Il commento dell'insegnante su Facebook può ledere la privacy dello studente?

Ilenia Alagna
28 Aprile 2022

La mera circostanza della pubblicazione su un social network di un commento offensivo non è di per sé idonea a dimostrare l'avvenuta lesione del diritto della persona a mantenere integra la propria reputazione, in assenza della dimostrazione dell'esistenza di un danno effettivamente patito.
Massima

La mera circostanza della pubblicazione su un social network di un commento offensivo non è di per sé idonea a dimostrare l'avvenuta lesione del diritto della persona a mantenere integra la propria reputazione, in assenza della dimostrazione dell'esistenza di un danno effettivamente patito.

Il caso

Uno studente maturando di un liceo scientifico era finito al centro dell'attenzione a causa di un utilizzo poco attento di Facebook da parte della sua professoressa di italiano.
Questa, infatti, nel corso di una conversazione visibile ad altri utenti, rivolgendosi ad una collega, si lamentava della grafia dello studente, ritenuta pessima, e sottolineava come lo stesso alunno fosse stato "beccato con fotocopie mini durante la prova scritta" di filosofia.
Tale conversazione veniva da tutta la scuola, sicché il ragazzo, ritenendo di aver subito una ingiusta gogna mediatica, con lesione del suo diritto alla privacy e alla propria immagine personale, citava in giudizio la docente, la scuola e il Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca.

La questione

Quando si perfezione la violazione del diritto alla privacy per i commenti offensivi sul web? Cosa occorre dimostrare per ottenere il risarcimento del danno?

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Bari, con la sentenza n. 3767 del 25 ottobre 2021, respinge la domanda risarcitoria dello studente, poiché questi non ha fornito alcuna prova dell'esistenza di un danno da lui subito a causa del comportamento dell'insegnante. In particolare, lo studente, attraverso il proprio legale, non ha dimostrato il "luogo informatico" della pubblicazione del commento ritenuto offensivo, essendo incerto se ciò sia avvenuto nella bacheca pubblica o in un gruppo chiuso, né ha dato prova poi delle modalità di diffusione dello scambio di battute della professoressa con la collega. Nello specifico poi, sottolinea il Tribunale, l'aver copiato la prova di filosofia è argomento conosciuto dai compagni di classe, mentre «la divulgazione della informazione circa la pessima grafia dell'alunno non costituisce un fatto così significativo da determinare una lesione ingiustificabile della privacy».

Nella disamina il giudice si sofferma, in primo luogo, sulla legittimazione passiva del Ministero, contestata dal legale dello studente, concentrandosi sull'evoluzione giurisprudenziale in tema di nesso di occasionalità necessaria tra il comportamento posto in essere dall'agente e le incombenze affidategli ai fini della sussistenza della responsabilità ex art. 2049 c.c. Ebbene, per il giudice la legittimazione sussiste in quanto il commento asseritamente offensivo che la professoressa aveva scambiato con la collega, visibile sul social network da una più ampia platea di conoscitori, originava «dalla correzione dei compiti svolti in classe dagli alunni (e dunque da una delle attività cui l'insegnante è specificamente preposta)», sicché il medesimo, «pur non costituendo esercizio della funzione educativa, propria dell'insegnante, aveva trovato nell'attività didattica la sua occasione necessaria, in difetto della quale non si sarebbe nemmeno potuto esorbitare dai limiti del corretto esercizio della funzione pubblica».

Riguardo il tema della responsabilità della pubblica amministrazione per fatto del proprio dipendente va dato conto del dibattito interpretativo composto di recente dalla Cass. civ. Sez. Unite Sent., 16 maggio 2019, n. 13246. L'art. 28 Cost. statuisce che: "i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici". In ordine alla interpretazione di tale disposizione si erano formati diversi orientamenti che si differenziavano essenzialmente in ordine alla natura da attribuire alla responsabilità civile dello Stato, stante sul punto una sostanziale omissione da parte del legislatore Costituente. Secondo una prima impostazione, l'art. 28 Cost. aveva inteso sancire una responsabilità diretta del dipendente per i fatti illeciti compiuti e una responsabilità indiretta per culpa in vigilando in capo alla P.A.

In tal caso, un eventuale fatto illecito commesso dal pubblico dipendente avrebbe fatto sorgere in capo al medesimo la responsabilità diretta di cui all'art. 2043 c.c. e in capo all'amministrazione quella indiretta, per culpa in vigilando, di cui all'art. 2049 c.c. Secondo un diverso orientamento, invece, in mancanza di chiare indicazioni normative, non era possibile affermare la natura della responsabilità dell'Ente pubblico nell'ipotesi di fatto illecito compiuto dal dipendente. Ebbene concentrando l'analisi sulla natura della responsabilità civile dello Stato mentre l'orientamento più risalente riteneva che la responsabilità dell'amministrazione fosse una responsabilità indiretta o per fatto altrui, la giurisprudenza civile maggioritaria ha accolto la tesi secondo cui la responsabilità dello Stato è diretta o per fatto proprio, incentrandone il fondamento nel rapporto di immedesimazione organica. Chiarito che il vigente quadro normativo, sia a livello costituzionale (art. 28) sia a livello di fonti primarie (artt. 22 ss., D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3), non prevede alcuna esenzione o privilegio per la pubblica amministrazione qualora arrechi un danno a terzi, occorre analizzare più compiutamente la responsabilità diretta della P.A. per fatto illecito del dipendente. Più specificamente, la Pubblica amministrazione risponde civilmente dei danni cagionati dal proprio dipendente quando l'agire di quest'ultimo sia direttamente imputabile alla P.A. in quanto tale, in virtù del c.d. rapporto di immedesimazione organica, che costituisce una fictio necessaria al fine di configurare una responsabilità diretta della P.A. per gli atti compiuti dai funzionari o dai dipendenti. Per la configurazione della responsabilità dello Stato per il fatto commesso dal dipendente si richiede la sussistenza del presupposto logico dell'occasionalità necessaria, secondo cui la pubblica amministrazione può essere chiamata a rispondere di tali danni arrecati a terzi solo qualora il proprio dipendente li abbia arrecati nell'esercizio di compiti istituzionali o di compiti legati da "occasionalità necessaria" con i fini istituzionali. Il problema ermeneutico che si è posto in merito all'interpretazione dell'"occasionalità necessaria" è strettamente connesso alla circostanza che tale presupposto non è espressamente previsto dalla legge ai fini della configurazione della responsabilità civile dello Stato. Conseguentemente, non essendoci chiarezza su quali compiti vi rientrino e quali debbano essere invece esclusi, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che il nesso di occasionalità necessaria tra l'attività lavorativa e il danno è riscontrabile ogni volta che il fatto lesivo sia stato prodotto o quanto meno agevolato da un comportamento riconducibile allo svolgimento dell'attività lavorativa, anche se il dipendente abbia oltrepassato i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all'insaputa del datore di lavoro. In particolare, in sede penale, seguendo un'argomentazione che può essere utilizzata anche in materia di illeciti civili, la Suprema Corte ha chiarito che ai fini dell'affermazione della responsabilità civile della P.A. per il reato commesso dal dipendente, deve essere accertata l'esistenza di un nesso di occasionalità necessaria tra il comportamento doloso posto in essere dall'agente e le incombenze affidategli, verificando che la condotta si innesti nel meccanismo dell'attività complessiva dell'ente e che l'espletamento delle mansioni inerenti al servizio prestato abbia rappresentato conditio sine qua non del fatto produttivo del danno per averne in modo decisivo agevolato la realizzazione (Cass. Pen., Sez. VI, 20 giugno 2000, n. 13048).

Accanto alla nozione tradizionale dell'occasionalità necessaria, che aveva condotto all'esclusione della responsabilità civile dello Stato in caso di commissione di un reato da parte del dipendente, si è posta una pronuncia di segno opposto che ha reputato sussistente la responsabilità civile della P.A. anche ove il pubblico dipendente abbia tenuto una condotta integrante gli estremi di un reato doloso (Cass. Pen. sent. 31 marzo 2015, n. 13799). A dirimere il contrasto interpretativo è intervenuta di recente Cass. civ. Sez. Unite Sent., 16 maggio 2019, n. 13246 con cui è stata ricondotta la responsabilità diretta dello Stato alle ipotesi in cui l'agire del pubblico dipendente sia espressione delle finalità istituzionali, mentre si è fatto ricorso alla responsabilità indiretta o per fatto altrui nelle fattispecie in cui il pubblico dipendente con la propria condotta abbia deviato dalle finalità istituzionali per perseguire fini personali.

Quanto alla violazione della privacy si richiama il principio ribadito anche di recente da Cass. civ. Sez. I Ord., 10 giugno 2021, n. 16402 secondo cui "in tema di violazione dei dati personali, la Corte di Cassazione ha enunciato il principio di diritto secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del D.Lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy) pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno", in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito. Ebbene, nel caso analizzato, come affermato sopra, lo studente non ha dimostrato il "luogo informatico" della pubblicazione del commento offensivo.

Il danno alla reputazione e all'identità di un soggetto in relazione al contesto sociale in cui si sviluppano le sue relazioni è danno-conseguenza che non può ritenersi sussistente in re ipsa e deve quindi fondarsi su elementi diversi dal fatto in sé (in tal senso: Cass. sent. n. 2968/2021; Trib. Civitavecchia, sent. n. 742/2020).
Pertanto spetta, come di norma, a chi chiede il risarcimento fornire in giudizio la prova del danno subìto, nella specie del tutto mancata. Infatti nella fattispecie lo studente si è limitato a produrre una relazione psichiatrica, la quale tuttavia non è stata presa in considerazione dai giudici perché successiva di ben tre anni rispetto all'evento della causa.
Peraltro, nessun ulteriore elemento allegato dallo studente ha dimostrato una deflessione del tono dell'umore o una riduzione della socialità tipica del ragazzo. Al contrario, nel caso in esame è emerso che lo studente non aveva mai coltivato grandi rapporti di amicizia con i propri compagni e anche dopo l'accaduto aveva continuato a gestire i propri pochi rapporti sociali, estranei al gruppo classe. Né peraltro può dirsi che tale evento abbia inciso negativamente sul suo rendimento scolastico. Dall'analisi delle pagelle emergeva che i voti delle materie insegnate dall'insegnante in questione non erano mutati, né, in generale lo furono le altre valutazioni, salvo lievi oscillazioni in sole altre due materie.

In altri termini, la mera circostanza della pubblicazione on-line di un commento ritenuto offensivo dall'attore non è di per sé idonea a dimostrare quella lesione del diritto della persona a mantenere integra la propria reputazione, poiché l'assunta lesione non è stata supportata da alcuna dimostrazione. In conclusione secondo il giudice, il danno alla sua reputazione non è stato dimostrato ed essendo tale pregiudizio un danno-conseguenza «non può ritenersi sussistente in re ipsa».

Osservazione

I social network hanno, senza ombra di dubbio, rivoluzionato il mondo della comunicazione e della informazione ma, come ogni grande cambiamento, essi presentano tanto aspetti positivi, quanto negativi.

Tale tipologia comunicativa, infatti, da un lato favorisce la libertà di espressione e di stampa, permettendo a tutti di venire a conoscenza, in pochi secondi, di una notizia per poi postare la propria opinione a riguardo, ma, dall'altro, può favorire il compimento di illeciti di natura penale.

L'aver pubblicato un commento in cui si descrive il comportamento e le caratteristiche di uno studente in una vera e propria piazza virtuale come Facebook, luogo in cui gli utenti si ritrovano per condividere con altri soggetti pensieri, immagini, filmati amplifica ogni accadimento rendendo noto ad una molteplicità di utenti le azioni di ciascuno ed anche se per il giudice la condotta dell'insegnante non ha costituito una lesione della privacy dello studente tale circostanza è suscettibile di essere ricordata sempre dallo studente e di costituire un elemento denigratorio e negativo dei suoi anni adolesciaziali.

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