Costituzione della Repubblica - 27/12/1947 - n. 0 art. 24

Alfonso Celotto

[I] Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

[II] La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

[III] Sono assicurati ai non abbienti con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione (1).

[IV] La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

(1) V. artt. 74-115, 118-136, 141, 158, 166, 201, 279 e 294 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Inquadramento

L'art. 24 della nostra Carta costituzionale riconosce il diritto alla tutela giurisdizionale, che viene articolato testualmente nel diritto-potestà ad agire in giudizio e nel diritto di difesa.

Esso rappresenta allo stesso tempo un presupposto essenziale ed inviolabile per la tutela di tutte le libertà e i diritti garantiti costituzionalmente e una chiara esplicazione del principio di eguaglianza sia formale che sostanziale. In tal senso, gli interessi e i diritti di qualsiasi soggetto, in quanto riconosciuti dall'ordinamento come degni di tutela, trovano nella norma in commento uno strumento indispensabile senza il quale gli stessi costituirebbero mere affermazioni di principio.

In considerazione della sua naturale funzione processuale, pertanto, il diritto alla tutela giurisdizionale ha avuto sviluppo ed ampliamento principalmente in ambito giurisprudenziale, grazie al ruolo fondamentale giocato dalla Corte costituzionale, chiamata nel tempo a rimuovere limitazioni ed ostacoli al pieno godimento del diritto stesso, soprattutto da parte dell'imputato nel processo penale, posti dalla normativa ordinaria e dalla relativa interpretazione.

Il giudice delle leggi ha annoverato il diritto alla tutela giurisdizionale “fra quelli inviolabili dell'uomo, che la Costituzione garantisce all'art. 2” (sent. n. 98/1965), e che non esita ora ad ascrivere tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l'assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio» (Corte cost. n.18/1982).

D'altra parte, la dottrina ha messo in evidenza l'importanza essenziale dell'attività di «concretizzazione» nell'applicazione delle garanzie sancite dall'art. 24 e dall'art. 113 Cost. svolta dalla Corte costituzionale (Comoglio, 320), sottolineandone, anche in questo ambito, il duplice ruolo di custode dei valori espressi nelle disposizioni della Legge fondamentale e di interprete dei valori inespressi nell'ordine costituzionale (Trocker, 2020, 323).

Il diritto alla tutela giurisdizionale, inoltre, è posto al centro di una rete di connessioni con altre garanzie processuali riconosciute costituzionalmente, le quali sviluppano e tutelano aspetti insiti nel dettato della norma. E così, l'art. 25, comma 1, fornisce il principio del giudice naturale – strettamente legato a quello dell'indipendenza della magistratura, affermato dagli artt. 102, comma 1, e 108, comma 2 – l'art. 111 quello del giusto processo, connesso al fondamentale principio del contraddittorio, e l'art. 113 sviluppa il diritto-potestà di azione previsto dal primo comma dell'art. 24 nei confronti degli atti della pubblica amministrazione.

Come si è già avuto modo di accennare, pertanto, in termini generali va ricordato che il diritto alla tutela giurisdizionale è stato concepito ed affermato dal Costituente soprattutto con riferimento al processo penale, anche come reazione alle limitazioni imposte dalla legislazione fascista.

In tal senso, il fine primo è stato quello di assicurare all'imputato un'adeguata difesa tecnica da parte di un avvocato che potesse efficacemente contrapporsi all'azione del pubblico ministero.

Tuttavia, nel tempo, grazie all'evoluzione giurisprudenziale del diritto alla tutela giurisdizionale, al concetto di «difesa in senso tecnico» si è affiancato quello più ampio della «difesa in senso materiale», intesa come la garanzia della generale possibilità di difendere attivamente in giudizio le proprie ragioni attraverso tutti gli strumenti ammessi dall'ordinamento, inclusa l'autodifesa, valorizzando in questo modo un concetto più ampio del principio di contradittorio.

Allo stesso tempo, però, la necessità di garantire una tutela quanto più completa al diritto di difesa, in particolare, dell'imputato nel processo penale ha determinato l'affermazione dell'obbligatorietà della difesa tecnica. Ai sensi dell'art. 97, comma 1, c.p.p., infatti, l'imputato che non ha nominato un difensore di fiducia o ne è rimasto privo è assistito da un difensore di ufficio.

La Corte costituzionale ha da subito rilevato che l'aspetto tecnico e materiale della difesa non rimangono separati ma si completano e condizionano a vicenda: «Il diritto della difesa, pertanto, intimamente legato alla esplicazione del potere giurisdizionale e alla possibilità di rimuovere le difficoltà di carattere economico che possono opporsi (come si è detto nel terzo comma dello stesso art. 24) al concreto esercizio del diritto medesimo, deve essere inteso come potestà effettiva della assistenza tecnica e professionale nello svolgimento di qualsiasi processo, in modo che venga assicurato il contradittorio e venga rimosso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti. Così il compito della difesa assume una importanza essenziale nel dinamismo della funzione giurisdizionale, tanto da poter essere considerato come esercizio di funzione pubblica» (Corte cost. n.46/1957).

Lo stesso giudice delle leggi ha, tuttavia, anche chiaramente affermato che l'obbligo della difesa tecnica nell'ambito del processo penale non significa necessariamente una limitazione del diritto all'autodifesa: «la possibilità di una piena difesa personale – appellandosi alla quale si contesta l'obbligatorietà della difesa tecnica d'ufficio – è riconosciuta all'imputato in tutto il corso del dibattimento ed a conclusione di esso (artt. 443 e 468, comma 3, c.p.p.) incontrando soltanto il limite intrinseco della pertinenza delle dichiarazioni rispetto al giudizio, oltre ai limiti generali costituzionalmente posti alla libertà di manifestazione del pensiero (estendendosi, peraltro, anche all'imputato l'esimente di cui all'art. 598 c.p.). Quanto alla difesa tecnica, l'obbligatorietà della nomina del difensore non significa affatto un vincolo a svolgere determinate attività processuali; ma significa semplicemente, secondo la sentenza n. 125, predisposizione astratta di uno strumento ritenuto idoneo a consentire, in qualsiasi momento, l'esercizio del diritto inviolabile – e come tale irrinunciabile – di difesa, senza pregiudizio dell'elasticità dei rapporti fra imputato e difensore e soprattutto senza pregiudizio della piena autonomia delle scelte difensive, positive o negative, la cui inconciliabilità rappresenta, oltre che un dato di fatto, l'immediato risvolto dell'inviolabilità del diritto in questione» (Corte cost. n. 188/1980).

Inoltre, la Corte di Cassazione, ad ulteriore conferma del principio, ha più recentemente chiarito che l'obbligatorietà della difesa tecnica riguarda anche l'imputato abilitato all'esercizio della professione forense: «l'autodifesa nel processo penale non è consentita in difetto di una espressa disposizione di legge [...] infatti nel processo penale l'obbligo della difesa tecnica, sancito dagli artt. 96 e 97 c.p.p., esclude che le parti, anche se abilitate all'esercizio della funzione di avvocato, possano essere difese da se stesse» (Cass. pen. n. 35651/2018).

È stato messo in evidenza in dottrina come, sin dalle prime pronunce, la Corte costituzionale, preoccupata di rendere effettiva la difesa dell'imputato nei confronti della pubblica accusa, laddove maggiormente sono in pericolo la libertà e la dignità personale dell'individuo, abbia cercato di focalizzarsi sul contenuto minimo di poteri ed attività difensive riconosciuti dall'art. 24, dal punto di vista propriamente tecnico dell'assistenza difensiva dell'imputato.

Allo stesso tempo, tuttavia, è stato sottolineato come assuma rilevanza costituzionale non tanto l'esigenza di assicurare a ciascuna parte, in ogni stato e grado del procedimento, l'assistenza tecnico-professionale, quanto, piuttosto, la necessità di garantire alla parte processuale ed al suo difensore il concreto esercizio di adeguati poteri di azione, contraddizione e difesa (Comoglio, 216-217).

Il diritto alla tutela giurisdizionale dal punto di vista soggettivo

Passando ad un'analisi testuale dell'art. 24, non può non notarsi come, nel positivizzare il riconoscimento al diritto alla tutela giurisdizionale, il Costituente abbia utilizzato, non casualmente, come primo termine della norma la parola «Tutti», riferita, in particolare, al diritto-potestà di agire in giudizio.

L'obiettivo evidente è quello di chiarire immediatamente che tale riconoscimento è esteso a qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica che sia, dotato di cittadinanza o meno, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali.

Chiunque, pertanto, voglia far valere una propria posizione giuridica meritevole di tutela deve poter accedere ad un giudice, dando così attuazione in ambito giurisdizionale al principio costituzionale di eguaglianza, affermato dall'art. 3.

Questa ulteriore connessione rispetto ad altri diritti e libertà riconosciuti costituzionalmente si esplica, peraltro, sia in termini di affermazione assoluta e formale del principio di eguaglianza che con riferimento all'applicazione sostanziale dello stesso. Nel tempo, infatti, oltre ad una evoluzione del sistema di assistenza legale per i non abbienti, previsto al terzo comma dell'art. 24, il collegamento con il principio di eguaglianza sostanziale, previsto dal secondo comma dell'art. 3, ha portato allo sviluppo di forme differenziate di tutela giurisdizionale che rendessero effettiva la possibilità di accesso al giudice in base alle differenti condizioni e caratteristiche del soggetto attore.

Così, la Corte costituzionale ha, da una parte, affermato esplicitamente che l'art. 24, primo comma, della Costituzione, va inteso quale specificazione ulteriore del principio di eguaglianza (Corte cost. n.55/1974), chiarendo, inoltre, che «il principio, secondo il quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, deve trovare attuazione uguale per tutti, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali» (Corte cost. n.67/1960) e che deve considerarsi «legittima una differenziazione con adattamento della tutela giurisdizionale, mediante la creazione di un sistema che abbia riguardo alla particolarità del rapporto da regolare ai fini della salvaguardia di interessi ritenuti razionalmente degni di protezione giuridica» (Corte cost. n. 94/1973).

Con riferimento all'espresso riconoscimento del diritto alla tutela giurisdizionale anche nei confronti di soggetti privi della cittadinanza italiana, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che «il diritto di azione costituzionalmente garantito, come diritto fondamentale e inviolabile della persona, dall'art. 24 Costituzione deve, intendersi riconosciuto anche allo straniero (ed all'apolide) domiciliato o residente in Italia (cfr. Corte cost. n.144/1992, in tema di gratuito patrocinio allo straniero, e n. 227-2000 con riguardo ad extracomunitari)» (Cass. S.U., n. 46/2001).

Alla garanzia di un eguale trattamento formale, si contrappone, pertanto, nella disciplina processuale, la necessità di un trattamento razionalmente differenziato per ogni situazione diversa (Police, 504).

Il diritto alla tutela giurisdizionale dal punto di vista oggettivo

Le situazioni giuridiche tutelabili

Il diritto alla tutela giurisdizionale – in particolare, il diritto-potestà ad agire in giudizio – presuppone l'esistenza di posizioni giuridiche meritevoli di tutela, le quali non abbiano ottenuto il dovuto soddisfacimento a causa di violazioni o contestazioni e necessitino, di conseguenza, di un'affermazione attraverso un provvedimento coercitivo.

In tal senso, il nostro ordinamento viene considerato a «doppio gradino», nel senso che pur avendo preordinato le condizioni giuridiche affinché chiunque possa soddisfare diritti ed interessi di cui è legittimamente titolare, predispone un secondo livello di tutela cui è possibile accedere nel caso in cui il primo non sia stato idoneo a garantirne il godimento.

Secondo quanto previsto testualmente dal primo comma dell'art. 24, dette posizioni giuridiche vengono compendiate in diritti ed interessi legittimi, seguendo la tradizionale giustapposizione tra un interesse al quale è stata data veste di diritto soggettivo, dotato in quanto tale di assoluta ed immediata tutela, e uno, invece, mediato dal necessario esercizio di un potere dell'amministrazione.

Tale concettuale contrapposizione, all'interno della norma, ha, tuttavia, perso vigore nel tempo sia alla luce di un avvicinamento in termini di tutela tra diritti soggettivi ed interessi legittimi che in considerazione del riconoscimento giurisprudenziale secondo cui, affianco a dette tradizionali categorie, il diritto alla tutela giurisdizionale tutelerebbe anche situazioni di dimensione sovraindividuale quali interessi collettivi o diffusi o, in ogni caso, non impedirebbe il riconoscimento, da parte del legislatore ordinario, di ulteriori forme di tutela giurisdizionale.

Lungi dal voler fornire in questa sede un quadro esaustivo degli assunti di dottrina e giurisprudenza in tema di interessi legittimi e della loro distinzione rispetto ai diritti soggettivi, vale la pena, tuttavia, ripercorrere alcune tappe fondamentali della evoluzione giurisprudenziale della tutela degli interessi legittimi anche in relazione al riparto di giurisdizione.

In tal senso, le Sezioni Unite della Cassazione, nella storica sentenza n. 500/1999, hanno, innanzi tutto, ricostruito la nozione di interesse legittimo delineandone le caratteristiche da un punto di vista sostanziale:

«L'interesse legittimo non rileva infatti come situazione meramente processuale, quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, del quale non sarebbe quindi neppure ipotizzabile lesione produttiva di danno patrimoniale, ma ha anche natura sostanziale, nel senso che si correla ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione) può concretizzare danno.

Anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo l'interesse effettivo che l'ordinamento intende proteggere è pur sempre l'interesse ad un bene della vita: ciò che caratterizza l'interesse legittimo e lo distingue dal diritto soggettivo è soltanto il modo o la misura con cui l'interesse sostanziale ottiene protezione.

L'interesse legittimo va quindi inteso (ed ormai in tal senso viene comunemente inteso) come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell'attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell'interesse al bene.

In altri termini, l'interesse legittimo emerge nel momento in cui l'interesse del privato ad ottenere o a conservare un bene della vita viene a confronto con il potere amministrativo, e cioè con il potere della P.A. di soddisfare l'interesse (con provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dell'istante), o di sacrificarlo (con provvedimenti ablatori)».

Tale ricostruzione ha permesso alle Sezioni Unite di scardinare, per la prima volta, l'assunto della irrisarcibilità, ai sensi dell'art. 2043c.c., dell'interesse legittimo, in quanto istituto giuridico inidoneo, rispetto ad un diritto soggettivo, a condurre al cagionamento di un danno ingiusto.

Secondo la Corte di Cassazione «La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra infatti nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto.

Ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale.

Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo» (Cass. S.U. , n. 500/1999).

Tale principio è stato, poi, pienamente recepito dal Codice del processo amministrativo entrato in vigore nel 2010, il quale disciplina, all'art. 30, le azioni di condanna nei confronti della pubblica amministrazione anche in tutti i casi di giurisdizione generale di legittimità.

Sul tema, inoltre, anche la Corte costituzionale è intervenuta, in primis, per limitare il ricorso sempre più frequente del legislatore ordinario alla tecnica del riparto di giurisdizione per blocchi di materie, qualora tale attribuzione non sia pienamente giustificata, ai sensi dell'art. 103 della Costituzione, dalla stretta compresenza di interessi legittimi e diritti soggettivi.

Secondo il giudice delle leggi, «È evidente, viceversa, che il vigente art. 103, comma 1, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare «particolari materie» nelle quali «la tutela nei confronti della pubblica amministrazione» investe «anche» diritti soggettivi: un potere, quindi, del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie» (Corte cost. n.204/2004).

Nella stessa sentenza, la Corte costituzionale ha, inoltre, ribadito il principio della risarcibilità degli interessi legittimi, riconoscendone il fondamento proprio nell'art. 24 della Costituzione: «il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova «materia» attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione».

La risarcibilità degli interessi legittimi, pertanto, «affonda le sue radici nella previsione dell'art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri«, giustificandosi, così, il superamento della regola che imponeva, una volta ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di dover adire il giudice ordinario per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno.

In dottrina si è posta in dubbio l'utilità stessa della categoria dell'interesse legittimo, proprio a fronte delle recenti trasformazioni ed ampliamenti delle relative garanzie giurisdizionali, consistenti nell'introduzione di un ricorso di piena giurisdizione esperibile davanti al giudice amministrativo per la tutela, indifferentemente, sia dei diritti soggettivi che degli interessi legittimi. Ciò se, da una parte, pone riparo all'esigenza di una maggiore effettività della tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, dall'altra, non sembra giustificare la negazione dell'ontologica differenza tra le diverse situazioni giuridiche soggettive (Police, 506).

L'inviolabilità del diritto di difesa

Dopo aver riconosciuto il diritto ad agire in giudizio a chiunque sia titolare di una posizione giuridica degna di tutela, nei termini che sono appena stati ricostruiti, il secondo comma dell'art. 24 afferma perentoriamente l'inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del giudizio.

Diritto-potestà di azione e diritto di difesa, pertanto, rappresentano elementi speculari e complementari che, interagendo, forniscono una rappresentazione più completa del principio di contraddittorio, il quale si esplica concretamente attraverso la tutela delle seguenti, basilari, fasi processuali, strettamente connesse le une con le altre: accesso al proprio giudice naturale; partecipazione al processo nel senso più ampio e paritario possibile; ottenimento di una decisione a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi da parte dell'ordinamento giudiziario.

In primis, dunque, l'inviolabilità del diritto di difesa è condizionato dal riconoscimento della possibilità per chiunque di adire un giudice.

La giurisprudenza si è, a tale riguardo, interrogata sulla legittimità o meno di prevedere forme alternative di giustizia rispetto a quella del giudice precostituito per legge, quali l'arbitrato.

La Corte costituzionale, ha costantemente affermato che «a seguito del congiunto disposto degli articoli 24, primo comma, Cost. (diritto di azione in giudizio e correlativo esercizio, costituzionalmente garantiti) e 102, primo comma, Cost. (riserva della funzione giurisdizionale ai giudici ordinari, salve le eccezioni di cui all'articolo seguente), il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all'art. 24, comma 1, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell'art. 102, comma 1, Cost.» (Corte cost. n.127/1977).

Tale principio è stato, poi, recentemente confermato dallo stesso giudice delle leggi che ha ribadito come «Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le ipotesi di arbitrato previste dalla legge sono illegittime solo se hanno carattere obbligatorio, e cioè impongono alle parti il ricorso all'arbitrato, senza riconoscere il diritto di ciascuna parte di adire l'autorità giudiziaria ordinaria (Corte cost. n. 221/2005; Corte cost. n. 325/1998; Corte cost. n. 381/1997; Corte cost. n. 152/1996; Corte cost. n. 54/1996; Corte cost. n. 232/1994; Corte cost. n. 206/1994; Corte cost.n. 49/1994; Corte cost. n. 488/1991; Corte cost. n. 127/1977)» (Corte cost. n.123/2018).

In tal senso, anche le Sezioni Unite della Cassazione, intervenendo in tema di giustizia sportiva, hanno affermato che «Né si può ipotizzare un diniego di giustizia rilevante ai fini dell'art. 6 CEDU, quale disposizione interposta alla norma costituzionale dell'art. 24, atteso che il diritto di accesso al giudice non è ostacolato dal ricorso a forme arbitrali (Corte EDU marzo 2016, Tabbane vs Svizzera, 23-36), purché il rimedio di giustizia sia effettivo e non illusorio (Corte EDU 19 marzo 1997, Hornsby vs Grecia; 15/02/2006, Androsov vs Russia; Corte EDU, 27/12/2005, Iza vs Georgia; Corte EDU 30 novembre 2005, Mykhaylenky vs Ucraina, p. 51; 24 febbraio 2005, Plotnikovy vs Russia, 22; Corte EDU, 22 febbraio-6 giugno 2005, Sharenok vs Ucraina, p. 25). Gli Stati, del resto, godono di un certo margine di apprezzamento riguardo alle limitazioni del diritto di accesso purché non compromettano l'essenza stessa del diritto, perseguano uno scopo legittimo e siano ragionevolmente proporzionali a tale scopo (Corte EDU 29 novemb re 2016, Lupeni Greek Catholic Parish e altri vs Romania, 89; 26 ottobre 1998, Osman vs Regno Unito, 147; Corte EDU 18 febbraio 1999, Wait & Kennedy vs Germania, 59;Corte EDU 15 settembre 2009, EiffageS.A. e altri vs Svizzera). Si tratta di requisiti pienamente rispettati dalla legge italiana, così come interpretata da C. cost. n. 49/2011» (Cass. S.U., n. 32358/2018).

Affinché, una volta avuto accesso al sistema giudiziario, la tutela giurisdizionale sia effettiva ed efficace è essenziale che l'inviolabilità del diritto di difesa si realizzi nella piena partecipazione al processo secondo regole che assicurino una posizione di parità tra le parti coinvolte. Il processo, pertanto, deve essere «equo», così come indicato dall'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, o «giusto», come espressamente previsto dall'art. 111 della Costituzione.

Anche in tal senso, particolare attenzione è stata data alle garanzie processuali dell'imputato nel processo penale, in particolare nel caso in cui, volontariamente o meno, non prenda parte al giudizio, affinché gli esiti di tale processo possano considerarsi legittimi pur in sua assenza e la decisione sulla relativa impugnazione possa essere o meno rimessa esclusivamente al proprio difensore. Fondamentale, ancora una volta, nello sviluppo di tali garanzie anche a livello normativo, è stato il ruolo pretorio delle decisioni della Corte costituzionale.

A tale riguardo, infatti, la Corte costituzionale ha, innanzi tutto, sottolineato come, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, dall'art. 6 della CEDU, in particolare dal comma 3, possano essere desunte in via interpretativa una serie di regole di garanzia processuale: a) l'imputato ha il diritto di esser presente al processo svolto a suo carico; b) lo stesso può rinunciare volontariamente all'esercizio di tale diritto; c) l'imputato deve essere consapevole dell'esistenza di un processo nei suoi confronti; d) devono esistere strumenti preventivi o ripristinatori, per evitare processi a carico di contumaci inconsapevoli, o per assicurare in un nuovo giudizio, anche mediante la produzione di nuove prove, il diritto di difesa che non è stato possibile esercitare personalmente nel processo contumaciale già concluso.

Pertanto, «l'art. 175, comma 2, c.p.p., per i motivi sopra esposti deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui preclude la restituzione del contumace, che non aveva avuto cognizione del processo, nel termine per proporre impugnazione, quando la stessa impugnazione sia già stata proposta dal difensore» (Corte cost. n.317/2009).

Sulla scorta di tale orientamento, nel 2014 il legislatore ha interamente sostituito, nel codice di procedura penale, il rito contumaciale con la disciplina dell'assenza dell'imputato.

Come ricostruito dal giudice delle leggi in una recente sentenza, dunque, il quadro normativo in questione è stato modificato nel corso del tempo, al fine di adeguare il processo contumaciale ai principi espressi dalla Corte EDU, secondo cui l'obbligo di garantire all'accusato il diritto di essere presente in udienza è uno degli elementi essenziali del diritto fondamentale al giusto processo di cui all'art. 6. Il legislatore è, pertanto, intervenuto nel 2005 con una modifica all'art. 175 c.p.p., introducendo una sorta di presunzione iuris tantum di mancata conoscenza da parte dell'imputato della pendenza del procedimento, salvo prova contraria. Successivamente, la richiamata sentenza n. 317/2009 ha ulteriormente ampliato la tutela dell'imputato giudicato in contumacia, sia irreperibile che non, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 175, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non consentiva la restituzione dell'imputato, che non avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, quando analoga impugnazione fosse stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato.

Infine, con la l. n. 67/2014, il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha compiuto una scelta radicalmente diversa: non più un rimedio restitutorio ex post a tutela dell'imputato giudicato in contumacia, ma garanzie ex ante a tutela dell'imputato giudicato in sua assenza.

«È stato, quindi, eliminato dal codice di procedura penale l'istituto della contumacia e si è garantito, all'imputato non presente, il diritto alla sospensione del processo penale là dove sia dimostrato che la sua assenza derivi da un'incolpevole mancanza di conoscenza dello svolgimento del processo. A fronte dell'assenza dell'imputato le nuove disposizioni prevedono che il giudice debba rinviare l'udienza disponendo la notificazione all'imputato personalmente della nuova data ad opera della polizia giudiziaria e che, in caso di esito negativo della notificazione, e qualora non debba pronunziarsi sentenza ai sensi dell'art. 129 c.p.p., il giudice con ordinanza sospende il processo nei confronti dell'imputato assente; si è stabilito che durante la sospensione possono essere acquisite le prove non rinviabili e, allo scadere di un anno dalla sospensione, il giudice dispone nuove ricerche dell'imputato.

Il giudice può invece procedere in assenza dell'imputato solo in una serie di tipizzate ipotesi: quando vi è rinunzia espressa a essere presente al processo; se vi è stata nel corso del procedimento dichiarazione o elezione di domicilio, o se l'imputato sia stato arrestato o fermato o sottoposto a misura cautelare o se abbia nominato un difensore di fiducia; se abbia ricevuto personalmente la notifica dell'avviso dell'udienza, ovvero risulti con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo (c.p.p.)» (Corte cost. n.102/2019).

Altro aspetto indispensabile al fine di garantire l'inviolabilità del diritto di tutela giurisdizionale e, di conseguenza, la pienezza del principio del contraddittorio è il diritto alla prova, ovvero la possibilità di partecipare al giudizio attraverso la produzione di elementi probatori in una condizione di piena parità tra le parti. L'importanza centrale dell'esercizio di tale diritto affinché un processo possa considerarsi equo o giusto è testimoniato dal fatto che l'art. 111 della Costituzione, così come modificato nel 1999, prevede al quarto comma che «il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova».

In ogni caso, la Corte costituzionale aveva già avuto modo di intervenire sul diritto alla prova anche prima del relativo riconoscimento all'interno della Carta costituzionale. Infatti, oltre a descriverne il contenuto, il giudice delle leggi è ripetutamente intervenuto dichiarando l'illegittimità costituzionale di norme, che limitando o negando ingiustificatamente la possibilità di provare fatti a fondamento della pretesa fatta valere in giudizio, andavano a conculcare il «nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa» (Corte cost. n.248/1974).

Già nel 1971, dunque, la il giudice delle leggi affermava che, affinché il diritto di difesa fosse realmente inviolabile, secondo quanto sancito dall'art. 24, esso doveva essere “pieno ed effettivo”. E per assicurare ciò, anche ammettendo le diverse modalità di esercizio del diritto a seconda delle speciali caratteristiche strutturali dei singoli processi, «si è affermata la necessità dell'instaurazione di un contraddittorio fra le parti, che consenta di opporre controdeduzioni alle deduzioni avversarie (sent. n. 59/1959 e n. 83/1969), nonché dell'ausilio tecnico-professionale di un difensore (sent. n. 11, 52 e 70/1965, n. 53 e 86/1968, n. 148 e 149/1969, n. 69, 76 e 190/1970). Contraddittorio ed ausilio sarebbero però nome vano, se non fosse reso possibile l'accertamento dei fatti su cui si fondano le ragioni sottoposte al giudice e fornire la prova dei fatti stessi» (Corte cost. n.55/1971).

Infine, quale inevitabile esito logico di tale excursus, il diritto alla tutela giurisdizionale non potrebbe dirsi effettivamente garantito qualora, oltre all'accesso al giudice ed alla partecipazione al processo, non venisse riconosciuto il diritto all'ottenimento di una decisione da parte del giudice adito.

Tale decisione, peraltro, non deve limitarsi ad esaminare aspetti formali della vicenda ma deve intervenire direttamente sul diritto o interesse legittimo fatto valere in giudizio, al fine di assicurare il godimento del bene della vita negato al di fuori del processo.

Il giusto processo civile vien celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipano – siano esse attori o convenuti – ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha ragione e chi ha torto: il processo civile deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell'azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, né deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice (Corte cost. n.220/1986).

La Corte costituzionale ha, sul punto, anche messo in evidenza l'illegittimità costituzionale di norme che, disciplinando l'astensione obbligatoria o altri casi di legittimo impedimento senza prevedere meccanismi di sostituzione di membri di organi giudicanti, precludono la regolare formazione del collegio giudicante, determinando così la lesione, sotto vari profili, degli artt. 24, comma 1, e 111, comma 2, della Costituzione, che in particolare fissano il principio del diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti davanti ad un giudice terzo ed imparziale nell'ambito del giusto processo (Corte cost. n.305/2002).

Secondo la dottrina, il processo non deve essere una «cerimonia», un «rito» fine a se stesso, bensì un iter che trova la sua giustificazione nella funzione della progressiva elaborazione e formazione del provvedimento giudiziale, informata al principio del contraddittorio.

Nel «giusto processo», pertanto, le diverse garanzie afferenti al processo ottengono un sistematico coordinamento e vengono rese omogenee ed interdipententi nelle loro concretizzazioni applicative. (Trocker, 2020, 344).

Allo stesso tempo, un utilizzo distorto del diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto volto al perseguimento di scopi che non si conciliano con la finalità della garanzia costituzionale e con l'esigenza di coordinamento reciproco fra gli interessi costituzionalmente protetti, ha spinto la dottrina a parlare di «abuso del processo» o «processo abusivo» (Comoglio, 315).

L'assistenza giudiziaria ai non abbienti

Elemento imprescindibile affinché il diritto alla tutela giurisdizionale sia effettivamente inviolabile e tutelato nei confronti di chiunque sia titolare di una posizione giuridica riconosciuta dall'ordinamento è la possibilità, innanzi tutto economica, di affrontare le spese di giudizio.

Tutti devono essere messi nelle condizioni di agire o difendersi adeguatamente in giudizio senza che l'onerosità del processo possa costituire un ostacolo nei confronti dei soggetti non abbienti.

L'art. 24, comma 3, pertanto, afferma che sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.

Detti istituti sono stati oggetto di modifiche e sviluppi nel tempo.

Fino agli anni Settanta, il legislatore ha fatto fronte all'esigenza di garantire il patrocinio legale anche nei confronti di chi non fosse nelle condizioni di affrontarne gli oneri economici attraverso l'istituto del gratuito patrocinio, consistente nell'obbligo imposto agli avvocati di assistere gratuitamente i soggetti assegnati loro da apposite commissioni.

La l. n. 533/1973, in particolare l'art. 11, ha introdotto, invece, il diverso istituto del patrocinio a spese dello Stato, cercando così di porre rimedio ad evidenti limiti del precedente istituto relativamente alla concreta efficacia della difesa tecnica garantita, a causa della gratuità della stessa, ed ai rigorosi limiti di ammissibilità, che ne rendevano assai difficoltoso l'ottenimento.

L'applicazione dell'istituto, in un primo momento limitata alle controversie di lavoro e in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, è stata poi man mano estesa ai procedimenti penali e ai giudizi civili relativi all'esercizio dell'azione per il risarcimento del danno e le restituzioni derivanti da reato.

Con l'emanazione del c.d. T.U. sulle spese di giustizia, d.P.R. n. 115/2002, l'evoluzione dell'istituto è stata portata a compimento, prevedendosene, all'art. 74, la generalizzata applicabilità in favore del cittadino non abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria, nonché in ambito civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate.

Anche in questo caso, la Corte costituzionale si è impegnata, nel tempo, affinché fosse garantito l'accesso più ampio possibile a detto istituto.

Innanzi tutto, chiarendo che per accedere al rimedio del gratuito patrocinio non occorre essere poveri, ma più semplicemente non essere in grado di sopportare il costo di un processo (Corte cost. n.41/1972).

Inoltre, affermando l'irrilevanza, ai fini dell'accesso all'istituto, dei motivi che hanno portato l'imputato nello stato di non abbienza.

Secondo il giudice delle leggi, infatti, la garanzia del terzo comma dell'art. 24 Cost. è collegata allo stato di «non abbienza» del soggetto senza alcuna ulteriore qualificazione e quindi prescinde dal suo carattere incolpevole o (eventualmente) colpevole.

Tale indifferenza delle ragioni dello stato di non abbienza è coerente con il riconoscimento del diritto di azione in giudizio sancito dal primo comma dell'art. 24 Cost., di cui la garanzia del terzo comma costituisce necessario corollario.

Si tratta di valori costituzionali che non hanno una portata strettamente soggettiva, ma sottendono un più ampio interesse generale, soprattutto nel caso di patrocinio in materia penale per la difesa dell'imputato (che è la fattispecie presa in considerazione dal giudice rimettente); ed infatti soltanto se all'imputato non abbiente, ancorché tale non incolpevolmente, siano assicurati i mezzi per difendersi trova ordinata esplicazione la potestà punitiva statuale.

Sotto questo profilo il carattere primario di tali valori costituzionali, inerenti al diritto di azione ed al diritto di difesa, trascende l'ambito strettamente individuale della tutela di diritti ed interessi legittimi dei singoli e rende piena ragione dell'irrilevanza – nel comma 3 dell'art. 24 Cost. – del fatto che lo stato di non abbienza possa eventualmente non essere incolpevole, senza per ciò solo far venir meno il beneficio del patrocinio a spese dello Stato (Corte cost. n. 144/1992).

Va segnalata, infine, una recentissima sentenza con cui la Corte costituzionale ha giudicato illegittimo l'art. 79, comma 2, del T.U. sulle spese di giustizia nella parte in cui non consente al cittadino di uno Stato non aderente all'Unione europea di presentare, a pena di inammissibilità, una dichiarazione sostitutiva di certificazione sui redditi prodotti all'estero, qualora dimostri – provando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo correttezza e diligenza – l'impossibilità di produrre la richiesta documentazione.

Secondo il giudice delle leggi, infatti, una previsione che fa gravare sull'istante il rischio della impossibilità di produrre una specifica prova documentale richiesta per ottenere il godimento del patrocinio a spese dello Stato contrasta con gli artt. 3,24 e 113 Cost.; essa, infatti, impedisce – a chi è in una condizione di non abbienza – l'effettività dell'accesso alla giustizia, con conseguente sacrificio del nucleo intangibile del diritto alla tutela giurisdizionale.

Nella pronuncia, si evidenzia come il patrocinio a spese dello Stato serve a rimuovere, in armonia con l'art. 3, secondo comma, Cost. le difficoltà di ordine economico che possono opporsi al concreto esercizio del diritto di difesa, assicurando l'effettività del diritto ad agire e a difendersi in giudizio, che il secondo comma del medesimo art. 24 Cost. espressamente qualifica come diritto inviolabile.

Allo stesso tempo, tuttavia, la natura inviolabile del diritto ad accedere ad una tutela effettiva, ai sensi dell'art. 24, comma 3, Cost., non lo sottrae al bilanciamento di interessi che, per effetto della scarsità delle risorse, si rende necessario rispetto alla molteplicità dei diritti che ambiscono alla medesima tutela.

È, pertanto, cruciale l'individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia (Corte cost. n.157/2021).

Anche la dottrina ha sottolineato, innanzi tutto, che il concetto di non abbienza non va considerato in senso assoluto o in un senso genericamente sociale, dovendosi determinare in relazione alla possibilità di accedere alla tutela giudiziaria dei propri diritti ed interessi legittimi. Tale concetto, pertanto, ha carattere essenzialmente relativo e trovi i termini di riferimento nella condizione economica del soggetto e nell'onerosità del processo.

Si è, peraltro, evidenziato che, sebbene l'ambito della garanzia sembri a prima vista limitato all'attività strettamente giudiziale, dovendo testualmente garantire i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione, secondo una lettura più ampia del terzo comma dell'art. 24 della Costituzione, la non abbienza potrebbe avere rilevanza anche rispetto all'attività stragiudiziale. Mentre i primi due commi della norma hanno carattere specificamente processuale, infatti, il terzo risponde alla preoccupazione più ampia di rimuovere gli ostacoli di natura economica e sociale che di fatto impediscono l'effettivo godimento dei diritti (Bartole, Bin, 237-238).

La riparazione degli errori giudiziari

La riparazione degli errori giudiziari, riconosciuta dal quarto ed ultimo comma dell'art. 24, appare come una diretta esplicazione dell'inviolabilità del diritto alla tutela giurisdizionale.

La norma, dunque, dopo aver riconosciuto il diritto di accesso al giudice ed all'ottenimento di una decisione giurisdizionale, tutela anche il diritto a che il provvedimento giudiziario sia privo di errori.

In particolare, il quarto comma prevede che sia la legge ordinaria a determinare le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari, demandando in questo modo al legislatore di occuparsi di disciplinare i presupposti e l'iter procedurale per accedere all'istituto in caso di accertati errori giudiziari.

La norma costituzionale, pertanto, afferma il precetto costituzionale mentre la legge ordinaria si occupa di disciplinarne gli aspetti procedurali.

Pur essendo il riferimento agli errori giudiziari piuttosto generico, esso viene comunemente ricondotto all'ambito penalistico, ovvero al diritto alla riparazione pecuniaria per le conseguenze pregiudizievoli derivanti da un'ingiusta condanna per effetto di una sentenza penale, in particolare in caso di ingiusta detenzione.

D'altra parte, in ambito civilistico non esiste una previsione specifica che consente di porre rimedio al danno cagionato da un atto ingiusto ma lecito, essendo comunque necessaria una condotta dolosa o gravemente colposa del giudice.

In tal senso, mentre la copertura a livello costituzionale del diritto ad una riparazione per ingiusta detenzione comminata con una sentenza è pacificamente riconosciuta ai sensi dell'art. 24, comma 4, l'applicazione dell'istituto alla ingiusta carcerazione preventiva è stata, nel tempo, oggetto di interpretazioni contrastanti.

In particolare, la modifica dell'art. 571 c.p.p. per effetto della l. n. 504/1960, che aveva limitato il riconoscimento del diritto al ristoro pecuniario per le vittime di condanne ingiuste, escludendo così le ipotesi di ingiusta carcerazione preventiva, era stata oggetto di sindacato da parte della Corte costituzionale, la quale aveva fatto salva la discrezionalità del legislatore nel determinare le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

L'attuale art. 314 c.p.p., invece, prevede espressamente che chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave.

Nonostante il riconoscimento a livello normativo dell'applicabilità dell'istituto anche alla custodia cautelare, la Corte costituzionale ne ha ulteriormente ampliato l'applicazione, dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 314 c.p.p. nella parte in cui non prevede che chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile ha diritto a un'equa riparazione per la detenzione subita anche a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per la custodia cautelare. Lo stesso diritto, inoltre, deve essere riconosciuto al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insussistenti le condizioni per la convalida.

Secondo il giudice delle leggi, infatti, la diversità della situazione di chi abbia subito detenzione a causa di una misura cautelare rispetto a quella di chi sia stato colpito da un provvedimento di arresto o fermo non è tale da giustificare un trattamento così discriminatorio, al punto che la prima situazione sia ritenuta meritevole di equa riparazione e la seconda, pur se ricorrano presupposti analoghi, venga invece dal legislatore completamente ignorata.

La provvisorietà, che contraddistingue i poteri di intervento del pubblico ministero e della polizia giudiziaria sulla libertà personale, è valsa ad attribuire all'arresto e al fermo la denominazione di “precautele”, ma è indubitabile, secondo la Corte costituzionale, almeno sul piano degli effetti, la loro natura custodiale così che l'esecuzione del provvedimento provvisorio sostanzialmente realizza una forma tipica di custodia, che non può non postulare, rispetto alle altre misure restrittive, identità di regime riparatorio.

L'esigenza di una piena equiparazione delle “precautele” alle misure detentive è d'altronde comprovata dall'art. 297, comma 1, c.p.p., il quale prevede che “gli effetti della custodia cautelare decorrono dal momento della cattura, dell'arresto o del fermo”.

Se si considera che, in base a questa disposizione, il periodo di arresto o fermo è ritenuto computabile nella durata della custodia riparabile quando il giudice in sede di convalida abbia disposto la prosecuzione dello status detentionis applicando una misura cautelare personale, mentre non sorge alcun diritto alla riparazione nel caso in cui all'udienza di convalida non segua alcuna misura cautelare restrittiva, emerge con nettezza di contorni un ulteriore profilo di disparità di trattamento e, insieme, di irragionevolezza, anch'esso censurabile alla luce dell'art. 3 della Costituzione (Corte cost. n.109/1999).

Nonostante tradizionalmente si interpreti l'istituto della riparazione degli errori giudiziari come volta all'ottenimento di un indennizzo economico, si è rilevato che, secondo una lettura sia letterale che sistematica della norma in questione, anche la rimozione dell'atto giurisdizionale ingiusto integrerebbe una forma di riparazione.

Pertanto, l'art. 24, comma 4, darebbe origine a due norme eterogenee: l'una riguardante il sistema costituzionale delle impugnazioni straordinarie, che prescrive al legislatore di predisporre un rimedio impugnatorio tale da accertare l'ingiustizia della sentenza definitiva, e l'altra concernente l'istituto della riparazione in senso stretto, relativa all'obbligo di prevedere strumenti idonei a indennizzare il danno subito per effetto della sentenza viziata da un errore giudiziario.

Sarebbe, dunque, erroneo pensare che la disposizione in esame prescriva solo l'impugnazione straordinaria diretta ad accertare errori indennizzabili e, per converso, che tutti gli errori riscontrati attraverso l'impugnazione straordinaria debbano essere oggetto di ristoro pecuniario: sarà il legislatore a fissare le condizioni e gli ambiti di applicazione dei due diversi istituti (Bartole, Bin, 242-243).

Bibliografia

Bartole, Roberto Bin, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008; Comoglio, La garanzia costituzionale dell'azione ed il processo civile, Padova, 1970; Police, in Bifulco, Celotto, Olivetti, Commentario alla Costituzione, I, Padova, 2006; Trocker, Processo civile e costituzione: problemi di diritto tedesco e italiano, Milano, 1974; Trocker, Tutela giurisdizionale e giusto processo: scritti in memoria di Franco Cipriani, Napoli, 2020.

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