Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 124 - Tutela in forma specifica e per equivalente 1Tutela in forma specifica e per equivalente 1
1. L'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione e di stipulare il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se non dichiara l'inefficacia del contratto, il giudice dispone il risarcimento per equivalente del danno subito e provato. Il giudice conosce anche delle azioni risarcitorie e di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell'operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo. 2. La condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1, o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell'articolo 1227 del codice civile. 3. Ai sensi dell'articolo 34, comma 4, il giudice individua i criteri di liquidazione del danno e assegna un termine entro il quale la parte danneggiante deve formulare una proposta risarcitoria. La mancata formulazione della proposta nel termine assegnato o la significativa differenza tra l'importo indicato nella proposta e quello liquidato nella sentenza resa sull'eventuale giudizio di ottemperanza costituiscono elementi valutativi ai fini della regolamentazione delle spese di lite in tale giudizio, fatto salvo quanto disposto dall'articolo 91, primo comma, del codice di procedura civile. [1] Articolo sostituito dall'articolo 209, comma 1, lettera d) del D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, con efficacia a decorrere dal 1° luglio 2023, come stabilito dall'articolo 229, comma 2. Per le disposizioni transitorie vedi l'articolo 225 D.Lgs. 36/2023 medesimo. InquadramentoL'art. 124, dedicato alla «tutela specifica e per equivalente», ripropone, sul punto, la previgente disciplina recata dall'art. 245-quinquies, d.lgs. n. 163/2006, così come introdotta dal d.lgs. n. 53/2010. Più precisamente, l'articolo in commento prevede due diverse tipologie risarcitorie per il privato a cui sia stata illegittimamente negata l'aggiudicazione di una gara pubblica: i) la prima, in forma specifica, che – transitando per la declaratoria di inefficacia del rapporto negoziale medio tempore sorto tra la P.A. e l'aggiudicatario illegittimo – prevede il subentro del ricorrente nel rapporto negoziale, consentendo così al privato di ottenere direttamente il bene della vita a cui aspirava; ii) la seconda, consistente nel risarcimento per equivalente del danno subìto e provato. Quanto alla prima tipologia risarcitoria, l'art. 124 c.p.a. dispone che il ricorrente vittorioso, in esito all'annullamento dell'aggiudicazione, possa ottenere l'attribuzione del bene della vita ‘contratto' solo ove il negozio stipulato in ragione dell'aggiudicazione illegittima venga dichiarato inefficace ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a. Ulteriori condizioni per ottenere la tutela in forma specifica sono costituite dalla formulazione di una specifica domanda del ricorrente e dalla dichiarazione di disponibilità di questi a subentrare nel contratto dichiarato inefficace. Ove il contratto non venga dichiarato inefficace, il giudice «dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato». La tutela per equivalente, dunque, è condizionata alla prova del danno che il ricorrente dichiara di aver subito. Il secondo comma della norma stabilisce che la condotta della parte che senza giustificato motivo non ha domandato di subentrare nel contratto è valutata dal giudice come concorso colposo alla causazione del danno ai sensi dell'art. 1227 c.c. La questione affrontata dalla norma è una delle più dibattute in dottrina e giurisprudenza: l'esigenza di contemperare le istanze di tutela del privato, ingiustamente ‘non aggiudicatariò, con la necessità di stabilità dei contratti della pubblica amministrazione. La tutela in forma specificaLa tutela in forma specifica “è il frutto dell'innesto di un'azione di esatto adempimento, praticabile naturalmente solo nei casi di procedure vincolate (in via originaria o a seguito della pronuncia giurisdizionale)» (Caringella, Giustiniani). Essa viene opportunamente subordinata all'annullamento dell'aggiudicazione e alla privazione di effetti del contratto stipulato nelle more della definizione del giudizio. Si tratta di una soluzione “coerente con l'attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo della cognizione del contratto» (Caringella, Giustiniani). Infatti, considerando l'inscindibile legame sostanziale intercorrente tra il provvedimento pubblicistico di aggiudicazione e il contratto privatistico, appare logico che una pronuncia attributiva del bene della vita anelato sia in grado di eliminare contestualmente entrambi gli ostacoli che si frappongono al conseguimento del risultato richiesto. Al fine di ottenere la tutela in forma specifica, ovvero il subentro nel contratto da parte dell'aggiudicatario pretermesso, il legislatore attribuisce particolare rilievo alla domanda di subentro (Casinelli). Nell'originario schema di decreto delegato (approvato il 27 novembre 2009) veniva previsto (art. 243-ter) che «la domanda di annullamento del provvedimento di aggiudicazione si intende sempre comprensiva della domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto, nonché della domanda di privazione degli effetti del contratto, ove nel frattempo stipulato, anche in difetto di espressa indicazione». Il comma 3 del citato articolo, inoltre, attribuiva esclusivamente al giudice, dopo aver annullato l'aggiudicazione, la possibilità di optare tra la declaratoria di inefficacia del contratto e il risarcimento del danno. Il Consiglio di Stato, nel parere espresso dalla Commissione speciale sullo schema di Codice del processo amministrativo n. 368/2010, ha suggerito di modificare la disposizione, in guisa da attribuire rilevanza alla domanda di subentro formulata dal ricorrente. Il Governo si è uniformato alle osservazioni del Consiglio di Stato, inserendo nella versione definitiva della norma la previsione della necessaria domanda di subentro del ricorrente vittorioso nel contratto. Tuttavia, la norma non è altrettanto chiara nell'indicare se sia ugualmente necessaria, ai fini del riconoscimento della tutela in forma specifica, una espressa domanda di dichiarazione di inefficacia del contratto. Quid iuris ove il ricorrente domandi solo il subentro nel contratto, senza domandare la declaratoria di inefficacia del negozio illegittimamente stipulato? (Giustiniani, Fontana). La questione è agevolmente risolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo le quali, in base al principio di continenza delle istanze giudiziali, la domanda di subentro del ricorrente presuppone ed implica, sul piano logico, quella di inefficacia del contratto già stipulato, con la conseguenza che può dirsi in essa contenuta (Caringella, Protto). Va rammentato, in ogni caso, che il subentro nel contratto è condizionato ad una doppia pregiudiziale: l'annullamento dell'aggiudicazione e la dichiarazione di inefficacia del contratto (cfr. Cons. St. V, n. 815/2020). Il nesso di pregiudizialità previsto dalla legge per assentire la tutela in forma specifica, peraltro, non può tradursi in una surrettizia introduzione della pregiudiziale amministrativa, essendo all'uopo sufficiente la contestuale proposizione delle due domande nel medesimo giudizio. Sul piano dogmatico, la disposizione in esame ripropone inevitabilmente il tema della natura giuridica della reintegrazione in forma specifica (Saitta). Secondo la dottrina, i limiti imposti alla possibilità di conseguire aggiudicazione e contratto potrebbero indurre a configurare la relativa domanda alla stregua di un'azione di adempimento, del genere della Verpiflichtungsklage dell'ordinamento tedesco, essendo sottoposta ad una disciplina processuale diversa dalla tutela risarcitoria in forma specifica di cui all'art. 2058 c.c. (Bartolini). Dalla norma contenuta nell'art. 124 c.p.a. scaturisce un ulteriore interrogativo: è ammissibile la domanda di inefficacia del contratto nell'ipotesi in cui il contraente non sia nelle condizioni di ottenere l'aggiudicazione? A questo proposito può ribadirsi quanto già detto circa l'interesse strumentale alla rinnovazione della gara: anche in questo caso il ricorrente che non ha i requisiti per ottenere il contratto ha comunque interesse all'invalidazione dell'intera procedura e alla dichiarazione di inefficacia del contratto (Giustiniani, Fontana). A tale interesse si affianca la legittima aspirazione alla riedizione della gara, laddove non vi siano più le condizioni per ottenere il bene della vita a cui si aspira, e cioè il contratto. Tale conclusione muove dall'assunto, oggi diffusamente accolto, secondo cui l'interesse alla riedizione della gara è giuridicamente tutelabile (Lipari). Nello specifico, per il giudice amministrativo, in conformità ai principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, costituisce bene della vita meritevole di protezione giurisdizionale anche la ‘chance di aggiudicazione' connessa alla partecipazione alla nuova procedura (cfr. T.A.R. Campania Napoli II, n. 503/2017, nonché – in senso contrario – T.A.R. Puglia Bari II, n. 127/2018). La tutela per equivalenteL'art. 124, comma 1, stabilisce che «se il giudice non dichiara l'inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato». Anche in tale ipotesi, deve escludersi che la norma in commento introduca una surrettizia forma di pregiudiziale amministrativa: ai fini del risarcimento per equivalente, invero, la persistente efficacia del provvedimento di aggiudicazione e del relativo contratto non ostano al riconoscimento per equivalente della pretesa risarcitoria del ricorrente. Occorre aggiungere, peraltro, che l'art. 124 c.p.a. è da riferirsi allo specifico caso in cui il ricorrente, impugnando l'aggiudicazione, domandi il subentro nel contratto, ovvero (in subordine) la tutela risarcitoria per equivalente. Appare, infatti, improbabile che il privato non aggiudicatario, anziché puntare al contratto, si limiti a domandare soltanto il risarcimento dei danni: se ne trae indiretta conferma dal secondo comma dell'art. 124 c.p.a., il quale stabilisce che la condotta processuale della parte che – senza giustificato motivo – non ha proposto la domanda di cui al comma 1 o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell'art. 1227 c.c. Di sicura utilità è, invece, la previsione che onera la parte ricorrente della prova del danno (cfr. Cons. St. V, n. 5384/2017, nonché T.A.R. Emilia Romagna Parma I, n. 81/2018). Nello specifico, la norma stabilisce espressamente che il danno lamentato dal ricorrente deve essere provato, così precludendo la strada a quantificazioni forfettarie. Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha elaborato – e progressivamente affinato – una serie di criteri e princìpi in tema di quantificazione (e qualificazione) del danno da mancata aggiudicazione di una gara pubblica. Tali princìpi sono stati autorevolmente riepilogati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 12 maggio 2017, n. 2. Il danno ‘da mancata aggiudicazione' viene usualmente risarcito nella misura del c.d. ‘interesse positivo', che ricomprende sia il mancato profitto (ossia il ‘lucro cessante'), sia il c.d. 'danno curriculare' (ossia il pregiudizio sofferto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale e dell'impossibilità di 'spendere' la commessa in esame ai fini della partecipazione ad altre procedure di gara) (Cons. St. Ad. plen., n. 2/2017). Invero, sembra potersi ritenere riconducibile entro la medesima categoria del danno ‘da mancata aggiudicazione' anche il c.d. danno ‘da perdita di chance'. Quest'ultima voce di danno, da un punto di vista meramente concettuale, costituirebbe in realtà una categoria autonoma rispetto al c.d. lucro cessante e, quindi, rispetto al danno ‘da mancata aggiudicazione' propriamente detto. In senso tecnico, infatti, si parla di ‘danno da mancata aggiudicazione' qualora il danneggiato riesca a provare che – senza le illegittimità poste in essere dall'amministrazione – l'aggiudicazione della gara (e quindi la spettanza del bene della vita ‘contratto') sarebbe stata a lui attribuibile in termini di certezza; in tal caso, il ‘danno da perdita di chance' non è autonomamente risarcibile in quanto può ritenersi ‘copertò dal ‘danno da mancata aggiudicazione' (cfr. T.A.R. Lazio Roma II-quater, n. 3476/2017). Viceversa, il ‘danno da perdita di chance' deve essere autonomamente riconosciuto e risarcito qualora il danneggiato non riesca a dimostrare che il bene della vita ‘contrattò gli sarebbe spettato in termini di certezza, bensì soltanto in termini di concreta probabilità. La giurisprudenza ha evidenziato come il ‘danno da perdita di chance' esprima uno schema di reintegrazione patrimoniale che «poggia sul fatto che un operatore economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, per ciò solo, è stimabile come portatore di un'astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il contratto. (...) La chance iniziale e virtuale, che muove dall'essere in potenza la medesima per tutti i concorrenti, varia poi nel concretizzarsi e diviene misurabile in termini (...) fino a concentrarsi nella dimensione più elevata in capo all'operatore primo classificato al momento della formulazione della graduatoria finale, sfumando progressivamente in capo agli altri. Perciò se, nel corso della procedura, condotte illegittime dell'amministrazione contrastano con la normale affermazione della chance di aggiudicazione, viene leso l'interesse legittimo dell'operatore economico e – se è precluso anche il bene della vita cui l'interesse è orientato – è lui dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile della sua chance perduta. La tecnica risarcitoria della chance impone un ulteriore necessario passaggio: posto che l'illegittima condotta dell'amministrazione ha qui determinato un danno risarcibile nei termini indicati, per la sua quantificazione occorre definire la misura percentuale che nella situazione data presentava per l'interessato la probabilità di aggiudicazione – la chance appunto – tenendo conto della fase della procedura in cui è stato adottato l'atto illegittimo e come poi si sarebbe evoluta. (...) l'operatore può beneficiare del risarcimento solo se la sua chance di aggiudicazione ha (...) raggiunto un'apprezzabile consistenza (...). Al di sotto di tale livello, dove c'è la ‘mera possibilità' di aggiudicazione, vi è solo un ipotetico danno comunque non meritevole di reintegrazione poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto» (Cons. St. V, n. 2527/2018; in termini, da ultimo, si vedano: Cons. St. V, n. 7845/2019; Cons. St. VI, nn. 2654/2021, 2659/2021, 2660/2021 e 2661/2021). È proprio in tale contesto che la distinzione tra ‘danno da mancata aggiudicazione' e ‘danno da perdita di chance' appare meramente classificatoria, atteso che la necessaria quantificazione percentuale dell'ipotizzata lesione della chance identifica senz'altro la dimensione effettiva di un (seppur potenziale, e non certo) lucro cessante. Quale che sia la ‘qualificazione concettuale' del danno risarcibile, l'operatore economico che riesca a provare di aver subìto un danno a causa delle illegittimità poste in essere dalla stazione appaltante avrà diritto a essere risarcito per il pregiudizio sofferto. Semplicemente, se il danneggiato riuscirà a provare che senza le illegittimità poste in essere dalla stazione appaltante avrebbe avuto una probabilità di conseguire l'aggiudicazione quantificabile in termini di certezza, il danno al cui risarcimento avrà diritto potrà essere definito quale ‘danno da mancata aggiudicazione'; qualora risulti dimostrata non già una certezza bensì una ‘seria probabilità' di aggiudicazione, il danno che dovrà essere risarcito assumerà i connotati del ‘danno da perdita di chance'; se invece risulti sussistente una ‘mera possibilità di aggiudicazione', nessun danno potrà essere risarcito. In ogni caso, tuttavia, l'accoglimento di una domanda risarcitoria non potrà essere fondato sull'annullamento di un provvedimento amministrativo con la c.d. ‘salvezza di rieserciziò del potere (cfr. Cons. St., IV, n. 2907/2018). Sia in caso di danno da mancata aggiudicazione, sia in caso di danno da perdita di chance, si pone ugualmente il problema di quantificare con esattezza il pregiudizio risarcibile. In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che il mancato profitto deve essere specificamente provato dal ricorrente, senza che si possa procedere a quantificazioni forfettarie (cfr. T.A.R. Calabria Catanzaro I, n. 337/2018). In altri termini, attesa la piena operatività nell'azione risarcitoria del principio dispositivo di cui all'art. 2697 c.c., ricade sul ricorrente l'onere di offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di aver sofferto. Valutazioni di tipo equitativo sono ammissibili soltanto nei casi di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull'ammontare del danno (cfr. Cons. St. Ad. plen., n. 2/2017). Il mancato utile spetta al danneggiato nella misura integrale soltanto qualora quest'ultimo “dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa» (cfr. Cons. St. Ad. plen., n. 2/2017). In difetto di tale dimostrazione, può presumersi (sulla base dell'id quod plerumque accidit) che l'impresa abbia riutilizzato – o che comunque avrebbe potuto riutilizzare – i mezzi e la manodopera per l'esecuzione di altri appalti. In buona sostanza, dall'utile ritraibile dalla commessa illegittimamente negata deve essere sottratto l'aliunde perceptum vel percipiendum, che può essere calcolato dal giudice in via equitativa e forfettaria e la cui sussistenza viene quindi affermata sulla base di una presunzione semplice, gravando sul danneggiato l'onere di fornire la prova contraria (cfr. Cons. St. V, n. 2527/2018). Si precisa che il danno risarcibile ex art. 124 c.p.a. costituisce debito di valore; occorre, pertanto, riconoscere al danneggiato sia la rivalutazione monetaria che attualizza al momento della liquidazione il danno subìto, sia gli interessi compensativi determinati al saggio legale, calcolati sulla somma periodicamente rivalutata e volti a compensare la mancata disponibilità di tale somma fino al giorno della liquidazione del danno, sia gli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno della sentenza (che con la liquidazione del credito ne segna la trasformazione in credito di valuta) sino al soddisfo (Cons. St. Ad. plen., n. 2/2017). In precedenza, la giurisprudenza tendeva a quantificare forfettariamente l'utile ritraibile dall'appalto nella misura del 10% dell'importo dell'appalto medesimo. Tale tipologia di quantificazione è stata correttamente esclusa dall'Adunanza Plenaria, stante l'impossibilità di formulare un giudizio probabilistico fondato sull'id quod plerumque accidit sulla scorta del quale – allegato l'importo a base d'asta – possa presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% di detto importo (Cons. St. Ad. plen., n. 2/2017). Del resto, l'art. 124 c.p.a. è chiaro nell'ammettere il risarcimento del solo danno “subito e provato”. In nessun caso, inoltre, dovranno considerarsi rimborsabili i costi affrontati dall'impresa per la presentazione dell'offerta: non essendo, infatti, tale costo rimborsabile in caso di aggiudicazione dell'appalto, deve ritenersi che il medesimo costituisca un rischio dell'impresa, funzionale alla previsione di guadagno in astratto quantificata e non riconducibile entro l'area del danno. Anche per il danno curriculare l'operatore economico deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subìto, “quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somma liquidata a titolo di lucro cessante» (Cons. St. Ad. plen., n. 2/2017). Si deve rilevare, tuttavia, come una parte della giurisprudenza non si sia pienamente adeguata ai princìpi espressi dall'Adunanza Plenaria nella sentenza n. 2 del 2017. In particolare, hanno continuato a rinvenirsi pronunce secondo le quali sarebbe possibile, in assenza di specifiche allegazioni probatorie, quantificare il danno nella misura forfettaria del 10% dell'importo offerto dal danneggiato in sede di gara (cfr. T.A.R. Sicilia Catania I, n. 2853/2017). In particolare, nel caso in cui a essere risarcito sia il danno da perdita di chance, recentissime pronunce giurisprudenziali sostengono che – ai fini della quantificazione del pregiudizio risarcibile – il giudice debba prendere come riferimento l'utile ritraibile dalla commessa secondo ‘criteri di normalità', calcolato nella tradizionale misura del 10% dell'importo posto a base di gara, e operare poi una decurtazione sulla base dell'effettiva consistenza della chance radicata in capo al danneggiato, prendendo a riferimento parametri quali, ad esempio, il numero dei partecipanti alla procedura, la tipologia di vizio riscontrato, la configurazione della graduatoria eventualmente stilata e il contenuto dell'offerta presentata dall'impresa danneggiata (cfr. Cons. St. V, n. 2527/2018). In buona sostanza, secondo tale orientamento, qualora a essere risarcito sia soltanto il danno da perdita di chance, la somma commisurata all'utile d'impresa può essere quantificata secondo criteri forfettari e deve poi essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura (cfr. T.A.R. Sicilia Catania I, n. 2200/2017). Similmente, in assenza di prove specifiche sul punto, anche il danno curriculare sarebbe quantificabile in via equitativa e forfettaria, nella misura del 5% del danno riconosciuto a titolo di lucro cessante (cfr. T.A.R. Lombardia Milano IV, n. 2017/2017). Si registrano poi pronunce giurisprudenziali che contestano le conclusioni raggiunte dall'Adunanza Plenaria anche sotto il profilo della ripartizione dell'onere probatorio in tema di aliunde perceptum vel percipiendum. In particolare, secondo l'orientamento in esame, non sarebbe corretto far ricadere sul danneggiato l'onere di dimostrare l'assenza di aliunde perceptum vel percipiendum, dovendo piuttosto gravare sull'amministrazione l'onere di provarne la sussistenza. Ciò in quanto tale principio, «qualora portato alle estreme conseguenze logiche, finirebbe per precludere in ogni caso il risarcimento del danno per mancato utile, e ciò perché, anche nell'ipotesi in cui l'impresa non avesse percepito alcunché per attività lucrative diverse da quelle derivanti dall'esecuzione del contratto non aggiudicato, la stessa non potrebbe mai sperare nell'attribuzione giurisdizionale di un qualunque ristoro in ragione dell'impossibilità, o quanto meno della eccessiva difficoltà, di provare un fatto negativo (consistente, per l'appunto, nel non aver beneficiato di alcun aliunde perceptum)» (cfr. T.A.R. Sicilia Catania I, n. 2200/2017). Si consideri infine che il giudice amministrativo ‒ nella liquidazione del quantum risarcibile ‒ può limitarsi a fissare i parametri in base ai quali sia possibile pervenire ad un accordo fra le parti medesime ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a. (c.d. ‘sentenza sui criteri') (Cons. giust. amm. sic., n. 559/2017). In particolare, tale norma prevede che il giudice possa – in mancanza di opposizione delle parti – stabilire “i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine”. Qualora le parti non giungano a un accordo (ovvero non adempiano agli obblighi derivanti dall'accordo concluso) la determinazione della somma dovuta (ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti) potrà essere richiesta al giudice mediante l'instaurazione di un giudizio di ottemperanza ai sensi degli artt. 112 e ss. c.p.a. Sempre in tema di danno da perdita di chance, è stata recentemente rimessa all'Adunanza Plenaria la questione se, in caso di illegittimo ricorso all'affidamento diretto senza gara di un pubblico appalto, spetti il risarcimento del danno per equivalente derivante da perdita di chance ad un'impresa che avrebbe potuto concorrere quale operatore del relativo settore economico (Cons. St. V, sent. non def. n. 118/2018). Sul punto, la Sezione rimettente ha ravvisato la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale. Da un lato, un primo orientamento ritiene che nell'ipotesi di illecito affidamento di un appalto senza gara vada senz'altro riconosciuto il risarcimento della chance vantata dall'impresa del settore, sul rilievo che l'impossibilità di formulare una prognosi sull'esito di una procedura comparativa mai svolta non dovrebbe ridondare in danno del soggetto leso dall'altrui illegittimità, sicché la chance andrebbe ristorata nella sua obiettiva consistenza a prescindere dalla verifica probabilistica sull'esito della procedura (ex multis, cfr. Cons. St. V, n. 3450/2016). Dall'altro lato, un secondo orientamento sostiene che ai fini del risarcimento non possa essere sufficiente la perdita dell'astratta possibilità di conseguire il bene della vita negato dall'amministrazione per effetto di atti illegittimi, ma occorre la prova della sussistenza, nel caso concreto, di un rilevante grado di probabilità di conseguirlo (ex multis, Cons. St. III, n. 559/2016). Chiamata a pronunciarsi sul merito della questione, l'Adunanza Plenaria ha tuttavia ritenuto di restituire gli atti alla Sezione rimettente ai sensi dell'art. 99, comma 1, c.p.a., affermando l'impossibilità di un esame approfondito della fattispecie a causa di alcune ricostruzioni già operate dalla Sezione medesima nella sentenza non definitiva con cui la controversia era stata deferita. La questione, pertanto, deve ancora considerarsi aperta. Il mero annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione di un appalto non è ex se sufficiente a far sorgere a carico dell'amministrazione una responsabilità di tipo risarcitorio nei confronti del soggetto a cui l'aggiudicazione sia stata illegittimamente negata. Gli elementi costitutivi del fatto illecito della pubblica amministrazione sono stati elaborati dalla giurisprudenza amministrativa, assumendo quale modello di riferimento il paradigma di cui all'art. 2043 c.c. pur con qualche adattamento (Giustiniani, Fontana). Sulla base dell'elaborazione giurisprudenziale, affinché si possa far valere la responsabilità risarcitoria della P.A. per mancata aggiudicazione di una gara pubblica, è richiesto l'accertamento: i) dell'imputabilità dell'evento dannoso alla responsabilità dell'amministrazione; ii) dell'esistenza di un danno patrimoniale ingiusto; iii) del nesso causale tra l'illecito compiuto e il danno subito; iv) di un grado sufficiente di diligenza nella condotta del ricorrente, atteso il principio recato dall'art. 30, comma 3, c.p.a., secondo cui il giudice amministrativo non ammette il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento dei mezzi di tutela previsti (cfr. T.A.R. Piemonte II, n. 972/2018). Più controverso è stabilire se, affinché possa essere affermata la responsabilità risarcitoria dell'amministrazione per danno da mancata aggiudicazione, sia necessario anche l'accertamento dell'elemento soggettivo. Per molto tempo ci si è chiesti se l'amministrazione potesse essere chiamata a rispondere in sede risarcitoria soltanto per condotte qualificabili come ‘colpose', ovvero se la responsabilità della P.A. fosse ricostruibile alla stregua di una responsabilità meramente oggettiva. In via generale, per la configurazione del fatto illecito dell'amministrazione la giurisprudenza è univoca nel richiedere l'accertamento dell'elemento soggettivo, conformemente al modello civilistico della responsabilità aquiliana. La nozione di ‘colpa', con riferimento all'azione amministrativa, è stata tuttavia oggetto di alcuni adattamenti rispetto alla corrispondente figura civilistica. Del resto, l'attività della P.A. non è riferibile a specifiche persone fisiche, bensì all'amministrazione come apparato; da qui, in particolar modo, deriva l'impossibilità di utilizzare i criteri elaborati dalla scienza giuridica a proposito della qualificazione colpevole della condotta umana. Con l'obiettivo di affrontare siffatta problematica, la giurisprudenza amministrativa ha elaborato alcuni criteri interpretativi finalizzati a stabilire i casi in cui la condotta della P.A. debba ritenersi colposa. In epoca risalente, veniva sostenuto che ai fini della risarcibilità del danno ingiusto causato dall'amministrazione al privato – a seguito di un atto amministrativo dichiarato illegittimo – la presenza dell'elemento soggettivo della colpa, ai fini dell'imputabilità, fosse di per sé ravvisabile nell'accertata illegittimità del provvedimento, e che il risarcimento del danno conseguente all'illegittimità dell'atto spettasse a prescindere dall'indagine sulla colpa dell'amministrazione (cfr., ex multis, Cass. S.U., n. 5361/1984). Tale orientamento – già avversato da chi evidenziava come esso, di fatto, avesse trasformato l'illecito della P.A. in un illecito oggettivo, in cui l'elemento della colpa costituiva un mero duplicato dell'elemento dell'ingiustizia del danno – fu poi accantonato dopo l'affermazione, da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, della risarcibilità dell'interesse legittimo. Il principio secondo cui la colpa della P.A. fosse da ritenersi sussistente in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di un atto amministrativo illegittimo, infatti, non era conciliabile con la nuova lettura dell'art. 2043 c.c. che svincolava l'operatività di tale norma dalla lesione di posizioni giuridiche qualificabili come diritti soggettivi. Si iniziò quindi a richiedere al giudice lo svolgimento di un'indagine estesa anche alla valutazione della colpa, non già del funzionario agente ma della P.A. intesa come apparato, che diveniva configurabile nel caso in cui l'adozione dell'atto illegittimo fosse avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi. Sulla scorta di tali rilievi, la giurisprudenza ha finito per accogliere una nozione ‘oggettivà di colpa dell'amministrazione. Secondo detta ricostruzione, è possibile affermare la sussistenza della colpa dell'apparato qualora l'illegittimità del provvedimento sia stata cagionata da una violazione grave di norme giuridiche, estendendo in via analogica l'art. 2236, c.c. che esclude la responsabilità dei professionisti per colpa lieve. Per valutare siffatta gravità, la giurisprudenza richiama indici sintomatici in tutto analoghi a quelli dettati dalla giurisprudenza Eurounitaria: l'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo, i precedenti della giurisprudenza, le condizioni concrete e l'apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento (cfr. Cons. St. IV, n. 3439/2017). Si conclude, quindi, nel senso che se la violazione appare grave e se essa matura in un contesto nel quale all'indirizzo dell'amministrazione sono formulati addebiti ragionevoli, specie sul piano della diligenza e della perizia, il requisito della colpa potrà dirsi sussistente (cfr. T.A.R. Lazio Roma I-ter, n. 10456/2017). In ogni caso, la giurisprudenza nazionale è concorde nell'escludere la colpa della P.A. nelle ipotesi di errore scusabile, che si realizza in caso di mutamenti di orientamenti giurisprudenziali o di particolare complessità delle situazioni di fatto (cfr. T.A.R. Campania Napoli I, n. 5913/2017). Quali parametri valutativi dell'elemento soggettivo vengono quindi indicati: i) il grado di chiarezza e precisione della norma violata; ii) la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall'amministrazione; iii) la novità della medesima questione, riconoscendo così portata esimente all'errore di diritto, in analogia all'elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni (cfr. T.A.R. Campania Salerno II, n. 1360/2017). La giurisprudenza amministrativa sostiene quindi che sia scusabile l'errore sull'interpretazione della norma laddove siano presenti contrapposizioni interpretative ‒ ovvero oggettive oscurità ‒ tali da non rendere chiaro e univoco il significato e la portata della disposizione da applicare nel caso concreto. Il privato danneggiato può invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si sia trattato di un errore non scusabile; spetterà a quel punto all'amministrazione dimostrare la scusabilità dell'errore. Tali princìpi, in un primo momento, vennero applicati alla generalità dei casi di responsabilità risarcitoria della P.A. nei confronti di soggetti privati. Sennonché tale quadro è stato completamente sovvertito dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea, che è intervenuta ‘a gamba tesà sulla necessità dell'elemento soggettivo della P.A. ai fini del risarcimento per equivalente di cui all'art. 124 c.p.a. (Corte Giust. UE, III, n. C-314/09). Per questa particolare tipologia di responsabilità della P.A., quindi, si è affermato un modello del tutto peculiare, che prescinde dall'accertamento del carattere colposo della condotta dell'amministrazione. L'elemento soggettivo nella responsabilità dell'amministrazione per mancata aggiudicazioneSi è visto che, in via generale, la sussistenza della responsabilità risarcitoria dell'amministrazione richiede l'accertamento dell'elemento soggettivo. Così non è, tuttavia, con riferimento all'ipotesi di responsabilità per danno da mancata aggiudicazione di una gara pubblica. Tale tipologia di responsabilità è stata infatti ‘disegnatà dalla giurisprudenza in termini speciali rispetto al modello generale della responsabilità civile della P.A. (già parzialmente derogatorio rispetto al modello prettamente civilistico). In estrema sintesi, la responsabilità dell'amministrazione per mancata aggiudicazione di un pubblico appalto è una responsabilità di tipo squisitamente oggettivo, che prescinde dall'accertamento dell'eventuale carattere ‘colposo' dell'azione amministrativa. Tale regime ‘speciale' – come si è anticipato ‒ è dovuto alla sentenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea, Sez. III, 30 settembre 2010, n. C-314/09 (c.d. sentenza «Graz Stadt»), che ha ricostruito in termini completamente oggettivi la responsabilità dell'amministrazione in materia di appalti pubblici, escludendo la rilevanza, ai fini risarcitori, dell'elemento soggettivo dell'illecito. In particolare, il giudice Eurounitario ha affermato che, laddove non venga dichiarata l'inefficacia del contratto, e quindi non venga riconosciuta la tutela in forma specifica ex art. 124 c.p.a. il giudice deve riconoscere al ricorrente, senza necessità di prova dell'elemento soggettivo e senza che la P.A. possa dimostrare la scusabilità dell'errore, il risarcimento del danno subito e provato. Diversamente opinando, il rimedio per equivalente non sarebbe un'alternativa valida ed effettiva rispetto alla tutela in forma specifica (il conseguimento dell'aggiudicazione), che certamente opera a prescindere dalla colpa. Il giudice Eurounitario è giunto a tale conclusione in ragione della natura del risarcimento per equivalente contemplata dalla normativa comunitaria e dal primo comma dell'art. 124 c.p.a. Esso infatti non costituisce uno strumento risarcitorio in senso stretto ma una misura sostitutiva della tutela specifica, sostanziandosi nell'attribuzione del bene della vita aggiudicazione-contratto in ragione del suo valore economico. In buona sostanza, quindi, non si tratta di una domanda risarcitoria tout court, ma dell'accoglimento della stessa domanda di esatto adempimento spiccata dal ricorrente che chieda l'aggiudicazione del contratto, con la mera sostituzione del bene della vita in senso specifico con il suo surrogato economico; di qui i due corollari della non necessarietà dell'elemento psicologico e di una nuova domanda. Sulla base di tali evenienze, la Corte di giustizia dell'Unione Europea ha concluso nel senso che una normativa nazionale non possa subordinare il risarcimento dei danni derivanti da violazioni della P.A. commesse nel corso di gare d'appalto al carattere colpevole di tali violazioni. La responsabilità in materia di appalti, dunque, per effetto dell'intervento del giudice Eurounitario si configura come oggettiva, con conseguente impossibilità per la stazione appaltante di dimostrare il carattere incolpevole della violazione accertata in sede giurisdizionale. L'impatto di questa decisione della Corte di giustizia UE è stato dirompente. La quasi totalità della giurisprudenza nazionale ha infatti mostrato di uniformarsi ai dettami Eurounitari, ricostruendo la responsabilità della P.A. da aggiudicazione illegittima in termini squisitamente oggettivi (ex multis: Cons. giust. amm. sic., Sez. giur., n. 559/2017; Cons. St. Ad. plen., n. 2/2017). Le uniche voci dissonanti, rispetto ai princìpi sopra indicati, riguardano l'eventualità che l'amministrazione possa evitare di incorrere in responsabilità dimostrando la scusabilità dell'errore. Anche dopo la sentenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea, Sez. III, 30 settembre 2010, n. C-314/09, infatti, taluni pronunciamenti della giurisprudenza interna hanno continuato ad ammettere la possibilità, per l'amministrazione, di dimostrare che la condotta illegittima sia stata posta in essere a causa di un errore ‘scusabile', il quale sarebbe configurabile, «ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, d'influenza determinante di comportamenti di altri soggetti o di illegittimità derivate da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata» (ex multis: T.A.R. Campania (Napoli), II, n. 3123/2021; T.A.R. Lazio Latina I, n. 264/2021; T.A.R. Puglia Bari I, n. 261/2021). Sul punto, si ritengono condivisibili le conclusioni raggiunte dalla Corte di giustizia UE e dalla quasi totalità della giurisprudenza nazionale. Ove si ammettesse la possibilità per l'amministrazione di giustificare le illegittimità poste in essere adducendo a pretesto la scusabilità del suo errore, si vanificherebbe la ratio ispiratrice dell'art. 124 c.p.a. (nonché, a monte, della direttiva comunitaria n. 89/665/CE) e si causerebbe il concreto rischio che l'operatore economico che si sia visto illegittimamente privare di una commessa pubblica, venga altresì privato della possibilità di ottenere ristoro, sia pure per equivalente monetario, del pregiudizio sofferto, nel caso in cui l'amministrazione suddetta riesca a vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante. In conclusione, a seguito della sentenza Graz Stadt, la responsabilità delle stazioni appaltanti per le illegittimità poste in essere nel corso delle procedure di gara è di tipo oggettivo, essendo sufficiente la ravvisata illegittimità dell'atto per dedurre la colpa dell'ente procedente, senza alcuna possibilità di controprova circa l'eventuale scusabilità dell'errore. In tema di risarcimento da mancato affidamento di appalti pubblici, non è quindi necessario provare la colpa della stazione appaltante, in quanto il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività previsto dalla normativa Europea e le garanzie di trasparenza e non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione di appalti comportano la necessità che qualsiasi violazione degli obblighi di matrice Europea consenta all'operatore economico danneggiato di ottenere il ristoro del pregiudizio sofferto, a prescindere dall'eventuale profilo colposo della condotta illegittima. La responsabilità precontrattuale dell'amministrazione e il relativo elemento soggettivoLa responsabilità dell'amministrazione di cui si è trattato nei paragrafi precedenti è una responsabilità di tipo extracontrattuale per danno da mancata aggiudicazione di commesse pubbliche. Tale tipologia di responsabilità, tuttavia, non è l'unica in cui l'amministrazione può incorrere in materia di appalti (Trimarchi Banfi), andandosi ad aggiungere alla responsabilità di tipo precontrattuale (Malanetto). La giurisprudrenza ritiene che il paradigma della responsabilità precontrattuale sia pacificamente “applicabile anche all'attività contrattuale dell'amministrazione svolta secondo i modelli autoritativi dell'evidenza pubblica e che prescinde dall'accertamento di un'illegittimità provvedimentale e anche dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante» (Cons. St. V, n. 680/2018, ripreso, ex multis, da T.A.R. Friuli Venezia Giulia I, n. 74/2019), per violazione dei canoni di buona fede e correttezza nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto. La relativa giurisdizione è pacificamente riconosciuta al giudice amministrativo. La distinzione tra la responsabilità extracontrattuale e la responsabilità precontrattuale della P.A. si incentra in modo particolare sulla natura delle regole violate: la responsabilità extracontrattuale si configura infatti qualora la violazione riguardi norme di tipo pubblicistico che siano poste a presidio delle procedure a evidenza pubblica, mentre quella precontrattuale richiede la violazione di norme di tipo privatistico, generalmente riferite ai rapporti di diritto comune. Mentre nella responsabilità extracontrattuale per danno da mancata aggiudicazione il danno da risarcire è riferito al c.d. 'interesse positivò e ricomprende sia il mancato profitto sia il danno curriculare, in quella precontrattuale il danno risarcibile si ricollega a un interesse di tipo ‘negativo' e ricomprende unicamente l'interesse a non spendere tempo e risorse nella conduzione di trattative contrattuali inutili (Giustiniani, Fontana). In relazione alla responsabilità precontrattuale, a differenza di quanto avviene con riferimento alla responsabilità per danno da mancata aggiudicazione, l'elemento soggettivo della condotta mantiene una sua specifica rilevanza. Quanto detto fin qui, chiaramente, non incide sui princìpi generali posti a presidio della responsabilità civile dell'amministrazione nei settori diversi da quello – del tutto peculiare – degli appalti pubblici, che esulano dall'ambito oggettivo di applicazione dei princìpi enunciati dalla sentenza Graz Stadt e poi puntualmente recepiti dai giudici nazionali. Riconoscere la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione prima dell'aggiudicazioneNon vi è dubbio che una stazione appaltante possa incorrere in una responsabilità di tipo precontrattuale per condotte poste in essere nella fase successiva all'aggiudicazione della procedura. In via esemplificativa, la giurisprudenza ritiene che la stazione appaltante possa incorrere in responsabilità precontrattuale qualora (anche dopo la stipula del contratto) revochi in autotutela una gara d'appalto in ragione del venir meno della fonte di finanziamento dei lavori affidati, se le condizioni di criticità economica erano conosciute o conoscibili già prima dell'indizione della procedura (cfr. T.A.R. Campania Napoli I, n. 139/2018). Al contrario, secondo la giurisprudenza, non si configura alcuna responsabilità precontrattuale nel caso di mancata stipula del contratto a seguito di interdittiva antimafia. In particolare, la mancata stipula di un contratto per lavori conseguente a richiesta di informativa antimafia, successivamente intervenuta, non è produttiva di danno risarcibile stante la possibilità dell'amministrazione di acquisire l'informativa prefettizia al fine di evitare di stipulare il contratto con un soggetto che – dal punto di vista della normativa antimafia – era suscettibile di presentare controindicazioni. La responsabilità precontrattuale ricorre infatti nel caso in cui, prima della stipulazione contrattuale, il presunto danneggiante violi il principio di correttezza e buona fede, ledendo il legittimo affidamento maturato da controparte nella conclusione del contratto. Nella situazione in esame, però, il mancato rispetto del termine risulterebbe pienamente giustificato dalle esigenze antimafia, non potendo dunque integrare gli estremi di una condotta illecita (cfr. Cons. St. III, n. 1882/2018). Se la possibilità per l'amministrazione di incorrere in responsabilità precontrattuale per condotte tenute dopo l'aggiudicazione della gara è pacifica in giurisprudenza, altrettanto non vale con riferimento alla fase che precede l'aggiudicazione. In particolare, ci si è chiesti se la responsabilità precontrattuale sia o meno configurabile anteriormente alla scelta del contraente. Nulla esclude, infatti, che la violazione delle regole di buona fede e correttezza si possa concretizzare anche «in un momento che precede la conclusione della fase pubblicistica (...), il che non toglie che tale violazione assume rilevanza dopo che gli atti della fase pubblicistica, attributivi degli effetti vantaggiosi, sono stati rimossi» (Trimarchi Banfi). Si pone il problema di capire se – ed eventualmente a che titolo – l'amministrazione possa essere chiamata a risponderne in sede risarcitoria. Sul punto è sorto un contrasto giurisprudenziale. Da un lato, alcune pronunce del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St. V, n. 3831/2013) e della Corte di Cassazione (cfr. Cass. civ., n. 15260/2014) hanno sostenuto che la responsabilità precontrattuale sarebbe configurabile anche nella fase che precede la scelta del contraente, prima dell'aggiudicazione e a prescindere da essa. Dall'altro lato, successive pronunce giurisprudenziali hanno sviluppato un orientamento secondo cui la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione sarebbe connessa alla violazione delle regole di condotta tipiche della fase di formazione del contratto e, quindi, potrebbe riguardare soltanto fatti svoltisi in tale fase; pertanto, tale responsabilità non sarebbe configurabile anteriormente alla scelta del contraente, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare solo un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri dell'amministrazione, non essendo (ancora) configurabile una ‘trattativà contrattuale in senso proprio (cfr. Cons. St. V, n. 5146/2017). Il contrasto giurisprudenziale è stato risolto dall'Adunanza Plenaria, che ha ritenuto di aderire al primo orientamento. Sebbene l'ordinanza di rimessione propendesse per la tesi opposta, muovendo dalla premessa teorica per cui il dovere di correttezza e di buona fede troverebbe necessariamente il suo presupposto nella sussistenza di una ‘trattativà contrattuale già in stato avanzato, l'Adunanza Plenaria ha chiarito che «l'attuale portata del dovere di correttezza è oggi tale da prescindere dall'esistenza di una formale ‘trattativà e, a maggior ragione, dall'ulteriore requisito che tale trattativa abbia raggiunto un livello così avanzato da generare una fondata aspettativa in ordine alla conclusione del contratto» (Cons. St. Ad. plen., n. 5/2018). Infatti, ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale: «tant'è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l'interesse appunto a non subire indebite interferenze nell'esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l'utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell'altrui scorrettezza)» (Cons. St. Ad. plen., n. 5/2018). Il progressivo ampliamento del dovere di correttezza deve trovare riscontro anche rispetto all'attività posta in essere dall'amministrazione con moduli autoritativi, quando a dolersi della scorrettezza è il privato che partecipa al procedimento amministrativo. Nello svolgimento dell'attività autoritativa, l'amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di norma, l'illegittimità del provvedimento e la conseguente responsabilità risarcitoria per lesione di interessi legittimi), ma anche le regole generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con correttezza e lealtà, la cui violazione può comportare una responsabilità di tipo precontrattuale, che non incide su interessi legittimi, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali. La sussistenza della responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, quindi, prescinde completamente dall'eventuale illegittimità dei provvedimenti amministrativi adottati, ed anzi «per molti versi presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale». In tale contesto, risulterebbe eccessivamente restrittiva la tesi secondo cui, nei procedimenti ad evidenza pubblica, l'obbligo di rispettare i doveri di correttezza sorgerebbe soltanto dopo l'adozione del provvedimento di aggiudicazione. Aderendo a tale impostazione, «si finirebbero, infatti, per creare a favore del soggetto pubblico ‘zone franche' di responsabilità, introducendo in via pretoria un regime ‘speciale' e ‘privilegiato', che si porrebbe in significativo contrasto con i principi generali dell'ordinamento civile e con la chiara tendenza al progressivo ampliamento dei doveri di correttezza» (Cons. St. Ad. plen., n. 5/2018). Nella visione fatta propria dall'Adunanza Plenaria, le pur meritorie preoccupazioni di una eccessiva estensione della responsabilità dell'amministrazione non possono essere affrontate introducendo limitazioni di responsabilità tanto ingiustificate quanto aprioristiche, ma vanno superate mediante una rigorosa verifica in concreto circa l'effettiva sussistenza dei presupposti necessari per far sorgere la pretesa risarcitoria (Mininno). A tal fine, non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede e il proprio affidamento incolpevole, occorrendo altresì: i) che l'affidamento incolpevole risulti leso da una condotta oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà, a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti amministrativi; ii) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia soggettivamente imputabile all'amministrazione in termini di colpa e di dolo; iii) che il privato provi sia il danno-evento (ossia la lesione alla libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (ossia le perdite economiche sofferte a causa della condotta scorretta dell'amministrazione) (cfr. Cons. St. IV, n. 2907/2018). Sussistendo tali presupposti, l'amministrazione sarà tenuta a rispondere a titolo di responsabilità precontrattuale anche per eventuali comportamenti posti in essere prima dell'aggiudicazione, indipendentemente dalla circostanza per cui tali comportamenti siano precedenti o successivi rispetto al bando di gara. BibliografiaBartolini, Il decreto di recepimento della direttiva ricorsi, in Urb. e Appalti, n. 6/2010; Caringella, Giustiniani, Manuale del Processo Amministrativo, II ed., Roma, 2017; Caringella, Protto (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo commentato, Roma, 2010; Casinelli, Il subentro nel contratto disposto dal Giudice: modalità attuativa di un giudicato implicito, in Urb. e Appalti, 1/2013; Ferrari, La tutela giurisdizionale, in Garofoli, Ferrari (a cura di), La nuova disciplina degli appalti pubblici, Roma, 2016; Giustiniani, Fontana, I poteri di intervento del giudice amministrativo nel rapporto negoziale: la ‘tangibilità' del contratto pubblico, in Caringella, Giustiniani, Mantini (a cura di), Trattato dei contratti pubblici, Roma, 2021; Lipari, Il recepimento della direttiva ricorsi: il nuovo processo super accelerato in materia di appalti e l'inefficacia «flessibile» del contratto nel d.lgs. 53/2010, in Foro Amm. T.A.R., 2010; Malanetto, La disciplina speciale dei contratti pubblici: procedure di affidamento, contratto ed esecuzione del rapporto tra diritto civile e diritto amministrativo. Problematiche attuali, in www.giustizia-amministrativa.it, 18 aprile 2018; Mininno, Appalti pubblici: l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato riconosce la tutelabilità in via risarcitoria del partecipante alla gara (note a margine di Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza n. 5 del 4 maggio 2018), in lexitalia.it, n. 5/2018, 29 maggio 2018; Saitta, Contratti pubblici e riparto di giurisdizione: prime riflessioni sul decreto di recepimento della direttiva n. 2007/66/CE, in www.giustamm.it; Trimarchi Banfi, L'aggiudicazione degli appalti pubblici e la responsabilità dell'Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 1/2015. |