Il fallimento dell'amministratore di una s.r.l. non comporta la decadenza dalla carica
10 Novembre 2021
Massima
Il fallito può essere amministratore di una società a responsabilità limitata, salvo che ciò non sia escluso da una disposizione dello statuto, dal momento che, per tale tipologia di società, non sono regolamentate le cause di ineleggibilità e di decadenza degli amministratori e non è previsto un rinvio alle norme dettate dall'art. 2382 c.c. per la società per azioni. Il caso
Il Tribunale di Macerata dichiarava il fallimento di una società a responsabilità limitata; avverso la sentenza, interponeva reclamo la società, in persona del suo amministratore e legale rappresentante. Nel giudizio così radicato, la curatela, oltre a sostenere l'infondatezza del reclamo, ne eccepiva, in via preliminare, l'inammissibilità per difetto di rappresentanza processuale della società reclamante in capo all'amministratore, in quanto precedentemente attinto da dichiarazione di fallimento in estensione quale socio illimitatamente responsabile di società in accomandita semplice; di conseguenza, secondo la curatela, egli doveva considerarsi decaduto ex lege dalla carica di amministratore, in applicazione analogica della regola dettata dall'art. 2382 c.c. L'eccezione, tuttavia, veniva respinta, dal momento che l'applicabilità della norma sopra citata, afferente alla disciplina della società per azioni, veniva esclusa con riguardo all'amministratore di società a responsabilità limitata. A seguito dell'accoglimento del reclamo, la curatela ricorreva per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona, lamentando – per quanto interessa in questa sede – l'erroneità della pronuncia nella parte in cui, negando l'operatività in via analogica dell'art. 2382 c.c. nei confronti dell'amministratore di società a responsabilità limitata, non aveva ravvisato la carenza di potere rappresentativo in capo all'amministratore della società reclamante. Le questioni giuridiche e la soluzione
Con l'ordinanza che si annota, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso, condividendo l'impostazione fatta propria dalla pronuncia gravata in merito alla ritenuta inapplicabilità della norma di cui all'art. 2382 c.c. all'amministratore di società a responsabilità limitata. La motivazione posta a fondamento della decisione assunta si articola nei seguenti passaggi: 1) con la riforma di cui al d.lgs. 6/2003, il legislatore non ha disciplinato le cause di decadenza e di ineleggibilità degli amministratori di società a responsabilità limitata, né operato un rinvio alla disciplina dettata in proposito per la società per azioni; 2) nemmeno può assumere rilievo la regola, valevole per le società di persone, in base alla quale il socio dichiarato fallito è escluso di diritto; 3) al fallito non è, di per sé, vietato di intraprendere da solo lo svolgimento di attività imprenditoriale; 4) di conseguenza, dalla dichiarazione di fallimento dell'amministratore non può farsi discendere la sua decadenza dalla carica, salvo che ciò sia previsto da una clausola dello statuto. Osservazioni
La pronuncia che si annota, confermando l'orientamento già espresso dalla giurisprudenza di legittimità (in particolare, da Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2013, n. 18904; in senso adesivo, si veda anche Trib. Vicenza, 7 agosto 2020), ha ribadito che, alla luce dell'attuale assetto normativo, la dichiarazione di fallimento dell'amministratore di società a responsabilità limitata non comporta né l'ineleggibilità alla carica, né la decadenza dalla stessa, a meno che lo statuto non contenga una clausola che la preveda quale causa ostativa. La Corte di cassazione perviene all'affermazione di tale principio sulla scorta di un'approfondita ricostruzione del quadro ordinamentale di riferimento, dalla quale emerge l'insostenibilità di una diversa conclusione fondata sul diritto positivo. Così, In primo luogo, viene messo in evidenza che, con la riforma del diritto societario di cui al d.lgs. 6/2003, il legislatore non ha né regolamentato le cause di decadenza e di ineleggibilità degli amministratori della società a responsabilità limitata, né previsto un rinvio alla regola dettata in proposito dall'art. 2382 c.c. per la società per azioni (a mente del quale “Non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l'interdetto, l'inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi”), a differenza di quanto avveniva sotto l'egida della disciplina antecedente alla riforma, per effetto dell'espresso richiamo di tale norma contenuto nell'allora vigente art. 2487 c.c. Per i giudici di legittimità, il silenzio serbato sul punto dal legislatore, ovvero l'omessa riproposizione del rinvio all'art. 2382 c.c., non può essere considerato irrilevante o alla stregua di una mera dimenticanza, ma è, piuttosto, la conseguenza della volontà di marcare la differenza esistente tra i due tipi societari. Tale differenza si può apprezzare pienamente se si considera l'evoluzione del rapporto tra i modelli in questione: se, infatti, nella versione originaria del codice civile, la società a responsabilità limitata era stata concepita come una sorta di piccola società per azioni (con la conseguenza che la disciplina della prima ricalcava la seconda, con l'aggiunta di alcune semplificazioni e varianti), la riforma del 2003 ha perseguito l'obiettivo di mettere a disposizione degli operatori economici di piccole e medie dimensioni uno strumento maggiormente imperniato sulla considerazione delle persone dei soci e dei loro rapporti personali, caratterizzato da una significativa e accentuata elasticità (ravvisabile nella più ampia possibilità di introdurre nello statuto disposizioni in grado di deviare dalla disciplina legale), a fronte di un modello operativo (quello della società per azioni) istituzionalmente destinato alle imprese di notevoli dimensioni e provvisto di una regolamentazione tendenzialmente rigida. Un tanto giustifica l'intento di non uniformare del tutto la disciplina concernente l'amministrazione dei due tipi di società e ciò vale, in particolare, con riguardo alle cause di ineleggibilità e di decadenza dei soggetti incaricati della gestione; a tale proposito, l'ordinanza che si annota pone l'accento sulla idoneità del modello di società a responsabilità limitata – in sé aperto e disponibile ad accogliere la considerazione delle persone che vi partecipano – a “consentire il reinserimento nell'attività imprenditoriale delle persone dichiarate fallite ovvero a mantenerne la posizione pure per il caso in cui queste vengano (nel futuro) dichiarate fallite: sia come soci, sia pure – e anche distintamente – come amministratori”. In secondo luogo, i giudici di legittimità escludono che all'amministratore di società a responsabilità limitata possa estendersi la norma di cui all'art. 2288 c.c., che prevede, quale causa di esclusione di diritto del socio, la sua dichiarazione di fallimento. Si tratta, infatti, di disposizione che riguarda prettamente il socio, che, nelle società di persone, non necessariamente assume il ruolo di amministratore, mentre, di converso, tale carica può essere conferita anche a un soggetto che socio non è (e che, come tale, non potrebbe essere escluso per effetto della norma di cui al predetto art. 2288 c.c.). D'altra parte, la ratio della disposizione in parola è stata individuata nell'esigenza di operare un bilanciamento degli interessi della società e della massa creditoria del fallimento del socio, evitando alla prima di subire l'ingresso nella compagine sociale del fallimento e la vendita in via esecutiva a terzi della partecipazione del fallito, assicurando alla seconda, nel contempo, il diritto a una piena e pronta monetizzazione della medesima partecipazione, mediante la sua liquidazione nel termine semestrale previsto dal comma 4 dell'art. 2289 c.c. Sulla scorta di ciò, non si rinviene una norma che vieti al soggetto dichiarato fallito di assumere o di mantenere la carica di amministratore di società a responsabilità limitata, vieppiù che l'ordinamento non preclude al fallito di intraprendere da solo lo svolgimento di una nuova attività imprenditoriale. Del resto, anche l'argomento in base al quale l'ineleggibilità alla carica e la decadenza dalla stessa per il fallito risponderebbero alla necessità di tutelare i soggetti terzi rispetto a condotte pregiudizievoli di un amministratore che, di fatto, risulterebbe patrimonialmente irresponsabile non convince, dato che la circostanza che l'amministratore non sia stato dichiarato fallito non comporta alcuna certezza in ordine alla sua capienza patrimoniale, né assicura che essa permanga intatta con riferimento ai beni che non risultano compresi nel fallimento. Detto questo, i giudici di legittimità evidenziano pure che l'elasticità che caratterizza il tipo della società a responsabilità limitata consente l'inserimento nello statuto di apposite clausole volte a prevedere particolari cause di ineleggibilità e di decadenza per gli amministratori, ovvero di esclusione dei soci, tra le quali può senz'altro essere fatta rientrare la loro dichiarazione di fallimento. Si tratta, in definitiva, di una causa che rinviene la propria fonte non già nella legge (attesa – come visto – l'inapplicabilità tanto dell'art. 2382 c.c., quanto dell'art. 2288 c.c.), ma, eventualmente, nell'atto destinato a regolare la vita interna e il funzionamento della società.
Conclusioni
L'ordinanza della Corte di cassazione oggetto della presente nota, grazie al lucido percorso argomentativo che la contraddistingue, contribuisce al consolidamento dell'orientamento che ammette la possibilità per il fallito di assumere e di mantenere la carica di amministratore di società a responsabilità limitata, salvo che ciò non sia escluso dallo statuto. Invero, a fronte di un dettato normativo dal quale è stato espunto il rinvio che il previgente art. 2487 c.c. operava all'art. 2382 c.c., non sono mancate pronunce (per esempio, Trib. Roma, 23 gennaio 2018) che hanno nondimeno affermato la persistente applicabilità analogica della disposizione dettata in tema di società per azioni, sul presupposto che essa abbia valenza di principio generale, avente lo scopo di tutelare non solo i soci, ma anche i creditori e i terzi che vengono in contatto con la società: secondo questa interpretazione, la difesa del patrimonio sociale richiede l'assenza, in capo agli amministratori, di situazioni idonee a incidere negativamente sulla capacità e sull'onorabilità di coloro ai quali è affidata la funzione gestoria, indipendentemente dal tipo sociale concretamente adottato. Tuttavia, le argomentazioni spese in senso contrario dai giudici di legittimità paiono più che convincenti, anche alla luce dell'analisi dell'evoluzione normativa e della ratio legis sottesa alla riforma operata con il d.lgs. 6/2003, che ha inteso differenziare in modo più marcato, rispetto a quanto avveniva in passato, il modello della società a responsabilità limitata rispetto a quello della società per azioni. D'altra parte, a fronte della persistenza, nel capo VII del titolo V del libro V del codice civile, di norme (ivi comprese quelle concernenti l'amministrazione della società: si veda, per esempio, l'art. 2475, comma 2, c.c.) che richiamano le disposizioni dettate in materia di società per azioni, risulta davvero arduo disconoscere che la mancata riproposizione del rinvio all'art. 2382 c.c. rappresenta una chiara e precisa presa di posizione del legislatore nel senso della sua inapplicabilità nelle società a responsabilità limitata. Tenuto conto, invece, dell'importanza che l'ordinanza annotata attribuisce, nell'ambito della disciplina della società a responsabilità limitata, all'elemento personale, quale connotato distintivo rispetto al modello della società per azioni, sarà interessante verificare se ciò potrà avere un impatto pure sul tema – alquanto dibattuto, soprattutto prima dell'entrata in vigore della riforma operata con il d.lgs. 6/2003 – dell'ammissibilità della nomina ad amministratore di una persona giuridica, che proprio con riguardo alle società a responsabilità limitata aveva trovato riscontro positivo, oltre che nella prassi notarile, anche in giurisprudenza (si veda, per esempio, Trib. Milano, 27 marzo 2017). |