Responsabilità medica tra colpa (lieve), patologia (grave) e cura (difficile)

Alessandro Benni de Sena
08 Aprile 2022

L'accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera, per condotta propria, consistente nella mancata predisposizione di attrezzatura idonee a far svolgere correttamente l'intervento, costituisce capo autonomo di decisione di condanna per responsabilità che è concorrente con quella del medico: come tale, deve essere impugnato autonomamente, pena il passaggio in giudicato, non impedito dalla impugnazione dell'altro capo, relativo alla responsabilità del medico.
Massima

“L'accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera, per condotta propria, consistente nella mancata predisposizione di attrezzatura idonee a far svolgere correttamente l'intervento, costituisce capo autonomo di decisione di condanna per responsabilità che è concorrente con quella del medico: come tale, deve essere impugnato autonomamente, pena il passaggio in giudicato, non impedito dalla impugnazione dell'altro capo, relativo alla responsabilità del medico.

In tema di responsabilità sanitaria, la colpa lieve vale ad escludere responsabilità quando l'intervento medico sia di particolare difficoltà e solo ove si tratti di imperizia, non già di negligenza o imprudenza, casi questi ultimi in cui anche la colpa lieve è fondamento di responsabilità.

La colpa è lieve non quando la patologia sia grave, ma quando la sua cura sia difficile. È la difficoltà di intervento che rende la colpa meno grave, giudicabile con minor rigore”.

Il caso

I genitori di una neonata citano in giudizio l'Azienda Ospedaliera e due medici per vedere accertata la responsabilità civile per i danni cagionati alla figlia. Infatti, pochi mesi dopo la nascita alla neonata veniva diagnosticata una displasia congenita dell'anca bilaterale.

Inizialmente alla neonata vennero applicati tutori e divaricatori per diversi mesi, sino a quando si reputò necessario procedere ad un intervento chirurgico volto a ridurre la displasia.

L'intervento fu eseguito senza narcosi per carenze dell'Ospedale e comunque senza risultati positivi. Al contrario, la displasia iniziale si aggravò.

La bambina fu curata in altra struttura ospedaliera, ove fu cambiato il trattamento sanitario: fu liberata dall'ingessatura permanente e fu sottoposta a quattro interventi chirurgici che hanno consentito alla bambina, all'età di tre anni, di cominciare a camminare.

Dunque, il giudizio ha ad oggetto la responsabilità medica per invalidità temporanea della bambina, che per i primi anni di vita non ha potuto camminare, e per invalidità permanente, poiché la mancata riduzione originaria della displasia avrebbe comportato una invalidità del 20%, consistente della diversa residuata lunghezza dell'arto rispetto all'altro.

I convenuti si difendono contestando che fosse loro ascrivibile alcuna colpa, a fronte della particolare gravità della patologia congenita.

Il giudice di primo grado ha accolto la domanda nei confronti della struttura ospedaliera e di un medico, riconoscendo sia una colpa professionale in capo a quest'ultimo, sia una colpa contrattuale in capo alla Asp, per la mancanza di una organizzazione utile a far svolgere adeguatamente l'intervento chirurgico. Ha invece rigettato la domanda nei riguardi del secondo medico per assenza di colpa.

La sentenza viene impugnata dal medico soccombente e dalla sua compagnia di assicurazioni.

L'Azienda ospedaliera, nel costituirsi, insiste per l'assenza di colpa dei medici.

La Corte di Appello ha ritenuto che l'Azienda ospedaliera, "concludendo per la riforma della sentenza impugnata, ha implicitamente proposto appello incidentale, che tuttavia deve ritenersi inammissibile", perché tardivo. Tuttavia, ha

tuttavia

accolto l'appello del medico e della sua compagnia assicurativa, rigettando così la domanda di risarcimento: i giudici di secondo grado hanno, sulla base della CTU, ipotizzato solo una colpa lieve del sanitario, non rilevante ai sensi dell'articolo 2236 c.c.

Avverso tale decisione è stato proposto ricorso per cassazione.

La questione

All'attenzione della Suprema Corte vengono poste due questioni, la prima di ordine processuale, la seconda attinente alla valutazione della colpa medica:

1) la struttura sanitaria può limitarsi ad impugnare la parte di sentenza relativa alla responsabilità del medico, ritenendo “assorbita” o comunque inclusa la questione della responsabilità propria della struttura stessa? Oppure, in difetto di specifica impugnazione, deve ritenersi passato in giudicato il capo della sentenza che ha accertato la responsabilità del medico?

2) l'accertamento della gravità della colpa come va valutata con riferimento alla difficoltà dell'intervento piuttosto che con riferimento alla gravità della patologia?

Questa costituisce senz'altro la questione principale posta all'attenzione della Cassazione.

Le soluzioni giuridiche

Sulla questione del passaggio in giudicato del capo della sentenza relativa all'accertamento della responsabilità della struttura sanitaria per carenze organizzative e strutturali, la Cassazione rileva che il Tribunale aveva accertato un inadempimento della Azienda Ospedaliera insito nelle carenze organizzative necessarie a quel tipo di intervento e di cura. Scrive infatti il giudice di merito che "non è dimostrato, in ogni caso, che presso l'Ospedale di (OMISSIS) vi fosse un reparto ortopedico infantile o un "letto specializzato" di tipo pediatrico, pure utili nel trattamento della piccola F. L'inadempimento della prestazione terapeutica, dunque, va ascritto non solo all'erroneità delle scelte terapeutiche del Dott. T., ma anche a deficienze strutturali dell'Ospedale”.

Trattandosi di un capo autonomo di decisione, avrebbe dovuto essere impugnato autonomamente, e non può ritenersi appellato attraverso l'impugnazione dell'altro capo, ossia di quello che ha affermato la responsabilità del medico.

Al contrario la Corte di Appello, pur ritenendo l'appello incidentale svolto dalla struttura sanitaria inammissibile perché tardivo, ha accolto l'appello del medico, rigettando così la domanda di risarcimento totalmente.

Tuttavia, è configurabile una responsabilità autonoma e propria della struttura verso il paziente, a prescindere dalla condotta del medico, e consistente in carenze di carattere organizzativo rilevanti: «In tema di responsabilità contrattuale deriva dall'obbligo di erogare la propria prestazione, oggetto di obbligazione contrattuale nel contratto c.d. di spedalità, con la massima diligenza e prudenza che un nosocomio, oltre ad osservare le normative di ogni rango in tema di dotazione e struttura delle organizzazioni di emergenza, tenga poi in concreto, per il tramite dei suoi operatori, condotte adeguate alle condizioni disperate del paziente ed in rapporto alle precarie o limitate disponibilità di mezzi o risorse, benché conformi alle dotazioni o alle istruzioni previste dalla normativa vigente, adottando di volta in volta le determinazioni più idonee a scongiurare l'impossibilità del salvataggio del leso» (Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 21090).

Sul fronte penale, «il medico non risponde penalmente per la morte del paziente se la struttura e l'organizzazione dell'ospedale sono assolutamente inadeguate. (Nel caso di specie, la Cassazione ha assolto perché il fatto non sussiste due medici del pronto soccorso ortopedico e del pronto soccorso generale di un ospedale toscano, i quali per la carenza di mezzi e l'irrazionale disposizione della struttura non avevano potuto impedire la morte di un paziente. Le due strutture erano poste a grande distanza l'una dall'altra e l'assenza di un'autoambulanza ha costretto i medici allo spostamento del paziente in barella, che ha causato una perdita di tempo che ha avuto un'efficacia determinante sulla morte del paziente)» (Cass. pen., sez. IV, 7 ottobre 2014, n. 46336, in Ilpenalista.it, 10 luglio 2015 co nota di NIZZA V., La rilevanza delle carenze organizzative e gestionali della struttura sanitaria nella valutazione della sussistenza del nesso di causa nella responsabilità medica).

Si veda anche Corte App. Roma, 12 maggio 2005, in De iure, sulla verifica dello stato di manutenzione degli apparecchi da parte del medico: «In tema di responsabilità medica, con riferimento all'ipotesi di intervento effettuato da un'équipe chirurgica, il medico chirurgo è tenuto a dirigere e vigilare l'attività dell'équipe e ad assicurarsi che siano svolte anche le attività connesse e preliminari all'intervento; nell'esercizio di tale vigilanza, tuttavia, il chirurgo non può che fare affidamento sulla diligenza e capacità dei singoli componenti l'équipe, nonché della struttura nella quale opera, dovendosi escludere che, in difetto di elementi che segnalino disfunzioni o carenze che possano compromettere la sicurezza del paziente, al sanitario competa anche la puntuale verifica dell'operato dei collaboratori o dello stato di manutenzione degli apparecchi».

Nel caso concreto, l'appello della struttura sanitaria, anche ad ammettere che abbia avuto ad oggetto quel capo di decisione, è stato tuttavia dichiarato inammissibile dalla Corte di Appello, con la conseguenza che il capo di decisione che ha accertato la responsabilità propria della ASP per difetto organizzativo, è diventato definitivo e non poteva essere riformato in accoglimento dell'appello del medico, che peraltro non risulta abbia riguardato quel capo di decisione e che, del resto, non poteva riguardarlo non essendovi interesse del medico a contestare la responsabilità dell'ente per le carenze strutturali addebitate.

Ne deriva che sulla responsabilità della struttura sanitaria per condotta propria, consistente nella mancata predisposizione di attrezzatura idonee a far svolgere correttamente l'intervento, si è formato il giudicato.

Sulla questione dell'accertamento della gravità della colpa con riferimento alla difficoltà dell'intervento piuttosto che con riferimento alla gravità della patologia.

Il giudice di appello aveva rigettato la domanda di risarcimento nei confronti del medico, assumendo che, in base alle prove raccolte, ed in particolare alla CTU, era emersa una colpa lieve nel trattamento della displasia: colpa di imperizia dovuta alla particolare difficoltà del caso.

I ricorrenti osservavano che questa conclusione sarebbe dovuta ad un'erronea interpretazione della CTU e ad una erronea interpretazione delle regole sull'onere della prova: la Corte di Appello ha ritenuto la colpa lieve pur dopo avere preso atto che una diagnosi precoce era stata fatta e che in caso di diagnosi precoce, il problema si dimostra risolto nel 96% dei casi; e già questo avrebbe dovuto comportare la conclusione che, il mancato risultato non è dovuto a colpa lieve, bensì grave.

In sostanza, si denota una sorta di illogicità di questa deduzione: se la diagnosi precoce consente una guarigione completa nel 96% dei casi, e se la diagnosi è stata, per l'appunto, precoce, come pacifico, allora non si può dedurre l'assenza di colpa (o una colpa lieve) bensì si deve dedurre una colpa grave.

La Cassazione accoglie le doglianze.

In tema di colpa lieve, la Suprema Corte richiama la regola generale: la colpa lieve vale ad escludere la responsabilità quando l'intervento medico sia di particolare difficoltà e solo ove si tratti di imperizia, non già di negligenza o imprudenza, casi questi ultimi in cui anche la colpa lieve è fondamento di responsabilità.

Nel merito, la Corte di Appello si era spinta a discutere di colpa lieve, perché questa ipotesi era stata adombrata dal CTU, in quanto il consulente non aveva saputo indicare una diversa causa del persistere della displasia, della mancata guarigione, per cui deduce che quel mancato risultato è imputabile per colpa lieve. Tuttavia, la "colpa lieve" era stata affermata non già per aver positivamente riscontrato una colpa medica, ma perché, in base alle regole di riparto dell'onere della prova che connotano la responsabilità contrattuale, doveva addossarsi al medico il fallimento delle terapie incruenti, con un criterio di colpa da valutarsi come lieve, non essendo stata dimostrata la corretta centratura delle teste dei femori nelle anche quando è stata ingessata la piccola.

La Cassazione osserva che questa ratio si espone a due rilievi critici:

1) il primo è che la invenzione della colpa lieve è fatta consistere in un difetto di prova, ossia della "corretta centratura delle teste dei femori", rispetto a cui vale il rilievo che quel difetto dimostra semmai una colpa tout court, vale a dire una erronea manovra medica, difforme dalle regole della medicina, e nient'altro; che sia lieve o grave quella difformità di condotta rispetto a quella imposta è questione che richiede un ulteriore criterio, diverso dal mero insuccesso in sé.

2) ed infatti, il secondo rilievo è di avere ricavato la lievità della colpa dalla gravità della patologia (la condizione patologica congenita della minore): in realtà la colpa è lieve non quando la patologia sia grave, ma quando la sua cura sia difficile. È la difficoltà di intervento che rende la colpa meno grave, giudicabile con minor rigore.

L'accertamento della gravità della colpa, dunque, avrebbe dovuto svolgersi con riferimento alla difficoltà dell'intervento piuttosto che con riferimento alla gravità della patologia.

Osservazioni

La prima questione è prettamente processuale e pare conforme all'onere di impugnare specificatamente i capi di una sentenza.

In generale, la formazione della cosa giudicata, per mancata impugnazione su un determinato capo della sentenza investita dall'impugnazione, può verificarsi soltanto con riferimento ai capi della stessa sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni indipendenti da quelle investite dai motivi di gravame, perché fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto (Cass. civ., sez. un., 5 aprile 2007, n. 8521, in Resp. civ. e prev., 2007, 2656).

In tema di responsabilità sanitaria, è noto che l'art. 7 della l. n. 24/2017 (c.d. legge Gelli-Bianco) ha previsto un doppio regime di responsabilità civile: da una parte, la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, dall'altra, la responsabilità extracontrattuale del personale medico-sanitario.

Quindi, già in base alla disposizione normativa si può dedurre che i capi della sentenza riguardanti la responsabilità del medico e della struttura sanitaria sono autonomi, fondandosi su titoli e regimi di responsabilità diversi.

Ma vi è di più. Proprio per la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria bene può individuarsi un inadempimento della prestazione, indipendente dall'operato o dalla responsabilità del personale sanitario.

Insomma, vi può essere una responsabilità esclusiva oppure concorrente. Ma in entrambe le ipotesi, non si può prescindere dall'accertamento dell'inadempimento contrattuale a carico della struttura sanitaria per fatto proprio, che assume i contorni di capo autonomo da impugnare specificatamente, pena il passaggio in giudicato.

In questo senso, la giurisprudenza ha spesso evidenziato la possibilità che la responsabilità della struttura sanitaria possa derivare dal contratto di spedalità ed essere sua esclusiva. Infatti, l'accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità , in base alla quale la stessa è tenuta ad una prestazione complessa, che non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche), ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu alberghiere.

La responsabilità della struttura sanitaria ha natura contrattuale sia in relazione a propri fatti d'inadempimento (ad es., in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione di medicinali o del personale medico ausiliario e paramedico, o alle prestazioni di carattere alberghiero) sia per quanto concerne il comportamento dei medici.

In materia di responsabilità medica per i danni derivati da intervento chirurgico vige una responsabilità della struttura sanitaria di tipo contrattuale, sia per fatto proprio ex art. 1218 c.c. ove vengano omessi degli obblighi connessi al contratto di spedalità e pertanto direttamente a carico della struttura; sia per danni derivanti dall'operato dei dipendenti che degli ausiliari, sempre ai sensi dell'art. 1218 c.c. per gli adempimenti della prestazione medico-professionale del sanitario (Trib. Napoli, 30.11.2021, 9675, in De iure; Trib. Velletri, 29.11.2021, n. 2168, in De iure; Id., 14.10.2021, n. 1842, in De iure; Corte d'App. Reggio Calabria, 14.09.2020, n. 609, in De iure; Trib. Roma, sez. XIII, 09.03.2020, n. 4939, in De iure; Trib. Milano, sez. I, 12.02.2020, n. 1352, in De iure).

Dunque, vi è un onere di impugnazione specifico, che non può ritenersi assorbito dall'impugnazione del diverso ed autonomo capo della decisione riguardante la responsabilità del medico.

La seconda questione riguarda l'accertamento della colpa lieve idonea ad escludere la responsabilità quando l'intervento medico sia di particolare difficoltà.

Infatti, a mente dell'art. 2236 c.c., se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.

La limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave si applica quando si presentino problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendano la preparazione media o non siano ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica, ed attiene esclusivamente all'imperizia, non all'imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell'esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza (Corte d'App. Palermo, sez. II, 09.09.2021, n. 1452, in De iure; Trib. Bari, sez. II, 23.06.2016, n. 3513, in De iure; Trib. Foggia, 15.05.2014, in De iure; Trib. Salerno, 17.02.2014, n. 533, in De iure; Cass. civ., sez. III, 19 aprile 2006, n. 9085; Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2000, n. 5945).

Nel caso concreto era stata esclusa la responsabilità affermando la colpa lieve sulla base del fatto che non era stato possibile accertare la causa della mancata guarigione.

La Cassazione evidenzia, condivisibilmente, la sovrapposizione di due piani logici, quello della prova della colpa e quello della prova della causa. Rectius, la "colpa lieve" viene affermata non già per aver positivamente riscontrato una colpa medica, ma perché, in base alle regole di riparto dell'onere della prova che connotano la responsabilità contrattuale, il fallimento delle terapie doveva imputarsi con un criterio di colpa da valutarsi come lieve.

È evidente la con-fusione tra le regole della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale in tema di accertamento della colpa e del nesso di causa:

1) da una parte, la colpa lieve viene fatta discendere da un difetto di prova, ossia della "corretta centratura delle teste dei femori", che dimostra semmai una colpa tout court. Il giudizio sulla gravità o lievità della condotta difforme rispetto a quella imposta è questione che richiede un ulteriore criterio, diverso dal mero insuccesso in sé;

2) dall'altra e di conseguenza, è errato ricavare la lievità della colpa dalla gravità della patologia: in realtà la colpa è lieve non quando la patologia è grave, ma quando la sua cura è difficile.

È la difficoltà di intervento che rende la colpa meno grave, giudicabile con minor rigore.

In effetti, l'art. 2336 c.c. fa riferimento a problemi tecnici di speciale gravità. Pertanto, in ambito sanitario, non dovrebbe rilevare la gravità della malattia in sé, ma appunto, la particolare difficoltà tecnica di curare quella malattia.

La limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma della predetta disposizione si applica quando si presentino problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendano la preparazione media o non siano ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica, ed attiene esclusivamente all'imperizia, non all'imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell'esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza (Corte d'App. Palermo, sez. II, 09.09.2021, n. 1451, in De iure).

L'accertamento della gravità della colpa, dunque, deve svolgersi con riferimento alla difficoltà dell'intervento piuttosto che con riferimento alla gravità della patologia.

Infatti, in termini generali l'accertamento della colpa nei giudizi di risarcimento del danno aquiliano consiste nel dimostrare:

a) quale sia stata la condotta (commissiva od omissiva) del preteso responsabile;

b) quale sarebbe dovuta essere la diversa condotta che avrebbe dovuto tenere, per legge o per comune prudenza;

c) se lo scarto tra la condotta a e la condotta b sia dovuto a imperizia, imprudenza o negligenza.

Altra questione è la prova anche dell'ulteriore elemento del nesso di causa, quale ulteriore elemento costitutivo della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c.

In tema di responsabilità contrattuale del professionista sanitario, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore/paziente danneggiato deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto, l'insorgenza o l'aggravamento della patologia nonché allegare l'inadempimento del debitore o l'inesatto adempimento di una delle prestazioni a cui il debitore era direttamente obbligato, idoneo a provocare e provare il danno lamentato.

Al danneggiato incombe certamente l'onere di provare il nesso di causa tra la condotta del danneggiante e l'evento dannoso, in base ai principi di diritto in tema di accertamento e prova della condotta colposa e del nesso causale nelle obbligazioni risarcitorie affermati dal giudice di legittimità , che possono essere sintetizzati come segue: sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta del responsabile ed il nesso di causa tra questa ed il danno costituiscono l'oggetto di due accertamenti concettualmente distinti: la sussistenza della prima non dimostra, di per sé, anche la sussistenza del secondo, e viceversa; l'art. 1218 c.c. solleva il creditore della obbligazione che si afferma non adempiuta dall'onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall'onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore ed il danno di cui si domanda il risarcimento; nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell'attore, paziente danneggiato, dimostrare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico ed il danno di cui chiede il risarcimento; tale onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del 'più probabile che non', la causa del danno; se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Trib. Imperia, sez. I, 21.09.2021, n. 542, in De iure) LINK dr. Damiano Spera, in Ridare.it, dr Spera - Resp. sanitaria contrattuale ed extracontrattuale in Legge Gelli Bianco-premesse fallaci e soluzioni inappaganti.

In tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell'accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell'omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del "più probabile che non", conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana): Cass. sez. III, 14 marzo 2022, n. 8114; Cass. civ., sez. III, 27 settembre 2018, n. 23197).

Infatti, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l'esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. civ., sez. VI, 31 dicembre 2021, n. 42104; Cass. civ., sez. VI, 2 settembre 2019, n. 21939; Cass. civ., sez. III, 15 febbraio 2018, n. 3704).

Sul piano della colpa, invece, ricordiamo che l'esonero da responsabilità per il medico che sia incorso in colpa lieve nell'esecuzione di un intervento di speciale difficoltà, prevista dall'art. 2236 c.c., non opera per il medico che, pur avendo eseguito un intervento non rutinario, non dimostri di avere diligentemente prestato al paziente la necessaria assistenza postoperatoria, anche al fine di evitare possibili e non del tutto prevedibili complicazioni (Cass. civ., sez. III, 28 settembre 2009, n. 20790, in Giust. civ., 2010, I, 2215 con nota di ROSSETTI, Unicuique suum, ovvero le regole di responsabilità non sono uguali per tutti (preoccupate considerazioni sull'inarrestabile fuga in avanti della responsabilità medica).

Sul piano del nesso di causa, si potrebbe porre la questione del concorso di fattori naturali, come una condizione patologica pregressa o congenita, su cui la sentenza annotata non si è pronunziata.

Ricordiamo solo che, "qualora la produzione di un evento dannoso, quale una gravissima patologia neonatale (concretatasi, nella specie, in un'invalidità permanente al 100 %), possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione patologica del danneggiato (la quale non sia legata all'anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causale), il giudice deve accertare, sul piano della causalità materiale (rettamente intesa come relazione tra la condotta e l'evento di danno, alla stregua di quanto disposto dall'art. 1227, comma 1, c.c.), l'efficienza eziologica della condotta rispetto all'evento in applicazione della regola di cui all'art. 41 c.p. (a mente della quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione e l'omissione e l'evento), così da ascrivere l'evento di danno interamente all'autore della condotta illecita, per poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica (rettamente intesa come relazione tra l'evento di danno e le singole conseguenze dannose risarcibili all'esito prodottesi) onde ascrivere all'autore della condotta, responsabile tout court sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all'evento di danno, bensì determinate dal fortuito, come tale da reputarsi la pregressa situazione patologica del danneggiato che, a sua volta, non sia eziologicamente riconducibile a negligenza, imprudenza ed imperizia del sanitario" (Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991; si veda anche Cass. civ. sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975, che, però aveva confuso il piano della prova causale con quello della quantificazione del danno).

Dunque, i giudizi sulla colpa e sul nesso di causa sono distinti e, soprattutto, articolati.

Nel caso concreto, tuttavia, veniva in considerazione il profilo della colpa e non può sfuggire che la neonata fu successivamente sottoposta a delicati interventi chirurgici che le hanno consentito di tornare a camminare dopo tre anni, sia pure con un'invalidità permanente. Quindi, non deve sorprendere che la Cassazione si sia pronunziata sul criterio di accertamento della gravità della colpa e non sul diverso sia pure connesso (in quanto trattasi di un elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria) nesso di causa.

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