Danno da insidia: ammissibile la “prova negativa” sulla non visibilità della buca ma il Giudice deve valutare adeguatamente gli apprezzamenti del testimone

Giuseppe Chiriatti
09 Marzo 2022

Chiedere ad un testimone se una cosa reale fosse visibile o non visibile è una domanda che non ha ad oggetto una "valutazione" ed è dunque ammissibile, fermo restando il potere-dovere del Giudice di valutare, ex post, se la risposta fornita sia basata su percezioni sensoriali oggettive o su mere supposizioni del testimone.
Massima

Chiedere ad un testimone se una cosa reale fosse visibile o non visibile è una domanda che non ha ad oggetto una "valutazione" ed è dunque ammissibile, fermo restando il potere-dovere del Giudice di valutare, ex post, se la risposta fornita sia basata su percezioni sensoriali oggettive o su mere supposizioni del testimone.

Il caso

L'ordinanza in commento trae origine da un sinistro che, secondo la narrativa attorea, sarebbe stato determinato da una irregolarità del manto stradale.

In particolare, l'attrice allegava:

  • di aver riportato lesioni personali in seguito alla caduta dal proprio motociclo;
  • che la caduta era stata provocata da "numerose buche non visibili" presenti sul manto stradale;
  • che, pertanto, dei danni sofferti in conseguenza della caduta doveva rispondere l'ente proprietario della strada, ai sensi dell'art. 2051 c.c., quale custode del bene.

La domanda veniva rigettata in primo e in secondo grado a causa della mancata prova del nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno.

L'attrice, nondimeno, ricorreva in Cassazione, dolendosi del fatto che entrambi i giudici di merito avevano ritenuto inammissibile la prova testimoniale sul seguente capitolo: "vero che allo scattare del verde semaforico l'esponente riavviava la marcia, ma dopo pochi metri la ruota anteriore del motorino veniva intercettata da una buca non visibile sul manto stradale che causava lo sbandamento del mezzo e la successiva caduta a terra del motorino in prossimità della suddetta buca e della conducente stessa". In particolare, tale capitolo veniva ritenuto inammissibile in quanto avrebbe avuto ad oggetto “circostanze valutative negativamente formulate”.

La questione

La Corte di Cassazione è stata dunque chiamata a pronunciarsi su di una questione di grande rilievo pratico, atteso che la corretta formulazione dei capitoli di prova testimoniale costituisce uno degli aspetti più critici dell'attività difensiva e ciò a maggior ragione nel contenzioso di responsabilità civile, atteso che la prova del fatto storico è molto spesso fornita mediante il ricorso alla testimonianza.

E ciò, si badi, anche in quelle fattispecie in cui il legislatore ha ritenuto di derogare al paradigma di cui all'art. 2043 c.c., introducendo una presunzione di responsabilità in capo all'autore del fatto (si pensi all'art. 2054 comma 1 c.c.) o, addirittura, istituendo una vera e propria responsabilità oggettiva (si pensi all'art. 2051 c.c. come appunto invocato dalla ricorrente nel caso da cui origina l'ordinanza in commento): ed infatti, anche in simili fattispecie, l'onere di provare l'evento dannoso ed il nesso causale tra questo ed il danno resta pur sempre in capo all'attore (ex multis Cass. 8249/1998; Cass. 1064/2018).

Le soluzioni giuridiche

1) Inammissibilità dei capitoli di prova formulati negativamente: una convinzione diffusa ma erronea

In primo luogo (ed in termini più generali), l'ordinanza in commento censura “l'inaccettabile opinione … molto spesso ripetuta come un Mantra”, secondo cui il capitolo di prova testimoniale dev'essere formulato in modo positivo: ed infatti, rileva la Corte, nell'ordinamento non è rinvenibile alcuna norma di legge o principio generale che vieti di provare per testimoni che un fatto non sia accaduto (ex multis Cass. 19171/2019).

Oltretutto, aggiunge la Corte, una simile argomentazione risulterebbe manifestamente insostenibile già solo sul piano della logica, dal momento che “chiedere a taluno di negare che un fatto sia vero equivale a chiedergli di affermare che quel fatto non sia vero”. In altri termini, aderendo alla tesi secondo cui il capitolo di prova testimoniale dev'essere formulato in modo positivo, si giungerebbe al “paradosso di ammettere o negare la prova non già in base al suo contenuto oggettivo, ma in base al tipo di risposta che si sollecita dal testimone”; con la conseguenza che, nel caso da cui origina l'ordinanza in commento, la prova richiesta dalla ricorrente sarebbe stata pienamente ammissibile ove il capitolo fosse stato formulato nei seguenti termini: "vero che la buca era visibile" (assumendo cioè la forma di una interrogazione positiva).

Nondimeno, svolta tale premessa d'ordine generale, il ragionamento della Corte prosegue e affronta quella che, a parere di chi scrive, costituisce la questione più rilevante e, cioè, a quali condizioni il capitolo di prova dev'essere ritenuto valutativo e, per l'effetto, non può essere ammesso dal Giudice.

2) Percezione sensoriale e valutazione del fatto

Ed infatti, nel caso da cui origina l'ordinanza in commento, il capitolo di prova non ammesso dal Giudice del merito era formulato in modo tale che il testimone potesse confermare non solo che la buca fosse effettivamente presente sul luogo dell'evento, ma altresì che quella buca non fosse visibile: in altri termini, la risposta al quesito avrebbe imposto al testimone di “qualificare” il fatto dedotto nel capitolo di prova.

D'altro canto, a parere della Corte, “riferire se un oggetto reale fosse visibile o non visibile non è un giudizio, è una percezione sensoriale”. In particolare, l'ordinanza rievoca alcuni precedenti secondo cui i testimoni possono essere ammessi a deporre su circostanze "cadenti sotto la comune percezione sensoria", essendo loro unicamente precluso di esprimere giudizi di natura tecnica (ex multis Cass. 4120/1974).

In definitiva, il ragionamento della Corte può essere così riassunto: pur dovendosi ribadire che il testimone non può essere chiamato a fornire un apprezzamento tecnico o giuridico dei fatti, ciò non significa, tuttavia, che non possa eventualmente esprimere dei giudizi, nei limiti in cui si tratti di "apprezzamenti di assoluta immediatezza, praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico". Tant'è che, in ossequio a tale distinzione tra percezione sensoriale e valutazione del fatto, la Corte aveva già in precedenza ritenuto ammissibile, in un giudizio per immissioni non tollerabili, il capitolo di prova con cui si richiedeva al testimone di confermare che il rumore fosse “udibile” dall'interno di un appartamento anche con le finestre chiuse (Cass. 2166/2006).

Allo stesso modo, dunque, è possibile chiedere al testimone di confermare che una buca non fosse visibile, atteso che l'eventuale risposta esprimerebbe un mero “convincimento derivato al testimone per sua stessa percezione”.

Ciò detto, conclude la Corte, resta comunque fermo il potere-dovere del Giudice di valutare adeguatamente la rilevanza del contenuto della deposizione, specie nei casi in cui il testimone non sia stato in grado di "indicare i dati obiettivi e le modalità specifiche della situazione concreta, che possano far uscire la percezione sensoria da un ambito puramente soggettivo e trasformarla in un convincimento scaturente obiettivamente dal fatto" (così Cass. 5460/1983). In particolare, tale valutazione dovrà essere svolta solo successivamente all'assunzione della deposizione e non già ex ante in sede di valutazione dell'ammissibilità della prova: in altri termini, “al testimone potrà sempre chiedersi se sia vero che una buca sulla strada non era visibile, salvo escludere la rilevanza della prova ove questi, ad esempio, rispondesse che la buca non era visibile perché ‘così mi è parso”.

3) Rilevanza della testimonianza ex ante e apprezzamento della deposizione ex post: due momenti distinti

Invero, nella parte in cui dispone che il giudizio sulla “rilevanza della prova” debba essere svolto solo successivamente all'assunzione della testimonianza, l'ordinanza potrebbe risultare equivoca, atteso che la rilevanza delle prove dedotte dalle parti dev'essere pur sempre valutata ex ante (dispone, infatti, l'art. 183 comma 7 c.p.c. che “salva l'applicazione dell'articolo 187, il Giudice provvede sulle richieste istruttorie fissando l'udienza di cui all'articolo 184 per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti”).

Par dunque evidente che la Corte ha inteso riferirsi non alla rilevanza della richiesta istruttoria rispetto al thema probandum, quanto all'idoneità delle risposte fornite dal testimone a determinare il convincimento del Giudice ai fini della decisione, ai sensi e per gli effetti dell'art. 116 c.p.c. (tant'è che è la stessa Corte ad affermare che “nel giudizio avente ad oggetto una domanda di risarcimento del danno causato da un evento della circolazione stradale, in mancanza di altre e decisive prove, non può di norma negarsi rilevanza alla prova testimoniale intesa a ricostruire la dinamica dell'evento”).

Ciò chiarito, pare altrettanto evidente che la Corte, nel rimarcare la necessità di una adeguata valutazione del contenuto della deposizione ai fini della decisione, è comunque consapevole del discrimine, talvolta labile, tra valutazione e percezione del fatto. Ed anzi, noteremo come la prassi pretoria si sia nel tempo arroccata su di un rigido “formalismo istruttorio” (che appunto nega l'ammissione della testimonianza su quei capitoli che implicano un qualche apprezzamento del fatto) proprio per ridurre il margine di soggettività che risulta strettamente connaturato alla deposizione testimoniale. Diremmo dunque che, in alternativa a tale aprioristica preclusione affermatasi nella prassi, l'ordinanza in commento appronta una soluzione più elastica, che intanto favorisce l'assunzione della testimonianza, salvo poi riservare al Giudice un'adeguata valutazione delle risposte fornite dal testimone ai fini della decisione.

Ebbene, non vi è dubbio che tale soluzione meglio garantisce il diritto alla prova della parte istante (la quale, peraltro, non coincide necessariamente con l'attore, atteso che lo stesso convenuto/responsabile potrebbe avere interesse a provare una circostanza contraria a quanto asserito dal danneggiato). Oltretutto, non potremmo omettere di considerare come la legge processuale riconosca al Giudice il potere ex officio di rivolgere al testimone tutte le domande che ritiene utili a chiarire i fatti (art. 253 c.p.c.): pertanto, anche a prescindere dalla stretta formulazione del capitolo di prova, gli “apprezzamenti” del testimone potrebbero comunque avere ingresso nel processo già solo su impulso del Giudice.

D'altro canto, ci preme evidenziare come la soluzione approntata dalla Corte, obblighi il Giudice non solo a valutare adeguatamente il contenuto della risposta fornita dal testimone, ma altresì a dar debito conto - nella motivazione - dell'iter logico in forza del quale ritiene che il testimone non abbia fornito una valutazione (in quanto tale non utilizzabile ai fini della decisione), ma si sia limitato a riferire il fatto così come immediatamente percepito. Ed anzi, proprio in tal senso occorre ricordare come – pur a fronte di quanto previsto dall'art. 132 comma 1 n. 4 c.p.c. (secondo cui l'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione dev'essere “concisa”) – il Giudice sia comunque tenuto ad effettuare un'approfondita disamina logica e giuridica degli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, pena la nullità della sentenza per omessa motivazione (ex multis Cass. 20019/2021).

Osservazioni

Pare a chi scrive che l'ordinanza in commento abbia l'indubbio merito di confutare alcuni “formalismi istruttori” che potrebbero talvolta pregiudicare il diritto alla prova della parte istante (sia essa l'attore chiamato a provare il fatto storico o il convenuto chiamato a resistere alla domanda del danneggiato). Nondimeno, nel confutare tali “formalismi istruttori”, la Corte non legittima l'ingresso indiscriminato - all'interno del processo - di qualsivoglia apprezzamento del testimone e, in ogni caso, ammonisce il Giudice del merito circa la necessità di valutare adeguatamente il contenuto della deposizione (e ancora, aggiungiamo noi, di descrivere altrettanto adeguatamente in sentenza l'iter logicoche lo ha condotto a ritenere provati i fatti così come riferiti dal testimone).

In definitiva, l'ordinanza in commento partecipa al più ampio dibattito che vorrebbe restituire maggiore “vitalità” al processo, talvolta appiattito su inveterate (ed eccessivamente rigide) prassi, quanto su acritici (ed inaccettabili) automatismi: si pensi, ad esempio, alle tabelle in uso per la liquidazione dei danni non patrimoniali, spesso invocate – e talvolta applicate - anche a prescindere dal corretto e tempestivo assolvimento degli oneri di allegazione dei pregiudizi lamentati dal danneggiato (sul punto, su questa rivista: SPECIALE: preclusioni relative all'onere di allegazione del danno patrimoniale e non patrimoniale).

Peraltro, la soluzione di compromesso approntata dalla Corte potrebbe riverberare – in positivo – sulla ragionevole durata del processo, prevenendo il rischio che la mancata assunzione e valutazione della testimonianza in primo grado possa determinare la parte istante ad impugnare il provvedimento giudiziale. Ed anzi, noteremo come una maggiore “elasticità” nella formulazione e nell'ammissione dei capitoli di prova faccia da pendant ad una riforma (quella inaugurata con l'approvazione della “Delega al Governo per l'efficienza del processo civile” – Legge n. 206 del 26 novembre 2021), che per assicurare la “semplicità” e la “concentrazione” del procedimento (art. 1 comma 5 lett. a) L. 206/2021), vorrebbe imporre alle parti di indicare specificamente - già nella fase introduttiva che precede l'udienza di comparizione - i mezzi di prova di cui intendono avvalersi (art. 1 comma 5 lett. c), e) e f) L. 206/2021). Non potremmo ignorare, invero, come una simile prescrizione sia oggi già formalmente contenuta negli artt. 163 e 167 c.p.c.; d'altro canto, è noto che – nella prassi - le parti molto spesso si riservano di indicare i testimoni e di articolare i capitoli di prova direttamente con la memoria ex art. 183 comma 6 n. 2 c.p.c. (evenienza, quest'ultima, che – stando ad una lettura complessiva del testo della legge delega - non potrebbe più verificarsi nel nuovo processo riformato).

L'auspicio è, dunque, che il dibattito attualmente in corso sullo stato del processo (per come lo stesso vive oggi nelle aule dei Tribunali e delle Corti) possa contribuire ad una migliore realizzazione della riforma, affinché si raggiunga un giusto equilibrio tra l'esigenza di garantire una ragionevole durata dei procedimenti e, al contempo, quella di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva (senza che quest'ultima soccomba alla prima).

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