Decreto legislativo - 30/03/2001 - n. 165 art. 5 - Potere di organizzazione (Art. 4 del d.Igs n. 29 del 1993, come sostituito prima dall'art. 3 del d.lgs n. 546 del 1993, successivamente modificato dall'art. 9 del d.lgs n. 396 del 1997, e nuovamente sostituito dall'art. 4 del d.lgs n. 80 del 1998)Potere di organizzazione (Art. 4 del d.Igs n. 29 del 1993, come sostituito prima dall'art. 3 del d.lgs n. 546 del 1993, successivamente modificato dall'art. 9 del d.lgs n. 396 del 1997, e nuovamente sostituito dall'art. 4 del d.lgs n. 80 del 1998) 1. Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l'attuazione dei principi di cui all'articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell'azione amministrativa. 2. Nell'ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all'articolo 2, comma 1, le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, nel rispetto del principio di pari opportunita', e in particolare la direzione e l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli ufficisono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacita' e i poteri del privato datore di lavoro, fatte salve la sola informazione ai sindacati ovvero le ulteriori forme di partecipazione, ove previsti nei contratti di cui all’ articolo 9. [Rientrano, in particolare, nell'esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunita', nonche' la direzione, l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici]1. 3. Gli organismi di controllo interno verificano periodicamente la rispondenza delle determinazioni organizzative ai principi indicati all'articolo 2, comma 1, anche al fine di proporre l'adozione di eventuali interventi correttivi e di fornire elementi per l'adozione delle misure previste nei confronti dei responsabili della gestione. 3-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle Autorita' amministrative indipendenti 2. [1] Comma sostituito dall'articolo 34, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 e successivamente modificato dall'articolo 2, comma 17, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 e dall'articolo 2, comma 1, del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75. [2] Comma inserito dall'articolo 34, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. InquadramentoNel rapporto di pubblico impiego «privatizzato» (rectius, contrattualizzato), la pubblica amministrazione, per dichiarato enunciato normativo (cfr. l'art. 2 del decreto n. 165), si presenta come parte contrattuale e non più come potere-autorità. Ciò si è tradotto in un riassetto complessivo del sistema delle fonti del lavoro pubblico, al cui interno ha trovato spazio anche la distribuzione su due livelli – macro e micro, l'uno sotto l'egida pubblicistica, l'altro privatistica – della disciplina della organizzazione degli uffici, che mantiene carattere unilaterale. Stesso carattere unilaterale è assegnato anche alle complementari misure di gestione dei rapporti di lavoro da parte dei dirigenti. A specificare tali coordinate interviene l'art. 5 del d.lgs. n. 165/2001, che si apre con l'enunciato secondo cui «le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l'attuazione dei princìpi di cui all'articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell'azione amministrativa». Il secondo comma sancisce la qualificazione privatistica dei poteri dei dirigenti inerenti la puntuale organizzazione degli uffici e la gestione delle risorse umane. La norma prevede, in via generale, che, nell'ambito delle leggi e degli atti organizzativi pubblicistici di macro organizzazione, le determinazioni per l'organizzazione degli uffici (cd. micro organizzazione, ossia l'articolazione interna degli uffici dirigenziali di base) e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione (i dirigenti) con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro. Nel nuovo asseto normativo l'esercizio da parte dei dirigenti della capacità di diritto privato, propria del datore di lavoro, è quindi espressione di un potere direttivo che nasce dal contratto costitutivo del rapporto di lavoro. Sulla formulazione dell'articolo in commento sono intervenuti sia la riforma Brunetta (decreto n. 150/2009) che la riforma Madia (decreto n. 75/2017), al fine di rimarcare che: – nelle determinazioni per l'organizzazione degli uffici e nelle misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro, va rispettato il principio di pari opportunità; – nelle prerogative dirigenziali rientrano, in particolare, la direzione e l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici; – a fronte del carattere esclusivo delle determinazioni organizzativo/gestionali della dirigenza, sono fatte salve «la sola informazione ai sindacati ovvero le ulteriori forme di partecipazione» eventualmente previste nei contratti collettivi nazionali (cfr. anche l'art. 9 del decreto n. 165); – le disposizioni dell'articolo 5 d.lgs. n. 165/2001 «si applicano anche alle Autorità amministrative indipendenti». Micro e macro organizzazioneÈ nell'ambito delle riforme Bassanini (decreto n. 80/1998) che ha trovato originaria espressione la diversificazione tra atti organizzativi a livello alto, di natura provvedimentale, assoggettati allo statuto pubblicistico, e interventi organizzativi particolari, di livello «basso». A questi ultimi, non viene espressamente attribuita la qualifica di atto, che potrebbe richiamare la categoria dell'atto amministrativo, ma quella di «determinazione», di natura privatistica e in tutto assimilabili agli atti unilaterali che il datore di lavoro privato assume per l'organizzazione del lavoro nella impresa. Il livello organizzativo della macro-organizzazione (deputato al disegno di strutture, sistemi operativi, stili di leadership e cultura organizzativa) assolve, dal canto suo, una funzione di cornice e guida per le determinazioni afferenti la micro organizzazione. Mentre la macro organizzazione, a valle delle scelte effettuate dal legislatore, è commessa agli organi di governo degli enti, attraverso regolamenti e decreti che giungono fino a disegnare la complessiva struttura degli uffici dirigenziali (cfr. anche l'art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 300/1999), la micro organizzazione rientra nei compiti della dirigenza, attraverso determinazioni degli organi preposti alla gestione, che fissano l'articolazione degli uffici a livello subdirigenziale ed hanno facoltà di emanare specifici regolamenti (di natura privatistica), analoghi ai regolamenti aziendali adottati dalle imprese private. La funzione organizzativa di tali regolamenti è principalmente quella di fornire un supporto normativo alla dirigenza ai fini della standardizzazione dei comportamenti afferenti la gestione delle risorse umane attribuite. Il dettato dell'art. 5, del decreto n. 165, tuttavia, non fornisce alcuna indicazione, come del resto nella sua versione precedente, di criteri che aiutino a tracciare i confini tra ciò che è riferibile alla macroorganizzazione e il punto sino al quale si possa spingere l'esercizio dei poteri privatistici di organizzazione (c.d. micro organizzazione) (Baldassarre, 1013). Il principio di funzionalizzazione.Come sottolineato in dottrina, il diritto positivo, mentre porta ad escludere la necessaria corrispondenza fra la funzionalizzazione all'interesse pubblico e il regime pubblicistico, inteso, quest'ultimo, soprattutto come regime giuridico proprio degli atti e dei provvedimenti amministrativi, «neppure consente di affermare che l'attività organizzativa della pubblica amministrazione sia sottratta al principio di funzionalizzazione e al canone costituzionale dell'imparzialità e del buon andamento. La norma illustrata non pare, poi, nemmeno idonea a supportare la tesi, affacciata da alcuni autori proprio per risolvere il problema della compatibilità tra privatizzazione e funzionalizzazione, che introduce una distinzione tra attività ed atto: mentre l'attività di gestione del personale resterebbe funzionalizzata, non lo sarebbero, invece, i singoli atti in cui essa si manifesta, che verrebbero «privati del loro carattere funzionale»: la disciplina positiva, con molta chiarezza, attribuisce il carattere funzionale non all'attività organizzativa nel suo complesso, ma a ciascuna singola «determinazione organizzativa»». In particolare, con riguardo all'attività di (bassa) organizzazione, esclusa l'applicazione del regime proprio dell'atto e del provvedimento amministrativo per effetto delle espresse qualificazioni privatistiche, l'art. 5, comma 3, d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che «gli organismi di controllo interno verificano periodicamente la rispondenza delle determinazioni organizzative ai principi indicati dall'art. 2, comma 1, anche al fine di proporre l'adozione di eventuali correttivi e di fornire elementi per l'adozione delle misure previste nei confronti dei responsabili della gestione». «L'attività organizzativa, di conseguenza, con la privatizzazione, non perde il carattere funzionale, ma questo rileva diversamente, perché le conseguenze giuridiche di eventuali deviazioni delle determinazioni organizzati rispetto al fine pubblico si sviluppano all'interno dell'amministrazione (all'esterno di essa assumendo invece importanza esclusivamente i vincoli posti dalla legge o dal contratto non nell'interesse pubblico, ma nell'interesse privato di altri soggetti, e in particolare del dipendente): a) il controllo sulla corrispondenza dell'atto (o dell'attività) all'interesse pubblico non è attivato dal titolare di un interesse privato leso dall'atto dell'amministrazione, ma da un organo della stessa amministrazione (servizio di controllo interno); b) le conseguenze giuridiche della deviazione dell'atto (o dell'attività) dal fine pubblico non si sviluppano sul piano della validità e dell'efficacia dello stesso, ma sul piano della responsabilità del funzionario che le adotta; c) tali conseguenze giuridiche sono l'effetto di un accertamento e di una decisione di un organo politico, e non l'effetto di un giudizio e di una pronuncia di un organo giurisdizionale» (Battini, 395). Tale regime giuridico (funzionalizzazione delle decisioni assunte con i poteri del privato datore di lavoro e sua rilevanza interna, soprattutto sul piano della responsabilità dei dirigenti per l'ipotesi di incongruenza con il fine pubblico) è applicabile tanto alle determinazioni di micro organizzazione che alla gestione dei rapporti di lavoro e, in generale, alla complessiva attività di gestione. Sul tema Cass. sez. lav., n. 11589/2003, ha sottolineato che nell'ambito del rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni regolato, dopo la cosiddetta privatizzazione, dalle norme di diritto privato, l'atto del datore di lavoro incidente sulla prestazione lavorativa è un atto paritetico, ancorché espressione del potere di supremazia gerarchica, privo dell'efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo; di conseguenza, il giudice del lavoro ne rileva i vizi secondo le categorie proprie del diritto civile (inesistenza, nullità, annullabilità, inefficacia) per violazione dei diritti, finali o strumentali, derivanti ai lavoratori dalle leggi e dai contratti, nonché per violazione delle regole di correttezza e buona fede che presiedono in generale l'esecuzione di tutti i contratti. I motivi soggettivi rilevano solo in caso di illiceità (artt. 1418 e 1345 c.c.), mentre non sono applicabili né la distinzione tra vizi di legittimità e di merito elaborata dalla giurisprudenza amministrativa, né i vizi di legittimità dell'incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, previsti dall'art. 26, del t.u. 1054/1924 e dagli artt. 2 e 3 della l. 1034/1971. Atteso che la l. 241/1990, sui procedimenti amministrativi, è diretta a regolare in via generale i procedimenti finalizzati alla emanazione di provvedimenti autoritativi da parte delle pubbliche amministrazioni, non può trovare applicazione nel rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni che, dopo la cosiddetta privatizzazione, è caratterizzato da una sostanziale parità tra le parti ed è regolato dalla contrattazione collettiva di settore e dal d.lgs. 165/2001 (cfr. anche Cass. sez. lav., n. 12315/2008). Poteri datoriali dei dirigenti e relazioni sindacali.La riforma Brunetta, nel ridefinire il comma 2 dell'art. 5 del d.lgs. n. 165/2001, in reazione a pratiche sindacali troppo pervasive e lesive delle prerogative dirigenziali, aveva ridotto la relazione tra quest'ultime e l'azione sindacale «alla sola informazione», ove prevista nei contratti nazionali. Nel rinnovato art. 40, comma 1, il legislatore delegato del 2009 ha, altresì, esplicitamente escluso dalla contrattazione collettiva le materie attinenti «all'organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell'articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c), della l. n. 421/1992» (cfr. anche l'art. 2 del decreto 165). Il d.lgs. 75/2017 è intervenuto di nuovo sull'art. 5, includendo, oltre alla «sola informazione», le «ulteriori forme di partecipazione», sempre ove previste nei contratti nazionali, senza ulteriori specificazioni. Sostanzialmente inalterate sono rimaste le materie escluse dalla contrattazione collettiva enunciate dall'art. 40, comma 1, in particolare quelle attinenti all'organizzazione degli uffici. Le materie organizzative restano così escluse dall'ambito negoziale, non diversamente che nella riforma Brunetta, ma sono riammesse forme di partecipazione ulteriori rispetto alla mera informazione. I nuovi CCNL hanno articolato la partecipazione in tre istituti o livelli: informazione, confronto, organismi paritetici di partecipazione. Il termine «confronto» non è nuovo nella tradizione contrattuale pubblica italiana, fin dai CCNL del quadriennio 1998-2001, associato all'istituto della «concertazione» – istituto spesso sconfinato, nell'esperienza applicativa della seconda privatizzazione, in spuria contrattazione. Ciò con conseguenze sul piano: 1) della limitazione sindacale delle prerogative dirigenziali; 2) della deresponsabilizzazione di entrambi gli attori. Ora «l'istituto della concertazione non trova spazio nei nuovi testi contrattuali, mentre il confronto, con le relative materie, sembra delineato in termini abbastanza flessibili e generali, senza una eccessiva proceduralizzazione, tale da potersi rivelare uno strumento effettivamente utile per la gestione partecipata ed efficace delle materie organizzative, senza indebite invasioni di campo. In questo senso, il riequilibrio tra autonomia e responsabilità nei luoghi di lavoro operato dalla riforma Madia trova una conferma ed al tempo stesso un opportuno arricchimento nei testi contrattuali, potenzialmente benefico per il funzionamento dell'intero sistema regolativo. Analoghe considerazioni si possono fare riguardo al secondo strumento previsto da tutti i CCNL in tema di partecipazione, anche qui con formulazione molto simile tra i quattro comparti, salvo poche differenze. Ci si riferisce all'«organismo paritetico per l'innovazione», chiamato a realizzare una «modalità relazionale finalizzata al coinvolgimento partecipativo delle organizzazioni sindacali [...] su tutto ciò che abbia una dimensione progettuale, complessa e sperimentale, di carattere organizzativo» nell'amministrazione o ente. [...] Tutti i contratti fanno riferimento a questo nuovo organismo come veicolo di «relazioni aperte e collaborative», con un raggio di intervento potenzialmente molto ampio, anche se forse un po' vago, che va dall'organizzazione e innovazione, al miglioramento dei servizi, alla promozione della legalità, della qualità del lavoro e del benessere organizzativo, inclusi i piani di formazione, il lavoro agile, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, con la finalità di formulare proposte all'amministrazione o alle parti negoziali della contrattazione integrativa. Non si esclude quindi una contiguità/continuità con la contrattazione, ma i confini sono più demarcati che nella figura e nella prassi della concertazione dell'esperienza precedente. Anche in ragione della composizione paritetica dell'organismo, si tratta di una attività propedeutica e di proposta, rivolta sia all'amministrazione che alle parti negoziali, che spetterà poi all'autonomia di questi soggetti decidere se e come accogliere. Come è stato sottolineato, canali di questo genere sono presenti nel settore privato, e starà alla responsabilità degli attori mostrare se essi possono svolgere una funzione efficace anche nelle pubbliche amministrazioni. Peraltro, tra le attività che sono nella disponibilità di questo organismo, tutti i contratti includono anche la possibilità di svolgere «analisi, indagini e studi» relativi a misure per disincentivare elevati tassi di assenteismo del personale, il che può favorire un approccio non esclusivamente sanzionatorio a questo problema» (Bordogna, 69). Il motivo che ha indotto il legislatore ad affermare in termini espliciti il divieto di «contrattare» i contenuti degli atti dei dirigenti relativi all'organizzazione degli uffici ed alla gestione dei rapporti di lavoro va ritrovato nella prassi, diffusa in molte realtà amministrative, di far precedere l'adozione di tali atti da forme di «consultazione» che, non di rado, si traducevano in una vera e propria «concertazione» con le rappresentanze sindacali. Ovviamente, non si trattava, né ciò sarebbe stato possibile, di una vera e propria contrattazione, ma dell'utilizzo di altre e diverse forme di partecipazione sindacale, coperte dalla formula dell'art. 9 del d.lgs. n. 165/2001 in vigore fino al 2009 («i contratti collettivi nazionali disciplinano i rapporti sindacali e gli istituti di partecipazione anche con riferimento agli atti interni di organizzazione aventi riflessi sul rapporto di lavoro»): ma, nei fatti, spesso si dava luogo ad una condivisione con i rappresentanti dei dipendenti di scelte che, in base alla legge, sarebbero dovute restare nella sfera di responsabilità dei dirigenti. È, appunto, dalla convinzione che si dovesse far fronte, attraverso la fissazione di vincoli normativi, ad una condizione di debolezza della dirigenza – la quale, incalzata dalle pressioni sindacali, rinunciava ad esercitare autonomamente i propri poteri organizzativi e datoriali – che sono scaturite le correzioni apportate dal d.lgs. n. 150/2009 al testo degli artt. 5 e 9 (oltre che dell'art. 40) del d.lgs. n. 165/2001, a loro volta novati dalla riforma Madia, che ha comunque lasciato sostanzialmente inalterato il divieto di contrattare. Attorno alla questione della negoziabilità dei poteri dirigenziali si è giocata, per lungo tempo, la partita delle relazioni sindacali nel pubblico impiego. L'andamento oscillante degli interventi legislativi in materia di partecipazione sindacale è indicativo del fatto che il legislatore ha cercato con difficoltà di trovare un assetto che potesse salvaguardare l'autonomia delle prerogative dirigenziali. Il pregio dell'ultima riforma Madia «è stato quello di non stravolgere l'impianto delineato nel 2009, configurando un sistema di relazioni sindacali aperto sì al coinvolgimento sindacale, ma che al tempo stesso conservasse la rigida linea di confine tra contrattazione e partecipazione, ribadendo l'espressa preclusione di qualsiasi forma di contrattazione nelle materie oggetto di partecipazione sindacale e in quelle riguardanti le prerogative dirigenziali (Cangemi, 190). Questioni applicative.Come evidenziato, l'unificazione normativa tra lavoro pubblico e lavoro privato ha comportato non solo la parità di diritti tra lavoratori pubblici e privati, ma anche la parificazione degli strumenti di gestione del lavoro a disposizione dei dirigenti e quindi l'unificazione normativa dei poteri del datore di lavoro privato o pubblico. Va soggiunto che la privatizzazione è integrale. Non è quindi, condivisibile, in quanto contraddittoria con la ratio unificante che sorregge la privatizzazione, la tesi secondo cui tali atti sarebbero atti privatistici dal punto di vista della natura giuridica ma amministrativi sotto il punto di vista funzionale, con conseguente soggezione ai principi generali della legge n. 241/11990 e sindacabilità giurisdizionale della funzionalità dell'atto all'interesse pubblico. Si deve, invece, convenire che gli atti, singolarmente intesi, non sono più atti amministrativi neanche dal punto di vista funzionale e che di conseguenza non è rilevante l'idoneità al perseguimento dell'interesse pubblico di un atto che, secondo il parametro giuslavoristico, deve invece essere controllato sul diverso piano del rispetto dei diritti assegnati al lavoratore dalle norme del diritto privato e dai principi privatistici di buona fede e divieto dell'abuso. Tali determinazioni non sono, quindi atti amministrativi, nel senso che non è giuridicamente rilevante la loro idoneità al perseguimento dell'interesse pubblico (Caruso, 35). La giurisprudenza è stata chiamata più volte a precisare limiti e caratteri generali delle prerogative datoriali della dirigenza pubblica. Così Trib. Bari, 14 marzo 2003, laddove viene evidenziato che, per delineare, in seno alla disciplina del lavoro privatizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la distinzione tra le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro o le singole determinazioni del datore di lavoro collegate ad un atto organizzativo c.d. “minore”, di competenza dirigenziale, e gli atti amministrativi di alta organizzazione, non conta la denominazione o la veste formale (deliberazione, decreto, ordinanza), o ancora la qualificazione data all'atto dall'amministrazione, ma è necessario stabilire se questo sia emesso “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”, tenendo presente che il mezzo estrinseco di manifestazione delle determinazioni datoriali nel campo pubblico può contenere al tempo stesso atti dell'uno e dell'altro tipo. Cass. sez. lav., n. 5565/2004 rimarca che «a seguito della c.d. privatizzazione del lavoro pubblico, contraddistinta dalla contrattualizzazione della fonte dei rapporti di lavoro e dall'adozione di misure organizzative non espressamente riservate ad atti di diritto pubblico e realizzate mediante atti di diritto privato (art. 5, comma 2, del d.lgs. cit.), deve ritenersi che la conformità a legge del comportamento dell'amministrazione – negli atti e procedimenti di diritto privato posti in essere ai fini della costituzione, gestione e organizzazione dei rapporti di lavoro finalizzati al proseguimento di scopi istituzionali – deve essere valutata esclusivamente secondo gli stessi parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro, secondo una precisa scelta del legislatore, nel senso dell'adozione di moduli privatistici dell'azione amministrativa che la Corte costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost.». Ne discende che «in seguito alla contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, la p.a. adotta le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro per cui non può più adottare unilateralmente modifiche od ancor peggio risoluzioni, rescissioni, revoche del contratto di lavoro, potendo conseguire il suddetto risultato solo con il ricorso all'autorità giudiziaria con gli strumenti del diritto comune (azione di annullamento, di risoluzione, di accertamento della nullità). La posizione equiordinata delle parti introdotta dalla nuova normativa rende inammissibile il ricorso da parte della p.a. a strumenti di autotutela» (Trib. Roma, 4 marzo 2002). In un altro caso di specie, Trib. Bari, ord. 25 marzo 2011, conferma che «nel lavoro pubblico contrattualizzato deve ritenersi inammissibile l'esercizio del potere di autotutela della pubblica amministrazione, quale parte datoriale, trattandosi di prerogativa correlata all'esercizio delle sue funzioni autoritative, ormai incompatibile col paradigma disegnato dal legislatore che le attribuisce i poteri del privato datore di lavoro. Di talché deve ritenersi inammissibile il recesso unilaterale della pubblica amministrazione dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, stipulato a seguito di stabilizzazione, in ragione di una diversa e più restrittiva interpretazione delle norme in materia. Tanto, considerando anche il consolidamento del diritto soggettivo del lavoratore per il considerevole lasso di tempo decorso, nonché l'inapplicabilità retroattiva della legge, cui va assimilata la sua più restrittiva interpretazione». Ancora, si è puntualizzato che «in tema di lavoro pubblico privatizzato, nel cui ambito gli atti di gestione del rapporto di lavoro sono adottati con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro, l'atto con cui l'Amministrazione revochi un incarico (nella specie, di insegnamento a tempo determinato), sul presupposto della nullità dell'atto di conferimento per inosservanza dell'ordine di graduatoria, equivale alla condotta del contraente che non osservi il contratto stipulato ritenendolo inefficace perché affetto da nullità, trattandosi di un comportamento con cui si fa valere l'assenza di un vincolo contrattuale, e non potendo darsi esercizio del potere di autotutela in capo all'Amministrazione datrice di lavoro» (Cass. sez. lav., n. 8328/2010). BibliografiaBaldassarre, La dirigenza pubblica: ruolo, prerogative e rapporto di lavoro nell'evoluzione legislativa, in Le ist. del federalismo, 2009, 5-6, 1003; Battini, Il personale, in Cassaese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo - Diritto amministrativo generale, Milano, 2003, I, 391; Bordogna, Autonomia e responsabilità degli attori: dalla riforma Madia ai contratti collettivi nazionali, in Riv. giur. Lav. e Prev. sociale, 2019, 4, 63; Cangemi, La partecipazione sindacale e la negoziabilità dei poteri dirigenziali nel nuovo sistema di relazioni sindacali, in Lav. nelle p.a., 2019, 2, 180; Caruso, Le riforme e il lavoro pubblico: la ‘legge Madia' e oltre. Miti, retoriche, nostalgie e realtà nell'‘eterno ritorno allo statuto speciale del lavoratore pubblico, in Caruso (a cura di), Il lavoro pubblico a vent'anni dalla scomparsa di Massimo D'Antona, in csdle.lex.unict.it, 2019. |