Decreto legislativo - 30/03/2001 - n. 165 art. 3 - Personale in regime di diritto pubblico1 (Art. 2, commi 4 e 5 del d.lgs n. 29 del 1993, come sostituiti dall'art. 2 del d.lgs n. 546 del 1993 e successivamente modificati dall'art. 2, comma 2 del d.lgs n. 80 del 1998)Personale in regime di diritto pubblico1 (Art. 2, commi 4 e 5 del d.lgs n. 29 del 1993, come sostituiti dall'art. 2 del d.lgs n. 546 del 1993 e successivamente modificati dall'art. 2, comma 2 del d.lgs n. 80 del 1998) 1. In deroga all'art. 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall'articolo 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287 2. 1-bis. In deroga all'articolo 2, commi 2 e 3, il rapporto di impiego del personale, anche di livello dirigenziale, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, esclusi il personale volontario previsto dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 2 novembre 2000, n. 362, e il personale volontario di leva, è disciplinato in regime di diritto pubblico secondo autonome disposizioni ordinamentali3 4. 1-ter. In deroga all'articolo 2, commi 2 e 3, il personale della carriera dirigenziale penitenziaria è disciplinato dal rispettivo ordinamento 56. 2. Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato, resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all'articolo 33 della Costituzione ed agli articoli 6 e seguenti della legge 9 maggio 1989, n. 168, e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all'articolo 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 78. [1] A norma dell'articolo 103, comma 5, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla Legge 24 aprile 2020, n. 27, i termini dei procedimenti disciplinari del personale delle amministrazioni di cui al presente articolo, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data, sono sospesi fino alla data del 15 aprile 2020. [2] A norma dell'articolo 2, comma 35, della legge 22 dicembre 2008, n. 203, dalla data di presentazione del disegno di legge finanziaria decorrono le trattative per il rinnovo dei contratti del personale di cui al presente comma. Per l'applicazione del presente comma vedi anche l'articolo 1, comma 684 della Legge 27 dicembre 2017, n. 205. [3] Comma inserito dall'articolo 1 della legge 30 settembre 2004, n. 252. [4] A norma dell'articolo 2, comma 35, della legge 22 dicembre 2008, n. 203, dalla data di presentazione del disegno di legge finanziaria decorrono le trattative per il rinnovo dei contratti del personale di cui al presente comma. [5] Comma inserito dall'articolo 2 della legge 27 luglio 2005, n. 154. [6] A norma dell'articolo 2, comma 35, della legge 22 dicembre 2008, n. 203, dalla data di presentazione del disegno di legge finanziaria decorrono le trattative per il rinnovo dei contratti del personale di cui al presente comma. [7] Vedi l'articolo 2-septies del D.L. 26 aprile 2005, n. 63, l'articolo 1, comma 186, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 , l' articolo 1, comma 576, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, l' articolo 3, comma 146, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e l'articolo 69, comma 1, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, come modificato dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in sede di conversione, l'articolo 1, comma 682 della Legge 27 dicembre 2017, n. 205 e da ultimo l'articolo 1, comma 29, della Legge 30 dicembre 2023, n. 213. [8] Comma modificato dall'articolo 22, comma 16, del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75. InquadramentoL'articolo 3 del d.lgs. n. 165/2001 individua, con la tecnica della elencazione e tipizzazione, alcune categorie di pubblici dipendenti sottratte, in via di eccezione, alla «privatizzazione» del lavoro pubblico. Per esse non opera la generale riforma delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro, che resta conformato «dai rispettivi ordinamenti», sfuggendo, altresì, al generale trasferimento della giurisdizione al g.o.. Il legislatore ha così consentito la sopravvivenza di normative di settore ispirate al tradizionale regime di diritto pubblico, in deroga al processo di contrattualizzazione e alla tendenziale riconduzione del lavoro alle dipendenze della P.A. alla normativa di diritto comune e alle fonti privatistiche, sanciti dall'art. 2 del decreto 165. L'elencazione comprende: – magistrati ordinari, amministrativi e contabili; anche i magistrati militari sono comunque implicitamente esclusi dalla «privatizzazione», stante l'evidente omogeneità di funzioni e profili rispetto alle altre magistrature; – avvocati e procuratori dello Stato; – personale militare e delle forze di polizia; – personale delle carriere diplomatica e prefettizia; – dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dal d.lgs. C.p.S. 691/1947 (risparmio, funzioni creditizia e valutaria), e dalle leggi nn. 281/1985 (tutela del risparmio, valori mobiliari) e 287/1990 (tutela della concorrenza e del mercato); si tratta delle principali Authority: Banca d'Italia, CONSOB e Autorità garante della concorrenza e del mercato; – personale, anche di livello dirigenziale, del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco (volontari esclusi); – personale della carriera dirigenziale penitenziaria; – professori e ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato. Il quadro complessivo delle esclusioni.Solitamente, la dottrina rimarca che l'art. 3 del decreto n. 165 delimita l'ambito soggettivo (categorie di pubblici dipendenti) di applicabilità della riforma del pubblico impiego, mentre l'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 riguarda, invece, l'ambito oggettivo (amministrazioni destinatarie). Tale affermazione non appare, tuttavia, del tutto corretta. Per un verso – a differenza dell'art. 26 della l. n. 93/1983, che individuava le categorie di personale escluse dall'applicazione della legge quadro sul pubblico impiego, in massima parte ricalcate dal d.lgs. n. 29/1993 – l'esclusione di cui all'art. 3 non riguarda il disposto del d.lgs. n. 165/2001 in toto ma soltanto la parte attinente alle fonti del rapporto di impiego (più la devoluzione delle controversie al g.o.). Risultano, quindi, di regola, generalmente applicabili le norme del decreto n. 165/2001 (es. quelle sull'organizzazione degli uffici) che «non siano connesse strutturalmente con la privatizzazione della fonte di disciplina del rapporto, o derogate da norme speciali contenute negli ordinamenti settoriali di tali categorie». È questa la ragione per cui numerose norme del d.lgs. n. 165/2001 si preoccupano di escludere espressamente talune delle categorie di dipendenti di cui all'art. 3 dall'applicazione di specifiche disposizioni attinenti ad aspetti e materie, squisitamente organizzative, non «contrattualizzate». Così, ad es. per l'articolazione delle qualifiche dirigenziali o il regime degli incarichi o per la responsabilità dirigenziale (cfr. gli artt. 15, comma 1, 19, comma 12, 20 e 21, comma 3, d.lgs. n. 165/2001) (Tursi, 321). Per altro verso, l'art. 3 adotta, in taluni casi, proprio il criterio della dipendenza da una determinata categoria di amministrazioni pubbliche per determinare l'esclusione dalla privatizzazione. È il caso dei dipendenti di alcune Authority. Da notare che la formula utilizzata in tale occasione dalla legge è tutt'altro che limpida. In luogo di una chiara indicazione nominativa degli enti esclusi si è, infatti, utilizzato il rinvio a materie da ricostruite sulla base di un elenco di provvedimenti legislativi. Cass. S.U. , n. 27893/2005 ha precisato che nel pubblico impiego non privatizzato rientrano sia tutte le categorie indicate dall'art. 3 d.lgs. n. 165/2001 che, parimenti, le categorie di personale che sono escluse dalla privatizzazione anche in forza di altre fonti di legge – diverse quindi dal decreto n. 165 – che possono estendere il perimetro della «non contrattualizzazione» (cfr. anche Cass. S.U., n. 13446/2005). Tutte ipotesi legislativamente tassative (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano I, n. 1182/2006; T.A.R. Veneto I, n. 5607/2002).L'elenco di cui all'articolo 3 costituirebbe, quindi, più che un numerus clausus, il perno di un vero e proprio ‘catalogo aperto' idoneo a ricomprendere tutto il personale in regime di diritto pubblico. Lo stesso Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) nel definire il campo della giurisdizione esclusiva del g.a. fa riferimento, con la lettera i) dell'art. 133, semplicemente alle «controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico». Il personale delle Authority Proprio il terreno delle Authority ha rappresentato un banco di prova delle difficoltà di definire in concreto il personale sottratto alla privatizzazione. Per tali organismi il legislatore ha finito per selezionare, di volta in volta, i casi in cui «l'elevato tasso di tecnicità e l'autonomia dal potere esecutivo non possono non riflettersi anche sul momento conformativo del rapporto di lavoro del personale» (Cass. S.U., ord. n. 27896/2005). Partendo dagli enti espressamente elencati dal comma 1 dell'art. 3, si può rilevare che le principali funzioni della Banca d'Italia e delle altre due Authority – CONSOB e AGCOM – sono dirette ad assicurare la stabilità dei mercati, requisito indispensabile per la tutela e lo sviluppo dell'economia, garantendo una governance fondata sui principi di autonomia e di indipendenza» (cfr. Cass. S.U., n. 14667/2003). Successivamente all'adozione del decreto n. 29/1993, si sono aggiunte ulteriori indicazioni normative che hanno statuito, con formulazioni a volte foriere di difficoltà interpretative, l'esclusione dalla contrattualizzazione dei dipendenti di altri organismi indipendenti. Così, secondo la ricostruzione operata da Cons. St. VI, n. 1128/2005, «l'art. 2 della l. n. 481/1995, istitutiva delle Autorità per i servizi di pubblica utilità, dispone al comma 28 che alle Autorità non si applicano le disposizioni di cui al d.lgs.. 3 febbraio 1993, n. 29. Tale previsione, contenuta nella l. n. 481/1995, volta a sottrarre alla privatizzazione il rapporto di impiego alle dipendenze delle Autorità per i servizi di pubblica utilità, ha il suo precedente nell'art. 2, quarto comma, del d.lgs. n. 29/1993, che a sua volta sottrae alla privatizzazione il rapporto di lavoro alle dipendenze di altre Autorità indipendenti, e, in particolare, della Consob (l. 4 giugno 1985, n. 281), della Banca d'Italia (d.lgs.C.P.S. 17 luglio 1947, n. 691), dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (l. n. 287/1990). In tale quadro, si colloca poi il richiamo operato dalla l. n. 249/1997 alla l. n. 481/1995. Dalla lettura combinata dell'art. 2, quarto comma, del d.lgs.. n.29/1993, dell'art. 2, comma 28, della l. n. 481/1995, dell'art. 1, comma 21, della l. n. 249/1997, risulta chiaro l'intento del legislatore di sottrarre al d.lgs. n. 29/1993, e dunque alla privatizzazione e al conseguente mutamento della giurisdizione, i rapporti di lavoro alle dipendenze di svariate Autorità indipendenti, munite di un proprio ruolo del personale, e, in particolare: a) Banca d'Italia; b) – Consob; c) – Autorità garante della concorrenza e del mercato; d) – Autorità per i servizi di pubblica utilità; e) – Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Tale quadro normativo ha una sua razionalità perché il legislatore ha inteso escludere dalla privatizzazione il rapporto di impiego con talune importanti Autorità indipendenti, in considerazione della particolare peculiarità delle funzioni pubbliche svolte dalle stesse e dunque dai loro dipendenti». Cons. St. VI, n. 2336/2004 ha, a sua volta, enunciato che «l'art. 5, ult. comma, della l. n. 576/1982, come modificato dall'art. 4, 14° comma, d.lgs. n. 373/1998, dispone che all'ISVAP/IVASS non si applicano le disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni, salvo quelle espressamente richiamate nello stesso comma, tra le quali non figurano le norme concernenti la struttura del rapporto di impiego o la sua tutela. E la norma anzidetta risulta pienamente coerente con quanto disposto dall'art. 20, 1° comma, L. n. 576 cit., secondo cui la fonte di disciplina del rapporto di impiego con l'ISVAP è costituita da un atto normativo di competenza del Consiglio dell'Istituto, e non già dal contratto collettivo come è per gli altri pubblici dipendenti ai sensi dell'art. 2 d.lgs. n. 29/1993. In definitiva, poiché il rapporto di impiego con l'ISVAP non è stato attratto nel regime della «privatizzazione» il nesso che nel vigente ordinamento del pubblico impiego intercorre tra assetto della giurisdizione e natura del rapporto giustifica pienamente l'attribuzione al giudice amministrativo delle controversie concernenti il personale dell'ISVAP, come espressamente sancito con il d.lgs. n. 373/1998». In tema si segnala anche Cons. St. VI, n. 384/2015, dove si precisa che «la mancata, espressa menzione del personale dell'ISVAP/IVASS nell'ambito del ‘catalogo' di cui all'articolo 3 del decreto legislativo n. 165, cit. non impedisce in alcun modo l'inclusione di tale personale nell'ambito di quello in regime di diritto pubblico di cui al medesimo articolo 3, «ben potendo ciò essere stabilito da altre fonti legislative, con effetto ampliativo della categoria». Ancora, T.A.R. Lazio (Roma) II bis, n. 3037I/2013 ha evidenziato che «i dipendenti della Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP) sono esclusi dal regime c.d. di privatizzazione, essendo il loro rapporto di lavoro disciplinato dall'ordinamento dell'Istituto e non dal contratto collettivo come per gli altri dipendenti pubblici; pertanto, rientrando i suddetti impiegati nelle categorie di personale di cui all'art. 3 T.U. 30 marzo 2001 n. 165, le controversie concernenti il loro rapporto di lavoro sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo». Cass. S.U ., ord. n. 24185/2009 rimarca, invece, che «con riferimento al rapporto lavorativo alle dipendenze del Garante per la protezione dei dati personali, le relative controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, non rientrando tale Amministrazione tra quelle previste dall'art. 3 del decreto n. 165 e non contenendo la normativa di settore alcuna specifica contraria disposizione». Più di recente, il legislatore ha statuito, con l'articolo 52-quater del d.l. n. 50/2017, che «l'Autorità nazionale anticorruzione definisce, con propri regolamenti, la propria organizzazione, il proprio funzionamento e l'ordinamento giuridico ed economico del proprio personale secondo i princìpi contenuti nella l. 14 novembre 1995, n. 481». Anche il successivo Regolamento sull'ordinamento giuridico ed economico del personale, approvato dall'ANAC il 9 gennaio 2019, rinvia, per quanto non disciplinato dallo stesso, alle norme, se applicabili, riguardanti lo stato giuridico dei dipendenti dell'AGCM e, in quanto necessario per le specifiche esigenze funzionali ed organizzative dell'Autorità e in quanto compatibili, a quelle relative al pubblico impiego (cfr. l'art. 2). Si è così realizzato il radicale mutamento della natura giuridica del rapporto di lavoro dei dipendenti ANAC da un regime privatistico a un regime pubblicistico, rimesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in virtù della nuova disciplina recata dall'art. 52-quater del d.l. 24 aprile 2017, n. 50 e del rinvio ai principi contenuti nella l. 14 novembre 1995, n. 481. Ciò, secondo Cons. St. sez. atti norm, parere n. 506/2019, «pur in assenza di un formale inserimento dell'ANAC nelle eccezioni al regime generale di diritto privato previste nell'art. 3 del d.lvo n. 165 del 2001». La peculiare posizione dei dipendenti di Corte Costituzionale, Camere e Presidenza della Repubblica. Nel sistema si rinviene anche un ulteriore deroga alla privatizzazione, assimilata alle esclusioni previste dall'art. 3 in commento, che riguarda i dipendenti di alcuni organi costituzionali, da sempre oggetto di una regolamentazione propria e specifica: la Presidenza della Repubblica, la Corte Costituzionale e le due Camere. Per essi, l'esclusione dall'ambito della riforma del pubblico impiego discende dalla peculiare autonomia regolamentare, che non ammette intromissioni dalla legge, riconosciuta agli organi presso cui si dispiega la loro attività lavorativa. Tali regolamenti, infatti, godono per loro stessa natura, di uno status sovranormativo. Sotto il profilo giurisdizionale, ne consegue l'istituto dell'autodichia, la tradizionale potestà di autogiurisdizione esercitata dai predetti organi costituzionali dello Stato per risolvere le controversie insorgenti con il personale dipendente. L'istituto dell'autodichia. Già Cass. S.U., n. 317/1999, sulla scia di Corte cost. n. 154/1985, rimarcava che «le controversie inerenti al rapporto di lavoro del personale della Camera esulano dalla cognizione sia del giudice ordinario che del giudice amministrativo, in quanto spettano all'esclusiva cognizione della Camera medesima e dei suoi organi». La c.d. giurisdizione domestica si sostanzia nell'istituzione di organi che, con carattere di eccezionalità, risolvono il contenzioso interno tra i soggetti appartenenti all'ordinamento speciale che l'autonomia e l'indipendenza degli organi costituzionali esprime. Tale autonomia si manifesta, infatti, sotto forma sia di autosufficienza normativa, o autarchia, sia di speciali garanzie, quali l'autodichia, in modo da determinare che ciascuno organo, nel relativo ambito di attribuzioni, sia formalmente ed effettivamente superiorem non recognoscens. Ciò vale solo ai fini del libero esercizio delle attribuzioni costituzionali proprie di tali organi. La Suprema Corte di Cassazione, nel negare che l'autodichia sia prerogativa necessariamente connessa alla natura costituzionale di un determinato organo, ha riconosciuto il fondamento costituzionale indiretto dell'autodichia nelle controversie di impiego dei dipendenti della Camera e del Senato, in quanto desumibile dai regolamenti di cui essi si sono dotati nell'esercizio del potere regolamentare loro attribuito dall'art. 64 Cost. Stesse conclusioni valgono anche per i dipendenti della Corte Costituzionale, mentre più dubbio è apparso il riconoscimento dell'autodichia per la Presidenza della Repubblica, che pure, più di recente, ha provveduto ad istituire organismi di giurisdizione intern (cfr. Cons. St. IV, n. 178/1997). In tema, Cass. S.U., ord. n. 6529/2010, sottolinea che, per quanto non siano completamente assimilabili ai regolamenti delle Camere, anche i regolamenti approvati dal Presidente della Repubblica debbono considerarsi sorretti da un implicito fondamento costituzionale: «dall'esercizio di tale potestà regolamentare deriva dunque la «possibilità» di riservare alla propria giurisdizione domestica le controversie insorte nella costituzione e nella gestione del rapporto con il personale necessario per il perseguimento dei propri fini, una possibilità che il pregresso decreto del 1980 confessava non essere stata utilizzata (prevedendosi solo un procedimento interno non ostativo del ricorso al giudice) e che invece i decreti del 1996 hanno pienamente utilizzato, creando un doppio grado di cognizione con specifica regolamentazione». Nei decreti del Presidente della Repubblica n. 81 del 24 luglio 1996 e n. 89 del 9 ottobre 1996, l'indipendenza della giurisdizione domestica è stata garantita da elementi qualificanti quali le modalità di designazione dei giudici, la professionalità, la durata del mandato e l'adeguatezza delle garanzie contro pressioni esterne. L'effettività e la congruità dell'autodichia della Presidenza della Repubblica sono valorizzate dalla scelta di costituire i collegi in prevalenza (in primo grado) o in via esclusiva (in appello) con personale totalmente esterno all'organo costituzionale e legato con il Segretariato generale da un rapporto puramente onorario. Tale opzione rende la giurisdizione domestica del Quirinale impermeabile alle criticità evidenziate dalla Corte EDU con la sentenza del 28 aprile 2009 (nella causa Savino e altri c. Italia) in relazione alla mancanza di imparzialità oggettiva e di indipendenza della Sezione giurisdizionale dell'Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, interamente costituita da membri dello stesso organo competente per regolare le principali questioni amministrative. La successiva riforma dell'art. 12 del Regolamento della Camera dei deputati e dei regolamenti minori, unitamente all'istituzione del Collegio d'appello, rappresenta l'indice sintomatico di una rivisitazione degli interna corporis degli organi costituzionali alla luce della giurisprudenza della Corte EDU (Petrillo). La Consulta, con le sentenze nn. 213 e 262 del 2017, precisa che le ragioni dell'autonomia costituzionale declinate sul piano auto-organizzativo consentono di riconoscere agli organi costituzionali «la potestà di approvare norme relative al rapporto di lavoro con i propri dipendenti» nel presupposto che «il buon esercizio delle alte funzioni costituzionali attribuite agli organi in questione dipende in misura decisiva dalle modalità con le quali è selezionato, normativamente disciplinato, organizzato e gestito il personale». Vincolo dell'autonomia costituzionale è valorizzare la funzionalità degli apparati serventi, in quanto strumentali alla piena e libera espressione delle funzioni costituzionali dell'organo titolare. Il Giudice delle leggi ha inteso, comunque, presupporre che gli organi della giurisdizione domestica garantiscano una tutela non inferiore qualitativamente a quella che può essere garantita dagli organi giurisdizionali dello Stato quanto alla piena applicazione di tutti i parametri che concorrono a sostanziare il principio di legalità come grande regola dello Stato di diritto (Dickmann). Caratteri del regime di diritto pubblico.In via generale, gli ordinamenti delle categorie escluse dalla contrattualizzazione risultano conformati secondo un regime di diritto pubblico, nel quale l'amministrazione agisce in posizione di supremazia rispetto al lavoratore. I dipendenti in regime di diritto pubblico non stipulano un contratto costitutivo di un rapporto obbligatorio, ma accettano un provvedimento attributivo di status, mentre le situazioni soggettive, di vantaggio e di svantaggio, derivanti dall'appartenenza ai suddetti corpi, categorie e carriere, sono definite dalla legge, o, sulla base di essa, da altre fonti unilaterali; prestano ancora giuramento al momento della assunzione in servizio (davanti al capo dell'ufficio o ad un suo delegato, cfr. il d.P.R. 19 aprile 2001, n. 253, «Regolamento di semplificazione del procedimento relativo al giuramento di fedeltà»); gli atti con cui l'amministrazione gestisce il rapporto di servizio, o lo modifica o lo estingue, hanno la qualità di provvedimenti amministrativi, rispetto ai quali il dipendente può ottenere tutela presso il giudice amministrativo (giurisdizione esclusiva, comprensiva dei diritti patrimoniali connessi). Per il comparto sicurezza – difesa (forze dell'ordine e militari), la carriera diplomatica, la carriera prefettizia, il Corpo nazionale dei Vigili del fuoco e il personale della carriera dirigenziale penitenziaria il legislatore ha previsto procedimenti negoziali di settore (che hanno sede presso il Dipartimento della funzione pubblica) per la definizione di accordi, tra la parte pubblica e le organizzazioni sindacali/organi di rappresentanza militare dei dipendenti, relativi ad alcuni aspetti, economici e giuridici, del rapporto di impiego. Gli accordi sono recepiti successivamente in d.P.R., secondo il modello di delegificazione già sperimentato dalla legge quadro del 1983, per attenuare la rigidità e unilateralità della disciplina di determinati profili del rapporto. Anche gli istituti normativi ed economici che riguardano il rapporto d'impiego alle dipendenze della Banca d'Italia sono oggetto di contrattazione con le organizzazioni sindacali operanti presso la Banca stessa. I relativi accordi sindacali sono sottoposti al Consiglio superiore della Banca; ove approvati, essi sono trasfusi in apposito Regolamento del personale, che disciplina in modo esaustivo il rapporto di lavoro dei dipendenti. Da ricordare, inoltre, l'articolo 19 del cd. Collegato lavoro, la l. 4 novembre 2010, n. 183, che ha dato espresso riconoscimento normativo della specificità delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, con riguardo all'attività svolta e allo stato giuridico. Essa si giustifica per la peculiarità dei compiti, degli obblighi, delle limitazioni personali e dei requisiti di efficienza operativa richiesti per le funzioni di tutela delle istituzioni e di difesa dell'ordine e della sicurezza interna ed esterna del Paese. Da ciò anche il riscontro dei correlati impieghi in attività usuranti. Tale specificità è riconosciuta ai fini della definizione degli ordinamenti, delle carriere, dei contenuti del rapporto di impiego nonché della tutela economica, pensionistica e previdenziale. Esclusioni in via transitoria e ripublicizzazioni.Caratteri peculiari presenta la mancata contrattualizzazione del rapporto di lavoro di professori e ricercatori universitari, che segna il congelamento sine die della situazione previgente alla generale riforma del pubblico impiego, in attesa di uno specifico intervento. Il comma 2 dell'articolo 3 del d.lgs. n. 165/2001 opera, infatti, il rinvio della revisione del rapporto d'impiego di tale categoria, che dunque rimane solo temporaneamente disciplinato dalla normativa speciale vigente, in attesa di una riforma organica ispirata ai principi dell'autonomia universitaria e a quelli posti alla base della revisione del pubblico impiego. I docenti universitari restano, così, distinti dalle figure di funzionari pubblici di cui al comma 1 dell'art. 3, che sono, invece, esclusi tout court dalla privatizzazione e non solo in via transitoria (Raimondi). A tutelare l'esplicazione della libertà costituzionale d'insegnamento e ricerca (e quindi del pluralismo culturale; cfr. l'art. 33 Cost.) continuano a provvedere le garanzie di status assicurate dalla vigente normativa legislativa: l'inamovibilità; l'esonero dall'obbligo di giuramento, il diritto di godere di periodi da dedicare in esclusiva alla ricerca, ecc. È stato, a suo tempo, rimarcato che «l'autonomia accademica si traduce in definitiva nel diritto di ogni singola università a governarsi liberamente attraverso i suoi organi e, soprattutto, attraverso il corpo docenti nelle sue varie articolazioni, così risolvendosi nel potere di autodeterminazione del corpo accademico» (Corte cost. n. 1017/1988). Totalmente diversa l'esperienza degli appartenenti al Corpo nazionale dei Vigili del fuoco e alla carriera dirigenziale penitenziaria. Essi hanno sperimentato un viaggio di andata e ritorno dalla contrattualizzazione, essendo stati oggetto di un processo di ripublicizzazione. Per i primi, il passaggio del rapporto di lavoro dal regime privatizzato ad un'autonoma disciplina di diritto pubblico, realizzato con il d.lgs. 13 ottobre 2005, n. 217, è stato dettato – come esplicitato dalla relazione illustrativa al disegno di legge delega – «non solo ad incentivare l'operatività e l'efficienza del personale, ma anche a rendere più evidente e percepibile la funzione di sicurezza civile che il Corpo nazionale dei Vigili del fuoco è chiamato ad espletare nella società, quale parte integrante e sostanziale del sistema di sicurezza statuale diretto al conseguimento degli obiettivi di incolumità delle persone e di tutela dei beni e dell'ambiente». È, invece, una rinnovata consapevolezza del rilievo e della specificità dell'attività già svolta del personale dirigente e direttivo penitenziario – legato al soddisfacimento di esigenze primarie quali la prevenzione, la sicurezza sociale e la riabilitazione delle persone soggette a restrizioni della libertà personale – che ha dato vita ad nuova, specifica carriera di livello dirigenziale in regime di diritto pubblico, (anche al fine di recuperare maggiore coerenza e omogeneità rispetto alla componente della Polizia penitenziaria). Ratio della riserva di regime di diritto pubblico.La ratio delle esclusioni dalla contrattualizzazione viene identificata – in via di principio – nella peculiarità di determinate funzioni pubbliche, di contro alla tendenziale privatizzazione di tutti i rapporti di lavoro con le P.A. espressione di mera erogazione di servizi (Tursi, 357). Si tratta di valutazioni prettamente oggettive, in virtù delle quali il legislatore ha ritenuto non opportuna una riforma delle fonti di disciplina dei relativi rapporti di pubblico impiego che trasformasse in parti contrattuali taluni agenti pubblici. Essi sono così rimasti sottoposti ad un regime di diritto pubblico, opzione giustificata dalla particolare natura – in termini di legame con la sovranità, di autoritatività o di autonomia – delle funzioni svolte dalle categorie interessate, cui sono demandate le tradizionali competences regaliennes dello Stato, in settori che assicurano le condizioni basilari per la vita di una collettività organizzata, rivolte al raggiungimento dei fini essenziali e tradizionali dello Stato (difesa, affari esteri, sicurezza, giustizia, moneta e regolazione dei mercati, ovvero il cd. service public ancien) (Carinci, 192; Panariello, 1077). Partendo dai magistrati, essi sono destinatari di una normativa peculiare e separata rispetto a tutti gli altri dipendenti statali, in funzione di precise considerazioni di ordine costituzionale. La ratio ispiratrice di tale disciplina è, infatti, quella di rimarcare il carattere di «sovranità diffusa» proprio della magistratura, nonché le garanzie di autonomia e indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato che la caratterizzano strutturalmente. La particolare investitura costituzionale della magistratura si traduce, ai fini dello stato giuridico ed economico, in una riserva assoluta di legge (cfr. gli artt. 102, comma 1, e 108, comma 1, Cost.). Tra le garanzie approntate spiccano l'inamovibilità e la riserva della competenza dei provvedimenti concernenti lo status dei magistrati ai rispettivi organi di autogoverno, attraverso provvedimenti amministrativi sindacabili avanti al giudice amministrativo. In sostanza, la rilevanza costituzionale della funzione giurisdizionale si trasfonde nella prevalenza del rapporto d'ufficio su quello di servizio, rendendo incompatibile un sistema delle fonti di disciplina imperniato sul contratto individuale e collettivo. Invero, l'ultimo comma dell'art. 276 del r.d. n. 12/1941 (Ordinamento giudiziario) stabilisce che “ai magistrati dell'ordine giudiziario sono applicabili le disposizioni generali relative agli impiegati civili dello Stato, solo in quanto non sono contrarie al presente ordinamento e ai relativi regolamenti”. È questa, evidentemente, una “norma di chiusura” che, per un verso, conferma, anche sul piano positivo e sistematico che i magistrati, pur con la peculiarità del loro status, rientrano nella ampia categoria dei dipendenti (funzionari) pubblici e che, per altro verso, proprio in ragione di tale appartenenza alla predetta categoria consente l'applicazione nei loro confronti di tutte le disposizioni generali del pubblico impiego, eccezion fatta per quelle che siano in contrasto ovvero incompatibili con la peculiarità del loro status. Mere logiche di status appaiono, invece, aver prevalso nel dettare la mancata privatizzazione del rapporto di lavoro di avvocati e procuratori dello Stato, per i quali non appare porsi un problema di indipendenza ed autonomia, se non in senso meramente «tecnico», dal potere esecutivo. Parte della dottrina ha, comunque, desunto una particolare posizione «dell'Avvocatura dello Stato, collocata alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in posizione di particolare autonomia rispetto alla burocrazia statale in senso stretto, paragonabile a quella del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti nelle loro funzioni non giurisdizionali, e dotata di un proprio organo di autogoverno [il Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato – C.A.P.S.] competente all'adozione delle deliberazioni in materia di stato giuridico» (Tursi, 350). Sul punto si segnala Cons. St. V, n. 6184/2018, laddove puntualizza che l'Avvocatura dello Stato è un organo di collaborazione contenziosa e consultiva di tutte le Amministrazioni dello Stato (e non solo), con caratterizzazione tecnico-professionale. L'autonomia organizzativa dell'Avvocatura dello Stato è, quindi connessa alle sue attribuzioni tecnico-legali e alla sua caratterizzazione. Il C.A.P.S., piuttosto che un organo di governo autonomo appare un organo essenzialmente rappresentativo del corpo di questo personale professionale altamente specializzato: organo con finalità di coordinamento organizzativo, dalle funzioni eminentemente consultive, in vista e in orientamento del governo dell'Avvocatura medesima che compete al suo vertice. Per le forze di polizia e i militari, invece, la mancata privatizzazione è direttamente connessa alla coessenzialità del regime pubblicistico con la struttura autoritativa del rapporto. Al c.d. «comparto sicurezza-difesa» appartengono la Polizia di Stato, il Corpo della polizia penitenziaria (forze di polizia ad ordinamento civile), i Carabinieri, la Guardia di finanza (forze di polizia ad ordinamento militare) e le Forze armate. L'espressione «comparto» non indica qui una delle aree di contrattazione collettiva del pubblico impiego “privatizzato” cui fa riferimento il d.lgs. n. 165/2001, bensì quella particolare area omogenea di regolamentazione pubblicistica disegnata dal d.lgs. n. 195/1995 per il personale che svolge attività nel campo della sicurezza interna ed esterna. Le funzioni svolte da queste particolari categorie sono ascrivibili alla tutela dell'ordine pubblico e alla difesa della sicurezza nazionale e si riflettono in vario modo sullo status dei dipendenti. Esse giustificano una intensa soggezione all'autorità e alla disciplina, in quanto la specialità degli ordinamenti in questione si identifica in toto con la massima vicinanza al nucleo autoritativo dei poteri pubblici, che ne fa il braccio armato dell'autorità. Ciò risalta soprattutto per le Forze armate, i Carabinieri e la Guardia di finanza, per il loro carattere militare, ma sotto molteplici aspetti riguarda anche il personale delle forze di polizia ad ordinamento civile. Nonostante la differenza di ordinamento, quest'ultime restano pur sempre militarmente organizzate: l'appartenenza «a corpi a struttura fortemente gerarchizzata, il dovere di indossare una divisa nello svolgimento del servizio, la rigidità dell'apparato disciplinare e sanzionatorio e la presenza di altri obblighi che possono finanche riflettersi sulla vita privata, sono le manifestazioni più evidenti di tale specialità» (Di Rollo, 686). L'attuale assetto delle Forze di polizia, caratterizzato dal pluralismo dei Corpi, risponde, peraltro, a un principio d'ispirazione democratica (frazionamento delle funzioni di sicurezza pubblica e di repressione dei reati). La legge di delega n. 124 del 2015 e i successivi decreti delegati, in primis il d.lgs. n. 177 del 2016, hanno dato luogo a una riorganizzazione assai complessa, incidente in profondità sulle strutture e sul personale di tutte le forze di polizia. In tale contesto, è stato contemplato l'assorbimento del Corpo forestale – già forza di polizia ad ordinamento civile – “in altra forza di polizia”, individuata dal citato decreto legislativo nell'Arma dei Carabinieri. Riguardo tale vicenda, Corte cost. n. 170/2019 ha dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sulla soppressione del Corpo forestale, giacché la riforma «lascia al personale che scelga di non transitare nell'Arma dei carabinieri e che non venga successivamente assegnato alle altre forze di polizia, al Corpo nazionale dei vigili del fuoco o al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, la facoltà di richiedere il passaggio, in contingente limitato, ad altra amministrazione statale. Solo in via residuale – e assolutamente fisiologica – è previsto il collocamento “in disponibilità” del personale che non abbia optato per la riassegnazione all'amministrazione individuata». Manca, quindi, un meccanismo coercitivo al passaggio dallo status civile a quello militare (quest'ultimo implicante l'assunzione di obblighi e doveri e la limitazione di alcune prerogative che la Costituzione garantisce ad altri cittadini). Giova ulteriormente segnalare che militari e forze di polizia (tutte) sono accomunati dal divieto di sciopero. Prima dell'entrata in vigore della l. 1 aprile 1981, n. 121, non era consentito al personale di alcuna forza di polizia (e tanto meno ai militari) neppure di costituire associazioni sindacali o farne parte. Con la l. n. 121/1981, che ha smilitarizzato l'amministrazione della pubblica sicurezza, si è, invece, riconosciuto agli appartenenti alla Polizia di Stato, e a seguire alle altre forze di polizia ad ordinamento civile, il diritto di associazione sindacale. I sindacati «interni» della Polizia di Stato devono essere formati, diretti e rappresentati esclusivamente da appartenenti al corpo, i quali, a loro volta, non possono iscriversi a sindacati diversi. Ai sindacati di polizia è, inoltre, interdetto di affiliarsi o avere relazioni con altre associazioni sindacali (cfr. gli artt. 82 e 83 l. n. 121/1981). Il riconoscimento di uno spazio per l'attività sindacale ha segnato una importante differenza tra le forze di polizia ad ordinamento civile e quelle ad ordinamento militare e le Forze armate. Riguardo ad esse, la l. n. 382/1978 ha introdotto nell'ordinamento militare gli organismi della Rappresentanza Militare, distinti su tre livelli, centrale (il Co.Ce.R.), intermedio (i Co.I.R.) e di base (i Co.Ba.R.). La composizione di tali Consigli è il risultato di elezioni aperte a tutti i militari, secondo un procedimento basato su livelli successivi, fino al Consiglio Centrale di Rappresentanza. Quest'ultimo è suddiviso in Sezioni, una per ciascuna Forza Armata e Corpo di Polizia ad ordinamento militare. Tale modello si presenta come di tipo fondamentalmente corporativo, istituuendo una sede istituzionale interna alle Forze armate. Il d.lgs. n. 195/1995 ha, poi, stabilito le procedure per addivenire all'emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica8 che disciplinano i contenuti del rapporto di impiego del personale delle Forze di Polizia, anche ad ordinamento militare e delle Forze Armate. Nella fase di concertazione, è prevista la partecipazione dei rappresentanti delle singole sezioni del Co.Ce.R, di modo da consentire la rappresentanza di tutte le categorie interessate (Trotta, 54). Da segnalare, poi, la sentenza Corte cost. n. 120/2018, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 11 della CEDU e all'art. 5 della Carta sociale europea – l'art. 1475, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui vietava la costituzione di associazioni professionali a carattere sindacale da parte dei militari, non è risultata compatibile con gli evocati parametri interposti, poiché essi riconoscono agli Stati contraenti la facoltà di introdurre restrizioni all'esercizio dei diritti sindacali dei militari, ma non di negare in radice il diritto di costituire associazioni a carattere sindacale. Per la Consulta, il riconoscimento ai militari del diritto di associazione sindacale va accompagnato dalla previsione di condizioni e limiti al suo esercizio, al qual fine possono già trovare applicazione: 1) quanto alla costituzione delle associazioni sindacali, l'art. 1475, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010, alla cui stregua gli statuti delle associazioni vanno sottoposti agli organi competenti e vagliati verificandone la conformità ai principi di democraticità dell'ordinamento delle Forze armate (art. 52 Cost.) e di neutralità dei Corpi deputati alla difesa della Patria (artt. 97 e 98 Cost.); 2) quanto ai limiti dell'azione sindacale, il divieto per i militari di esercizio del diritto di sciopero (art. 40 Cost.) (cfr. anche Cons. St. I, n. 1079/2020). Passando a diplomatici e prefettizi, due dei più prestigiosi corpi dello Stato, l'esonero dalla privatizzazione è risultato giustificato con il peso della peculiare funzione di rappresentanza generale del Governo, esercitata dai funzionari delle due carriere sul territorio nazionale e all'estero. Difatti, sia le Prefetture- UTG, quali uffici provinciali del Governo, che le Ambasciate e i Consolati, all'estero, non sono solo strumenti per l'esercizio delle specifiche competenze affidate ai due Ministeri, ma anche terminali serventi l'attività dell'intero Governo. Un dato comune a queste due categorie va individuato anche nel loro carattere di professioni pubbliche articolate sul principio dell'unitarietà giuridica, economica e funzionale, con un'articolazione in qualifiche tutte dirigenziali. Il permanere della giurisdizione del giudice amministrativo.La ratio del permanere della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le categorie in regime di diritto pubblico risiede nella accennata natura tipicamente autoritativa dei poteri esercitati dalla P.A. nella gestione di tali rapporti. Essa è stata implementata dall'attribuzione al giudice amministrativo anche delle controversie attinenti ai diritti patrimoniali connessi. Si veda il comma 4 dell'art. 63 d.lgs. n. 165/2001 e l'art. 133, lett. i) del d.lgs. n. 104/2010, Codice del processo amministrativo. Seconda la prevalente interpretazione, al fine del riparto della giurisdizione rispetto a una domanda di risarcimento danni proposta da un pubblico dipendente in regime di diritto pubblico, assume valore determinante l'accertamento della natura contrattuale o extracontrattuale dell'azione di responsabilità in concreto proposta, dovendosi ritenere, sulla base del “petitum” sostanziale, proposta la seconda, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, tutte le volte in cui la domanda sia fondata sull'asserita violazione dei doveri che incombono alla P.A. verso la generalità dei cittadini, e la prima, con conseguente devoluzione della controversia al giudice amministrativo, quando la domanda di risarcimento sia espressamente fondata sull'inosservanza di una violazione degli obblighi o doveri funzionali inerenti al rapporto di impiego, ad esempio gli obblighi connessi all'art. 2087 cod. civ., sulla tutela delle condizioni di lavoro (cfr. Cass. S.U. , n. 18623/2008 e n. 5785/2008). Si veda, al riguardo, Cons. St. VI, n. 1739/2008: «la risarcibilità del danno derivante da mobbing può essere rivendicata dal dipendente interessato in due modi: in via extra-contrattuale, a norma dell'art. 2043 c.c. (con conseguente giurisdizione dell'A.G.O.), ovvero in via contrattuale, tenuto conto dell'obbligo del datore di lavoro, riconducibile all'art. 2087 cod. civ., di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. In questo secondo caso sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo (ove si tratti di rapporto di p.i. non privatizzato), nella misura strettamente riconducibile ad un contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro. Ai fini della configurabilità del mobbing per violazione degli obblighi contrattuali occorre che le inadempienze siano ravvisabili in comportamenti, anche se omissivi, contraddittori o dilatori dell'Amministrazione, ovvero in atti posti in essere in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative, o ancora nella reiterazione di atti, anche affetti da mere irregolarità formali, ma dal cui insieme emerga una grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno all'immagine professionale e alla salute del dipendente» (cfr. anche Cons. St. V, n. 2515/2008; Cons. St. IV, 12 settembre 2007, n. 4825; Cass.S.U., n. 2507/2006; Cass.S.U., 14 dicembre 1999, n. 900). Per un secondo indirizzo, rientrano nella giurisdizione amministrativa esclusiva tutte le controversie patrimoniali inerenti al rapporto d'impiego, senza distinguere tra responsabilità contrattuale o aquiliana. Non vi sarebbe, quindi, la necessità di determinare il riparto di giurisdizione in relazione alla natura dell'azione contrattuale o non, fatta valere in giudizio. A supporto di tale tesi l'assunto secondo cui è sufficiente un comportamento illegittimo del datore di lavoro e quindi un collegamento non occasionale tra la causa petendi e il rapporto d'impiego (cfr. T.A.R. Lazio, Roma II-bis, n. 2072/2008 e Cons. St. V, n. 5414/2002). BibliografiaCarinci, La riforma del pubblico impiego, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, 1, 192; Di Rollo, Le relazioni sindacali nel comparto sicurezza, in Il lavoro nelle p.a., 1999, 686; Dickmann, La Corte costituzionale consolida l'autodichia degli organi costituzionali, in federalismi.it, 2017; Panariello, Commento all'art. 2, comma 4, d.lgs. n. 29/1993, in Corpaci, Rusciano, Zoppoli (a cura di), La riforma dell'organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in Nuove leggi civ., 1999, 5-6, 1077; Petrillo, Autodichia del Quirinale. Nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Ordinanza 17 marzo 2010, n. 6529, in filodiritto.it, 2010; Raimondi, Lo stato giuridico dei professori universitari tra autonomia statutaria e spinte corporative, in diritto.it, 2001; Silvestro, La perimetrazione dell'area sottratta alla privatizzazione del pubblico impiego, in Il nuovo dir. amm, 2013, 4; Trotta, Gli organi di rappresentanza militare: tra tradizione e innovazione, in Rassegna giust. militare, 2019, 5, 54; Tursi, Categorie ed amministrazioni escluse dalla privatizzazione del rapporto di lavoro, in Carinci, D'Antona (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, 2000, I, 321. |