Decreto legislativo - 19/08/2016 - n. 175 art. 10 - Alienazione di partecipazioni socialiAlienazione di partecipazioni sociali
1. Gli atti deliberativi aventi ad oggetto l'alienazione o la costituzione di vincoli su partecipazioni sociali delle amministrazioni pubbliche sono adottati secondo le modalità di cui all'articolo 7, comma 1. 2. L'alienazione delle partecipazioni è effettuata nel rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione. In casi eccezionali, a seguito di deliberazione motivata dell'organo competente ai sensi del comma 1, che dà analiticamente atto della convenienza economica dell'operazione, con particolare riferimento alla congruità del prezzo di vendita, l'alienazione può essere effettuata mediante negoziazione diretta con un singolo acquirente. E' fatto salvo il diritto di prelazione dei soci eventualmente previsto dalla legge o dallo statuto. 3. La mancanza o invalidità dell'atto deliberativo avente ad oggetto l'alienazione della partecipazione rende inefficace l'atto di alienazione della partecipazione. 4. E' fatta salva la disciplina speciale in materia di alienazione delle partecipazioni dello Stato. InquadramentoL'articolo 10 del d.lgs. n. 175/2016, rubricato «alienazione di partecipazioni sociali», disciplina le operazioni di cessione delle partecipazioni detenute dal socio pubblico nell'ambito di una società partecipata. Nonostante la rubrica dell'articolo faccia riferimento alle sole operazioni di «alienazione», il comma 1, oltre all'alienazione fa riferimento anche alla costituzione di vincoli sulle partecipazioni sociali delle amministrazioni pubbliche. In ogni caso, si ritiene che la norma in esame debba essere interpretata in senso ampio, in modo tale da ricomprendere in essa qualsiasi tipo negoziale che produca l'effetto del trasferimento della titolarità delle partecipazioni pubbliche (Freni, 276). Ambito di applicazione.L'articolo 10 del d.lgs. n. 175/2016 si applica agli atti di alienazione o di costituzione di vincoli su «partecipazioni sociali». La norma in questione deve essere letta in combinato disposto con il precedente articolo 2 del TUSP che, al comma 1, lett. f), definisce la «partecipazione» come la titolarità di rapporti comportanti la qualità di socio in società o la titolarità di strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi. Pertanto, l'art. 10 del TUSP è ritenuto applicabile anche agli strumenti finanziari partecipativi. La cessione di questi ultimi, quindi, dovrà sottostare alla procedura aggravata disciplinata dall'articolo in commento (Freni, 277). Il generico riferimento alle «partecipazioni» operato dalla norma in commento dovrebbe condurre a ritenere comprese nel proprio ambito di applicazione anche quelle indirette. Il che appare confermato dall'art. 1 del TUSP che in relazione all'«oggetto» del decreto si riferisce sia alle partecipazioni dirette che a quelle indirette e dall'art. 24 del TUSP che, con riguardo alla revisione delle partecipazioni, include espressamente anche le partecipazioni indirette. La necessità di applicare la norma in commento anche alle partecipazioni indirette era stata ravvisata anche dalla giurisprudenza precedente all'entrata in vigore del TUSP, la quale aveva ritenuto che alla società controllata da una società strumentale, costituita con il patrimonio di quest'ultima, si applicassero le stesse disposizioni della controllante, al fine di evitare la possibile elusione delle norme in materia di società pubbliche (Cons. St., Ad. plen. n. 17/2011; Id. AVCP parere di precontenzioso n. 42/2010). L'art. 10 del d.lgs. n. 175/2016, invece, non trova applicazione con riferimento alle società quotate, mancando nel testo della disposizione un espresso richiamo a queste ultime che il comma 5 dell'art. 1 del TUSP richiede nella parte in cui dispone che «Le disposizioni del presente decreto si applicano, solo se espressamente previsto, alle società quotate». Ciò si spiega anche in ragione della incompatibilità tra il principio dell'evidenza pubblica cui deve essere tendenzialmente sottoposta l'alienazione della partecipazione societaria ai sensi dell'art. 10, comma 2 del TUSP, con le negoziazioni che avvengono sui mercati regolamentati. La procedura di alienazione delle partecipazioni e l'inefficacia dell'atto di alienazione.L'art. 10, comma 1 del TUSP dispone che gli atti deliberativi di alienazione di partecipazioni o quelli che costituiscono vincoli sulle partecipazioni pubbliche sono adottati secondo le modalità di cui all'art. 7, comma 1 del TUSP. L'art. 10, comma 1 del Testo Unico, quindi, prevede la necessità di far precedere l'alienazione: i) da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (emanato su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze di concerto con i ministri competenti per materia, previa deliberazione del Consiglio dei ministri) in caso di partecipazioni statali; ii) da un provvedimento del competente organo della regione, in caso di partecipazioni regionali; iii) dalla deliberazione del consiglio comunale, in caso di partecipazioni comunali; iv) dalla deliberazione dell'organo amministrativo dell'ente, in tutti gli altri casi di partecipazioni pubbliche (si dovrebbero ricomprendere in tale ultima categoria anche le città metropolitane). L'articolo in commento, invece, non compie nessun rinvio al comma 2 dell'art. 7 del Testo Unico, né tanto meno all'art. 5, comma 1, a sua volta menzionato nell'art. 7 comma 2, in ordine all'obbligo di motivazione analitica di cui la deliberazione deve essere corredata. Sicché, le previsioni recate da queste ultime disposizioni non appaiono comprese nel perimetro applicativo della norma qui commentata. Le operazioni di alienazione o di costituzione di vincoli sulle partecipazioni sociali non sono neppure soggette all'applicazione dei commi 2 e 3 dell'art. 5 del d.lgs. n. 175/2016. Pertanto, per il compimento degli atti previsti dall'art. 10 non è necessaria né la verifica di compatibilità dell'intervento finanziario previsto con le norme dei trattati europei e, in particolare, con la disciplina europea in materia di aiuti di Stato alle imprese (comma 2), né l'adempimento all'obbligo gravante sull'amministrazione di inoltro dell'atto deliberativo ai fini conoscitivi alla Corte dei Conti e all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (comma 3). In ogni caso, è ragionevole ritenere che la deliberazione adottata ai sensi del primo comma dell'art. 10 del Testo Unico, pur non dovendo essere corredata della «analitica motivazione» ex art. 5 del TUSP, debba comunque essere motivata e dare atto delle ragioni sottese alla cessione delle partecipazioni. Ciò in ossequio ai generali principi che regolano l'attività – in particolar modo quella discrezionale – della pubblica amministrazione (Freni, 288). Secondo parte della dottrina, la motivazione può anche consistere in un mero rinvio per relationem al piano di razionalizzazione previsto dall'art. 20 del TUSP o a quello straordinario ai sensi dell'art. 24 del Testo Unico (Bonura, 267 ss.). Il primo comma dell'art. 10 del d.lgs. n. 175/2016 non reca alcun riferimento al regime di pubblicazione della deliberazione relativa alla cessione delle partecipazioni. Ciò nonostante, alcuni commentatori hanno ritenuto comunque applicabile, in via analogica, l'art. 22, comma 1, lett. d-bis) del d.lgs. n. 33/2013, che obbliga la pubblicazione dei «provvedimenti in materia di costituzione di società a partecipazione pubblica, acquisto di partecipazioni in società già costituite, gestione delle partecipazioni pubbliche» e anche quelli di «alienazione di partecipazioni sociali» (Donativi, 8). Il secondo comma dell'art. 10 del TUSP sottopone le operazioni di cessione al «rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione». L'osservanza di questi principi è finalizzata a garantire sia la tutela dell'interesse pubblico alla scelta del miglior contraente, sia il rispetto della concorrenza e del mercato (Bonura, 270). Si è sostenuto che il richiamo dei predetti principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione non equivalga necessariamente all'imposizione delle procedure a evidenza pubblica (Camporesi, 11). Altri studiosi, invece, sono orientati nel prediligere la soluzione opposta, ritenendo che l'applicazione delle procedure di evidenza pubblica rappresenti un principio immanente dell'ordinament (Fimmanò, 13) Il che sarebbe confermato anche dal fatto che l'unica eccezione a tale principio generale è prevista dallo stesso articolo 10, comma 2 del d.lgs. n. 175/2016 in ordine alla possibilità di svolgere una negoziazione diretta con un singolo acquirente (Fittante, 79). Anche la giurisprudenza sul punto si è mostrata divisa. Un primo orientamento ha ritenuto che, anche se non espressamente previsto dall'art. 10 del TUSP, il richiamo ai principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione imponga implicitamente l'obbligo di svolgere le procedure a evidenza pubblica. Al riguardo è stato in particolare osservato che, «sebbene la disciplina in parola non faccia esplicito riferimento a procedure ad evidenza pubblica, ma ai principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, si ritiene che il ricorso alle stesse costituisca un principio immanente del nostro ordinamento giuridico, tenuto anche conto della cornice europea di riferimento e dei principi fondamentali del Trattato a tutela della concorrenza e della par condicio, che di tali procedure costituiscono diretto precipitato» (T.A.R. Veneto, Venezia I, n. 925/2019; C. conti, sez. reg. contr. Lombardia, n. 8/2019PAR; cfr. Cons. giust. amm. Sicilia n. 530/2019; nello stesso senso: T.A.R. Veneto, Venezia I, n. 569/2020). Un secondo orientamento – confermato in alcune pronunce più recenti – ha invece affermato come «la dismissione della partecipazione stessa costituisca atto che i soci pubblici compiono iure privatorum e con il rispetto dei soli principi di non discriminazione e trasparenza e non già delle norme concernenti l'evidenza pubblica» e che «tale opzione ermeneutica è stata seguita dall'art. 10, comma 2, d.lgs. n. 175/2016 [... che] non prevede l'evidenza pubblica come modulo obbligatorio per la dismissione delle partecipazioni azionarie» (T.A.R. Lazio, Roma III-ter, n. 8946/2017; n. 4266/2021). In altre pronunce si legge che «in mancanza di una espressa disposizione legislativa (che pur potrebbe basarsi sugli interessi pubblici coinvolti) «regola valevole per tutte le società a partecipazione pubblica, anche di natura non statale, è che la dismissione di quote azionarie pubbliche non è soggetta alle norme sull'evidenza pubblica, e nemmeno a quelle sulla contabilità generale dello Stato, risolvendosi in un'operazione che l'ente pubblico pone in essere con modalità privatistiche, dovendosi soltanto attenere ai generali principi di trasparenza e non discriminazione; risulta quindi confermato che la dismissione della partecipazione costituisce atto che i soci pubblici compiono iure privatorum e senza obbligo di puntuale rispetto delle norme a evidenza pubblica, bensì soltanto dei principi di non discriminazione e trasparenza, per cui gli atti di cui si chiede l'annullamento – in quanto aventi a oggetto il destino delle partecipazioni azionarie e, quindi, la «posizione di soci» che gli enti pubblici occupano all'interno della società – vedono le parti private su un piano sostanzialmente paritetico, il che esclude anche la possibilità di configurare la generale giurisdizione del giudice amministrativo, perché a essere azionate sono posizioni aventi natura di diritto soggettivo (e non di interesse legittimo), ancorché subordinati al corretto andamento della procedura selettiva»» (Cons. St. IV, n. 6088/2018; n. 7030/2018; Cons. St. V, n. 1894/2017; T.A.R. Lazio, Roma III-ter, n. 4266/2021). Va tuttavia rilevato come il divergente orientamento giurisprudenziale cui si è appena fatto riferimento e, in particolar modo, il secondo orientamento che è stato appena richiamato, sia stato espresso con riferimento a casi concreti in cui l'alienazione delle partecipazioni era avvenuta prima dell'emanazione del TUSP e/o, comunque, con riferimento a operazioni non disciplinate dal Testo Unico. Il precipitato processuale di questi orientamenti influisce, poi, sul riparto di giurisdizione. Se il primo orientamento ritiene radicata la giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che la pubblica amministrazione quando dismette le proprie partecipazioni «non sta esprimendo una oprivata autodeterminazione rimessa alla prorpia volontà, bensì una determinazione riconducibile alla supremazia di un potere in una vicenda che non si esaurisce nel contesto infra-societario» (Fimmanò, 13) il secondo orientamento propende per quella del giudice ordinario. Per concludere sull'iter procedimentale dell'alienazione delle partecipazioni, il terzo comma dell'art. 10 del TUSP disciplina il rapporto tra l'atto deliberativo adottato dalla pubblica amministrazione e l'atto di alienazione stipulato a valle dalla società. Nel caso di mancata adozione dell'atto deliberativo o nel caso di sua invalidità l'atto di alienazione è inefficace. L'art. 10 del TUSP non individua quale è l'autorità giudiziaria competente a conoscere dell'inefficacia. Sul punto si sono formati due orientamenti in giurisprudenza. Secondo quello prevalente, l'inefficacia dovrebbe essere accertata, su domanda della parte che intenda farla valere, dal Giudice Ordinario, dovendosi distinguere tra attività prodromica alla vicenda societaria e attività che si esterna nel compimento di un atto giuridico infra-societario (Cons. St., Ad. plen., n. 10/2011 e V, n. 5386/2017; Cass.S.U., n. 16335/2019; Cass.S.U., n. 21588/2013; Cass.S.U., n. 30167/2011). In senso contrario si è però recentemente espresso il Consiglio di Stato, che in un giudizio in cui era stata lamentata la mancata ottemperanza di una sentenza definitiva di annullamento dell'atto di dismissione di partecipazioni societarie pubbliche senza il preventivo espletamento di una procedura di gara, ha riconosciuto il potere del Giudice Amministrativo di dichiarare, nell'esercizio delle funzioni di giudice dell'ottemperanza, l'inefficacia del contratto di diritto privato di cessione azionaria ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. n. 175/2016, precisando che «è sempre possibile sostituire al contraente privato che si è illegittimamente aggiudicato il contratto quello vittorioso nel giudizio di cognizione, poiché questa statuizione attiene «alle condotte materiali e all'adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto, che l'amministrazione è tenuta a realizzare nel dare esecuzione al giudicato e ripristinare le ragioni del ricorrente in conformità alle statuizioni dell'annullamento»» e ritenendo irrilevante a questo fine il fatto che «la sostituzione [sia] impossibile a causa dell'effetto istantaneo della cessione azionaria», dovendo prediligersi il principio di effettività di tutela giurisdizionale (Cons. St. V, n. 7393/2019). L'ipotesi eccezionale della negoziazione diretta.L'art. 10 comma 2 del TUSP prevede che, in via eccezionale, l'alienazione possa essere effettuata mediante negoziazione diretta con un singolo acquirente. In tale caso la norma prevede un obbligo di motivazione rafforzata con riferimento alla convenienza economica dell'operazione, con particolare riferimento alla congruità del prezzo di vendita. Il comma 2 dell'articolo 10 del Testo Unico richiede, a differenza del primo comma, che l'alienazione sia adottata con «deliberazione motivata» dell'amministrazione procedente che, pertanto, pur non vincolata agli oneri motivazioni dell'art. 5, comma 1 del TUSP, dovrà dare atto delle ragioni sottese alla delibera. La specifica disposizione in commento – con riguardo alla «eccezionalità» cui fa riferimento – ha sollevato molte critiche poiché, in assenza di precisi limiti e criteri al ricorrere dei quali applicare l'eccezione della negoziazione diretta, avrebbe di certo consentito all'amministrazione pubblica di ricorrervi a suo piacimento in deroga ai principi dell'evidenza pubblica. Anche il Consiglio di Stato, nel parere reso sullo schema di decreto (parere n. 968/2016), con rilievi che il legislatore nel testo definitivo del TUSP non ha accolto, aveva suggerito di circoscrivere la possibilità di ricorrere alla negoziazione diretta nei soli casi di «eccezionale convenienza economica» dell'alienazione in luogo del generico riferimento ai «casi eccezionali». Per ciò che attiene alla concreta applicazione dell'ipotesi eccezionale della negoziazione diretta in deroga alle procedure di evidenza pubblica, la giurisprudenza si è pronunciata ritenendo che «Ai sensi dell'art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 175/2019 [...] l'[eventuale]infungibilità dell'operazione societaria [in deroga all'evidenza pubblica] deve essere valutata con particolare rigore ed all'esito di una puntuale indagine di mercato, idonea a dimostrare [per esempio] che l'unica possibilità di sviluppo e di incremento di competitività per [il socio pubblico] fosse l'integrazione industriale con [quel socio privato], in ragione delle peculiari caratteristiche di questa, non replicabili sul mercato di riferimento. Il requisito dell'infungibilità dell'operazione deve essere pertanto motivato con la dimostrazione non solo dell'elemento positivo della esclusività dei vantaggi economici dalla stessa ritraibili, ma anche dell'elemento negativo della assoluta impossibilità oggettiva di perseguire altrimenti l'interesse pubblico: la massimizzazione dell'utile di impresa non è infatti il fine assoluto dell'impresa pubblica ma deve essere contemperato con il fine pubblico da questa perseguito, che è la gestione secondo i principi di economicità e di concorrenza dei servizi economici di rilevanza generale. Per tale ragione non può ritenersi sufficiente a derogare alla regola dell'evidenza pubblica la mera valutazione della convenienza economica e strategica dell'operazione societaria, ma occorre dimostrare che l'interesse pubblico non può che essere soddisfatto in via esclusiva dall'unico operatore presente sul mercato di riferimento» (T.A.R. Lombardia, Milano I, n. 414/2021, confermata da Cons. St. V, n. 6142/2021). Anche nella prassi l'art. 10, comma 2 del Testo Unico è interpretato in questo senso. L'Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato ha ritenuto che l'art. 10, comma 2 del TUSP «per la cessione delle partecipazioni da parte delle pubbliche amministrazioni prevede espressamente procedure che rispettino i princìpi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione» e «ammette l'alienazione per assegnazione diretta solo per casi eccezionali, che [il socio pubblico] deve debitamente motivare dando «analiticamente atto della convenienza economica dell'operazione, con particolare riferimento alla congruità del prezzo di vendita»» (Parere AGCM, del 18 marzo 2019 - N. AS1587, N. AS1586). Sul punto si è espressa anche la giurisprudenza contabile, secondo cui «le ipotesi in cui è ammessa l'alienazione delle partecipazioni mediante negoziazione diretta con un singolo acquirente sono «confinate» a casi eccezionali, collegati ad una convenienza economica dell'operazione, di cui nella delibera si dovrà dare analiticamente atto. Trattandosi di casi eccezionali, gli stessi dovranno essere compiutamente esplicitati della deliberazione dell'organo competente, prevedendo, altresì, il Legislatore che della convenienza dell'operazione economica si debba dare «analiticamente» atto. La deliberazione sarà, pertanto, assoggettata alla disciplina generale sulla motivazione, di cui alla l. n. 241/1990, e l'indicazione ivi contenuta in merito alla convenienza economica dell'operazione che si intende porre in essere – che giustifica il ricorso ad un'alienazione mediante negoziazione diretta con un singolo acquirente – dovrà essere «analiticamente» evidenziata, mediante approfondite, congrue e comprovate valutazioni in ordine alla situazione economica e patrimoniale della società (supportata da idonea documentazione), anche in chiave prospettica e di vantaggiosità per la comunità di riferimento in termini di resa del servizio, nonché tenendo in debito conto il contesto economico, sociale e territoriale in cui si opera. Occorrerà, peraltro, dare atto dell'interesse pubblico che si andrà a perseguire mediante l'operazione di alienazione, evidenziando, specie laddove lo stesso sia quello di risanamento delle risorse pubbliche, i dati e le informazioni di bilancio utili allo scopo. Si ritengono, inoltre, «inadeguate le mere ripetizioni del dato legale, attesa la natura apodittica di siffatte pseudo-motivazioni», mentre si può considerare assolto l'obbligo motivazionale anche laddove la motivazione sia sintetica, purché idonea a disvelare l'iter logico, fattuale e procedimentale atto a inquadrare la fattispecie nell'ipotesi astratta presa in considerazione dalla disciplina legislativa» (C. conti, sez. reg. contr. Lombardia, n. 8/2019PAR; n. 94/2019). È stato altresì ritenuto che, attesa la natura eccezionale della disposizione, è incompatibile con la legge «una previsione statutaria che, a regime, istituirebbe una riserva di partecipazione pubblica, con connessa evidente limitazione dell'apertura al mercato e alla concorrenza, per di più senza avere riguardo ad alcuna concreta valutazione di convenienza economica dell'operazione» (T.A.R. Piemonte, Torino I, n. 727/2021). Le clausole di prelazione.L'ultima parte del comma 2 dell'art. 10 del d.lgs. n. 175/2016 fa salva l'applicazione dei diritti di prelazione dei soci previsti eventualmente o dalla legge o dallo statuto. La problematica interpretativa che pone il testo dell'art. 10, comma 2 del TUSP riguarda il rapporto tra regole privatistiche e regole pubblicistiche nel caso di società a partecipazione pubblica, poiché queste ultime se, da un lato, soggiacciono alle disposizioni concernenti le procedure ad evidenza pubblica, dall'altro, sono sottoposte al diritto comune societario. Occorrerà pertanto trovare un equilibrio tra i principi delle procedure a evidenza pubblica e la disciplina societaria ordinaria. Al riguardo giova evidenziare che le clausole di prelazione statutarie rappresentano una delle limitazioni convenzionali alla circolazione delle partecipazioni, consentita dagli artt. 2355-bis e 2469 c.c. Esistono due tipologie di clausole di prelazione: i) quelle c.d. proprie, che prevedono il diritto del socio di acquistare le azioni con preferenza e a parità di condizioni rispetto ai terzi (il venditore dovrà indicare il valore che il terzo intende pagare e poi eventualmente allo stesso prezzo può proporre ai soci beneficiari della prelazione l'acquisto) e ii) quelle c.d. improprie, che prevedono il diritto del socio di acquistare le azioni con preferenza rispetto ai terzi (ai quali l'acquisto non sarà proposto) e a un prezzo predeterminato nel patto di prelazione o stabilito da un arbitratore. La giurisprudenza, in relazione a una controversia antecedente all'entrata in vigore del TUSP, ha ritenuto che «deve certamente trovare conferma il principio di diritto» secondo cui «la cessione da parte di un'amministrazione pubblica di una partecipazione in una società partecipata da altri soggetti privati deve necessariamente avvenire tramite l'espletamento di procedure ad evidenza pubblica» e che la «clausola statutaria [di prelazione] (nonché gli ulteriori atti che vi avevano dato attuazione) [deve ritenersi] nulla per contrasto con i principi generali di ordine pubblico economico che postulano la messa a gara delle partecipazioni nell'ambito di società miste deputate (inter alia) alla prestazione di servizi» (Cons. St. V, n. 4014/2016). A seguito dell'entrata in vigore dell'art. 10, comma 2 TUSP la giurisprudenza ha cambiato orientamento. Osservando che tale norma «[n]on distingue tra soci pubblici e soci privati», il Consiglio di Stato ha negato la possibilità di limitare l'operatività delle clausole di prelazione statutarie ai soli soci pubblici e di assicurare solo a questi di esercitare preferenzialmente l'acquisto (ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus). Questo revirement è stato così motivato: «La funzione propria della clausola di prelazione – di preservare per quanto possibile l'assetto della compagine sociale – è evidentemente reputata dalla legge meritevole anche in favore dei soci privati di una società a partecipazione pubblica. L'originario socio privato partecipante alla società mista, in effetti, viene ricercato dai soci fondatori pubblici proprio in quanto portatore di un convergente interesse economico: ma nella misura immaginata, calcolata e definita all'atto della costituzione della società, tale da quantificare, in relazione all'attuazione dell'oggetto sociale, il rapporto stimato giovevole tra la cura indiretta di interessi pubblici e gli apporti finanziari e organizzativi tipici dell'imprenditore privato. Lo si ricava dall'art. 7 (Costituzione di società a partecipazione pubblica), comma 5, d.lgs. n. 175/2016, secondo cui «nel caso in cui sia prevista la partecipazione all'atto costitutivo di soci privati, la scelta di questi ultimi avviene con procedure di evidenza pubblica a norma dell'art. 5, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016». La scelta, in quella sede, del socio privato mediante procedura evidenziale non altera ma anzi proprio realizza quella prevista ripartizione quantitativa tra pubblico e privato nella compagine sociale. Non differente, per analoghe ragioni, è la situazione in occasione di un aumento di capitale. La circostanza che ciò avvenga al momento genetico della società – dunque al massimo momento progettuale, che include la definizione di siffatti equilibri e che ingenera un rapporto di stretta cooperazione tra i fondatori della società – appare sufficiente per non rendere manifestamente irragionevole che al socio privato originario sia statutariamente data la possibilità di rafforzare la sua posizione nella compagine esercitando il diritto di prelazione, anche se senza sottoporsi alla competizione di mercato come nel caso di clausola di prelazione impropria. In conclusione, le clausole di prelazione statutarie non possono essere stimate nulle anche se previste a favore dei soci privati» (Cons. St. V, n. 6222/2020). Costituzione di vincoli su partecipazioni sociali delle amministrazioni pubbliche.L'art. 10, comma 1 del TUSP comprende nel proprio ambito di applicazione anche «[g]li atti deliberativi aventi ad oggetto [...] la costituzione di vincoli su partecipazioni sociali delle amministrazioni pubbliche». Tra i vincoli sulle partecipazioni si possono menzionare il pegno, l'usufrutto, il sequestro e il pignoramento, ma soltanto i primi due possono essere annoverati nel perimetro di applicabilità dell'art. 10, in quanto sono gli unici vincoli che possono instaurarsi per volontà del proprio titolare. I vincoli reali su titoli azionari (i.e. di pegno e usufrutto sui titoli azionari) sono previsti per le s.p.a. dall'art. 2352 c.c. e sulle quote per le s.r.l. dall'art. 2471-bis c.c. Per la costituzione dei titoli azionari si deve procedere all'annotazione sul titolo e nel libro dei soci, c.d. «doppia annotazione», a cura della società emittente (art. 3, comma 1, r.d. n. 239/1942). Il pegno invero può anche essere costituito mediante consegna del titolo, girato con la clausola «in garanzia» o un'altra a essa equivalente. In tal caso sarà efficace soltanto tra le parti e nei confronti dei creditori dell'azionista, ma per essere efficace nei confronti della società dovrà essere annotato nel libro dei soci. Non esiste una disciplina specifica per la costituzione dei vincoli sulle quote. Dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto che la lacuna possa essere superata, applicando la disciplina del codice civile per il trasferimento delle partecipazioni, dall'art. 2470 c.c. (Freni, 279). Quest'ultimo prevede che l'atto di trasferimento munito di sottoscrizione autenticata a cura del notaio autenticante sia depositato presso l'ufficio del Registro delle Imprese nella cui sede è stabilita la sede della Società. Gli adempimenti sono richiesti al fine di garantire trasparenza e pubblicità alle operazioni in ordine alle cessioni delle partecipazioni sociali, gli altri strumenti partecipativi e, comunque, sugli assetti proprietari. Dall'applicazione analogica appena menzionata, parte della dottrina ha ritenuto che la disciplina dettata dall'art. 2470 c.c. possa applicarsi anche all'apposizione di vincoli sulle partecipazioni sociali. Altra dottrina, invece, ritiene che ciò non sia possibile poiché si applicherebbe l'art. 2471 c.c., in tema di pignoramento, con una procedura maggiormente gravosa (Revigliono, 288; Salanitro, 5; Freni, 280). L'alienazione delle partecipazioni dello Stato ex art. 1 d.l. n. 332/1994 e la riallocazione delle partecipazioniPrima dell'entrata in vigore del Testo Unico, non è mai esistita una normativa che disciplinasse le modalità di dismissione delle partecipazioni pubbliche prima del TUSP, salvo il caso del d.l. n. 332/1994 relativo alle procedure di dismissione delle partecipazioni detenute dallo Stato. Tale normativa, infatti, seppur non menzionata numericamente, è fatta salva anche oggi dal comma 4 dell'art. 10 in commento. Nel richiamare il d.l. n. 332/1994, l'art. 10 del d.lgs. n. 175/2016 ne circoscrive l'ambito di applicazione alle sole partecipazioni dello Stato e non anche a quelle detenute da altri enti pubblici. A ciò si aggiunga che il decreto legge si applica soltanto alle società per azioni e non anche agli altri modelli societari ai quali, pertanto, si applicherà l'art. 10 in commento. Sul punto, occorre precisare che l'art. 1 del d.l. n. 332/1994 dispone quanto segue: «1. Le vigenti norme di legge e di regolamento sulla contabilità generale dello Stato non si applicano alle alienazioni delle partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni e ai conferimenti delle stesse società partecipate, nonché agli atti ed alle operazioni complementari e strumentali alle medesime alienazioni inclusa la concessione di indennità e manleva secondo la prassi dei mercati. 2. L'alienazione delle partecipazioni di cui al comma 1 è effettuata con modalità trasparenti e non discriminatorie, finalizzate anche alla diffusione dell'azionariato tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali. Dette modalità di alienazione sono preventivamente individuate, per ciascuna società, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle attività produttive». La disposizione appena richiamata è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che «esprime la regola (valevole per tutte le società a partecipazione pubblica, anche di natura non statale), secondo cui la dismissione di quote azionarie pubbliche non è soggetta alle norme sull'evidenza pubblica, e nemmeno a quelle sulla contabilità generale dello Stato, risolvendosi in un'operazione che l'ente pubblico pone in essere con modalità privatistiche, dovendosi soltanto attenere ai generali principi di trasparenza e non discriminazione». Da qui la conclusione secondo cui «la dismissione della partecipazione costituisce atto che i soci pubblici compiono iure privatorum e senza obbligo di puntuale rispetto delle norme a evidenza pubblica, bensì, come si è visto, soltanto dei principi di non discriminazione e trasparenza, per cui gli atti di cui si chiede ora l'annullamento –in quanto aventi a oggetto il destino delle partecipazioni azionarie e, quindi, la «posizione di soci» che gli enti pubblici occupano all'interno della società vedono le parti private su un piano sostanzialmente paritetico, il che esclude anche la possibilità di configurare la generale giurisdizione del giudice amministrativo, perché a essere azionate sono posizioni aventi natura di diritto soggettivo (e non di interesse legittimo), ancorché subordinati al corretto andamento della procedura selettiva» (Cons. St. V, n. 1894/2017). La fattispecie disciplinata dall'art. 1 del d.l. n. 332/1994 (concernente, come si è detto, la dismissione o alienazione a privati di una partecipazione pubblica, secondo lo schema concettuale della privatizzazione) deve essere distinta da quella che si verifica nelle ipotesi di riallocazione delle partecipazioni all'interno dell'Ente Stato. È questa, ad esempio, l'ipotesi che si verifica quando si concretizza il passaggio da un assetto proprietario, che vedeva un determinato Ministero come proprietario dell'intero capitale sociale, a una nuova situazione in cui ad assumere il controllo totalitario della società interessata dall'operazione è un'altra società pubblica, la quale è a sua volta controllata da altro Ministero. In questo caso l'operazione produce un allungamento della catena di controllo societario (da una forma diretta ad una indiretta realizzata attraverso una diversa impresa pubblica), ma resta fermo che si è al di fuori di una privatizzazione, figura giuridica che non può prescindere dall'individuazione di un cessionario privato della partecipazione (o, più in generale, di un'attività economica) già in mano pubblica, partecipazione che invece, nel caso in esame, continua a collocarsi nell'ambito di una riorganizzazione all'interno di un insieme economico unitario facente capo al medesimo proprietario (Ente Stato). In altri termini, economicamente più pregnanti, nella privatizzazione si ha la fuoriuscita di un «asset» dal perimetro del settore pubblico affinché esso venga sottoposto al controllo di terzi privati. Ciò può anche realizzarsi attraverso l'acquisizione da parte del privato di una quota del capitale sociale dell'impresa (già) pubblica tale da conferirgli il controllo ma siffatto fenomeno non si osserva quando, per legittima scelta ministeriale, i privati non entrano nel capitale sociale, essendo rimasta la partecipazione in mano pubblica e configurandosi l'operazione alla stregua di una riorganizzazione della partecipazione nell'ambito statale. In questo senso si è recentemente espresso il T.A.R. Lazio, osservando inoltre come questa soluzione rinvenga «ulteriore conferma nel testo del recente d.lgs. n. 175/2016 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) il quale nettamente distingue il termine «alienazione» (vedi art. 10, comma 2), per riferirlo ad ipotesi di vera e propria privatizzazione, rispetto al termine «trasferimento» (art. 26, comma 12), impiegato invece nel contesto di disposizioni disciplinanti il «riordino delle partecipazioni dello Stato»» (T.A.R. Lazio, Roma. III, n. 6417/2017). BibliografiaBonura, L'alienazione delle partecipazioni pubbliche, in Garofoli, Zoppini (a cura di), Manuale delle società a partecipazione pubblica, Molfetta, 2018, 263 ss.; Camporesi, La prelazione negli statuti delle società partecipate pubbliche: note a sentenza, in dirittodeiservizipubblici.it, 2016; Donativi, Le società a Partecipazione Pubblica, Milano, 2016; Fimmanò, la giurisdizione sulla dismissione di una quotadi società a partecipazione pubblica, in Rivista della Corte dei Conti, 2021, 9 ss.; Fittante, Commento all'art. 10 del d.lgs. n. 175/2016, in Caringella, Ciaralli, Bottega (a cura di), Codice ragionato delle società pubbliche. Commento organico al Testo Unico delle Società pubbliche e alle norme complementari, Roma, 2018, 65 ss.; Freni, Commento all'art. 10, in Morbidelli (a cura di), Codice delle società a partecipazione pubblica, Milano, 2018, 275 ss.; Revigliono, Il trasferimento della quota di società a responsabilità limitata. Il regime legale, Milano, 1998; Salanitro, I vincoli sulle quote di società a responsabilità limitata, Banca borsa e tit. cred., 2004; Tullio, Commento all'art. 10, in Meo, Nuzzo (diretto da), Il testo unico sulle società pubbliche Commento al d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, Bari, 2016, 131 ss. |