella distribuzione delle responsabilità penali societarie, in Soc., 2012, 555; ARTUSI, Sulla correità dell'amministratore formalmente investito della funzione con l'amministratore di fatto, in Giur. It., 2012, 903).

Rispetto a questa impostazione, si rinvengono solo due decisioni che se ne distaccano (Cass., sez. III, 10 giugno 2011, n. 23425; Cass., sez. III, 28 agosto 2018, n. 36474), sostenendo che deve differenziarsi la responsabilità dell'amministratore di diritto cd. prestanome o testa di legno a seconda che si tratti di illeciti a dolo generico e illeciti a dolo specifico. Secondo queste due decisioni, nei reati omissivi, commessi in nome e per conto della società, l'amministratore di fatto è il soggetto attivo del delitto e il prestanome è il concorrente per non avere impedito l'evento illecito, giacché quest'ultimo, accettando la carica, ha accettato i rischi connessi al proprio ruolo, quale, ad esempio, impedire danni per la società stessa e per i terzi; in sostanza, in tema di illeciti connessi all'esercizio dell'attività di impresa, non avendo il prestanome alcun potere di ingerenza nella gestione dell'azienda, i reati omissivi sono solo formalmente a egli imputabili, atteso che l'agente effettivo va individuato in chi effettivamente gestisce la società, essendo l'unico in grado di compiere (o meno) l'azione dovuta.

Proprio perché il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d'ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, la giurisprudenza fa frequente ricorso alla figura del dolo eventuale. Tuttavia, la sussistenza di un tale elemento soggettivo è sufficiente per rinvenire un'ipotesi di concorso del prestanome nel delitto dell'amministratore di fatto quando tale delitto sia punibile a titolo di dolo generico; nel caso invece in cui si versi in reati a dolo specifico – come quello di omessa dichiarazione, in relazione al quale l'inadempimento dell'obbligo dichiarativo deve essere finalizzato all'evasione dell'imposta - al prestanome/amministratore di diritto, il fatto può essere addebitato, a titolo di concorso con l'amministratore di fatto, a condizione che ricorra l'elemento soggettivo proprio del reato e cioè il dolo di evasione. In particolare, per il delitto di omessa presentazione oltre al dolo generico, cioé la coscienza di aver omesso l'adempimento, occorre la volontà di evasione, integrata dalla cosciente intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte attraverso la citata omessa presentazione ed il giudice di merito deve individuare, al di là della mera assunzione della carica, ulteriori elementi a dimostrazione dell'intento evasivo (si veda GIUDETTI, La responsabilità omissiva degli amministratori di società nel diritto penale tributario, in Cass. Pen., 2016, 2971).

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