Responsabilità sanitaria: risarcimento dimezzato per il figlio nato morto

Michol Fiorendi
14 Gennaio 2021

Ai fini della liquidazione del danno da perdita parentale, può essere equiparabile la perdita del feto nato morto a quella del decesso di un figlio oppure il venire meno di una relazione affettiva in nuce deve essere valutata diversamente dal venir meno di una relazione affettiva concreta?
Massima

Nel caso in cui una gravidanza concluda, per colpa medica, il suo naturale decorso con il decesso del feto, ai fini della quantificazione del danno, assume rilievo che manchi un rapporto fisico e psichico oggettivo tra lo stesso ed i genitori, risultando così solo potenziale la privazione della relazione affettiva, essendo questa mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita.

Il caso

Tizio e Caia citano in giudizio l'Azienda Ospedaliera in cui Caia partorisce, e ciò a seguito della morte del feto portato in grembo da Caia, prospettando la responsabilità dei sanitari che l'avevano sottoposta a visita ginecologica poco prima del parto e richiedendo il risarcimento del danno subito.

Questa la ricostruzione di parte attrice: la gravidanza di Caia era considerata a rischio poiché ottenuta con la tecnica di riproduzione assistita, detta FIVET, ed il tracciato eseguito nel pomeriggio antecedente al decesso del feto evidenziava uno stato di grave sofferenza del medesimo. La paziente, inoltre, accusava contestualmente forti dolori all'addome, contrazioni e gonfiore.

Nonostante ciò, veniva dimessa dall'Ospedale senza alcuna prescrizione.

Il Tribunale territoriale adito respingeva la domanda proposta per il risarcimento del danno patrimoniale e non, derivato dalla morte intrauterina del feto, rilevando che non erano emerse responsabilità dell'azienda convenuta ed evidenziando, semmai, che la morte del feto era avvenuta al momento della rottura delle membrane, riconducibile ad un evento distinto, difettando, così, il nesso eziologico tra evento dannoso e prestazione sanitaria.

Tizio e Caia proponevano, quindi, appello alla Corte d'Appello competente che, disponendo la rinnovazione della consulenza, accoglieva la domanda dei ricorrenti, condannando l'Azienda Ospedaliera al risarcimento del danno subito dai genitori e dai nonni.

Contro tale decisione ricorreva l'Ospedale, portando la vicenda all'attenzione della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte si allinea alla decisione assunta dai giudici di seconde cure, condividendone l'impostazione.

La questione

Ai fini della liquidazione del danno da perdita parentale, può essere equiparabile la perdita del feto nato morto a quella del decesso di un figlio oppure il venire meno di una relazione affettiva in nuce deve essere valutata diversamente dal venir meno di una relazione affettiva concreta?

Le soluzioni giuridiche

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, aderendo a quanto sostenuto dalla Corte d'Appello, fa presente come, nel caso di morte intrauterina del feto, è ipotizzabile solo il venir meno di una relazione affettiva potenziale che, cioè, avrebbe potuto instaurarsi, nella misura massima del rapporto genitore figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita, ma non anche una relazione affettiva concreta, sulla quale parametrare il risarcimento, all'interno della forbice di riferimento.

In ragione di ciò, si deve provvedere al risarcimento sulla base di un criterio equitativo, senza specifiche linee guida, che può portare alla liquidazione di una somma, in favore di ciascun genitore, pari alla metà del minimo riconoscibile secondo i parametri delle tabelle del Tribunale di Milano.

Ed anche un'altra recente sentenza, la n. 1899/2020 della II sez. civ. del Tribunale di Lecce, oltre alla decisione qui in commento, affronta questo delicato tema: in questo caso, il Giudice pone attenzione sul fatto che il danno da riconoscersi agli attori attiene non già alla perdita del rapporto parentale in sé, ma alla perdita di chance del rapporto parentale, reputando che l'errore del medico non abbia determinato la morte del feto, evento che si sarebbe, comunque, verificato con elevata probabilità, ma la chance per il feto di sopravvivere.

In altri termini, il danno consisterebbe nella perdita della possibilità di accedere ad un risultato favorevole comunque incerto.

Sul punto, per sottolineare l'ontologica differenza tra il danno da perdita di chance ed il danno da perdita del rapporto parentale, il Tribunale di Lecce ripropone gli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità secondo cui l'incertezza del risultato è destinata ad incidere non sull'analisi del nesso causale, ma sull'identificazione del danno, poiché la possibilità perduta di un risultato sperato (cioè la chance) è la qualificazione/identificazione di un danno risarcibile a seguito della lesione di una situazione soggettiva rilevante e non della relazione causale tra condotta ed evento, che si presuppone risolta positivamente prima e a prescindere (Cass. civ., sent. n. 28993/2019).

Osservazioni

Le premesse giuridiche poste alla base della decisione qui in commento sono, peraltro, utili anche per fissare lo stato dell'arte sul tema della natura della responsabilità del medico e dell'onere della prova relativo al nesso di causalità.

Con riguardo al profilo dell'onere probatorio si evidenzia come l'orientamento dominante in Cassazione ma anche nelle pronunce di merito (tra le quali, quella appena citata del Tribunale di Lecce) abbiacondiviso la tesi in base alla quale incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia e l'azione o l'omissione dei sanitari.

Con l'ulteriore precisazione che la prova del nesso causale tra evento e condotta deve essere raggiunta secondo la regola della riferibilità causale dell'evento stesso all'ipotetico responsabile, la quale presuppone una valutazione nei termini del cosiddetto “più probabile che non” (c.d. regime di preponderanza dell'evidenza).

Per fare un cenno anche ai titolari del diritto risarcitorio in questione, invece, essi si possono senza dubbio ritrovare nei genitori e nei fratelli, appartenenti alla cosiddetta “famiglia nucleare” che trova la sua tutela come formazione sociale nell'art. 29 della Costituzione, con la conseguenza che rispetto a tale categoria di familiari il danno deve ritenersi presunto con presunzione che potrebbe comunque superarsi, ove si dimostri che il vincolo affettivo era venuto meno prima della morte del congiunto.

Con riguardo, invece, agli altri rapporti parentali più lontani come quelli con i nonni, gli zii e simili, essi possono, ricorrendone i presupposti, rientrare nell'ambito eterogeneo delle formazioni sociali ove si svolge la personalità dell'individuo, tutelato dall'art. 2 della Costituzione e solo per tale via conquistare una dignità risarcitoria, che non può prescindere dalla effettività e profondità del vincolo.

La giurisprudenza ha, spesso, individuato nel requisito della convivenza con il de cuius il parametro per riconoscere il diritto al risarcimento ai soggetti non appartenenti alla cosiddetta famiglia nucleare, ma le mutate relazioni sociali hanno ormai superato anche la famiglia nucleare visto che la casistica riguardante le dinamiche relazionali della famiglia presenta una robusta evoluzione verso modalità di coniugio e di genitorialità basata sulla distanza fisica tra marito e moglie, fra padri e madri e fra questi e i parenti, distanza che spesso intercorre fino a nazioni e continenti diversi; pertanto, pur mutando le modalità relazionali, non risultano pregiudicati il vincolo di solidarietà e la comunione di vita e di affetti che governano le relazioni parentali.

In ragione di ciò, la prova della convivenza non può più considerarsi l'unico indefettibile presupposto per determinare la risarcibilità del rapporto parentale pregiudicato.

Il punto nodale della questione attiene, dunque, all'esame del caso concreto ed all'accertamento di un effettivo rapporto parentale suscettibile di essere equiparato a quello dei componenti della famiglia nucleare, anche se con un danno più modesto.

Tuttavia, la varietà delle vicende umane deve essere filtrata attraverso le maglie di ciò che è giuridicamente rilevante, e nel vasto panorama di dolori e sofferenze umane, solo una parte acquista tutela giuridica comportando il riconoscimento di un danno risarcibile.

Si tratta, pertanto, di un esempio concreto di applicazione del “diritto vivente” che, sempre più spesso, viene preso in considerazione dalla giurisprudenza di legittimità nello sforzo di rendere aderenti le norme giuridiche alla realtà sociale ed all'evoluzione della società.

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