Decreto legislativo - 30/03/2001 - n. 165 art. 45 - Trattamento economico (Art. 49 del d.lgs n. 29 del 1993, come sostituito dall'art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1993)1Trattamento economico (Art. 49 del d.lgs n. 29 del 1993, come sostituito dall'art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1993)1 1. Il trattamento economico fondamentale ed accessorio fatto salvo quanto previsto all'articolo 40, commi 3-ter e 3-quater, e all'articolo 47-bis, comma 1, è definito dai contratti collettivi 2. 2. Le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all'articolo 2, comma 2, parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi. 3. I contratti collettivi definiscono, in coerenza con le disposizioni legislative vigenti, trattamenti economici accessori collegati: a) alla performance individuale; b) alla performance organizzativa con riferimento all'amministrazione nel suo complesso e alle unita' organizzative o aree di responsabilita' in cui si articola l'amministrazione; c) all'effettivo svolgimento di attivita' particolarmente disagiate ovvero pericolose o dannose per la salute3. 3-bis. Per premiare il merito e il miglioramento della performance dei dipendenti, ai sensi delle vigenti disposizioni di legge, sono destinate, compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, apposite risorse nell'ambito di quelle previste per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro4. 4. I dirigenti sono responsabili dell'attribuzione dei trattamenti economici accessori. 5. Le funzioni ed i relativi trattamenti economici accessori del personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri, per i servizi che si prestano all'estero presso le rappresentanze diplomatiche, gli uffici consolari e le istituzioni culturali e scolastiche, sono disciplinati, limitatamente al periodo di servizio ivi prestato, dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché dalle altre pertinenti normative di settore del Ministero degli affari esteri. [1] Per una deroga vedi l'articolo 13, comma 3, del D.L. 9 giugno 2021, n. 80, convertito con modificazioni dalla Legge 6 agosto 2021, n. 113 e l'articolo 2, comma 1, dell'O.P.C.M. 6 settembre 2023, n. 1020. [2] Comma sostituito dall'articolo 57, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. [3] Comma sostituito dall'articolo 57, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. [4] Comma inserito dall'articolo 57, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. InquadramentoIl rapporto di pubblico impiego ha carattere sinallagmatico, sicché, nell'ambito di tale rapporto, il diritto al trattamento economico matura insieme alla prestazione dell'attività lavorativa in favore dell'amministrazione. La nozione di retribuzione comprende, in generale, il complesso degli emolumenti che il dipendente riceve come corrispettivo della prestazione. Essendo composta da varie voci retributive, tale nozione ha una latitudine maggiormente comprensiva dello stipendio, che indica l'emolumento periodico ricevuto dal dipendente pubblico come corrispettivo principale per la sua prestazione. Nel rapporto di pubblico impiego, la disciplina del trattamento economico ha carattere rigido, non derogabile in virtù di scelte gestionali dei dirigenti preposti alle diverse strutture o per effetto di prassi applicative nei singoli uffici. Detto principio, che ha codificazione risalente all'art. 33, comma 1, del Testo unico n. 3/1957, è stato in prosieguo ribadito dall'art. 11, comma 2, della legge quadro sul pubblico impiego n. 93/1983 e infine dall'art. 45 del d.lgs. n. 165/2001. Esso demanda alla contrattazione collettiva la determinazione del trattamento economico, fondamentale ed accessorio, dei pubblici dipendenti. La norma è coerente con quanto stabilito dall'art. 2, comma 3 del decreto 165, secondo cui l'attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali. L'art. 45, dunque, riconosce a favore dei contratti collettivi una riserva di competenza, temprata dai nuovi meccanismi di determinazione unilaterale del trattamento economico introdotti dalla riforma Brunetta del 2009 (per le ipotesi di tutela delle retribuzioni, di cui all'art. 47-bis, o di ritardo nel rinnovo dei contratti integrativi di ui all'art. 40, comma 3-ter). Il principio di parità di trattamento contrattuale.Il comma 2 dell'art. 45 dispone che «le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all'art. 2, comma 2, parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi». La norma sancisce il fondamentale principio della parità di trattamento contrattuale, che implica l'obbligo per il datore di lavoro pubblico di applicare a tutti i propri dipendenti, senza distinzione alcuna, la regolamentazione del rapporto prevista dalla contrattazione collettiva. In tal senso deve escludersi che l'amministrazione debba (o anche possa) correggere le pattuizioni collettive per assicurare una uguaglianza di trattamento in esse non prevista, poiché ciò ridonderebbe in una chiara violazione della medesima. Il dato si riconnette al tema dell'efficacia erga omnes dei contratti collettivi nel pubblico impiego, unitamente al disposto degli artt. 40, comma 4, e 2, comma 3, del decreto n. 165 (statuenti rispettivamente: «le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrativi dalla data della sottoscrizione definitiva e ne assicurano l'osservanza nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti» e «i contratti individuali devono conformarsi ai principi di cui all'art. 45, comma 2») (Treu, 19; Boscati). Sul punto Corte cost., n. 309/1997 ha, a suo tempo, rilevato che «l'applicazione del contratto collettivo deriva non già da una generalizzata previsione di obbligatorietà di questo, bensì dal dovere gravante di osservare gli impegni assunti con la sottoscrizione dei contratti collettivi. Tale meccanismo non realizza, dunque, quell'efficacia ‘erga omnes' conferita dall'art. 39, comma quarto, Cost. ai contratti stipulati dalle associazioni sindacali in possesso di determinate caratteristiche, ma si colloca sul distinto piano delle conseguenze che derivano, per un verso, dal vincolo di conformarsi imposto alle amministrazioni, e, per l'altro, dal vincolo che avvince il contratto individuale al contratto collettivo. D'altra parte, la forza cogente che si produce nei confronti delle pubbliche amministrazioni costituisce, a sua volta, la premessa per realizzare la garanzia della parità di trattamento contrattuale. [...] Sul versante della posizione soggettiva del dipendente è, poi, agevole osservare come quest'ultimo rinviene nel contratto individuale di lavoro che sostituisce ad ogni effetto l'atto di nomina la fonte regolatrice del proprio rapporto: l'obbligo di conformarsi, negozialmente assunto, nasce proprio dal rinvio alla disciplina collettiva contenuto in tale contratto. In altri termini, per effetto della privatizzazione dei rapporti, la prestazione e le condizioni contrattuali della stessa trovano la loro origine, non già in una formale investitura, bensì nell'avere il singolo dipendente accettato che il rapporto di lavoro si instauri (o prosegua) secondo regole definite, almeno in parte, nella sede della contrattazione collettiva». Peraltro, il principio di parità di trattamento nell'ambito dei rapporti di lavoro pubblico vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni in quella sede operate (Trib. Genova sez. lav., n. 267/2009). «Ed infatti, nell'art. 45 del d.lgs. n. 165/2001, accanto all'enunciazione del principio di parità di trattamento viene instituito un limite invalicabile, verso il basso, dei trattamenti retributivi (le amministrazioni garantiscono [..], comunque, trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi) che di fatto devolve completamente il potere di definire i trattamenti economici alla contrattazione collettiva. Il contratto collettivo, quindi, costituisce di per sé un limite per l'amministrazione ma, d'altra parte, nulla vieta in sede di contrattazione collettiva (neanche il predetto art. 45) la determinazione di retribuzioni, a parità di livello, differenti (App. Potenza sez. lav., n. 944/2009; Cass.S.U., n. 16038/2010). Gli Ermellini affermano, inoltre, che le differenze retributive, nonostante l'identità della qualifica, connesse all'applicazione di diversi contratti che si sono succeduti nel tempo, non contrastano con il principio della parità di trattamento, in quanto tale principio non attiene al rapporto tra contratti collettivi (Cass. sez. lav., n. 8141/1999). I trattamenti economici accessori.Secondo il disposto del comma 3 dell'art. 45, i contratti collettivi, oltre al trettamentìto economico fondamentale, definiscono, in coerenza con le disposizioni legislative vigenti, trattamenti economici accessori collegati: a) alla performance individuale; b) alla performance organizzativa con riferimento all'amministrazione nel suo complesso e alle unità organizzative o aree di responsabilità in cui si articola l'amministrazione; c) all'effettivo svolgimento di attività particolarmente disagiate ovvero pericolose o dannose per la salute. Per premiare il merito e il miglioramento della performance dei dipendenti, ai sensi delle vigenti disposizioni di legge, sono destinate, compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, apposite risorse nell'ambito di quelle previste per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro (comma 3-bis). Ulteriore importante principio sancito dal comma 4 dell'art. 45 è, poi, quello che sottolinea che «i dirigenti sono responsabili dell'attribuzione dei trattamenti economici accessori» (cfr. C. Conti, sez. giurisd. Puglia, n. 568/2010). La particolare attenzione ai sistemi di valutazione e di retribuzione ad incentivo rappresenta uno specifico spunto della riforma Brunetta del 2009. È in quella sede che il legislatore ha scolpito una serie di interventi sul trattamento economico accessorio dei pubblici dipendenti, grazie anche alla consapevolezza che la precedente prassi, indulgente nel non differenziare, aveva determinato pericolose propensioni a «comportamenti al ribasso», provocando il trasferimento dei costi della disfunzione e della disorganizzazione amministrativa sulla collettività, con immediato detrimento del principio di buon andamento dell'attività della P.A. La Corte dei Conti ha più volte affermato l'illegittimità della distribuzione a pioggia – agevolata da evanescenti formulazioni dei criteri di valutazione e dalla assenza di una pregnante predeterminazioni di obiettivi e risultati attesi- di risorse finanziarie destinate originariamente alla retribuzione variabile. Tale atto illegittimo è stato ritenuto produttivo di danno ingiusto, ascrivibile a titolo di colpa grave agli amministratori che in tal senso avessero provveduto. Esemplari, ex multis, C. conti sez. II Centr, n. 280/2004 e C. conti sez. giurisd. Abruzzo, n. 239/2006. Dopo la definizione del nuovo quadro legislativo in tema di misurazione, valutazione e trasparenza della performance, il d.lgs. n. 150/2009 ha impiantato un reticolo di norme che scolpiscono il sistema premiale, per rivalorizzare le risorse umane e organizzative delle p.a.. I termini della nuova dimensione della premialità sono compendiati dal comma 1 dell'art. 18 del decreto 150, secondo cui: «le amministrazioni pubbliche promuovono il merito e il miglioramento della performance organizzativa e individuale, anche attraverso l'utilizzo di sistemi premianti selettivi, secondo logiche meritocratiche, nonché valorizzano i dipendenti che conseguono le migliori performance attraverso l'attribuzione selettiva di incentivi sia economici sia di carriera». Trattamenti economici accessori del personale non diplomatico all'estero.Nell'ambito del comma 5 dell'art. 44 trova collocazione anche una particolare regolamentazione riservata alle funzioni ed i relativi trattamenti economici accessori del personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri, per i servizi prestati all'estero presso le rappresentanze diplomatiche, gli uffici consolari e le istituzioni culturali e scolastiche. Per essi non vale la riserva di contrattazione collettiva, ma «sono disciplinati, limitatamente al periodo di servizio ivi prestato, dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché dalle altre pertinenti normative di settore del Ministero degli affari esteri». La ripetizione dell'indebito.Emblematico della difficoltà di comprendere i limiti e le problematiche concernenti l'estensione al lavoro pubblico privatizzato delle regole privatistiche è il tema dell'estensione dell'articolo 2033 c.c. in tema di ripetizione d'indebito. Il tradizionale orientamento interpretativo ha inteso sottolineare che «il recupero di somme indebitamente erogate dalla P.A. ai propri dipendenti ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell'art. 2033 c.c., di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate. La motivazione del provvedimento di recupero di somme indebitamente corrisposte deve ritenersi insita nell'acclaramento della non spettanza degli emolumenti percepiti dal dipendente, senza che occorra una comparazione alcuna tra gli interessi coinvolti (quello pubblico e quello del privato), non vertendosi in ipotesi di interessi sacrificati, se non sotto il limitato aspetto delle esigenze di vita del debitore. In sede di recupero di emolumenti non dovuti da parte della P.A., la eventuale buona fede del percipente non può rappresentare un ostacolo all'esercizio del recupero dell'indebito, neppure quando intervenga a lunga distanza di tempo dall'erogazione delle somme, comportando in capo all'Amministrazione solo l'obbligo di procedere al recupero stesso con modalità tali da non incidere significativamente sulle esigenze di vita del debitore (Cons. St. IV, n. 293/2008). È quindi legittimo l'atto (privo di valenza provvedimentale) che dispone la ripetizione dell'indebito non potendo considerarsi l'interesse del dipendente cui è stata fatta l'indebita erogazione prevalente su quello pubblico, per sua natura sempre attuale e concreto, anche in mancanza di una specifica motivazione (cfr. Cons. St. V, n. 5025/2003). Altra parte della giurisprudenza ha, peraltro, vieppiù evidenziato che, «se è certo che in caso di indebita erogazione di denaro al pubblico dipendente, la buona fede del percipiente non è di ostacolo alla ripetizione degli emolumenti erroneamente corrisposti – attesa la riferita doverosità del rapporto, ai sensi di quanto previsto dall'art. 2043 c.c. – è altrettanto vero che l'eventuale affidamento ingenerato nel percipiente circa la regolarità dei pagamenti di somme successivamente ritenute indebitamente corrisposta comporta l'onere, a carico dell'Amministrazione, di operare il recupero con modalità che non devono essere eccessivamente onerose per il dipendente, al quale deve essere consentito di restituire con opportuna rateizzazione quanto indebitamente corrisposte, in modo da non pregiudicare soverchiamente le esigenze di vita del debitore (Cons. St. VI, n. 3979/2006; T.A.R. Marche I, n. 436/2007; Cons. St. III, n. 2903/2014). Fino ad affermare che «il recupero di somme erroneamente corrisposte dall'Amministrazione a un dipendente non costituisce un atto assolutamente vincolato, dovendo l'Amministrazione medesima verificare se per effetto del recupero il nuovo effettivo importo della retribuzione si riduca ad entità tale da non assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, come imposto dall'art. 36 Cost. L'atto di recupero di somme erroneamente corrisposte dall'Amministrazione a un dipendente contiene per implicito o presuppone l'annullamento in via di autotutela del pregresso provvedimento recante la determinazione della retribuzione in misura maggiore a quella dovuta, il che comporta che l'Amministrazione, al momento dell'annullamento, è tenuta a valutare gli effetti già prodotti dall'atto originario e le situazioni sulle quali ha inciso; pertanto, va ritenuta insufficiente la motivazione del recupero che si limita ad affermare l'intento di arginare un onere finanziario per la P.A. o di osservare la norma che prevede il recupero. L'avvio del procedimento finalizzato alla emissione dell'atto di recupero di somme erroneamente corrisposte dall'Amministrazione a un dipendente deve essere comunicato al dipendente ai sensi dell'art. 7 l. 7 agosto 1990 n. 241. In sede di adozione del provvedimento di recupero di somme erroneamente corrisposte a un dipendente dall'Amministrazione, questa è tenuta a valutare l'affidamento ingenerato nel lavoratore anche in relazione al tempo trascorso dall'originaria liquidazione del trattamento retributivo. Tale provvedimento deve contenere l'analitico conteggio di quanto erogato in più rispetto al dovuto, unitamente all'indicazione puntuale: a) degli atti che hanno costituito occasione di credito da parte della P.A., in relazione a determinate norme di legge; b) dell'epoca in cui è iniziato il non dovuto pagamento e di quella in cui si darà corso al recupero; c) della rateizzazione eventualmente accordata; d) del numero e dell'importo delle singole rate (Cons. St., Ad. plen., n. 11/1993). Una inversione di rotta si è, alfine, registrata con la sentenza CEDU 11 febbraio 2021, n. 4893/2013, Casarin contro Italia, e con la successiva decisione Cons. St. II, n. 5014/2021. Il nuovo indirizzo critica il precedente orientamento sulla assoluta doverosità del recupero, che appare, seppure condivisibile in linea astratta, non suscettibile di applicazione in via automatica, generalizzata e indifferenziata a qualsiasi caso concreto di indebita erogazione, da parte della pubblica amministrazione, di somme ai propri dipendenti. Richiamando il principio di proporzionalità, in buona sostanza, per la Corte Edu occorre effettuare un bilanciamento tra interesse generale ed interesse dell'individuo al rispetto dei propri beni. In genere, infatti, la buona fede dell'accipiens non rileva, in quanto l'art. 2033 c.c., applicabile alla fattispecie, riguarda soltanto, sotto il profilo soggettivo, la restituzione dei frutti e degli interessi, l'interesse pubblico è in re ipsa e non richiede neppure specifica motivazione (sulla «autoevidenza» delle ragioni che impongono l'esercizio dell'autotutela, a protezione di interessi sensibili dell'Amministrazione, v. anche Cons. St., Ad. plen., n. 8/2017), l'Amministrazione non ha alcuna discrezionale facultas agendi e, anzi, il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate configura danno erariale, con il solo temperamento costituito dalla regola per cui le modalità dello stesso non devono essere eccessivamente onerose, in relazione alle esigenze di vita del debitore. Tuttavia, vanno considerate le connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie dedotte in giudizio, avuto riguardo alla natura degli importi richiesti in restituzione, alle cause dell'errore nell'erogazione, al lasso di tempo trascorso tra la stessa e l'emanazione del provvedimento di recupero, all'entità delle somme corrisposte, riferita alle singole mensilità e nel totale determinato dalla relativa sommatoria. In particolare, non può non darsi alcun rilievo alla causa dell'errore, ovvero alla sua imputabilità in via esclusiva alla amministrazione procedente, pur avendo il lavoratore beneficiato dello stesso, inconsapevolmente basando le proprie aspettative di stile di vita sulla acquisita consistenza stipendiale. Ciò a maggior ragione ove l'errore sia da correlare alla complessità della macchina burocratica dalla quale esso è scaturito, o della cornice normativa, che ne ha favorito l'insorgere per mancanza di chiarezza. Se la medesima amministrazione erogante è incorsa in un errore interpretativo, si paleserebbe paradossale pretendere una sorta di consapevolezza intrinseca da parte del dipendente, privandolo comunque, spesso a distanza di anni, di somme che nella loro originaria consistenza mensile erano esigue, ma una volta capitalizzate nella richiesta restitutoria rischiano spesso di generare un effetto distorsivo sull'assetto salariale tutt'affatto trascurabile. In particolare, per gli emolumenti aventi carattere retributivo non occasionale, e dunque corrisposti da una pubblica amministrazione in modo costante e duraturo, senza riserve esplicite, essendosi ingenerato il legittimo affidamento nel dipendente sulla spettanza delle somme, la loro ripetizione (benché dovuta ai sensi delle diposizioni nazionali, essendo stato indebitamente corrisposto) comporterebbe la violazione dell'art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione. In caso invece di voce stipendiale a carattere sporadico, quale, ad esempio, la remunerazione del lavoro straordinario, connotato ontologicamente da estemporaneità, si potrebbe eventualmente giustificare, tenuto conto della sua natura occasionale e isolata, un errore da parte delle autorità per quanto riguarda l'importo da riconoscere agli interessati. I magistrati di Palazzo Spada hanno, dal canto loro, vagliato le disposizioni normative sui pagamenti automatizzati, interpretate nel senso della oggettiva provvisorietà (sì da consentire l'esercizio dello ius poenitendi da parte dell'Amministrazione a prescindere dalla situazione soggettiva del percettore), compatibili con l'art. 1 del Protocollo alla Convenzione, per la lettura datane con riferimento alla materia de qua dalla Corte EDU. Ridette disposizioni si risolvono infatti nella apposizione di una generalizzata riserva di ripetizione, come tale legittimante sempre la sua concreta effettuazione, purché nei limiti temporali prestabiliti. Proprio la previsione di tali limiti temporali costituisce il ricercato punto di equilibrio fra le esigenze di certezza delle proprie risorse da parte del dipendente pubblico e quelle di presidio del procedimento meccanizzato, connotato da maggiore celerità operativa, da parte dell'Amministrazione. Il legislatore, cioè, facendosi carico delle conseguenze giuridiche dell'affidamento della gestione delle erogazioni stipendiali a sistemi automatizzati, in qualche modo anticipando i particolarmente attuali dibattiti sull'intelligenza artificiale e le conseguenze in termini di responsabilità di eventuali distorsioni applicative ascrivibili alla macchina, ha cautelativamente disciplinato le conseguenze delle correzioni dei relativi esiti, onerando l'operatore, tuttavia, di effettuare i controlli entro un termine ragionevole fissato in un anno. Infine, Cass., sez. lav., ord., n. 40004/2021 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2033 c.c. per violazione degli art. 11 e 117 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo 1 Cedu, come interpretato dalla Corte Edu, nella parte in cui, in caso di indebito retributivo erogato da un ente pubblico e di legittimo affidamento del percipiente alla definitività dell'attribuzione, consente un'ingerenza non proporzionata nel diritto dell'individuo al rispetto dei suoi beni. La Cassazione, inoltre, ha evidenziato come la «buona fede» menzionata dall'art. 2033 c.c. sia concetto differente dal «legittimo affidamento» del dipendente alla definitività dell'attribuzione di cui all'art. 1 Protocollo 1 Cedu, interpretato dalla stessa Corte Edu, in quanto quest'ultimo è fondato sul concorso di plurime circostanze (tra le quali rientra anche la stessa buona fede). BibliografiaBoscati, La specialità del lavoro pubblico, in lavoropubblicheamministrazioni.it, 2018; Treu, La contrattazione collettiva nel pubblico impiego: ambiti e struttura, in Dir. lav. relazioni ind., 1994, 15. |