Compensatio lucri cum damno: lo scomputo dell'indennizzo ex l. n. 210/1992 dalle somme versate a titolo di risarcimento del danno da emotrasfusione

Roberta Brusco
08 Ottobre 2021

La compensazione non può operare qualora l'indennizzo indicato dalla legge non sia stato corrisposto, ovvero non sia quanto meno determinato o determinabile nel suo preciso ammontare. Difatti l'astratta spettanza di una somma eventualmente suscettibile di essere compresa tra un minimo e un massimo, a seconda della patologia riconosciuta, non equivale alla sua corresponsione e non fornisce elementi per individuarne l'esatto ammontare.
Massima

“La compensazione (mediante scomputo dall'importo residuale dovuto) non può operare qualora l'indennizzo indicato dalla legge non sia stato corrisposto, ovvero non sia quanto meno determinato o determinabile nel suo preciso ammontare. Difatti l'astratta spettanza di una somma eventualmente suscettibile di essere compresa tra un minimo e un massimo, a seconda della patologia riconosciuta, non equivale alla sua corresponsione e non fornisce elementi per individuarne l'esatto ammontare”.

Il caso

Nel caso di specie, a seguito di una trasfusione di sangue avvenuta nel 1984 presso una struttura ospedaliera, un uomo contraeva il virus dell'epatite C (virus HCV). Quest'ultimo conveniva, quindi, innanzi al Tribunale il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali al fine di farne accertare la responsabilità per omesso controllo sul sangue e sugli emoderivati e, conseguentemente, sentirlo condannare al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi dal paziente.

Il primo grado si risolveva a favore dell'attore.

La sentenza del Tribunale veniva però impugnata dal Ministero convenuto, il quale - oltre a contestare la sussistenza di profili di responsabilità a proprio carico – deduceva l'erronea quantificazione del danno e l'erroneo calcolo degli interessi sulla somma liquidata. L'attore contestava l'appello principale e contestualmente avanzava appello incidentale, chiedendo il riconoscimento del danno alla vita di relazione nella misura massima.

La Corte d'Appello accoglieva l'appello incidentale proposto dall'attore e rigettava il primo e il terzo motivo dedotto dal convenuto, confermando, quindi, la sussistenza di profili di responsabilità in capo al Ministero e il calcolo degli interessi effettuato dal giudice di primo grado sulla somma liquidata.

La Corte riteneva, tuttavia, fondato il secondo motivo proposto dal Ministero, relativo all'errata quantificazione del danno, stabilendo quale dies a quo della manifestazione del danno quello in cui si è manifestata la sintomatologia della malattia – e non già quello in cui è stata effettuata l'emotrasfusione – e disponendo il diffalco dell'indennizzo percepito dal paziente ex l. n. 210/1992 dalla somma liquidata a titolo di risarcimento.

Il danneggiato proponeva, quindi, ricorso in Cassazione deducendo l'illegittima disposizione dello scomputo del predetto indennizzo dalle somme riconosciute a titolo di risarcimento per difetto assoluto di prova sul punto.

La questione

Nella pronuncia qui esaminata, la Suprema Corta è stata chiamata a pronunciarsi sul tema della compensatio lucri cum damno in materia di danno da emotrasfusioni.

In particolare, la questione in esame è la seguente: per poter procedere alla compensazione, mediante scomputo dall'importo residuale dovuto, tra le somme corrisposte a titolo di risarcimento e quelle percepite a titolo di indennizzo, è sufficiente l'astratta spettanza di queste ultime o, diversamente, è necessaria una compiuta prova sia dell'an che del quantum? Se del caso, su chi grava tale onere?

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione, ritenendo fondato il ricorso, richiama e conferma l'orientamento già espresso in precedenti pronunce, secondo cui l'indennizzo di cui alla l. n. 210/1992 può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno solo se lo stesso sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati.

La Corte ha, infatti, precisato che – al fine di evitare un ingiustificato arricchimento del danneggiato attraverso il riconoscimento in capo allo stesso di due attribuzioni patrimoniali originate dal medesimo fatto lesivo – l'astratta spettanza di una somma non equivale in nessun modo alla sua effettiva corresponsione, né è in grado di fornire elementi idonei ad individuare l'esatto ammontare della stessa.

Pertanto, secondo la Corte, se una delle due poste, tra cui dovrebbe operare la compensazione, è rimasta – come nel caso di specie – incerta, il giudice non può procedere allo scomputo: la compensazione, infatti, presuppone necessariamente la coesistenza di due debiti aventi titoli diversi, non operando, diversamente, in relazione al mero verificarsi di un fatto quale l'avvenuta corresponsione dell'indennizzo o la prevedibile corresponsione dello stesso.

Da ultimo, con la sentenza in commento, la Corte, ha chiarito - in linea con il precedente orientamento - che grava sulla parte che eccepisce il lucrum (nel caso di specie, quindi, il Ministero convenuto) l'onere di provare il preciso ammontare della somma da portare in decurtazione dal risarcimento (Cass. Civ. n. 8866/2021; Cass. Civ. n. 21837/2019; Cass. Civ. n. 804326/2019; Cass. Civ. n. 20909/2018).

Osservazioni

Nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte, il ricorrente contestava l'illegittimo diffalco delle somme ricevute a titolo di indennizzo ai sensi della L. n. 210/92 dal risarcimento liquidato in sede giurisdizionale per i danni subiti a seguito di emotrasfusione infetta, deducendo la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2697 c.c.

Più in particolare, il ricorrente asseriva che “la detrazione delle somme già percepite (…) a titolo di indennizzo, ai sensi della l. n. 210/92 sia avvenuta senza alcuna prova da parte del Ministero onerato di provare l'an e il quantum corrisposto”.

Il ragionamento della Suprema Corte muove dai principi, ormai consolidati, dettati in materia di compensatio lucri cum damno, istituto che – seppur privo di un'espressa previsione normativa - trova la sua ratio e il suo fondamento nella funzione compensativa del rimedio risarcitorio (art. 1223 c.c.) e nel generale divieto di arricchimento senza causa (art. 2041 c.c.).

In virtù del generale principio di indifferenza, ovvero di integralità della riparazione, infatti, il risarcimento del danno deve mirare a reintegrare il patrimonio del danneggiato della perdita subita a causa dell'altrui inadempimento/illecito, senza che ciò costituisca per lo stesso fonte di locupletazione. È necessario, quindi, tener conto, oltre che dei danni, anche degli effetti vantaggiosi derivanti dall'altrui condotta illecita, operando una compensazione tra perdite e benefici.

Sul punto, la giurisprudenza ha più volte affermato che - ai fini dell'operatività della compensatio lucri cum damno - è richiesta l'unità causale dell'evento dannoso, il quale deve costituire fonte sia degli effetti negativi che di quelli positivi (cfr. Cass. Civ. sez. III, 20 maggio 2013, 12248; in senso conforme Cass. Civ. n. 16088/2018 e Cass. Civ. n. 4950/2010). Indirizzo, quest'ultimo, recentemente confermato dalle Sezioni Unite le quali - dirimendo una serie di contrasti sorti in dottrina e giurisprudenza in merito ai presupposti di operatività della compensatio – hanno statuito che la stessa può operare soltanto in presenza di due condizioni cumulative: “la medesimezza delle cause giustificative delle attribuzioni patrimoniali spettanti al danneggiato e l'esistenza di un meccanismo legislativo di riequilibrio” (cfr. Cass. SS.UU. civ. n. 12564, 12565, 12566, 12567 del 22 maggio 2018).

Ebbene, la pronuncia qui analizzata rappresenta una conferma del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui – ferma la diversa natura tra diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue e attribuzione indennitaria regolata dalla l. n. 210 del 1992– nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della salute per omessa adozione delle dovute cautele,l'indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (cfr. Cass. SS.UU. civ. 11 gennaio 2008, n. 584; Cass. Civ. sez. III, 23 maggi 2011, n. 11302; Cass. Civ. sez. III, 14 marzo 2013, n. 6573; Cass. Civ. sez. III, 20 gennaio 2014, n. 991 e Cass. Civ. sez. VI-3 24 settembre 2011 n. 20111.). Diversamente, infatti, la vittima godrebbe di un ingiustificato arricchimento derivante nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo.

Più in particolare, con l'ordinanza in esame, gli ermellini - in linea con il precedente orientamento - hanno statuito che “l'astratta spettanza di una somma non equivale alla sua effettiva corresponsione né fornisce elementi idonei ad individuarne l'esatto ammontare”, chiarendo che l'indennizzo di cui alla l. n. 210/1992 può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno solo se sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova è onerata la parte che eccepisce il lucrum (in senso conforme Cass. Civ. n. 8866/2021).

Nel caso di specie, quindi, la Suprema Corte ha ritenuto fondate le doglianze del ricorrente, ritenendo non soddisfatto l'onere probatorio gravante sul Ministero convenuto in merito all'effettiva corresponsione dell'indennizzo e, conseguentemente, dichiarando l'illegittimità dello scomputo di quest'ultimo dal risarcimento liquidato in sede giurisdizionale.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.