La cancellazione della società non comporta la rinuncia al diritto di credito
15 Dicembre 2021
Massima
Qualora all'estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato. E' fatta salva la rinuncia ai crediti ma detta rinuncia non può presumersi in base al solo rilievo che il credito non è indicato nel bilancio di liquidazione; la remissione del debito (art. 1236 c.c.), infatti, è pur sempre un atto negoziale che richiede una manifestazione di volontà, anche tacita, ma in tal caso è indispensabile che la volontà abdicativa risulti da una serie di circostanze concludenti e non equivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito, comunicati al debitore e sempre che quest'ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare. Il caso
Il Tribunale di Lucca rigettava le domande proposte dalla società Alfa s.n.c. nei confronti della Banca Beta s.p.a., di accertamento della insussistenza di propri debiti verso l'istituto di credito derivanti dagli intercorsi rapporti di conto correte bancario; di condanna della banca alla restituzione di danaro da lei illegittimamente riscosso per effetto della applicazione di interessi anatocistici trimestrali, di tasso debitore “ultralegale” non pattuito per iscritto e comunque superiore a quello c.d. "di soglia" fissato in applicazione della legge n. 108 del 1996, di commissioni e spese non concordate, nonché al risarcimento del danno derivato dalla mancata disponibilità del danaro illegittimamente pagato alla banca ovvero da costei illegittimamente preteso. Avverso tale decisione Tizio, quale successore di Alfa s.n.c., nelle more cancellata dal registro delle imprese, proponeva atto di appello innanzi la Corte di Appello di Firenze. Quest'ultimo Giudice dichiarava inammissibile il gravame per non essere l'appellante attivamente legittimato alla proposizione dell'impugnazione. Ciò, poiché la decisione di Tizio di acquistare la quota di partecipazione alla società da Caia di cui costei era titolare e di non addivenire alla ricostituzione della pluralità dei soci, nel termine prescritto dalla citata disposizione del codice civile era imputabile a libera scelta del socio superstite, con suo conseguente obbligo di procedere alla cancellazione della società dal registro delle imprese. Ancora, Tizio non aveva fornito alcun elemento di prova per vincere la presunzione, iuris tantum, di rinuncia al diritto di credito dalla società vantato verso la banca. Avverso la decisione di secondo grado, Tizio proponeva Ricorso per Cassazione, affidandolo ad un unico motivo, contrastato da controricorso notificato dalla Banca Beta. Con l'unico motivo il ricorrente deduceva che la sentenza impugnata era caratterizzata da violazione ovvero falsa applicazione dell'art. 110 c.p.c., artt. 2272, 2312 e 2495 c.c., in quanto dall'estinzione in corso di causa della società Alfa s.n.c. (derivata dalla richiesta di cancellazione di tale società per mancata ricostituzione della pluralità dei soci) era necessariamente derivata la successione di esso, ricorrente nei rapporti, sostanziali e processuali, mettenti capo alla società estinta, con conseguente legittimazione attiva ex art. 110 c.p.c.. Inoltre, lo scioglimento della società di persone per la causa indicata dall'art. 2272 c.c., n. 4), non determinava alcuna modificazione soggettiva nei rapporti facenti capo all'ente, la cui titolarità si concentra nell'unico socio rimasto. Proseguiva deducendo che dalla cancellazione della società in conseguenza del suo scioglimento, può inferirsi alcuna manifestazione implicita di rinuncia ai crediti azionati, essendo la richiesta di cancellazione conseguenza necessitata della mancata ricostituzione della pluralità dei soci a esso non (quanto meno esclusivamente) imputabile. Infine il ricorrente deduceva che dalla cancellazione della società non poteva presumersi volontà del ricorrente di rinunciare al credito, anche perché milita in senso contrario a tale presunzione, il fatto che il ricorrente non fece valere tale evento interruttivo nel corso del giudizio di primo grado. Tale impugnazione era condivisa dalla Suprema Corte che cassava con rinvio la sentenza della Corte d'appello di Firenze n. 1697/2015, depositata l'1 ottobre 2015, rinviando alla Corte di appello di Firenze che, in diversa composizione e nel rispetto dei principi di diritto, dovrà pronunciarsi sull'appello e sulla regolamentazione delle spese relative al giudizio di legittimità. Tanto detto, la Corte di Cassazione affermava che in caso di estinzione della società, quale effetto della sua cancellazione dal registro delle imprese su richiesta del socio, i crediti litigiosi della società, di regola, si trasferiscono, per successione, al socio. Tale trasferimento per successione è escluso laddove intervenga la rinuncia agli stessi, riscontrabile al momento della cancellazione della società; rinuncia resa in forma o espressa o, anche, attraverso comportamenti concludenti, univocamente, incompatibili con la volontà di avvalersi di tali diritti comunicati al debitore, sempre che quest'ultimo non abbia dichiarato, entro congruo termine, di non volerne profittare (v. Cass. 27894/2021). La questione
La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire se qualora all'estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si trasferiscano ai soci anche i diritti di credito ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore giudiziale o extragiudiziale. Le soluzioni giuridiche
Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituiti coinvolti nel caso in disamina. A mente del comma 4 dell'art 2272 cod. civ. (Cause di scioglimento), la società si scioglie quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è ricostituita. Il venir meno della pluralità dei soci non è di per sé causa di scioglimento della società, bensì è la mancata ricostituzione della pluralità entro il termine di sei mesi che determina la cessazione del vincolo societario. Il venir meno della pluralità dei soci non determina immediatamente e necessariamente lo scioglimento della società, ma tale effetto si produce solo se dopo il trascorrere dei sei mesi, la stessa non sia stata ricostituita (v. Cass. 8670/2000, Cass. 4169/1995, Trib. Milano 4.7.1996, Trib. Milano 14.1.1988 e Trib. Torino 18.3.1983). Se a seguito della morte di un socio viene meno la pluralità dei soci, gli eredi del socio defunto hanno il diritto di chiedere l'accertamento giudiziale dell'avvenuta causa di scioglimento e la nomina del liquidatore (v. Corte Appello Torino 10.11.1993). È riconosciuto al socio superstite il potere di sciogliere la società prima del termine semestrale, in tal caso non deve liquidare la quota agli eredi del socio defunto, ai quali spetterà la quota di liquidazione (v. Trib. Milano 4.7.1996, Trib. Torino 10.2.1994, Trib. Genova 10.11.1993 e Trib. Torino 22.10.1993). La società non si estingue se non allo scadere del termine semestrale, durante il quale permane l'autonomia patrimoniale della società e la titolarità unitaria in capo ai soci delle situazioni giuridiche che integrano il patrimonio sociale: pertanto il socio superstite continua l'attività, senza che intervenga alcuna modificazione soggettiva dei rapporti giuridici (v. Cass. 907/1984). La Suprema Corte ha affermato che l'unico socio superstite diviene imprenditore individuale ed in capo ad esso si concentrano i rapporti giuridici di cui era titolare la società (v. Cass. 2226/1996). Quindi, se trascorso il termine dei sei mesi la pluralità dei soci non viene ricostituita, si è ammessa la trasformazione della società in impresa individuale ed il proseguimento dell'attività da parte dell'ex socio superstite (v. Cass. 2226/1996 e Trib. Torino 10.2.1994). Ancora, a mente dell'art. 2495 c.c. (Cancellazione della società), eventuali sopravvenienze attive cadranno in comunione ordinaria tra gli ex soci in proporzione della quota di liquidazione ricevuta e ciascun socio potrà agire in proprio e pro quota nei confronti di eventuali debitori della società o richiedere la divisione della comunione, ex art. 762 c.c.. Quanto alle sopravvenienze passive, è stata affermata tanto l'efficacia nei confronti dei soci del titolo esecutivo ottenuto nei confronti della società, ai sensi dell'art. 477 c.p.c., quanto la possibilità per il socio escusso di rivalersi verso gli altri ai sensi dell'art. 1299 c.c.. La natura successoria del trasferimento del debito già sociale in capo ai soci, determina che il credito rimane soggetto alla sua originaria prescrizione, senza possibilità di applicare l'art. 2949 c.c., e che il socio potrà far valere tutte le eccezioni proprie della società nei confronti del creditore. L'art. 2495 c.c. non dispone l'esistenza di un patrimonio separato, sicché sul residuo di liquidazione attribuito al socio sussiste concorso tra creditori sociali e creditori personali, fatta salva la possibilità, espressa peraltro dubitativamente in dottrina, di esercizio da parte del creditore di azione analoga a quella ex art. 512 c. c., i cui effetti peraltro cesserebbero in caso di fallimento della società estinta, ex art. 11, comma 3, l. fall.. Una deroga, in relazione alle sopravvenienze passive di natura tributaria, è stata legislativamente prevista dall' art. 28, comma 4,d.lgs. n. 175/2014, ove è espressamente previsto che ai soli fini della validità ed efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi, contributi e loro accessori, l'estinzione della società abbia effetto solo decorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese. La norma è stata censurata di incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza e del divieto di eccesso di delega legislativa e la Corte costituzionale investita della questione (sebbene svariate critiche in dottrina ove si è parlato di “resurrezione fiscale” o di “ultrattività solo fiscale delle società cancellate”, il citato art. 28 è stato ritenuto costituzionalmente legittimo in seguito a sentenza Corte Costituzionalen. 142/2020). Per ciò che attiene le liti pendenti al momento della cancellazione della società dal registro delle imprese, esse verranno interrotte ai sensi degli artt. 299 ss. c.p.c. dal momento in cui l'evento interruttivo è stato dichiarato o fatto constare nei modi di legge (v. Cass. 5605/2021 e Cass. 20840/2018). In mancanza di tale dichiarazione di processo prosegue fra le parti originarie in forza del principio della cosiddetta stabilizzazione processuale del soggetto estinto, giusta la regola dell'ultrattività del mandato alle liti. Di talché il difensore continua a rappresentare la parte, come se l'evento non si fosse mai verificato. Qualora l'evento interruttivo determinato dall'estinzione della società per cancellazione dal registro delle imprese non venga fatto constare nel corso del giudizio o intervenga quando non sia più possibile farlo constare, l'impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d'inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, quali successori della società. Infatti, la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l'evento estintivo è occorso (v. Cass. 5605/2021 e Cass. 29251/2018). Per completezza di insieme si evidenzia che la cancellazione di una società intervenuta nel corso di un giudizio non implica una rinuncia alla pretesa azionata, salvo che la stessa società non abbia manifestato la volontà di rimettere il debito e il debitore abbia dichiarato di volerne profittare (v. Cass. 27894/2021, Cass. 8521/2021, Cass. 6771/2021 e C. 9464/2020). Ciò detto e tornando al caso in premessa, la Corte di appello di Firenze dichiarava inammissibile l'appello proposto dal successore della società (ovverosia l'ex socio) ritenendo quest'ultimo non legittimato a proporre impugnazione. L'ex socio promuoveva ricorso per cassazione, ritenendo che dall'estinzione della Snc derivasse la sua successione nei rapporti, sostanziali e processuali; inoltre, lo scioglimento causato dalla mancata ricostituzione della pluralità dei soci non determinava alcuna modifica soggettiva, essendosi la titolarità dei rapporti concentrata nell'unico socio rimasto. Tale impugnazione era condivisa dalla Suprema Corte che cassava con rinvio la sentenza della Corte d'appello di Firenze n. 1697/2015, depositata l'1 ottobre 2015. Osservazioni
La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, cassava la sentenza impugnata, richiamando i principi espressi da Cass. n. 9464 del 2020. La Corte con l'ordinanza oggi in commento, ribadiva che una volta estinta la società, «i diritti dalla medesima vantati, non liquidati nel bilancio finale di liquidazione (perché al momento non considerati, se ne ignorasse, o no, l'esistenza), transitano nella titolarità dei soci», dovendo ricondurre la fattispecie in parola, ad un fenomeno successorio in capo ai soci (v., anche, Cass. SS. UU. 4060, 4061 e 4062/2010). La stessa regola si ritiene applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di persone dal registro delle imprese. Da tale precisazione è stato desunto che anche i residui attivi e le sopravvenienze attive possono trasferirsi ai soci della società estinta (v. Cass. 9464/2020). Ad ogni buon conto, può certamente ammettersi che la società possa rinunciare ai crediti suddetti, ma questa rinuncia non può presumersi in base al solo rilievo che il credito non è indicato nel bilancio di liquidazione. La remissione del debito (art. 1236 c.c.), infatti, è pur sempre un atto negoziale che richiede una manifestazione di volontà, anche tacita, ma in tal caso è indispensabile che la volontà abdicativa risulti da una serie di circostanze concludenti e non equivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito, comunicati al debitore e sempre che quest'ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare. Sicché, ove difettino indici univoci della volontà remissoria, essa deve essere esclusa. Per cui è errato presumere sempre, iuris et de iure, a fronte della cancellazione in corso di causa, una rinuncia al diritto azionato, anche perché le indicazioni delle Sezioni Unite (v. Cass. SS. UU. n. 6070, 6071 e 6072/2013)hanno prospettato tale evenienza solo come “possibile”. |