I limiti della responsabilità dell'amministratore in caso di riduzione del capitale sociale
10 Marzo 2022
Massima
L'art. 2448, comma 1, n. 4), c.c. (nel testo vigente prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), che prevede lo scioglimento della società di capitali per la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, salvo quanto è disposto dall'art. 2447 c.c., si interpreta nel senso che tale evento si verifica solo quando la perdita di esercizio di consistenza superiore al terzo del capitale determina la riduzione di questo al di sotto del minimo stabilito dalla legge (art. 2327 c.c. per la società per azioni; art. 2474 c.c. per la società a responsabilità limitata), mentre non si verifica quando la perdita, pur determinando la riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo stabilito dalla legge, sia pari o inferiore al terzo del capitale medesimo. Il caso
Il curatore di una società a responsabilità limitata dichiarata fallita agiva nei confronti dell'ex amministratore e socio unico per ottenerne la condanna a risarcire i danni provocati dalla violazione degli obblighi di corretta gestione: in particolare, gli veniva addebitato di non avere adottato, a fronte di perdite che avevano ridotto il capitale sociale al di sotto del minimo legale, i provvedimenti previsti dall'art. 2447 c.c. e di avere proseguito l'attività d'impresa, tardando la liquidazione della società, in violazione di quanto stabilito dall'allora vigente art. 2449 c.c. La domanda veniva accolta in primo grado dal Tribunale di Salerno, con sentenza confermata in appello, ove, tuttavia, veniva ridotta l'entità del danno di cui l'ex amministratore era stato riconosciuto responsabile e liquidato in misura corrispondente al passivo determinatosi nel periodo in cui si sarebbe dovuto astenere dal compiere nuove operazioni, sottraendo alla differenza fra passivo e attivo accertati in sede fallimentare il passivo riconducibile a operazioni compiute prima del verificarsi della causa di scioglimento della società. L'amministratore ricorreva per cassazione, lamentando, da un lato, la violazione delle disposizioni dettate in materia di riduzione del capitale per perdite e di scioglimento della società e, dall'altro lato, l'erronea considerazione delle operazioni contestate dalla curatela ai fini dell'accertamento della sua responsabilità e della conseguente liquidazione del danno ascrittogli. Le questioni giuridiche e la soluzione
Con l'ordinanza che si annota, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso, proponendo un'interpretazione delle norme dettate dagli artt. 2446, 2447, 2448 e 2449 c.c. (nel testo vigente prima della riforma di cui al d.lgs. 6/2003) diversa da quella fatta propria dai giudici di merito e censurando le modalità con le quali era stato quantificato il danno di cui la curatela aveva chiesto il risarcimento. La motivazione posta a fondamento della decisione assunta si articola nei seguenti passaggi: 1) non ogni riduzione del capitale sociale che ne determini l'abbassamento al di sotto del minimo legale rileva ai fini dello scioglimento della società; 2) quest'ultimo, infatti, si verifica per legge solo quando la perdita di esercizio è superiore al terzo del capitale e, in quanto tale, lo riduce al di sotto dell'ammontare minimo previsto; 3) solo le operazioni compiute dall'amministratore successivamente al verificarsi della situazione integrante la causa di scioglimento possono essere considerate fonte di responsabilità risarcitoria, a condizione che sia dimostrato il nesso di causalità fra le medesime operazioni e il pregiudizio derivatone ai creditori ovvero alla società allegato dal curatore che abbia agito ai sensi dell'art. 146 l. fall. Osservazioni
La pronuncia annotata si segnala per avere offerto, da una parte, una peculiare lettura delle disposizioni che prevedono le conseguenze della riduzione del capitale per perdite (sia pure nella versione vigente prima della riforma introdotta dal d.lgs. 6/2003) e, dall'altra parte, una conferma di principi costituenti oramai diritto vivente in materia di liquidazione del danno da mala gestio imputabile all'amministratore di società fallita. Per quanto concerne il primo profilo, partendo dal presupposto – condiviso dalla giurisprudenza di legittimità – per cui la perdita di capitale sociale rilevante ai fini dell'applicazione degli artt. 2446 e 2447 c.c. è quella che si determina detraendo da essa la riserva legale, le riserve statutarie, i fondi appostati al passivo, gli utili degli esercizi precedenti e quelli cosiddetti di periodo, la sentenza impugnata aveva ravvisato l'operatività della causa di scioglimento prevista dall'art. 2448, comma 1, n. 4), c.c. (nel testo vigente ante riforma) a fronte di una perdita che, pur essendo di entità inferiore al terzo del capitale sociale, lo aveva eroso in maniera tale da portarlo al di sotto del limite legale. Aderendo, quindi, alla tesi – patrocinata da una parte della giurisprudenza – secondo cui qualsiasi riduzione del capitale sociale che ne determini l'abbassamento al di sotto del minimo legale, indipendentemente dalla misura della perdita che l'abbia provocato, integra la causa di scioglimento automatico della società prevista dalla norma, i giudici di merito avevano imputato all'amministratore non solo di avere omesso di adottare le iniziative previste dall'art. 2447 c.c., ma pure di avere proseguito l'attività imprenditoriale, in spregio all'obbligo di attivare una condotta conservativa, funzionale alla liquidazione della società, in violazione di quanto stabilito dall'art. 2449 c.c. (nel testo vigente ante riforma) e provocando, in questo modo, il danno (ossia l'aggravamento del passivo) di cui la curatela aveva chiesto il risarcimento. I giudici di legittimità non hanno condiviso tale impostazione, reputando più aderente al dato letterale delle disposizioni evocate e alla ratio a esse sottesa l'opinione dottrinale – che ha incontrato il favore di larga parte della giurisprudenza di merito – secondo cui lo scioglimento della società si verifica solo quando la perdita di esercizio è superiore al terzo del capitale e, nel contempo, riduce quest'ultimo al di sotto del limite legale. In altre parole, non è tale mera riduzione a integrare quella che, vigente l'art. 2448 c.c. prima della riforma di cui al d.lgs. 6/2003, costituiva una causa di scioglimento automatico e immediato prevista dalla legge (peraltro risolutivamente condizionata alla ricostituzione del capitale o alla trasformazione della società), dovendo sussistere un ulteriore presupposto, rappresentato da una perdita che, nel determinare l'abbassamento del capitale al di sotto del limite legale, abbia una consistenza quantitativa idonea a intaccarlo in misura comunque superiore a un terzo. Solo a fronte della contestuale sussistenza di tali due requisiti, secondo i giudici di legittimità, sorge per gli amministratori l'obbligo di attenersi a quanto previsto dall'art. 2449 c.c., ferme restando – negli altri casi – le iniziative contemplate dall'art. 2447 c.c. Diversamente opinando, si dovrebbe ammettere che la conseguenza più grave – vale a dire, lo scioglimento della società – sarebbe ricollegata a presupposti oggettivi minori (qualunque perdita che riduca il capitale sociale al di sotto del minimo legale) rispetto a quelli (perdita di oltre un terzo del capitale che lo riduca al di sotto del minimo legale) in presenza dei quali la legge (precisamente, l'art. 2447 c.c.) prescrive l'obbligatoria riduzione e ricostituzione del capitale, ovvero una conseguenza meno grave dello scioglimento. D'altro canto, seguendo l'orientamento divisato, verrebbe privato di senso il riferimento operato dall'art. 2447 c.c. al limite del terzo, nel momento in cui la società fosse comunque costretta a provvedere a fronte di perdite di qualsiasi misura incidenti sul capitale minimo legale. Così, alla luce di un'interpretazione coordinata e combinata degli artt. 2447 e 2448 c.c., i giudici di legittimità hanno affermato che: - fino a quando la perdita di esercizio è contenuta nei limiti del terzo del capitale (riferito all'entità, pari o superiore a quella minima prescritta dalla legge per il modello sociale adottato, scelta dai soci e sussistente nel momento in cui è riscontrata la perdita), non ricorre l'obbligo di assumere le iniziative prescritte dall'art. 2447 c.c. e la loro mancata adozione non influisce sulla vita della società; - solo nel caso in cui la perdita di esercizio sia superiore al terzo del capitale sociale e, nel contempo, lo riduca al di sotto del minimo legale, si determina, per effetto di quanto stabilito dall'art. 2448 c.c., lo scioglimento della società. Per quanto concerne, invece, il secondo profilo, è stato confermato che grava sul curatore che abbia agito nei confronti dell'ex amministratore della società fallita ai sensi dell'art. 146 l.fall. l'onere di dimostrare il danno di cui chiede il risarcimento e la sua riconducibilità alla mala gestio: più precisamente, sulla scorta di quanto affermato da Cass. civ., sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100, la curatela deve allegare e provare la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti di carattere negoziale da parte degli amministratori, ma non già che questi atti siano anche espressione della normale attività d'impresa e non abbiano, quindi, una finalità liquidatoria, giacché spetta agli amministratori convenuti dimostrare che le operazioni contestate, benché effettuate in epoca successiva allo scioglimento, non hanno comportato l'assunzione di un nuovo rischio d'impresa – idoneo, in quanto tale, a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci – e avevano, invece, finalità liquidatoria (principio da ultimo ribadito da Cass. civ., sez. I, 5 gennaio 2022, n. 198). Inoltre, anche quando l'azione di responsabilità svolta dalla curatela (che, secondo la giurisprudenza, ha natura contrattuale e carattere unitario e inscindibile, risultando frutto della confluenza in un unico rimedio delle due diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c.) si fondi sulla violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni di cui all'art. 2449 c.c. (che deve intendersi riferito a quei rapporti giuridici che, svincolati dall'obiettivo di conservare il patrimonio della società in funzione della sua liquidazione, sono posti in essere dagli amministratori in vista del conseguimento degli utili d'impresa, con assunzione di ulteriori vincoli per la società), il danno non può essere liquidato facendo riferimento, in modo acritico e incondizionato, al criterio equitativo – cui è reputato ammissibile fare ricorso quando sia stato accertato che risulta impossibile o estremamente difficile ricostruire i dati con l'analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose imputabili agli amministratori – basato sulla differenza tra l'attivo e il passivo accertati in sede fallimentare: l'intero passivo, infatti, non può considerarsi conseguenza delle sole nuove operazioni compiute dall'amministratore, dovendosi tenere conto di quelle poste in essere prima che andassero adottate le iniziative prescritte dagli artt. 2447 e 2448 c.c. e che, al pari di quelle nuove, abbiano contribuito a determinare il passivo, ovvero a logorare il capitale (posto che, di per sé, il verificarsi di una causa di scioglimento non comporta l'immediata e automatica cessazione di ogni costo legato all'esistenza della società, quand'anche questa venga posta in liquidazione). Senza contare che la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può derivare anche dalla svalutazione dei cespiti aziendali, quale conseguenza del venire meno dell'efficienza produttiva e dell'operatività dell'impresa e non essere correlata, quindi, al mero compimento di nuove operazioni. Da questo punto di vista, non solo, alla luce della ricostruzione della regola di cui all'art. 2448 c.c. prospettata nell'ordinanza che si annota, doveva considerarsi venuto meno, nel caso di specie, il presupposto per addebitare all'ex amministratore il compimento di operazioni non consentite (non potendosi considerare le stesse poste in essere quando la società versava già in stato di scioglimento, non essendo stato riscontrato che la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale era ascrivibile a una perdita di entità superiore al terzo del capitale medesimo), ma ai giudici di merito è stato pure addebitato di non avere svolto alcuna verifica circa la sussistenza di un nesso di causalità tra le operazioni contestate e il pregiudizio allegato dalla curatela.
Conclusioni
Il principio di diritto affermato nell'ordinanza annotata, che trova sponda nella migliore dottrina, deve reputarsi valevole non solo per le residue fattispecie che rimangono assoggettate alla disciplina societaria vigente prima della riforma introdotta dal d.lgs. 6/2003, ma anche per quelle alle quali si applica la versione attuale della norma di riferimento in materia di scioglimento (vale a dire l'art. 2848 c.c., che, in parte qua, resterà immutato anche successivamente al 16 maggio 2022, allorché entrerà in vigore la modifica di cui all'art. 380 d.lgs. 14/2019, come modificato dall'art. 39, comma 1, d.lgs. 147/2020): la lettera degli ivi richiamati artt. 2447 (per le società per azioni) e 2482-ter (per le società a responsabilità limitata), infatti, è rimasta sostanzialmente immutata, facendosi ancora riferimento, in entrambi i casi, alla perdita di oltre un terzo del capitale sociale che lo riduca al di sotto del minimo legale. Di qui, l'indubbia importanza dell'arresto della Corte di cassazione. Per quanto concerne, invece, la tematica relativa alla liquidazione del danno imputabile agli amministratori per la prosecuzione dell'attività d'impresa, va segnalato che, oltre al criterio equitativo – invocato soprattutto in caso di omessa tenuta o di mancato rinvenimento delle scritture contabili – che fa riferimento alla differenza tra l'attivo e il passivo accertati in ambito fallimentare, quando non sia possibile accertare gli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta del gestore, ne è stato prospettato anche un altro, che fa leva sulla differenza dei netti patrimoniali, vale a dire tra il patrimonio netto risultante al momento del verificarsi della causa di scioglimento e quello risultante dal bilancio al momento del fallimento; criterio che è stato, a propria volta, variamente declinato dalla giurisprudenza (Trib. Milano, 14 luglio 2015, per esempio, ha individuato il danno patito dai soci per effetto dell'illecita prosecuzione dell'attività sociale nell'ammontare delle plusvalenze latenti, non risultanti dal bilancio, diminuito della somma che sarebbe occorsa per l'iniziale ricapitalizzazione). |