Ritardo nella diagnosi di patologia da esito infausto, e lesione del diritto all'autodeterminazione

14 Febbraio 2022

La mancata diagnosi di una patologia ad esito sicuramente infausto lede il diritto del paziente a compiere scelte consapevoli per il tempo residuo da vivere.
Massima

"In caso di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l'area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, ma include il danno da perdita di un ‘ventaglio' di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima, ovvero “non solo l'eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all'attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d'indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all'ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, giacché, tutte queste scelte appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali”.

Il caso

Nel caso di specie, una donna conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale, il proprio dermatologo, esponendo che, in data 20 ottobre 1988, si era recata presso lo studio del professionista al fine di chiarire la natura di un'affezione cutanea presente sull'alluce del piede sinistro ed il medico le aveva diagnosticato un'onicomicosi con relativa terapia, Nonostante tali cure, a seguito di un peggioramento del quadro clinico, nell'ottobre 1989 il medico le prescriveva esami più approfonditi, a seguito dei quali emergeva un melanoma maligno con conseguenti interventi chirurgici e profilassi oncologica.

L'attrice aveva dunque addotto la colpa del professionista per non aver accertato tempestivamente la natura dell'affezione cutanea. Il medico, a sua volta, chiedeva il rigetto della domanda attorea, sostenendo che la terapia antimicotica era stata utile a guarire la micosi presente allo scopo di poter valutare adeguatamente la malattia sottostante e che, nonostante svariati inviti rivolti alla paziente di effettuare ulteriori accertamenti, la stessa aveva rifiutato più volte, procrastinandoli.

L'attrice decedeva in corso di causa e i suoi eredi si costituivano in giudizio. Istruita la causa mediante prove orali, documentali e CTU, il Tribunale respingeva la domanda attorea in quanto, in base alla relazione peritale, non era emersa una precisa negligenza del medico, né il nesso causale tra il melanoma e la morte della paziente. Il Tribunale, in particolare, aveva escluso la responsabilità del convenuto anche sulla base della particolare difficoltà diagnostica dovuta alla micosi e alla non sempre puntuale adesione dell'attrice a sottoporsi ad esami ulteriori.

La Corte d'Appello confermava la decisione di primo grado, ritenendo, in primo luogo, che gli eredi potessero agire unicamente iure successionis, mentre per chiedere i danni iure proprio subiti a causa del decesso della madre, avrebbero dovuto instaurare un'ulteriore causa; secondariamente, il giudice del gravame ha ritenuto mancante la prova, gravante sull'attrice, che il danno sofferto dalla paziente – ed il suo successivo decesso – fossero causalmente collegati all'imperizia e negligenza del medico convenuto in giudizio.

La causa giungeva in Cassazione, in quanto uno degli eredi impugnava la sentenza lamentando che la Corte d'appello avesse errato nel ritenere non allegato e non provato il danno patito dalla vittima. La Corte di Cassazione, nel 2015, accoglieva il ricorso di tale erede, rinviando la causa alla Corte d'appello territoriale al fine di valutare se il danno alla salute patito dalla vittima fosse stato allegato nell'atto di citazione. Il Collegio distrettuale respingeva nuovamente le domande risarcitorie iure ereditatis, in quanto la CTU medico-legale disposta dai giudici di merito aveva evidenziato che un intervento anticipato di amputazione dell'alluce sinistro avrebbe determinato una maggiore possibilità di sopravvivenza della signora, quantificabile nella misura del 30-40% a 10 anni, se la diagnosi fosse stata formulata nell'ottobre 1988; le metastasi polmonari, causa finale del decesso della paziente, secondo un giudizio probabilistico, erano collegate al melanoma del piede, il quale aveva un indice di accrescimento di circa 0,40 mm al mese.

Alla luce di tali affermazioni, i giudici di merito avevano ritenuto non provato il nesso causale tra la condotta colposa del medico e il decesso della donna, ponendo a base del loro ragionamento due assunti enunciati dalle relazioni dei consulenti tecnici, sia di parte che d'ufficio: che il tumore nel 1989 aveva la dimensione di 10 mm e che la crescita del melanoma era stata di 0,40 mm al mese. Pertanto, secondo un giudizio di verosimiglianza, nel 1988, data della prima visita della donna presso il dermatologo, il tumore aveva già raggiunto la grandezza di 4,8 mm entrando nel livello superiore a 4 mm Breslow, il medesimo in cui si trovava l'anno dopo. Pertanto, non si poteva affermare, con ragionevole sicurezza, che una diagnosi corretta all'epoca della prima visita avrebbe evitato l'evoluzione delle metastasi, in quanto a quel tempo il tumore era già in un uno stadio tale da potere metastazzare con elevata probabilità.

La causa giungeva di nuovo in Cassazione.

La questione

Nella sentenza qui esaminata, la Suprema Corte ha affrontato la delicata tematica in tema di responsabilità medica della lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente.

In particolare, si è chiesta se tale diritto debba intendersi leso nel caso in cui la vittima, resa tempestivamente consapevole della malattia infausta, avrebbe avuto la facoltà di determinarsi liberamente nella scelta dei percorsi da intraprendere nell'ultima fase della sua vita.

Le soluzioni giuridiche

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, l'erede della donna defunta lamentava, tra gli altri motivi, la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 277 c.p.c., e dell'art. 2059 c.c.; inoltre, il mancato esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.).

I giudici di merito, in particolare, si sarebbero pronunciati solo su una parte delle domande avanzate dal ricorrente, ossia quella inerente all'accertamento del nesso causale tra condotta medica omissiva ed evoluzione nefasta (o accelerazione della medesima), mentre le domande proposte comprendevano uno spettro d'esame più ampio, includendovi anche i gravi danni patrimoniali e non patrimoniali connessi al decesso.

La Corte territoriale, inoltre, avrebbe omesso di considerare che, a seguito di una diagnosi esatta di malattia ad esito ineluttabilmente infausto, la paziente sarebbe stata messa nelle condizioni di scegliere cosa fare per garantire la fruizione della propria salute residua fino all'esito infausto e di programmare il proprio “essere persona” in vista di quell'esito. Sarebbe stata, dunque, disattesa una costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il ritardo nella diagnosi avrebbe determinato, di per sé, una lesione del diritto di autodeterminarsi.

La Corte di cassazione ha avuto modo di precisare, in particolare, che l'aspetto rilevante della questione non risiede tanto nell'inevitabilità dell'esito infausto della patologia, quanto nella possibilità, negata alla paziente, di gestire con consapevolezza e mediante autonome e consapevoli decisioni l'ultima fase della propria vita.

La mancata o ritardata diagnosi della patologia oncologica, in altre parole, ha impedito alla paziente non solo di decidere se e a quale trattamento sottoporsi, ma anche di affrontare il resto della propria vita e delle proprie scelte quotidiane con la consapevolezza che la malattia - peraltro ignorata - avrebbe avuto certamente esito infausto.

Con particolare riferimento al diritto alla salute (che pure risultava leso dalla mancata conoscenza della malattia), la Corte cita un precedente (Cass., ord. n. 7260/2018), nel quale era evidenziato che "in caso di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l'area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, ma include il danno da perdita di un ‘ventaglio' di opzioni con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima: ovvero non solo l'eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all'attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d'indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all'ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, giacché, tutte queste scelte appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali”.

Osservazioni

La Cassazione, con questa pronuncia, ha affermato che sussiste una lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente nel caso in cui quest'ultimo, se fosse stato consapevole tempestivamente della malattia infausta, avrebbe avuto la facoltà di determinarsi liberamente nella scelta dei percorsi da intraprendere nell'ultima fase della sua vita.

Ciò che rileva, in tal caso, non è la lesione del bene salute o della perdita di chance di guarigione e/o di sopravvivenza, ma la lesione di un bene autonomo, di per sé risarcibile, in quanto tutelato dalla Costituzione.

In particolare, i giudici di merito avrebbero dovuto tener conto, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, che, nonostante l'inutilità della diagnosi precoce ai fini dell'evitabilità dell'evento infausto, questa avrebbe consentito alla paziente di autodeterminare il tempo rimanente con coscienza e consapevolezza.

Pertanto, sebbene nel caso di specie la condotta del medico non avesse cagionato la morte della paziente (che, secondo la Corte d'appello, si sarebbe comunque verificata), e dunque non sussistesse il nesso causale tra la condotta colposa del sanitario e il decesso della paziente, ciò avrebbe potuto fondare la risarcibilità conseguita alla lesione di un diverso bene giuridico, quale, appunto, il diritto di autodeterminarsi nella parte finale dell'esisistenza.

Oggetto di lesione, dunque, non è soltanto la salute, ma anche il diverso diritto del paziente di scegliere autonomamente come vivere la fase terminale della propria vita.
Da quanto sopra, si evince che il danno alla persona derivante da responsabilità medica, in caso di mancata diagnosi di malattia terminale, non riguarda solo il bene della vita "salute" (comunque coinvolto, in ordine alla scelta della terapia palliativa da attuare), ma anche, più latamente, il diritto di autodeterminarsi nelle proprie scelte di vita, in virtù di una corretta conoscenza del proprio stato di salute.

L'omessa diagnosi, infatti, impedisce al paziente di decidere «cosa fare» del tempo che gli resta, scegliendo fra le eventuali terapie offerte dalla scienza medica e mere cure palliative. La condotta del sanitario, dunque, peggiora la qualità della vita del malato nell'ultimo tratto dell'esistenza.

In tal senso, il diritto alla autodeterminazione, la cui lesione ha impedito alla paziente la consapevole predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo, va distinta dalla fattispecie della perdita di chance, poiché la condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata nè sull'esito finale (cfr. Cass. 29983/2019).

In definitiva, escludere il nesso fra l'omissione del sanitario e il decesso della paziente non esaurisce i termini dei danni risarcibili, i quali coprono uno spettro più ampio: se il medico si fosse accorto della malattia terminale, infatti, la paziente, di ciò debitamente edotta, avrebbe potuto esercitare pienamente i propri diritti di autodeterminazione e vivere il tempo rimanente con coscienza e consapevolezza.

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