Quantificazione del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa

11 Maggio 2022

Il danno permanente da incapacità di guadagno non può essere liquidato in base ai coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, i quali - a causa dell'innalzamento della durata media della vita e dell'abbassamento dei saggi di interesse - non garantiscono l'integrale ristoro del danno e non sono perciò consentiti dalla regola di cui all'art. 1223 c.c.
Massima

“Il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell'integralità del risarcimento sancito dall'art. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall'altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano”.

Il caso

Il caso di specie riguarda una domanda di risarcimento danni derivanti da infortunio sul lavoro.

La causa di primo grado si svolgeva dinanzi al Tribunale ed il ricorrente otteneva una somma a titolo di risarcimento del danno subìto a causa dell'infortunio. Impugnata la sentenza per il quantum preteso non concesso dal giudice di primo grado, la Corte di appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado nel resto confermata, rideterminava l'ammontare del risarcimento spettante al lavoratore, ritenendo che, non potendo trovare applicazione i criteri di cui alle tavole di mortalità del 1981 elaborate dall'ISTAT, non aventi natura legislativa e contestate dalle parti, il danno da incapacità lavorativa andasse riconosciuto e determinato sulla base delle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403 del 1922, con esclusione dello scarto, ivi contemplato, del 10% tra vita fisica e vita lavorativa, onde ovviare alle carenze ed alla vetustà del criterio utilizzato. Inoltre, secondo la Corte d'appello, nulla era dovuto alla moglie del lavoratore, non essendo emerso un sicuro pregiudizio a carico di quest'ultima in conseguenza dell'infortunio occorso al coniuge.

La decisione veniva impugnata in Cassazione per violazione del principio dell'integrale risarcimento del danno, sostenendo che la Corte territoriale, nella liquidazione del danno, avesse applicato il coefficiente di capitalizzazione di cui alle tavole di mortalità del RD n. 1403/1922. In particolare, secondo i ricorrenti, tale coefficiente era da ritenersi vetusto, poiché rapportato ad un tasso dei saggi di interesse e ad una durata della vita media privi di riscontro nell'attualità, non garantendo l'effettivo e pieno ristoro del pregiudizio sofferto.

La questione

Nella sentenza qui esaminata, la Suprema Corte ribadisce l'inadeguatezza del criterio di liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa rappresentato dalle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403 del 1922 ma allora come si potrà garantire l'integrale ristoro del danno mediante parametri non necessariamente tratti da fonti legislative?

Le soluzioni giuridiche

Con il primo motivo, il ricorrente ha dedotto la violazione del principio dell'integrale risarcimento del danno per avere la Corte d'appello - nella liquidazione del danno patrimoniale da incidenza della lesione sulla capacità lavorativa dell'infortunato - applicato il coefficiente di capitalizzazione previsto dal R.D. n. 1403/1922, anzichè parametri di quantificazione più aggiornati, quali ad esempio, quello delle tavole di mortalità attualizzate secondo i parametri ISTAT del 1981. Sarebbe così stato violato il disposto degli artt. 2, 3, 29, 30, 38 e 41 Cost., e degli artt. 2056, 1223, 1226 c.c.

Il predetto coefficiente, risalente ormai ad un secolo fa, avrebbe invece dovuto ritenersi, in primo luogo, non più in vigore, stante la soppressione della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali e la successiva riforma dei criteri di calcolo per la pensione sociale; in secondo luogo, superato, in quanto rapportato ad un tasso di interesse e ad una durata della vita media privi di riscontro nell'attualità, non garantendo, conseguentemente, l'effettivo e pieno ristoro del pregiudizio sofferto.

Con il secondo motivo del ricorso, si deduceva la nullità della sentenza di secondo grado per avere la Corte d'appello escluso l'applicabilità delle tavole di mortalità elaborate dall'ISTAT sulla base della loro natura non legislativa, in violazione dell'art. 111 Cost., comma 6, e dell'art. 132 c.p.c., comma 4.

La Suprema Corte, nell'ordinanza in commento, accoglie entrambi i motivi di ricorso, rimandando, altresì, a precedenti analoghi, i quali hanno ripetutamente stabilito la inadeguatezza del criterio di liquidazione rappresentato dalle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403/1922 e la necessità di garantire l'integrale ristoro del danno attraverso il ricorso a parametri non necessariamente tratti da fonti legislative (Cass. n. 18093/2020, Cass. n. 16913/2019, Cass. n. 20615/2016).

La sentenza impugnata si pone, infatti, in contrasto – ad avviso della Cassazione - con il principio secondo il quale il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in conformità al principio dell'integralità del risarcimento sancito dall'artt. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall'altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti (quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano), come, peraltro, già espresso in Cass. civ., n. 16913/2019.

Osservazioni

In questa recente pronuncia la Suprema Corte ha riaffermato che per la liquidazione del danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica è necessario il riferimento a parametri più aggiornati rispetto ai coefficienti di capitalizzazione di cui al R.D. n. 1403/1922: il danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa, infatti, va liquidato moltiplicando il reddito perduto per un coefficiente di capitalizzazione adeguato.

Come noto, la lesione della capacità lavorativa attiene, genericamente, alla condizione di quell'individuo che, a seguito di infortunio, veda ridotta la propria capacità di produrre reddito mediante lo svolgimento di un'attività lavorativa.

La necessità di garantire un adeguato risarcimento di tale posta di danno, nel tempo, ha dato origine a due figure: la lesione alla capacità lavorativa generica, che riguarda la possibilità della persona di svolgere in futuro una qualsiasi attività lavorativa produttiva di reddito, e quella alla capacità lavorativa specifica, la quale, invece, concerne l'idoneità del leso a continuare a svolgere l'attività lavorativa esercitata al tempo dell'infortunio, o un'attività diversa, ma, comunque, coerente con le sue attitudini e capacità.

Notoriamente, il risarcimento del danno da ridotta capacità lavorativa specifica non opera automaticamente, ma è onere del soggetto danneggiato dimostrare che la lesione subita gli abbia cagionato un effettivo pregiudizio patrimoniale.

Tale principio è stato sostenuto anche da pronunce meno recenti, ad esempio Cass. civ., n. 4673 del 10 marzo 2016, la quale non ha accordato il ristoro di tale posta risarcitoria ad una professionista, vittima di infortunio, dal quale era esitata la diminuzione della capacità motoria che, tuttavia, aveva inciso ben poco sulla sua attività lavorativa di carattere intellettuale.

La menomazione della capacità lavorativa specifica – ha chiarito altresì la Suprema Corte - configurando un pregiudizio patrimoniale, va ricondotta nell'ambito del danno patrimoniale e non già del danno biologico (Cass. civ., n. 1879 del 27 gennaio 2011).

Tutto ciò premesso, il principio affermato dalla Suprema Corte nell'ordinanza in commento trova articolata esplicazione in un precedente della Terza Sezione (Cass. civ., n. 20615/2015, Pres. Salmè, rel. Rossetti), al quale è necessario riferirsi per comprendere l'iter logico motivazionale.

In tale pronuncia si legge che «il risarcimento del danno deve essere integrale: cioè comprendere tanto la perdita subita, quanto il mancato guadagno (art. 1223 c.c.). Il danno da perdita della capacità di lavoro e di guadagno è un danno permanente: esso, infatti, è destinato a riprodursi anno per anno, per tutta la vita lavorativa della vittima».

Come noto, l'integrale risarcimento del danno permanente può avvenire in forma di rendita (ex art. 2057 c.c.) o in forma di capitale. Per capitalizzare il reddito perduto de die in diem sono possibili due criteri: il primo, consiste nel sommare tutti i redditi che la vittima perderà tra il momento della liquidazione e il momento futuro in cui avrebbe comunque cessato il lavoro, quindi, nell'applicare al risultato ottenuto un saggio di sconto, tenuto conto che la vittima percepisce immediatamente redditi che, se fosse rimasta sana, avrebbe incamerato solo in futuro. Se non si eliminasse, attraverso lo sconto, il cd. "montante di anticipazione”, infatti, il danneggiato trarrebbe vantaggio dal risarcimento. Il secondo criterio consiste nel moltiplicare il reddito annuo perduto dalla vittima (al netto delle imposte e debitamente rivalutato all'epoca della liquidazione) per un valore che tenga già conto del montante di anticipazione: il cosiddetto coefficiente di capitalizzazione.

I coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 sono stati calcolati sulla base delle tavole di mortalità ricavate dal censimento della popolazione italiana del 1911 e presuppongono una produttività del denaro al saggio del 4,5%.

Le ragioni che ostano alla loro applicazione, non consentita nemmeno in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., sono ben chiare e condivisibili.

La prima è che la vita media della popolazione italiana si è notevolmente accresciuta tra il 1922 ed il 2015: nel 2014, l'Istituto Nazionale di Statistica ha determinato la speranza di vita, alla nascita, per la popolazione italiana in 80,2 anni per gli uomini ed 84,9 anni per le donne; nel 1900, la speranza di vita media della popolazione italiana (calcolata, all'epoca, indistintamente per maschi e femmine) era di soli 54,9 anni. Ne consegue che liquidare il danno in base ad un coefficiente calcolato su una speranza di vita inferiore di oltre un terzo a quella reale non può dare luogo, in alcun modo, ad un risarcimento "integrale" ai sensi dell'art. 1223 c.c.

La seconda ragione è che i coefficienti di capitalizzazione di cui al R.D. n. 1403 del 1922 sono indifferenziati per maschi e femmine, mentre la durata della vita media è diversa per i due sessi. Ciò conduce ad una sovrastima del danno patito dalla vittima maschile e ad una sottostima per le vittime femminili.

La terza ragione è che i coefficienti di capitalizzazione di cui al R.D. n. 1403 del 1922 sono calcolati ad un tasso d'interesse del 4,5%. Tale saggio determina la somma di danaro che deve essere detratta dall'ammontare del risarcimento per compensare il vantaggio che il creditore acquisisce a seguito del pagamento immediato ed è pari all'ipotetica remunerazione che il denaro ottenuto potrebbe garantirgli attraverso le forme più comuni di investimento, senza rischio di capitale. La misura del 4,5%, al quale sono calcolati i coefficienti di cui ai R.D. n. 1403 del 1922, non è più corrispondente alla realtà; oggi il tasso legale degli interessi è pari all'1,25% e gli investimenti in titoli a reddito fisso raramente garantiscono rendimenti superiori al 2%. Pertanto, l'adozione dei coefficienti di cui al R.D. n. 1403 del 1922 ha l'effetto di decurtare dal risarcimento un importo superiore a quello che, per effetto dell'anticipato pagamento, il danneggiato potrebbe ottenere attraverso l'impiego proficuo di quella somma: anche sotto tale profilo, pertanto, i coefficienti in esame non soddisfano la regola dell'integralità di cui all'art. 1223 c.c.

Infine, si osserva che il R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 è stato implicitamente abrogato per effetto della soppressione della Cassa Nazionale per Assicurazioni Sociali (CNAS), ovvero l'Ente erogatore delle prestazioni disciplinate dal suddetto decreto, sostituito dapprima dall'Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale e poi dall'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS).

Per ovviare agli inconvenienti sopra descritti, il giudice di merito è libero di adottare i coefficienti di capitalizzazione che ritiene preferibili, purché aggiornati e scientificamente corretti. Potranno, a tal fine, essere adottati i coefficienti di capitalizzazione approvati con provvedimenti normativi vigenti per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali, come pure i coefficienti elaborati dalla dottrina per la specifica materia del risarcimento del danno aquiliano: a mero titolo indicativo, potranno essere presi in considerazione quelli diffusi dal Consiglio Superiore della Magistratura ed allegati agli Atti dell'Incontro di studio per i magistrati, svoltosi a Trevi il 30 giugno - 1 luglio 1989 (in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, Quaderni del CSM, 1990, n. 41, pp. 127 e ss.).

Non è un caso che tutti i recenti programmi di calcolo del danno, oltre al vetusto ed oramai inutilizzabile riferimento al R.D. 1403/1922, riportino anche i parametri dei citati Quaderni del CSM, 1990, richiamati, nel 2019, anche dall'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano (gruppo danno alla persona).

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