Costituzione della Repubblica - 27/12/1947 - n. 0 art. 114

Francesco Caringella
Ilaria Vittoria Motta

(1) [I] La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.

[II] I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione (2).

[III] Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento.

(1) Articolo così sostituito dall'art. 1 l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, di cui alla nota al titolo V. Il testo era così formulato: «La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni».

(2) V. art. 4 l. 5 giugno 2003, n. 131.

 

Inquadramento

L'art. 114, comma 1 della Cost., quale norma di «apertura» del Titolo V, consacra il principio di pari dignità fra lo Stato, le Regioni e gli enti locali.

La disposizione è stata ritenuta, unitamente al principio di sussidiarietà di cui all'art. 118 della Cost., una delle più rilevanti innovazioni introdotte dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 (Caravita, Bassanini, in senso critico Barbera). La formulazione originaria («La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni»), infatti, presentava un esplicito riferimento alla componente territoriale dello Stato, al punto da ritenere che quella disposizione si riferisse «al territorio della Repubblica...e poteva tacere dello Stato, ente con essa territorialmente coincidente» (Pinelli).

A detta di autorevole dottrina, già in base al previgente art. 114 della Cost., la Repubblica non si identificava solo con lo Stato, sebbene i riferimenti testuali fossero incerti e contradditori ma comunque indici dei principi di unità e indivisibilità, entrambi ispirati al favor autonomiaeexart. 5 della Cost. (Bassanini). Assunto ripreso nella Relazione di maggioranza, in cui si evidenzia la piena compatibilità tra la scelta di attribuire agli enti territoriali pari dignità politico-costituzionale rispetto a quella espressa dai costituenti all'art. 5 della Cost.

Nel corso dei lavori dell'Assemblea costituente, data per scontata la necessità di mantenere il ruolo dei Comuni, il dibattito più acceso ha riguardato il mantenimento della Provincia quale ente autarchico, nel timore che potesse sottrarre competenze alla istituenda Regione.

Al contrario di quanto accaduto nei lavori preparatori della legge cost. n 3/2001, dove la modifica della disposizione non ha suscitato analogo dibattito, in quanto l'iter di formazione del testo finale è avvenuto per lo più nell'ambito di comitati parlamentari ristretti (Anzon, 2002).

Il secondo comma ha portata innovativa solo relativamente agli enti locali, le cui prerogative sono garantite direttamente dalla Costituzione, a differenza del previgente art. 128 della Cost., mentre per le Regioni si è trattato di una mera trasposizione delle garanzie già previste dall'art. 115, abrogato dalla riforma.

Del tutto innovativo è invece il terzo comma che, alla stregua degli ordinamenti a base federale, prevede un particolare ordinamento per la capitale della Repubblica.

Il principio di pari dignità: i nodi dottrinali alla luce della giurisprudenza costituzionale

La riforma n. 3/2001 relativa al Tit. V della Costituzione ha riplasmato l'ordine degli enti locali in una logica di favor autonomiae, consacrata negli artt. 114 e 118 della Cost. da leggersi nella prospettiva di raccordo con l'art. 5 della Cost.. Sicché, la formulazione attuale dell'art. 114 della Cost. prevede una triplice unità istituzionale concentrica, formata da Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane, tra loro in una posizione di equipollenza e legati dal principio di leale collaborazione nel rispetto delle reciproche attribuzioni (Caringella, 514 ss.).

Tuttavia, la Consulta ha chiarito che «nel nuovo assetto costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato sia pur sempre riservata, nell'ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all'art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un'istanza unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, come limiti di tutte le potestà legislative (art. 117, comma 1) e dal riconoscimento dell'esigenza di tutelare (attraverso l'esercizio del potere sostitutivo) l'unità giuridica ed economica dell'ordinamento stesso (art. 120, comma 2). E tale istanza postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto – lo Stato, appunto – avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento». Pertanto, «lo stesso art. 114 della Costituzione non comporta affatto una totale equiparazione fra gli enti in esso indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che i Comuni, le Città Metropolitane e le Province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa» (Corte cost. n. 274/2003 e Corte cost. n. 43/2004).

Da ciò discende che gli elementi che sorreggono il riequilibrio degli enti territoriali sono: la competenza amministrativa generale riconosciuta ai Comuni dal novellato art. 118 Cost.; la potestà regolamentare degli enti locali (art. 117, c. 6, Cost.); la competenza statale nell'individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città Metropolitane mentre rimangono fermi il principio di tipicità degli enti territoriali e dell'uniforme disciplina di Province e Comuni.

Muovendo da tali premesse, la legge n. 142/1990, poi avvallata dalla giurisprudenza costituzionale ha attribuito alla Regione il ruolo di soggetto di legislazione e di programmazione, con funzioni di impulso e di coordinamento delle autonomie locali (cfr. Corte cost. n. 343/1991 e Corte cost. n. 408/1998). Sicché si è giunti ad affermare la piena autonomia degli enti locali, chiamati ad adottare uno Statuto, definito dalla giurisprudenza di legittimità come atto normativo atipico, con caratteristiche specifiche di rango paraprimario o subprimario, posto in posizione di primazia rispetto alle fonti secondarie (regolamenti) e al di sotto delle leggi principio (Cass. S.U., n. 12868/2005).

Come noto, ai sensi dell'art. 3, comma 4 l. n. 20/1994 e dell'art. 1, comma 2 l. n. 174/2012, la Regione soggiace al controllo contabile sulla gestione del bilancio e del patrimonio degli enti territoriali nonché sulla regolarità dei rendiconti dei gruppi consiliari. Si tratta di un'assoluta novità rispetto alla previgente disciplina sulle autonomie locali, a cui peraltro ha aderito la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 107/2015), la quale in linea con le modifiche apportate dalla l. n. 1084/1970 e dai d.lgs. n. 40/1993 e d.lgs. n. 479/1993, ha affievolito i controlli di legittimità e di merito, in ragione del favor autonomiae che impernia la Costituzione.

Quanto alla Provincia, come noto il d.l. n. 201/2001, c.d. Salva Italia aveva spogliato l'ente in parola delle funzioni di amministrazione attiva, senza intaccare quelle politiche e di coordinamento.

Intervento censurato e dichiarato illegittimo dalla Consulta mediante una sentenza fortemente legislativa, nella quale ha inibito la possibilità di apportare un simile cambiamento attraverso un decreto legge, in spregio al principio di legalità (Corte cost. n. 220/2013). Sicché, il legislatore, sulla scorta delle censure mosse dai giudici costituzionali, ha adottato la l. n. 220/2014, c.d. Legge Delrio, che ha definito le Province come enti territoriali di area vasta, con spiccate funzioni in materia di pianificazione, programmazione, contrattualistica pubblica e in taluni casi, di cura delle relazioni istituzionali.

Una volta esaurita questa breve ma necessaria premessa sarà più agevole procedere ad un'analitica disamina del principio di pari dignità consacrato nell'art. 114 della Cost., così come interpretato alla luce della giurisprudenza costituzionale e della più accorta dottrina.

Dal confronto immediato tra il testo originario dell'art. 114 Cost. e quello risultante dalla riforma operata dalla legge cost. n. 3 del 2001 emerge ictu oculi un nuovo volto costituzionale delle autonomie locali: la Repubblica non si identifica più con lo Stato, il quale rappresenta solo uno degli elementi costitutivi della Repubblica medesima.

Come è stato rilevato viene meno l'elemento territoriale: si può dunque affermare che la Repubblica «perda il territorio ed è ora costituita dagli enti, che prima erano semplici ripartizioni territoriali» (De Muro). Ancora, secondo altra attenta lettura, che la Repubblica «sia formata per opera ed azione di tutti gli enti enumerati e ne rappreseti la sintesi» (Mangiameli, 239 ss.).

Tra i diversi spunti interpretativi emerge l'idea di un pluralismo istituzionale paritario, scevro da rapporti di gerarchia tra i diversi enti (Cammelli, 1273 ss.; Mangiameli, 239 ss.; Rolla, 321 ss.; Olivetti, 40 ss).

Occorre a questo punto rilevare come parte della dottrina abbia enfatizzato l'art. 114 della Cost., qualificandola come «innovazione evidente e clamorosa», mentre altra parte abbia fornito delle letture minimali.

Nel primo gruppo si inserisce chi (Bassanini) ha ritenuto la disposizione atta ad innovare l'interpretazione degli stessi principi fondamentali della Costituzione e ad incidere profondamente sulla forma dello Stato. Secondo tale lettura, lo Stato si identifica in un ordinamento strutturalmente policentrico, basato su un forte pluralismo istituzionale tra soggetti dotati di eguale dignità costituzionale, tutti componenti essenziali della Repubblica, la cui unità e indivisibilità postula meccanismi di coordinamento non gerarchico, ma basati sulla leale cooperazione.

Dalla disposizione del nuovo art. 114 si dedurrebbe pertanto che la «Repubblica» sia limitata all'elemento territoriale, venendo a coincidere con l'ordinamento nel suo insieme, ma sia estesa fino all'elemento personale, quale somma delle diverse comunità regionali e locali e delle stesse formazioni sociali.

Assunto a cui ha aderito dalla Corte costituzionale che, dopo aver fatto risalire al pensiero dei costituenti la visione di autonomie territoriali «partecipi dei percorsi di articolazione e diversificazione del potere politico strettamente legati all'affermarsi del principio democratico e della sovranità popolare», ne rinviene «una positiva eco» nel nuovo articolo 114, «nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costituitivi della Repubblica, quasi a svelarne in una formulazione sintetica la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare» (Corte cost. n. 106/2002).

Sul versante della sussidiarietà verticale, si è quindi affermato che il nuovo art. 114 della Cost. scardina definitivamente l'assetto gerarchico piramidale, caratteristico delle forme di Stato dell'Europa continentale ottocentesca, fondando e consolidando il nuovo modello di governance pluricentrica multilivello, già presente ma non senza incoerenze e contraddizioni, nella Costituzione del 1948, rimasta inattuata nei decenni successivi (Bassanini).

Le conseguenze di questa nuova impostazione risiedono nella parificazione fra fonti legislative statali e regionali; nell'attribuzione alle Regioni – almeno sulla carta – della competenza legislativa generale o residuale, ai sensi del quarto comma dell'art. 117 della Cost.; nella soppressione dei controlli preventivi sugli atti delle amministrazioni locali; nella conseguente soppressione dei comitati regionali di controllo nonché nel riconoscimento al Comune del ruolo di autorità amministrativa a competenza generale e residuale.

Ancora: nell'abbandono del modello della supremazia gerarchica dello Stato nelle relazioni interistituzionali (tra Stato, Regioni ed enti locali) e nella sua sostituzione con uno di tipo paritario fondato sul principio (e sul metodo) della leale collaborazione; nella piena garanzia costituzionale dell'autonomia di ciascuna istituzione; nel riconoscimento a ciascuna istituzione di una piena autonomia statutaria e organizzativa nei soli limiti espressamente previsti dalla Costituzione e nella legittimazione di tutte le istituzioni a concorrere alla definizione e alla implementazione delle politiche pubbliche, nei limiti delle proprie competenze.

A questo nuovo volto dei rapporti tra Stato centrale e autonomie territoriali fa da contraltare la previsione, nell'elenco delle materie di competenza legislativa esclusiva statale di cui al secondo comma dell'articolo 117, di materie cosiddette trasversali, come la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni o la perequazione delle risorse finanziarie o la tutela della concorrenza, suscettibili di venire utilizzate per strumentare l'attuazione di politiche pubbliche unitarie concernenti materie di competenza regionale o locale. Altresì, la riserva allo Stato della competenza legislativa per la determinazione dei principi fondamentali nelle importanti materie elencate nel terzo comma dell'articolo 117 Cost.

Infine, l'attribuzione al Governo di poteri sostitutivi nei confronti di Regioni Province e Comuni, finalizzati alla tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare, dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, dell'incolumità, della sicurezza pubblica o al rispetto del diritto comunitario e dei trattati internazionali.

In definitiva, il meccanismo di attribuzione di competenze in parola si ispira non già a finalità indefinite o innominate, bensì a finalità tassativamente indicate, ancorché con termini di una certa latitudine e come tali, idonei a «coprire» un ampio spettro di situazioni di emergenza non prevedibili.

Di contro, altra parte della dottrina ha obiettato come alla pari dignità istituzionale degli enti segua una necessaria equiordinazione, se non altro perché lo Stato non è configurato come ente autonomo dall'art. 114 della Cost. (Bifulco, 146 ss.). Sicché, secondo tale orientamento, lo scopo della disposizione non sarebbe pertanto l'equiordinazione degli enti, ma solo l'edificazione sussidiaria della Repubblica «attraverso di essi», riferendo tale ricostruzione anche al principio di sussidiarietà. A ciò si è replicato, affermando come una siffatta lettura attribuirebbe alla disposizione in parola l'unico scopo di garantire gli enti menzionati da una soppressione mediante legge ordinaria (De Muro, 2166 ss.).

Si deve tuttavia negare mutatis mutandis che la disposizione abbia un mero carattere ricognitivo (Pinelli): l'art. 114 della Cost. diviene strumento ermeneutico per valorizzare il principio fondamentale di cui all'art. 5 della Cost. (Bartole-Bin-Falcon-Tosi, pag 27 ss.).

Un richiamo, per concludere, alla giurisprudenza costituzionale, la quale, pur riconoscendo che l'art. 114 della Cost. attribuisce posizione di equipollenza a Stato, Regioni, ed enti locali, quali entità costitutive della Repubblica, ha al contempo precisato che ciò non comporta affatto una totale equiparazione fra enti profondamente diversi tra loro. Al riguardo, basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che i Comuni, le Città metropolitane e le Province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa (Corte cost. n. 274/2003).

La Corte ha ribadito come, per un verso, a seguito della riforma solo allo Stato è consentito impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di qualsiasi parametro costituzionale. Per altro verso, la Corte ha paralizzato l'entusiasmo con il quale gli enti locali intendevano esercitare il potere di impugnativa ex art. 127 Cost. avverso i provvedimenti statali, ritenendo «di potersi collocare, a seguito della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, nella medesima posizione delle Regioni».

Di recente la Corte costituzionale ha dichiarato l'inammissibilità del conflitto di attribuzione che un Comune aveva ritenuto di poter proporre sulla base della riformulazione dell'art. 114 Cost., secondo cui Regioni, Province e Comuni non sarebbero più mere ripartizioni della Repubblica, ma mere componenti coordinate con lo Stato (Corte cost. n. 130/2009).

La Consulta, muovendo dal presupposto secondo cui dal nuovo art. 114 della Cost. non segua una totale equiparazione tra gli enti elencati, ha negato che dall'invocato principio di equiordinazione possa discenderne il superamento della «chiara limitazione soggettiva che si ricava dagli artt. 134 della Costituzione e 39, terzo comma, della citata l. n. 87/1953».

Sempre la giurisprudenza costituzionale ha precisato che l'elencazione degli enti da parte della disposizione in commento deve considerarsi tassativa, di modo che la norma non possa invocarsi a tutela delle prerogative di altri enti locali non espressamente richiamati: è il caso delle Comunità montane, che non hanno «copertura» costituzionale (Corte cost. n. 244/2005).

Il riconoscimento costituzionale dell'autonomia funzionale e statutaria degli enti locali

Il comma secondo dell'art. 114 costituisce una sorta di sintesi tra gli abrogati articoli 115 e 128.

Accorta dottrina ha rilevato che l'aspetto innovativo della disposizione risieda principalmente nel riconoscimento diretto, in Costituzione, dell'autonomia funzionale e statutaria anche agli enti locali (Bassanini).

Come noto, tali prerogative prima della riforma del 2001, erano direttamente riconosciute solo alle Regioni sulla base dell'art. 115 della Cost., ora abrogato, mentre ai Comuni e alle Province grazie all'art. 128 Cost., anch'esso abrogato dalla riforma.

Anche il potere statutario degli enti locali trova nel nuovo testo una esplicita salvaguardia. In particolare, gli statuti di Comune e Provincia, pur configurandosi come atti formalmente amministrativi, sono sostanzialmente a valenza normativa di rango sub primario (o parasecondario), in quanto rivestono una posizione di primazia rispetto alle norme regolamentari dell'ente e individuano le norme fondamentali in tema di organizzazione.

La delimitazione dell'autonomia da parte di leggi generali della Repubblica aveva dato luogo ad un dibattito dottrinale sulla possibilità di interpretare siffatto disposto costituzionale in chiave tassativa, sì da conferire stabilità e certezza all'autonomia locale. Sicché veniva emanato l'art. 1, comma 3 l. n. 142/1990, che, richiamando l'art. 128 Cost., introduceva il divieto di deroghe tacite ai principi contenuti nella novella in esame, che potevano essere modificati solo attraverso l'intermediazione di una legge.

La previsione della clausola di rafforzamento, tuttavia, non ha posto fine al dibattito, dato che quella scelta non ha mai incontrato l'avvallo del legislatore statale.

La dottrina si è divisa tra coloro che leggevano la clausola in commento come un mero criterio interpretativo (Vandelli, 42 ss.) e coloro che ne ripudiavano la valenza simbolica e ne ammettevano il sindacato indiretto di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 128 Cost. (Rolla, 342 ss.).

A ben vedere, aderendo all'argomento letterale, l'art. 114, comma 2, Cost. risolve alla radice il problema: l'autonomia degli enti locali è garantita direttamente dalla Costituzione, che ne sancisce l'autonomia statutaria e ne tutela l'autonomia funzionale, finanziaria e amministrativa.

Da ciò discende che, le disposizioni legislative in materia debbono essere vagliate col parametro della loro compatibilità con i principi costituzionali contenuti nel titolo V, sia sotto il profilo della fonte legislativa competente (statale o regionale), che sotto il versante contenutistico, dovendo il legislatore dare attuazione ai principi e alle disposizioni del titolo V in materia di autonomia statutaria, di poteri e di funzioni degli enti locali.

Roma Capitale: le questioni aperte

Innovativo è il altresì il contenuto del comma terzo dell'art. 114 della Cost., che sancisce il fondamento costituzionale al ruolo rivestito dalla città di Roma, capitale della Repubblica. In particolare, la riforma del 2001, insieme alla l. n. 49/2009 e ai d.lgs. n. 156/2010 e n. 61/2012, ha conferito dignità costituzionale alla città di Roma, oggi ente territoriale Roma Capitale, dotato di una speciale autonomia, di funzioni, di risorse e di un nuovo patrimonio (Caringella, 513 ss.).

La disposizione ha suscitato numerose resistenze in dottrina e in specie, in riferimento ad alcuni specifici aspetti relativi alla coincidenza della Capitale e della Città metropolitana con la Santa sede (Mangiameli).

Come noto, il concordato all'art. 2, paragrafo 4 sancisce che: «la Repubblica italiana riconosce il particolare significato che Roma, sede vescovile del Sommo pontefice, ha per la cattolicità», in ragione del ruolo diplomatico internazionale ed europeo di Roma e del carattere universale del patrimonio storico-culturale della stessa.

Sul punto, la previsione di una riserva di legge ordinaria statale in tema di ordinamento della capitale ha suscitato perplessità: a detta di alcuni, sarebbe stato più opportuno optare per una diretta previsione di rango costituzionale. Ciò comporta la previsione di interventi speciali a mezzo leggi che elargiscano, in occasioni di particolari eventi, le provvidenze finanziarie per la realizzazione di particolari opere pubbliche funzionali all'evento medesimo.

La sopra richiamata dottrina sottolinea, infatti, l'ambivalenza della «capitale», che per un verso, viene posta al servizio della Repubblica, per soddisfare le funzioni che ineriscono alla rappresentanza e al funzionamento della comunità generale nel suo insieme, quale simbolo dell'unità dello Stato-comunità.

Per altro verso, l'entità Roma – capitale comprende gli interessi e le necessità della comunità locale, accanto a quelli della comunità generale.

Con riguardo a quest'ultimo profilo, la disposizione in parola non pone fine alla questione, non spiega cioè se la «capitale» debba assumere la forma di un ente di servizio della Repubblica, oppure debba essere congiunta ad un ente territoriale (Comune, Provincia, Città metropolitana, Regione) gravato da oneri supplementari.

La disposizione del terzo comma dell'art. 114 della Cost., con riferimento alla «capitale» e al suo ordinamento, reca con sé la questione relativa all'individuazione degli organi e delle funzioni necessari a soddisfare gli interessi della comunità generale, che la capitale riassume, in maniera non occasionale, ma programmata ed efficiente.

Si noti al riguardo come la Costituzione «non attribuisce la qualifica di Capitale della Repubblica né al Comune né alla Città metropolitana di Roma, ma semplicemente a Roma», in grado di differenziare la capitale rispetto alle altre comunità locali (Barrera).

Ciò conferma la rilevanza del problema dell'impatto che l'ordinamento della capitale può avere sul sistema delle autonomie locali interessate e più precisamente, della collisione tra l'ordinamento verticale della capitale e quello orizzontale degli enti territoriali.

Mentre la disciplina del primo deve assicurare il decoro e il prestigio alla Repubblica, quella del secondo deve rendere sostenibile la vita di coloro che appartengono alla comunità locale.

La richiamata dottrina suggerisce la possibilità di attribuire la dimensione della «capitale» della Repubblica ad uno dei livelli di governo locale.

Secondo tale orientamento, l'incardinamento delle funzioni della capitale nella dimensione territoriale, ossia «orizzontale», e non più in quella «verticale» delle relazioni tra lo Stato e gli enti locali, si giustificherebbe essenzialmente sotto tre punti di vista.

In primo luogo, per non prevaricare la comunità locale nell'assunzione delle proprie deliberazioni; in secondo luogo, per garantire la soddisfazione di interessi generali della Repubblica anche attraverso l'azione di soggetti diversi dallo Stato e infine, per rispettare il principio della leale collaborazione, che impernia il nuovo sistema di relazioni tra gli enti territoriali.

Sicché, l'ordinamento della capitale finirebbe con l'essere una parte speciale del più generale sistema di poteri e funzioni definito dalla Costituzione, per Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni. Di qui, la conclusione dell'insufficienza della formulazione attuale dell'art. 114, comma terzo, della Cost. che rinvia alla legge ordinaria, dal momento che l'ordinamento della capitale per potere validamente derogare alle prescrizioni del Titolo V, richiede l'intermediazione di una norma di rango costituzionale.

Venendo ora alle disposizioni dettate in via transitoria dal legislatore statale sull'ordinamento di Roma capitale, è opportuno osservare quanto segue.

Il legislatore statale, con l'art. 24 della legge 5 maggio 2009 n. 42 («Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione»), ha dettato una disciplina transitoria dell'ordinamento di Roma capitale, che può riassumersi nei seguenti punti.

a) Roma capitale è un ente territoriale, i cui attuali confini sono quelli del comune di Roma, e dispone di speciale autonomia, statutaria, amministrativa e finanziaria, nei limiti stabiliti dalla Costituzione.

A detto ente continua ad applicarsi, oltre alle speciali disposizioni dettate dal medesimo art. 24, la disciplina prevista con riferimento ai comuni dal d.lgs. n. 267/2000.

b) A seguito dell'attuazione della disciplina delle città metropolitane e a decorrere dall'istituzione della città metropolitana di Roma capitale, le disposizioni di cui al predetto art. 24 si intenderanno riferite alla città metropolitana di Roma capitale.

c) Oltre alle funzioni attualmente spettanti al Comune di Roma, sono attribuite a Roma capitale alcune specifiche funzioni amministrative, in materia di: concorso alla valorizzazione dei beni storici, artistici, ambientali e fluviali, previo accordo con il Ministero per i beni e le attività culturali; sviluppo economico e sociale di Roma capitale con particolare riferimento al settore produttivo e turistico; sviluppo urbano e pianificazione territoriale; edilizia pubblica e privata; organizzazione e funzionamento dei servizi urbani, con particolare riferimento al trasporto pubblico ed alla mobilità; protezione civile, in collaborazione con la Presidenza del Consiglio dei ministri e la regione Lazio; ulteriori funzioni conferite dallo Stato e dalla regione Lazio, ai sensi dell'articolo 118, secondo comma, della Costituzione.

d) L'esercizio delle richiamate funzioni è disciplinato con regolamenti adottati dal Consiglio comunale, che assume la denominazione di Assemblea capitolina, alla quale è rimessa l'approvazione dello statuto di Roma capitale, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo concernente l'ordinamento transitorio e finanziario di Roma capitale, che verrà approvato sentiti la regione Lazio, la provincia di Roma e il comune di Roma.

e) la normativa in parola disciplinerà le funzioni attribuite e la definizione delle modalità per il trasferimento a Roma capitale delle relative risorse umane e dei mezzi, oltre all'assegnazione di ulteriori risorse a Roma capitale, tenendo conto delle specifiche esigenze di finanziamento derivanti dal ruolo di capitale della Repubblica e all'attribuzione di un patrimonio ai sensi del comma sesto dell'art. 119 della Cost.

In definitiva, la scelta operata dal legislatore statale ha destato numerose perplessità in dottrina, la quale ha stigmatizzato la commistione tra Roma-Capitale e Città metropolitana, ravvisando un'incompatibilità tra le funzioni localmente determinate e la cura d'interessi di natura generale-statale, tipici di Roma-Capitale (Chiola).

Si è in proposito rilevato come la legge speciale, prevista dal terzo comma dell'art. 114 della Cost., dovrebbe leggere Roma Capitale come un'entità diversa rispetto agli enti territoriali locali tassativamente elencati nel secondo comma della disposizione in commento, stante le peculiari esigenze che discendono dalla «capitalità» e dalla generalità degli interessi presidiati. Sicché, secondo tale lettura, Roma Capitale non dovrebbe assorbire gli enti locali ma soltanto alcune funzioni di questi.

Bibliografia

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