Postare e deridere qualcuno su Facebook costituisce stalking?

Ilenia Alagna
18 Gennaio 2021

Il reato di stalking può essere integrato dalla pubblicazione di post irridenti su una pagina Facebook senza l'indicazione diretta dei destinatari?
Massima

La pubblicazione di post "canzonatori" su un profilo Facebook pubblico non integra il reato di stalking. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 34512 ha rilevato che per configurarsi il reato ex art. 612-bis c.p. deve scattare quello stato d'ansia ingenerato da comunicazioni invasive della sfera privata quali sono, ad esempio, gli sms telefonici o i messaggi di Whatsapp indirizzati direttamente alla "vittima". Mancando, nel caso de qua, il requisito della invasività inevitabile connessa all'invio di messaggi privati e, rientrando nei limiti della legittima libertà di manifestazione del pensiero e del diritto di critica, la pubblicazione è legittima.

Il caso

Nel caso in esame l'imputato minacciava e molestava con messaggi ingiuriosi e diffamatori sia telefonicamente sia tramite Facebook due coniugi a cui aveva dato in locazione un immobile in nero. In particolare, l'uomo aveva creato un profilo Facebook ad hoc denominato “Inquilino al nero” con l'obiettivo di insultare la coppia, al punto di costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita (cambiando numero di telefono e profilo Facebook) e cagionando un grave stato di ansia e paura. La Corte d'Appello di Milano, riformando la sentenza di primo grado, assolveva l'imputato dal reato di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p.

Avverso tale sentenza, ricorreva in Cassazione il Procuratore generale, lamentando che la Corte avesse fornito una lettura alternativa delle emergenze processuali, asserendo che: “il rapporto locatizio, oggetto di controversia civile, minasse l'attendibilità delle parti civili…” mentre tale controversia costitutiva solo lo sfondo delle condotte. Difatti, l'oggetto del processo era costituito dai messaggi offensivi e minacciosi, reiterati in modo persecutorio tramite sms e post su Facebook, mentre a giudizio della Corte tali messaggi non assumevano rilievo ed inoltre la loro lettura dipendeva da una scelta deliberata delle vittime, e non dalla diffusione intrinseca dei contenuti postati sui social network.

La questione

Il reato di stalking può essere integrato dalla pubblicazione di post irridenti su una pagina Facebook senza l'indicazione diretta dei destinatari?

Le soluzioni giuridiche

Con la sentenza n. 34512/2020 della quinta sezione penale la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto ritenendo che il reato di stalking non si configuri con la pubblicazione di post irridenti su una pagina ‘pubblica' Facebook laddove non siano indicati dei nomi e dei riferimenti individualizzanti. Secondo la Suprema Corte pubblicare post, seppur dai toni forti, senza indirizzarli direttamente alle vittime su una pagina visibile a tutti gli utenti dei social network, la cui lettura era rimessa alla volontà degli stessi, fa venire meno l'invasività inevitabile connessa all'invio di messaggi privati, mediante SMS, WhatsApp, e telefonate, che invece caratterizza gli atti persecutori rilevanti ai sensi dell'art. 612-bis c.p. Inoltre, secondo la Corte di Cassazione, il post rispondeva più ad un intento ironico ed irridente, di per sé lecito, in quanto legittimo esercizio di un diritto di critica, nonostante le modalità pungenti. In ogni caso, le condotte contestate non erano riconducibili e nessuno degli eventi del reato alternativamente previsti dall'art. 612-bis c.p.

La fattispecie di atti persecutori, di cui all'art. 612-bis c.p., è strutturalmente una fattispecie di reato abituale, in quanto primo elemento del fatto tipico è il compimento di condotte reiterate, omogenee od eterogenee tra loro, con cui l'autore minaccia o molesta una persona, ad evento di danno, che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo dei quali è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari a cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero ad ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, a costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita (Cass. pen., Sez. V, 5 giugno 2012, n. 39519). Orbene la pubblicazione di post meramente canzonatori e irridenti su una pagina Facebook accessibile a chiunque, non integra la condotta degli atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p., mancando il requisito della invasività inevitabile connessa all'invio di messaggi privati (mediante SMS, WhatsApp e telefonate) e, se rientra nei limiti della legittima libertà di manifestazione del pensiero e del diritto di critica, è legittima”.

Il determinarsi dell'evento dello stato di ansia e tensione nella vittima prescinde dall'accertamento di un vero e proprio stato patologico non richiedendo necessariamente una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell'agente sull'equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime d'esperienza (Cass. pen., Sez. V, 19 febbraio 2014, n. 18999). Ciò che è sufficiente è che gli atti ritenuti persecutori, nella specie minacce, molestie e insulti alla persona offesa, inviati anche con post e messaggi, abbiano un effetto destabilizzante della serenità ed equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice non costituisce una duplicazione del reato di lesioni, il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica. La prova dell'evento di danno, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, ben può essere ricavata, oltre che dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Cass. pen., Sez. VI, 14 ottobre 2014, n. 50746).

Nel provvedimento de qua gli Ermellini hanno sottolineato che la Corte di appello avesse evidenziato come dei messaggi asseritamente inviati dall'imputato non fosse stata rinvenuta alcuna traccia nella memoria dei telefoni delle parti civili; le visualizzazioni della pagina Facebook della parte civile, poi, erano consentite dallo stesso profilo pubblico adottato dalla donna, perciò accessibile a chiunque, mentre la pagina Facebook aperta dall'imputato conteneva messaggi irridenti nei confronti dei proprietari dell'appartamento locato “in nero” e in condizioni malandate, senza tuttavia alcuna indicazione dei nomi o di riferimenti individualizzanti. Il Giudice di secondo grado, pertanto, aveva ritenuto provata solo la pubblicazione di post canzonatori non indirizzati alle parti su una pagina visibile a tutti gli utenti del social network, la cui lettura era rimessa alla volontà degli stessi. Pertanto mancava, nella fattispecie, l'invasività inevitabile connessa all'invio di messaggi privati medianti Sms, Whatsapp e telefonate che caratterizza il reato di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p.

La pubblicazione di post sulla pagina Facebook aperta dall'imputato rispondeva più ad un intento ironico e irridente, di per sé lecito in quando legittimo esercizio di un diritto di critica, sia pure espressa con modalità aspre.

Osservazioni

Esprimere liberamente un'opinione, peraltro senza riferimenti espliciti ad un soggetto determinato e leggibili da chiunque, pur se il post sul social network riporta un contenuto offensivo su una pagina aperta al pubblico non integra il reato di stalking ma può trovare estrinsecazione nel fenomeno, oggi assai diffuso in rete, dell'hate speech (espressione spesso tradotta in italiano con la formula “incitamento all'odio” ed elaborata negli anni dalla giurisprudenza americana per indicare un genere di parole e discorsi che non hanno altra funzione a parte quella di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo, e che rischiano di provocare reazioni violente contro quel gruppo o da parte di quel gruppo) anche se l'imputato probabilmente ha commesso tale azione non per ledere la reputazione altrui bensì al fine di dar sfogo alla propria situazione o semmai per ricevere qualche suggerimento da parte dei suoi contatti del Social Network.


L'hate speech è un tema che alimenta un dibattito molto attuale e ancora più controverso nel caso della libertà di espressione su internet, in cui non esistono specifiche normative internazionali condivise. Le grandi aziende come Google e Facebook affidano la compilazione delle norme di utilizzo dei servizi a un gruppo di lavoro specifico, che chiamano “Deciders”, ovvero “quelli che decidono”. Facebook allarga un po' le maglie: lo vieta ma aggiunge che sono ammessi messaggi con «chiari fini umoristici o satirici», che in altri casi potrebbero rappresentare una minaccia e che molti potrebbero comunque ritenere «di cattivo gusto». Twitter, invece, è il più “aperto”: non vieta esplicitamente l'hate speech e neppure lo cita, eccetto che in una nota sugli annunci pubblicitari (in cui peraltro specifica che la campagne politiche contro un candidato «generalmente non sono considerate hate speech»).

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