Responsabilità della banca per concessione del credito al di fuori di una procedura regolamentata di risoluzione della crisi d'impresa

Giuseppe Sileci
18 Marzo 2022

L'erogazione del credito che sia qualificabile come abusiva, in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economica-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore...
Massima

L'erogazione del credito che sia qualificabile come abusiva, in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economica-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, che obbliga il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda l'aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell'attività d'impresa.

Tuttavia, non integra abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi d'impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell'intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un'impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi.

Nel caso in cui la impresa illecitamente finanziata fallisca, l'azione giudiziale di responsabilità potrà essere promossa da curatore fallimentare sia deducendo il danno diretto subito dall'impresa a causa del finanziamento sia deducendo il pregiudizio sofferto dall'intero ceto creditorio, senza la necessità – in applicazione del principio della solidarietà passiva – che l'azione sia promossa congiuntamente nei confronti dell'istituto di credito e (se la impresa era una società) degli amministratori.

Il caso

Il curatore fallimentare aveva agito nei confronti di un istituto di credito imputandogli il danno patito dal patrimonio della società fallita a causa della abusiva concessione del credito. Il Tribunale ha negato la legittimazione ad agire del curatore e la decisione è stata confermata in appello, avendo la Corte territoriale ritenuto che per affermare la legittimazione attiva del curatore “è necessario passare per un'azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore, rispetto al quale la condotta dell'istituto di credito si pone in termini di complicità, aprendo così ad un'estensione solidale della condanna degli istituiti di credito del danno recato al patrimonio sociale dell'imprenditore”.

Il curatore ha impugnato la sentenza d'appello innanzi alla Corte di Cassazione lamentandone la erroneità ed affidando le sue censure a due distinti motivi.

Con il primo motivo, è stata denunciata la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043, 2055, 2393 c.c., art. 185 c.p. e art. 146 L.fall. giacché la concessione di credito alla società in violazione del merito creditizio è una condotta illecita che provoca un danno diretto ed immediato alla medesima società ed un pregiudizio indiretto a tutti i creditori indistintamente a causa della erosione del patrimonio sociale, inteso come garanzia del soddisfacimento dei loro crediti, con conseguente legittimazione attiva del curatore a promuovere l'azione di responsabilità nei confronti della banca; con il secondo motivo è stata denunciata la violazione o falsa applicazione degli artt. 2055, 2393 c.c. e 146 L. Fall. ed omesso esame di un fatto decisivo perché la complicità tra l'ex amministratore e la banca, ritenuta indispensabile dalla Corte territoriale, era stata allegata e provata, sebbene poi la Curatela avesse deciso di agire nei soli confronti dell'istituto di credito e non anche dell'organo sociale in quanto nullatenente, la cui responsabilità – comunque - il giudice del merito avrebbe potuto accertare anche in via incidentale.

La Cassazione ha trattato congiuntamente i due distinti motivi, perché diretti a fare affermare la legittimazione ad agire del curatore contro le banche per il danno da queste cagionato con l'abusiva concessione del credito al patrimonio del fallito, e li ha accolti.

La questione

Quando è configurabile la responsabilità della banca per abusiva concessione del credito ed a chi spetta la legittimazione ad agire quando il sovvenuto è fallito?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte innanzitutto ricostruisce – dal punto di vista dei riferimenti normativi – la responsabilità della banca per abusiva concessione del credito, muovendo intanto dalle norme della legge fallimentare che sanzionano penalmente la condotta degli imprenditori che ricorrono o continuano a ricorrere al credito dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza (art. 218 L.F. che è stato riprodotto dall'art. 325 del Codice della crisi d'impresa) ovvero che sanzionano la volontà del fallito di favorire alcuni creditori eseguendo pagamenti o simulando titoli di prelazione (art. 216 L.F.) ovvero che puniscono il compimento di operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento oppure l'aggravamento del dissesto.

Alla responsabilità penale di chi ricorre al credito dissimulando il dissesto corrisponde la responsabilità civile della banca che conceda, o continui a concedere, incautamente credito in favore dell'imprenditore che versi in stato di insolvenza o comunque di crisi conclamata.

E ciò perché la banca non solo deve pur sempre attenersi al dovere di diligenza ex art. 1176 c.c. ma deve anche conformarsi alla disciplina primaria e secondaria di settore ed agli accordi internazionali.

E la disciplina di settore impone all'operatore bancario “di rispettare i principi di c.d. sana e corretta gestione, verificando, in particolare, il merito creditizio del cliente in forza di informazioni adeguate”.

Tali doveri la Cassazione gli desume da numerose disposizioni del testo unico bancario, laddove il principio della “sana e corretta gestione” è sistematicamente ripetuto, ma anche dalle norme che oggi consentono alla Banca d'Italia l'accesso ai registri delle procedure di espropriazione forzata immobiliari, delle procedure di insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi d'impresa (D.L. 3 maggio 2016 n. 59, art. 3, convertito con modifiche in L. 30 giugno 2016 n. 119).

Ed altri argomenti a favore di un generalizzato dovere dell'impresa bancaria alla ponderazione dei rischi nella gestione del credito si desumono sia dagli accordi di Basilea sia dall'art. 142 del Regolamento UE n. 575/2013.

E sebbene questi doveri siano posti a protezione dell'intero sistema economico dai rischi che una concessione imprudente o indiscriminata del credito bancario comporta, “l'erogazione del credito, che sia qualificabile come abusiva, in quanto effettuata a chi si palesi come non in grado di adempiere le proprie obbligazioni ed in stato di crisi, ad esempio in presenza della perdita del capitale sociale e in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi stessa, può integrare anche l'illecito del finanziatore per il danno cagionato al patrimonio del soggetto finanziato, per essere venuto meno ai suoi doveri primari in una prudente gestione aziendale, previsti a tutela del mercato e dei terzi in genere, ma idonei a proteggere anche ciascun soggetto impropriamente finanziato ed a comportare la responsabilità del finanziatore, ove al patrimonio di quello sia derivato un danno, ai sensi dell'art. 1173 c.c.”.

Né è trascurabile il particolare status dell'imprenditore bancario (in tal senso Cass. 13 gennaio 1993 n. 343), dal quale discendono obblighi di comportamento più specifici di quello comune del neminem laedere per assicurare la gestione dei rischi specifici del settore, “attese le possibili conseguenze negative dell'inadempimento non solo nella sfera della banca contraente, ma ben oltre di questa; potendo, peraltro, questa coinvolgere in primis il soggetto finanziato, nonché, in una visuale macroeconomica, un numero indefinito di soggetti che siano entrati in affari con il finanziato stesso”.

Ribadito, quindi, che la concessione di nuovo credito o la prosecuzione di quello già accordato a soggetto non più in grado di onorare con regolarità gli impegni assunti costituisce attività bancaria illecita, la Corte passa ad esaminare i riflessi pregiudizievoli di questa condotta, soffermandosi innanzitutto sulla società finanziata giacché “il danno tipicamente ricollegato a tali condotte è, sul piano economico, la diminuita consistenza patrimoniale del patrimonio sociale e, sul piano contabile, l'aggravamento delle perdite favorite dalla continuazione dell'attività d'impresa”.

A tal riguardo, la Corte richiama il novellato art. 2086 c.c., introdotto dal Codice della crisi d'impresa, che ha anticipato il dovere di rilevazione tempestiva della crisi d'impresa e della perdita della continuità aziendale, con consequenziale dovere degli amministratori di astenersi dal compiere atti che non abbiano mera finalità di conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale in presenza di una causa di scioglimento della società, “imponendo l'adozione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato e l'attivazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

Ma gli effetti pregiudizievoli della abusiva concessione del credito, esaminati assumendo la prospettiva del ceto creditorio, si debbono individuare nelle ulteriori perdite cagionate dal protrarsi della gestione con incidenza sulla stessa capacità di adempimento del debitore.

Di tali danni, ovviamente ne dovrebbero rispondere gli amministratori, ma anche il soggetto finanziatore, al quale dovrebbe addebitarsi la condotta “dolosa o colposa, diretta a mantenere artificiosamente in vita un imprenditore in stato di dissesto, in tal modo cagionando al patrimonio del medesimo un danno, pari all'aggravamento del dissesto, in forza degli stessi interessi passivi del finanziamento non compensati dagli utili da questo propiziati, nonché delle perdite generate dalle nuove operazioni così favorite”.

Tuttavia, nel valutare la condotta del soggetto bancario non potrà prescindersi dallo scopo del sostegno finanziario, quando questo è finalizzato al risanamento dell'impresa attraverso le procedure di risoluzione della crisi che ne scongiurino il fallimento.

Normativa di favore cui fa da corollario l'art. 217-bis L. Fall., a mente del quale le disposizioni di cui all'art. 216, terzo comma, e articolo 217 L. Fall. non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o del piano attestato di risanamento ovvero di un accordo di composizione della crisi omologato, nonché ad altri pagamenti ed operazioni di finanziamento disciplinati dalla normativa di settore, con conseguente estensione della esenzione anche alla banca.

Dalle norme del vigente ordinamento, che disciplinano e tutelano il finanziamento alle imprese in crisi nelle diverse modalità di attuazione, si desume un sistema di regole che potrebbe sembrare del tutto incompatibile con la responsabilità dell'operatore bancario per l'incauto finanziamento, ma che in effetti è del tutto compatibile perché imperniato su norme speciali che “introducono meccanismi procedimentalizzati e fondati su precisi presupposti e controlli, idonei a renderli utili, per definizione, allo scopo di un progetto economico – finanziario volto al recupero della continuità aziendale e non, piuttosto, fattori di mero aumento del dissesto”.

Da tanto discende la astratta liceità di un finanziamento concesso ad una impresa in crisi anche al di fuori di un formalizzato progetto di sostegno e la necessità – per potere affermare la responsabilità o meno della banca – che in concreto sia accertata la attuazione di ogni cautela più idonea a scongiurare l'evento.

E si dovrà affermare la osservanza di questa regola di condotta se la banca, “pur al di fuori di una procedura di risoluzione della crisi dell'impresa, abbia operato nell'intento del risanamento aziendale, erogando credito ad impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di razionale permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati, notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito alla scopo del risanamento aziendale, secondo un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile”.

Obbligo di diligenza che potrà dirsi soddisfatto se, “nella formulazione delle proprie valutazioni, la banca proceda secondo lo standard di conoscenze e capacità, alla stregua della diligenza esigibile da parte dell'operatore professionale qualificato, e ciò sin dall'obbligo ex ante di dotarsi dei metodi, delle procedure e delle competenze necessari alla verifica del merito creditizio”.

Dunque, ciò che rileva “non è più il fatto in sé che l'impresa finanziata sia in istato di crisi o di insolvenza, pur noto al finanziatore, onde questi abbia così cagionato un ritardo nella dichiarazione di fallimento: quel che rileva è unicamente la insussistenza di fondate prospettive, in base a ragionevolezza e ad una valutazione ex ante, di superamento di quella crisi”.

Ed un appiglio normativo ai principi appena enunciati si può rinvenire nell'art. 67 L. Fall., che sottrae alla azione revocatoria fallimentare gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria, ed anche nell'art. 69 quinquiesdecies T.U.B. laddove specifica quale siano le condizioni per la ammissibilità del sostegno finanziario infragruppo, e cioè la ragionevole prospettiva che il sostegno fornito ponga sostanziale rimedio alle difficoltà finanziarie del beneficiario e la ragionevole aspettativa che sarà pagato un corrispettivo e rimborsato il prestito da parte della società beneficiaria.

Pertanto, in presenza di finanziamenti bancari ad impresa in crisi, tanto all'interno di una soluzione concordata quanto indipendentemente da essa, non sarà la sussistenza dello stato di crisi il parametro per valutare la ravvisabilità o meno di una responsabilità per concessione abusiva di credito, bensì la verifica ex ante di fondate prospettive di risanamento dell'impresa e di superamento della crisi, con la ulteriore conseguenza che “in ipotesi di procedura formalizzata e sottoposta a controlli esterni, i margini di tale responsabilità saranno, in concreto, alquanto ristretti”.

Legittimato a promuovere la relativa azione di responsabilità – nel caso di fallimento – sarà il curatore fallimentare, il quale potrà agire innanzitutto per chiedere il risarcimento del danno alla società al medesimo titolo per il quale avrebbe potuto agire l'imprenditore danneggiato, deducendo la responsabilità del finanziatore verso il soggetto finanziato per il pregiudizio diretto causato al patrimonio di questo dall'attività di finanziamento.

Azione che compete senz'altro al curatore ai sensi dell'art. 43 L. Fall. e che non è impedita dal fatto che la società sarebbe nel contempo responsabile dell'illecito e vittima del medesimo: e ciò perché non vi sarebbe ragione di trattare diversamente questa ipotesi da tutte quelle in cui gli amministratori siano chiamati a rispondere per atti di mala gestio e per i danni cagionati alla società da essi amministrata.

Ma il curatore – al quale spetta la legittimazione per le c.d. azioni di massa volte alla ricostituzione della garanzia patrimoniale - potrà agire anche a ristoro del danno riflesso subito da tutti i creditori concorrenti, essendogli invece preclusa l'azione di risarcimento del danno diretto patito dal singolo creditore per l'abusiva concessione del credito: azione, quest'ultima, che potrà essere esperita dall'interessato quale strumento di reintegrazione del suo patrimonio, allorché dimostri “lo specifico pregiudizio a seconda della relazione contrattualmente intrattenuta con il debitore fallito, e ciò con specifico riguardo al diritto leso a potersi determinare ad agire in autotutela, oppure ad entrare in contatto con contraenti affidabili, posto che la concessione del credito bancario lo abbia indotto, ove creditore anteriore, a non esercitare i rimedi predisposti dall'ordinamento a tutela del credito, e, ove creditore successivo a quella concessione, a contrattare con soggetto col quale altrimenti non avrebbe contrattato”.

Quanto al danno del ceto creditorio, questo riguarda tutti i creditori, sia quelli anteriori alla concessione abusiva del credito perché essi – a causa dell'aggravamento delle perdite subite dal finanziato illecitamente – vedono ridursi la garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., sia quelli successivi perché a causa della concessione di credito a soggetto immeritevole essi avranno visto aggravarsi l'insufficienza patrimoniale della società, con pregiudizio alla soddisfazione dei loro crediti.

Più in generale, la legittimazione del curatore ad agire a tutela del ceto creditorio e la configurabilità di questa tra le c.d. azioni di massa, si desume dal sistema della legge fallimentare, che contempla una serie di iniziative giudiziali nelle quali il curatore si sostituisce al fallito ed ai creditori per le azioni che tendono a ripristinare la garanzia patrimoniale, mirando alla ricostituzione del patrimonio dell'imprenditore nell'interesse della massa a vedere soddisfatti nel modo più consistente possibile le proprie ragioni creditorie, pur nel rispetto della par condicio.

Il presupposto dell'azione di responsabilità, sia di quella ex art. 146 L. Fall. contro gli amministratori che abbiano fatto ricorso al credito bancario in assenza delle condizioni sia quella ex art. 1218 e 2043 c.c. contro il finanziatore, consiste nella diminuzione del patrimonio sociale e dunque nella prosecuzione dell'attività d'impresa con aggravamento del dissesto: ossia un pregiudizio che attinge indistintamente tutti i creditori, anteriori o posteriori all'operazione bancaria, che siano stati ammessi al passivo o che vi abbiano diritto.

E la responsabilità della banca verso l'impresa è a titolo precontrattuale ex art. 1337 c.c., “in quanto la banca avrà contrattato senza il rispetto delle prescrizioni speciali e generali che ne presidiano l'agire, dolosamente o colpevolmente disattendendo gli obblighi di prudente ed accorto operatore professionale ed acconsentendo alla concessione di credito in favore di un soggetto destinato, in caso contrario, ad uscire dal mercato; mentre si tratterrà, più propriamente, di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. ove sia imputata alla banca la prosecuzione di un finanziamento in corso”.

Invece nell'ambito della responsabilità extracontrattuale dovrà collocarsi quella della banca verso il ceto creditorio per abusiva concessione di credito, con la ulteriore precisazione che questa concorre con la responsabilità contrattuale (nel senso della possibilità di promuovere entrambe le azioni di responsabilità) “allorché un unico comportamento, risalente al medesimo autore, appaia lesivo, oltreché di regole di condotta poste a tutela di interessi variamente protetti, anche di clausole contrattuali”.

Né sarebbe d'ostacolo alla ammissibilità dell'azione la coesistenza della qualità di debitore e creditore in capo al finanziatore, non avendo pregio la tesi secondo cui la banca, nella qualità di creditore per la restituzione delle somme finanziate e non restituite, si avvantaggerebbe della reintegrazione del patrimonio sociale all'esito della azione esperita dal curatore: in tal caso, infatti, troverebbe applicazione l'istituto della compensazione con la possibilità che i reciproci crediti non si elidano integralmente e residui pur sempre un debito verso il soggetto finanziato.

Quanto all'onere della prova, varranno le regole generali e pertanto il curatore avrà l'onere di dedurre e provare: a) la condotta violativa delle regole che disciplinano l'attività bancaria, caratterizzata da dolo o almeno da colpa, intesa come imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline; b) il danno evento, dato dalla prosecuzione dell'attività d'impresa in perdita; c) il danno conseguenza, rappresentato dall'aumento del dissesto; e) il rapporto di causalità tra tali danni e la condotta.

E, per quanto riguarda il nesso di causalità, sarà “necessario che tale rapporto integri gli estremi di una sequenza possibile alla stregua di un calcolo di regolarità statistica, di tal che l'evento dannoso si ponga come conseguenza normale dell'antecedente, il quale abbia rappresentato, secondo la logica del più probabile che non, la ragione della prosecuzione dell'attività d'impresa e quindi del pregiudizio economico di cui si chiede il risarcimento”.

La responsabilità della banca potrà concorrere con quella degli organi sociali ex art. 146 L. Fall.

Pertanto, laddove il curatore eserciti l'azione di responsabilità nei confronti di costoro imputandogli la inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione della integrità del patrimonio sociale, si potrà configurare la responsabilità solidale della banca qualora si alleghi che la diminuzione del patrimonio sociale, al punto da essere insufficiente alla soddisfazione dei crediti, sia dipeso dal fatto concorrente del medesimo istituto di credito che abbia continuato ad offrire credito senza il rispetto delle regole prudenziali del finanziamento alla clientela.

Le due azioni non dovranno essere intraprese contestualmente, ben potendo il curatore, in applicazione del principio sostanziale della solidarietà delle obbligazioni dal lato passivo e di quello processuale del litisconsorzio facoltativo, agire indifferentemente nei confronti di entrambi i legittimati passivi (gli organi sociali e la banca) ovvero nei confronti di uno e non dell'altro.

La banca potrà anche eccepire il concorso di colpa del medesimo danneggiato, e cioè la società che ha fatto ricorso al credito non sussistendone i presupposti, se – dichiarato il fallimento della società – il curatore agisce per fare valere il danno arrecato al sodalizio, mentre non potrà applicarsi l'art. 1227 comma 1 c.c. (che appunto disciplina il caso in cui il creditore abbia contribuito a causare il danno) se il curatore agisce anche a tutela del ceto creditorio.

Enunciati i superiori principi e applicati alla fattispecie, la Corte di Cassazione ha dunque cassato con rinvio la sentenza impugnata ritenendo errata la decisione della Corte territoriale di negare la legittimazione attiva della curatela sul presupposto che fosse indispensabile elemento costitutivo dell'azione l'esercizio contestuale di un'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della società fallita.

Osservazioni

Riaffermata la astratta configurabilità della responsabilità della banca quando questa concede nuovo credito o conferma quello già concesso ad una impresa che non merita di essere ulteriormente finanziata e che grazie a questa sovvenzione riesce a rimanere più a lungo sul mercato pur non sussistendone i presupposti, con pregiudizio per la medesima sovvenuta ma anche per tutti quei soggetti che a vario titolo abbiano intrattenuto rapporti di natura contrattuale con la predetta, la Corte di Cassazione perimetra questa ipotesi di responsabilità perché, traendo spunto dalle numerose disposizioni che, nell'ottica del risanamento della crisi d'impresa, contemplano il ricorso al credito bancario, rinviene nell'ordinamento più di un appiglio normativo per ritenere che vi sia comunque lo spazio – anche ai sensi dell'art. 41 Cost. – per un possibile e lecito finanziamento all'impresa in crisi: finanziamento che potrà avvenire all'interno di una procedura regolamentata (ed in tal caso i margini per affermare la responsabilità della banca saranno alquanto ristretti) ovvero anche al di fuori ed a prescindere.

In tale seconda ipotesi non per questo motivo potrà senz'altro considerarsi imprudente il credito concesso dalla banca, ma occorrerà verificare se questa rinnovata fiducia verso l'impresa in crisi di liquidità sia avvenuta attuando tutte le dovute cautele e dunque “erogando credito ad impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di razionale permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito allo scopo del risanamento aziendale, secondo un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile”

Non sfugge dunque il nuovo paradigma alla luce del quale valutare l'operato della banca al fine di verificare se questa si è attenuta ai canoni di diligenza e professionalità che devono contraddistinguere l'agire del “buon banchiere”.

Non sarà dunque responsabile la banca per il solo fatto di avere concesso credito ad una impresa che versava in stato di insolvenza, ma occorrerà verificare se fosse ragionevole attendersi che l'impresa – grazie al nuovo credito – sarebbe stata in grado di superare la crisi o, quanto meno, di rimanere sul mercato in maniera razionale.

A me pare un significativo passo in avanti rispetto al passato, quando il presupposto della responsabilità della banca è stato individuato nel fatto di avere concesso credito ad una impresa insolvente (Cass. civ., Sez. I, 14 maggio 2018 n. 11695; Cass. civ., Sez. III, 12 maggio 2017 n. 11798; Cass. civ., Sez. I, 20 aprile 2017 n. 9983. Ma anche, tra i giudici di merito, Trib. Prato 1 giugno 2021 n. 428; Trib. Vicenza 22 aprile 2021).

L'attenzione adesso dovrà spostarsi sul livello di diligenza esigibile dalla banca nel valutare la situazione complessiva del richiedente nuovo credito, con la ulteriore precisazione che ben difficilmente sarà censurabile l'operato della banca se, nonostante un conclamato stato di decozione, le nuove linee di credito sono state concesse in funzione del buon esito di una procedura regolamentata della crisi, e che invece ben più esposta a responsabilità sarà la medesima banca se deciderà di mantenere un affidamento o di erogare un nuovo finanziamento al di fuori di una procedura regolamentata.

Vi è da chiedersi, a questo punto, in cosa consista la diligente valutazione del merito creditizio.

Utili indicazioni sulla concreta condotta richiesta al “bonus argentarius” si desumono da una recente sentenza di merito (Trib. Prato 15 febbraio 2017.

Si è ritenuta invero conforme alla diligenza professionale propria dell'imprenditore bancario la concessione, il mantenimento o l'ampliamento dei fidi effettuata dopo avere acquisito e valutato i dati di bilancio del soggetto da affidare ma anche quelli desumibili dalla Centrale Rischi, con la ulteriore precisazione – per ciò che riguarda i dati contabili – che delle società di capitali occorrerà acquisire i bilanci d'esercizio conformi a quelli depositati presso il Registro delle imprese e che delle società di persone (ma, più in generale, del soggetto imprenditore non obbligato alla redazione e pubblicazione del bilancio) occorrerà acquisire la situazione contabile e la dichiarazione dei redditi.

Sui flussi di cui alla banca dati della Centrale Rischi, c'è da dire però che la segnalazione di una posizione alla Centrale Rischi della Banca d'Italia è lecita in presenza di uno stato di insolvenza più lieve, avendo la Suprema Corte affermato che questa “non si identifica con quella propria fallimentare, ma si concretizza in una valutazione negativa della situazione patrimoniale, apprezzabile come deficitaria, ovvero come di grave difficoltà economica, senza quindi alcun riferimento al concetto di incapienza o di irrecuperabilità e senza che assuma rilievo la manifestazione di volontà di non adempiere, che sia giustificata da una seria contestazione sull'esistenza del credito” (Cass. civ., Sez. III, 16 dicembre 2014 n. 26361 e, in senso conforme, anche Cass. civ., Sez. I, 8 febbraio 2016 n. 2406).

Situazione di grave difficoltà economica che sembra assimilabile alla “crisi” di cui all'art. 2 del D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, ossia “uno stato di squilibrio economico – finanziario che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a fare fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.

Pertanto, il dovere di sana e prudente gestione dell'attività bancaria, quando questa consisterà nel concedere credito, imporrà di valutare con la dovuta cautela ed attenzione la richiesta di finanziamento che provenga da impresa che, pur non potendosi considerare tecnicamente insolvente, versi comunque in una situazione di crisi.

Tuttavia, la condotta della banca sarà difficilmente censurabile se l'affidamento è funzionale ad una procedura regolamentata delle crisi d'impresa mentre maggiore attenzione sarà imposta in tutti i casi in cui la concessione di nuovi mezzi finanziari sia chiesta dall'imprenditore in difficoltà al di fuori di quelle procedure, ma non per questo solo motivo potrà essere considerata abusiva, essendo pur sempre richiesta una valutazione delle difficoltà economiche che – se correttamente effettuata – mette la banca al riparo da ogni responsabilità anche se poi la crisi non sarà superata.

E qui si pone un ulteriore interrogativo che non pare trovare risposta nella sentenza in esame.

Affermata la legittimazione attiva del curatore fallimentare e ravvisata in astratto la configurabilità di un danno individuale in capo al singolo creditore dell'impresa immeritatamente finanziata, la Cassazione non dice se l'azione di responsabilità presupponga pur sempre il fallimento del sovvenuto (in tal senso Maffeis D., I dubbi del banchiere nel sempre più sottile confine tra lecito e illecito nella concessione abusiva del credito ed emergenza pandemica, in Giustiziacivile.com, 3 dicembre 2021) ovvero se – dandosi continuità alla pronuncia a Sezioni Unite del 2006 – possa prescinderne.

Questione non affrontata neppure da Cass. civ., Sez. I, 30 giugno 2021 n. 18610 che, decidendo una controversia similare, ha enunciato i principi ribaditi nella sentenza in esame, ma che forse pone più problemi dal punto di vista pratico che teorico.

La Corte, affrontando il profilo della legittimazione attiva del curatore, riconosce in capo a questi il potere di agire nei confronti della banca per fare valere un danno della massa che consiste nel peggioramento delle condizioni patrimoniali della impresa sovvenuta e nel conseguente pregiudizio della garanzia patrimoniale generica cui possano e debbano fare affidamento tutti i creditori dell'imprenditore.

Da questo pregiudizio la Cassazione distingue – ammettendone la astratta possibilità – il danno del singolo creditore.

Questo consisterà nella lesione alla libertà contrattuale e/o alla autotutela di chi abbia concesso la sua fiducia all'imprenditore in crisi, a condizione però che non si sia incolpevolmente avveduto delle reali condizioni dello stesso.

Si tratta di diversa fattispecie il cui appiglio normativo viene individuato nell'art. 240 comma 2 L. Fall, che legittima i singoli creditori a costituirsi parte civile in proprio nei giudizi penali di bancarotta.

Sicché se ne potrebbe desumere – dallo esplicito riferimento ad una norma della legge fallimentare – che anche l'azione promossa in sede civile dal singolo creditore nei confronti della banca sarà ammissibile solo nel caso di fallimento del debitore, non potendosi configurare un danno risarcibile senza la giudiziale dichiarazione di insolvenza.

A me pare, però, che una conclusione così restrittiva non sia condivisibile perché non sarebbe coerente con i principi che regolano la responsabilità extracontrattuale, giacché comunque a tale titolo risponderebbe la banca nei confronti del singolo creditore dell'impresa cui abbia abusivamente concesso credito.

A mente dell'art. 2043 c.c., invero, il danno risarcibile è quello ingiusto cagionato da un altrui fatto doloso o colposo.

È ingiusto il danno quando è “non iure”, e cioè in assenza di cause giustificative, e “contra ius”, ossia quando è lesivo di una posizione o di un interesse tutelati dall'ordinamento.

Affinché, però, questa lesione dia diritto al risarcimento è altresì indispensabile che ne sia derivato un “danno – conseguenza” ai sensi dell'art. 1223 c.c. (ex multis, Cass. civ., Sez. III, 11 settembre 2019 n. 28986).

Orbene, se il danno del singolo creditore si identifica nella lesione della libertà contrattuale (è questo il c.d. danno evento), e cioè nella lesione di un bene astrattamente meritevole di tutela, le conseguenze patrimoniali pregiudizievoli non necessariamente verranno ad esistenza solo se l'imprenditore (sulla cui solidità patrimoniale ha confidato incolpevolmente il creditore) fallisce.

Certo, sul piano processuale sarà probabilmente più agevole la posizione del creditore individuale che agisca nei confronti della banca dopo il fallimento del debitore, ma non mi pare si possa escludere a priori la possibilità che un danno conseguenza sia configurabile anche a prescindere dalla dichiarazione giudiziale di insolvenza: dunque, mi pare che sia ancora attuale l'insegnamento delle Sezioni Unite del 2006, che hanno ammesso questa eventualità.

D'altronde, ed in conclusione, se si subordinasse la risarcibilità del danno patito dal creditore individuale al fallimento del debitore, dovrebbe ammettersi che uno degli elementi della fattispecie sia la dichiarazione giudiziale di insolvenza e non – invece – esclusivamente il fatto (sul quale si è soffermata la Cassazione per evidenziarne la centralità) che la banca abbia concesso nuovo credito ad impresa sì in crisi ma omettendo di verificare con la diligenza del “bonus argentarius” che la nuova liquidità fosse mezzo potenzialmente idoneo al superamento delle difficoltà economiche.

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