Morte della zia in un incidente stradale: i nipoti vanno risarciti, anche se non conviventi

Enrico Basso
19 Luglio 2021

In tema di danno da perdita di un congiunto non appartenente al “nucleo familiare ristretto”, la convivenza non è condicio sine qua non per poter accedere al risarcimento, rappresentando, invece, un elemento probatorio utile per dimostrare, insieme ad altri elementi, l'ampiezza e la profondità del vincolo affettivo - presupposto dell'an debeatur - nonché per determinare il quantum debeatur.
Massima

In tema di danno da perdita di un congiunto non appartenente al “nucleo familiare ristretto”, la convivenza non è condicio sine qua non per poter accedere al risarcimento, rappresentando, invece, un elemento probatorio utile per dimostrare, insieme ad altri elementi, l'ampiezza e la profondità del vincolo affettivo - presupposto dell'an debeatur - nonché per determinare il quantum debeatur.

Il caso

Tizia viene investita, mentre attraversa la strada, dal veicolo condotto da Sempronia, e muore. Caio, Sempronio e Mevio - nipoti di Tizia - citano in giudizio il conducente, il proprietario e la compagnia assicuratrice del veicolo, chiedendo il risarcimento dei danni patiti per la perdita della cara zia.

Il tribunale, però, rigetta la domanda, ritenendo la responsabilità esclusiva del pedone nella causazione del sinistro.

I tre nipoti, allora, propongono appello; ma il gravame è respinto sulla scorta della ragione più liquida, che la Corte ravvisa nel fatto che i danneggiati non convivessero con la zia.

Caio, Sempronio e Mevio ricorrono allora in Cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 29, 30, 31, 32 cost. in combinato disposto con gli artt. 1226, 2043 e 2059 cod. civ.

La questione

Al di fuori del nucleo familiare ristretto (genitori, figli, fratelli), la lesione del rapporto parentale è risarcibile solo in caso di convivenza tra danneggiato e parente deceduto?

Le soluzioni giuridiche

Sin da quando ha iniziato a liquidare il danno da lesione del rapporto parentale, la giurisprudenza ha dovuto anche preoccuparsi di circoscrivere ragionevolmente l'ambito dei c.d. “danneggiati secondari” risarcibili. E se non ci sono mai stati grandi problemi a comprendere nel novero - anche sulla scorta di presunzioni - il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli e le sorelle, al di fuori di tale “nucleo familiare ristretto” la storia è ben diversa.

Negli anni '90 la Cassazione, richiamando un precedente del '74, affermava che la risarcibilità dei danni morali per la morte di un congiunto, causata da atto illecito penale, non potesse essere estesa, nelle intenzioni del legislatore, a ogni parente che avesse sofferto per la perdita, ma solo a quelli stretti che potessero allegare “la perdita di un effettivo valido sostegno morale”; e tale presupposto si poteva ritenere sussistente, ad esempio, in caso di convivenza (cfr. Cass. civ. sez. III, 23 giugno 1993, n. 6938).

In Cass. civ., sez. III, 15 luglio 2005, n. 15019 leggiamo che il danno in discorso, incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell'atto illecito e i superstiti, non è riconoscibile se non attraverso elementi indiziari e presuntivi, che, opportunamente valutati con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del giudice. Per contro, sarebbe illogica, perché contraria a principi di ordinaria razionalità, la pretesa di "una prova in senso tecnico" a dimostrazione del dolore dei superstiti, che, essendo sostanzialmente un sentimento e, comunque, un danno di portata spirituale, può essere rilevato soltanto in maniera indiretta.
Perciò, l'assenza di coabitazione non può essere considerata elemento decisivo di valutazione, ben potendo essere imputabile a circostanze di vita che non escludono il permanere dei vincoli affettivi e la vicinanza psicologica con il congiunto deceduto.

Nel 2012 la giurisprudenza fa un passo indietro: Cass. civ. sez. III, 16 marzo 2012, n. 4253, prendendo partito nel contrasto giurisprudenziale di cui s'è detto, aderisce all'orientamento più risalente, affermando che, affinché possa ritenersi leso il rapporto parentale di soggetti al di fuori del nucleo familiare ristretto (come nel caso di nonni, nipoti, genero e nuora) è necessaria la convivenza, quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità dei rapporti parentali caratterizzati da reciproci vincoli affettivi, di pratica della solidarietà, di sostegno economico.
In verità, Cass. n. 6938/1993 non poneva la convivenza come condicio sine qua non per la sussistenza del danno, menzionando detta circostanza solo a titolo esemplificativo, tra quelle astrattamente idonee a rivelare la perdita di un effettivo valido sostegno morale in capo al parente superstite e, perciò, legittimanti la richiesta risarcitoria.
Ciononostante, Cass. n. 4253/2012 sarà spesso invocata dalla giurisprudenza di merito che, nel periodo successivo, ha negato il risarcimento in questo tipo di situazioni.

Da ultimo, si è registrata una nuova inversione di tendenza. La Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2016, n. 21230 ha rilevato come la "società naturale" della famiglia cui fa riferimento l'art. 29 della Costituzione non possa essere limitata all'ambito ristretto della sola cd. "famiglia nucleare", incentrata su coniuge, genitori e figli; e come, in tale contesto, la convivenza non possa essere condicio sine qua non per dar luogo a un rapporto parentale caratterizzato da reciproci vincoli affettivi, pratica della solidarietà, sostegno economico, la cui perdita sia risarcibile.
A conferma di ciò, il Supremo Collegio ha osservato come esistano convivenze non fondate su vincoli affettivi (magari perché determinate da necessità economiche, egoismi o altro) e “non-convivenze” determinate da esigenze di studio o di lavoro in sedi lontane - o comunque non necessitate da bisogni assistenziali e di cura - ma che non implicano, di per sé, carenza di intensi rapporti affettivi o difetto di relazioni di reciproca solidarietà: rapporti e relazioni la cui perdita, dunque, non può essere esclusa dall'area della risarcibilità.

L'ordinanza Cass. civ., sez. III, 24 marzo 2021 n. 8218, in commento, si pone sul solco di quest'ultimo orientamento, confermandone senza riserve tutti i percorsi argomentativi, incluso quello che relega il fatto della convivenza alla funzione di elemento probatorio utile, insieme ad altri, per dimostrare sia l'ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti (e, con esse, la risarcibilità del danno), sia per determinare il quantum debeatur.

Con la precisazione che, se la mancata convivenza non esclude a priori la risarcibilità della perdita della zia, il danneggiato deve pur sempre allegare e provare altrimenti tutti gli elementi costitutivi del danno e, quindi, l'esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare non-convivente defunto.

In ordine al quantum: tabelle milanesi o tabelle romane?

La recente sentenza Cass. civ., sez. III, 21 aprile 2021 n. 10579 offre un interessante spunto per soffermarsi brevemente anche sul delicato aspetto della quantificazione del danno da perdita parentale.

Nella pronuncia in questione, il Supremo Collegio ha dovuto prendere posizione sulla mancata adozione delle tabelle del Tribunale di Roma, utilizzate in primo grado ma poi abbandonate in favore di quelle milanesi dalla Corte territoriale, che ha valorizzato la “vocazione nazionale” di queste ultime.

Orbene, è noto che l'utilizzo delle tabelle milanesi trovi fondamento nel potere del giudice di valutazione equitativa del danno previsto dall'art. 1226 c.c.; e che il sistema del punto variabile ivi utilizzato consenta di sussumervi i singoli casi concreti, garantendo uniformità nella risoluzione delle controversie (il che costituisce, per l'appunto, la loro ragion d'essere).

Tuttavia, per quanto riguarda il danno da perdita parentale, la tabella meneghina – a differenza di quella romana - non segue la tecnica del punto variabile, ma individua un tetto minimo ed un tetto massimo, limitandosi, sostanzialmente, a ridurre il margine di generalità dell'art. 1226 c.c. (e neppure per tutti i possibili rapporti di parentela, visto che contempla solo quelli in linea diretta).

Di qui, l'enunciazione del principio di diritto secondo cui "al fine di garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l'adozione del criterio a punto, l'estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l'elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l'indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l'eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella".

Da tale principio, il Supremo Collegio ha fatto discendere la legittimità della scelta di liquidare il danno da perdita parentale applicando la tabella romana, ancorché priva della “vocazione nazionale” di quella milanese: perlomeno fino a quando quest'ultima non recepirà i criteri indicati dalla Cassazione, e fino a quando il risultato ottenuto con la tabella romana non si dimostri sproporzionato a quello ottenibile con le tabelle milanesi.

Osservazioni

La condivisibile apertura della giurisprudenza al risarcimento della perdita di congiunti non appartenenti al nucleo familiare ristretto e non conviventi non deve trarre in inganno.

La necessità di evitare una dilatazione ingiustificata dei “danneggiati secondari” è sempre ben presente nei pensieri della Corte di Cassazione; e - allora come ora - l'obiettivo viene perseguito circoscrivendo la risarcibilità del danno, con un occhio alla Costituzione, alle sole relazioni di parentela contraddistinte da reciproci e stabili legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico.

In buona sostanza, quindi, l'orientamento giurisprudenziale più moderno si differenzia dal precedente solo in ciò: mentre prima si riteneva che la mancata convivenza fosse l'unica circostanza idonea a provare la perdita di una relazione parentale sufficientemente “stabile e solidale”, oggi viene considerata una delle possibili circostanze idonee (e, oltretutto, solo se corroborata da altri elementi).

Tutti i nipoti sono avvisati.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.