Decreto legislativo - 19/08/2016 - n. 175 art. 2 - DefinizioniDefinizioni
1. Ai fini del presente decreto si intendono per: a) «amministrazioni pubbliche»: le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, i loro consorzi o associazioni per qualsiasi fine istituiti, gli enti pubblici economici e le autorità di sistema portuale 1; b) «controllo»: la situazione descritta nell'articolo 2359 del codice civile. Il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo; c) «controllo analogo»: la situazione in cui l'amministrazione esercita su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, esercitando un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall'amministrazione partecipante; d) «controllo analogo congiunto»: la situazione in cui l'amministrazione esercita congiuntamente con altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. La suddetta situazione si verifica al ricorrere delle condizioni di cui all'articolo 5, comma 5, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50; e) «enti locali»: gli enti di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267; f) «partecipazione»: la titolarità di rapporti comportanti la qualità di socio in società o la titolarità di strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi; g) «partecipazione indiretta»: la partecipazione in una società detenuta da un'amministrazione pubblica per il tramite di società o altri organismi soggetti a controllo da parte della medesima amministrazione pubblica; h) «servizi di interesse generale»: le attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell'ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l'omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale; i) «servizi di interesse economico generale»: i servizi di interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato; l) "società": gli organismi di cui ai titoli V e VI, capo I, del libro V del codice civile, anche aventi come oggetto sociale lo svolgimento di attività consortili, ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile 2; m) «società a controllo pubblico»: le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lettera b); n) «società a partecipazione pubblica»: le società a controllo pubblico, nonché le altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico; o) «società in house»: le società sulle quali un'amministrazione esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo congiunto , nelle quali la partecipazione di capitali privati avviene nelle forme di cui all'articolo 16, comma 1, e che soddisfano il requisito dell'attività prevalente di cui all'articolo 16, comma 3 3; p) «società quotate»: le società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati; le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati [; le società partecipate dalle une o dalle altre, salvo che le stesse siano anche controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche] 45. [1] Lettera modificata dall'articolo 4 , comma 1, lettera a), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [2] Lettera sostituita dall'articolo 4 , comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [3] Lettera modificata dall'articolo 4 , comma 1, lettera c), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [4] Lettera modificata dall'articolo 4 , comma 1, lettera d), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [5] A norma dell'articolo 51, comma 1-bis, del D.L. 17 maggio 2022, n. 50, convertito con modificazioni dalla Legge 15 luglio 2022, n. 91, il termine di cui alla presente lettera è fissato, per le società del comparto energetico, al 31 dicembre 2021. InquadramentoL'art. 2 del TUSP detta le regole interpretative da applicare per identificare l'esatta portata precettiva di tutte le altre prescrizioni contenute nel medesimo articolato normativo. Le regole interpretative sono quelle che incidono sull'attività interpretativa (o meglio, sul risultato dell'interpretazione degli enunciati normativi) e che, diversamente dalle regole d'interpretazione (per tali intendendosi quelle «concernenti direttamente l'operazione interpretativa» – Giannini, 65), non disciplinano l'attività dell'interprete. Le regole interpretative, infatti, riguardano l'interpretazione di parti determinate del discorso legislativo (nella specie, riguardano gli enunciati contenuti nelle norme del TUSP) e consistono in disposizioni che vertono su altre disposizioni, condizionandone l'interpretazione (Modugno, 119) e prescrivendo all'interprete: a) di collegare quel determinato significato al lessema di riferimento; b) di sussumere nella definizione i fatti che vi corrispondano. La tecnica delle definizioni legislative è ricorrente nella prassi legislativa ed è utilizzata per superare le incertezze che contraddistinguono gli enunciati giuridici connotati da un intrinseco carattere di vaghezza e di ambiguità. Si tratta di una tecnica senz'altro utile ma che in ogni caso incontra anche limiti non trascurabili. Infatti, non tutti gli enunciati contengono lessemi il cui significato può essere definito in maniera univoca. Inoltre, come ogni altro enunciato legislativo, anche quello c.d. definitorio dev'essere a sua volta oggetto di interpretazione (Modugno, 120). Da qui la necessità di esaminare le definizioni definizione contenute nell'art. 2 del TUSP, la cui formulazione non può ritenersi autosufficiente (Allena, Giugliano, 114). Le amministrazioni pubbliche.Tradizionalmente la nozione di pubblica amministrazione tende ad avere «contorni sfumati se non addirittura evanescenti» (T.A.R. Lazio, Roma III-quater, n.1938/2008). Ciò è attestato dall'orientamento giurisprudenziale sempre più diffuso che accoglie «una nozione «funzionale» e «cangiante» di ente pubblico, in base alla quale si ammette che uno stesso soggetto possa avere tale natura a certi fini, conservando, però, rispetto ad altri aspetti il regime normativo privatistico; in tali ipotesi l'ente, limitatamente allo svolgimento dell'attività procedimentalizzata, diviene, di regola, «ente pubblico», a prescindere dalla sua connotazione formale, ma lo diviene in maniera dinamica e mutevole, perché dismette quella veste quando svolge altre attività non procedimentalizzate» (T.A.R. VenetoI, n. 132/2020; T.A.R. Lombardia, MilanoIII, n. 155/2021; T.A.R. Sicilia,Catania, n. 2132/2021; Cass. S.U., n. 10244/2021). La giurisprudenza che aderisce a questo approccio, esclude che «il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi automaticamente e in maniera immutevole la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazioni» e ammette «che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica», precisando che «il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell'istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa» e che occorre, «di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime «amministrativo» previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l'inclusione di quell'ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica» (Cons. St. VI, n. 2660/2015). La conseguenza che ne deriva è la convinzione che sia del tutto normale, per così dire «fisiologico», che ciò che a certi fini costituisce una pubblica amministrazione, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all'applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali. L'orientamento giurisprudenziale al quale si è appena fatto riferimento è condiviso anche dalla dottrina, la quale ha più volte rilevato come nel nostro ordinamento non esista una nozione unitaria di pubblica amministrazione alla quale si ricolleghi l'applicazione di un regole unitarie e omogenee (Clarich, 322; Napolitano, 63). Quanto appena osservato è fondamentale per contestualizzare la nozione giuridica di amministrazione pubblica dettata dall'art. 1, comma 1 lett. a) del TUSP. La norma in commento, infatti, pone una definizione legislativa di amministrazione pubblica che opera ai soli fini dell'applicazione delle norme in materia di società a partecipazione pubblica. Si tratta, dunque, di una definizione settoriale e che, pur contenendo un rinvio esterno (ma solo a fini definitori) a un altro articolato normativo (il d.lgs. n. 165/2001), non si presta ad esser trapiantata tal quale nell'ambito di regimi pubblicistici diversi da quello qui esaminato. Ciò posto, ai fini del TUSP per amministrazioni pubbliche si intendono: a) le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, ovvero: tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti i del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI; b) i loro consorzi o associazioni per qualsiasi fine istituiti; c) gli enti pubblici economici; d) le autorità di sistema portuale. La nozione di amministrazioni pubbliche recata dall'art. 2, comma 1, lett. a) del TUSP è, quindi, più ampia di quella che rileva ai fini del testo unico sul pubblico impiego (privatizzato). Ciò si spiega in ragione della necessità di assicurare l'effetto utile del complesso delle disposizioni contenute nell'articolato normativo in commento: tanto più è ampia la nozione di pubblica amministrazione, tanto maggiore è la portata precettiva delle prescrizioni del TUSP. Il riferimento esplicito ai consorzi e alle associazioni tra amministrazioni per qualsiasi fini istituiti è altamente significativo e assume rilevanza centrale ai fini della qualificazione giuridica delle associazioni tra le amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, consentendo di considerare amministrazioni pubbliche anche le associazioni costituite per il perseguimento di ogni interesse comune alle varie amministrazioni (T.A.R. Calabria, CatanzaroI, n. 2096/2017). Appartengono alla categoria degli enti pubblici economici gli enti pubblici che agiscono come privati imprenditori, posti su un piano paritetico con i soggetti con cui vengono in relazione (Cass. S.U., n. 1203/2018;T.A.R. Puglia, LecceII, n. 324/2021). Trattasi di una categoria residuale, che nell'esercizio dell'attività imprenditoriale si pone sullo stesso piano dei comuni imprenditori e quindi non esercita alcuna funzione pubblicistica disciplinata dalla legge e dai principi sul procedimento amministrativo (T.A.R. Lazio, Roma I-quater, n.5336/2020). Le autorità di sistema portuale sono disciplinate dall'art. 6 della l. n. 84/1994 e sono preposte allo svolgimento delle funzioni individuate dalla medesima l. n. 84/1994. La nozione giuridica di controllo rilevante ai fini del TUSPAi fini del TUSP, la nozione giuridica di controllo è quella «descritta nell'art. 2359 del codice civile». La norma in esame, inoltre, prevede che «il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo». La nozione giuridica di controllo rilevante ai fini della applicazione del d.lgs. n. 175/2016 è, pertanto: a) in parte coincidente con quella dettata dal codice civile; b) in parte, più ampia, in quanto allargata anche alla diversa situazione che ricorre quando in base a norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo. Per comprendere quale sia l'effettiva portata precettiva della norma in commento occorre anzitutto prendere le mosse dalla nozione giuridica di controllo rilevante ai fini del diritto societario. A questo fine, l'art. 2359 c.c., dispone in particolare quanto segue: «Sono considerate società controllate: 1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria; 2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa. Ai fini dell'applicazione dei nn. 1 e 2 del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; non si computano i voti spettanti per conto di terzi». L'ipotesi disciplinata dal n. 1 è quella del c.d. controllo interno di diritto; quella definita dal n. 2 consiste nel c.d. controllo interno di fatto; quella individuata dal successivo n. 3 coincide nel c.d. controllo esterno. Il controllo interno di diritto.La situazione di controllo interno di diritto ricorre quando si «dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria». A questo fine il codice civile non assegna primario rilievo all'assetto proprietario: quello che conta è che la disponibilità della maggioranza sia effettiva e consenta di esercitare un controllo legato alla effettiva gestione della società. Ricorre, ad esempio, una ipotesi di controllo interno di diritto in caso di pegno e usufrutto sulle azioni, purché ciò sia tale da consentire una stabile influenza sulla gestione della società. Intesa in questa accezione, la nozione di controllo interno di diritto è, quindi, strettamente connessa al concetto di influenza dominante sulla gestione della società (Spolidoro, 468). L'influenza dominante rappresenta, infatti, il «comune denominatore di tutte le ipotesi del controllo, di diritto e di fatto, interno e esterno» (Cass.V, n. 21725/2017. In dottrina, v. Cuccu, Massa Felsani, 73). In questa prospettiva, è stata esclusa la sussistenza del controllo pubblico per una società in cui, sebbene la pubblica amministrazione disponga della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea, la gestione competa «per statuto» a un amministratore delegato espressione della parte privata e i soci pubblici devono condividere con quello privato le delibere dell'assemblea ordinaria e straordinaria (T.A.R. Lazio, Roma I,5118/2019;T.A.R.Marche n. 695/2019). Il controllo interno di diritto, quindi, non può essere desunto dalla semplice astratta possibilità per i soci pubblici di fare valere la loro maggioranza azionaria in assemblea; ed il riferimento alla mera maggioranza dei voti esercitabili in assemblea contenuto nell'art. 2359, comma 1, n. 1 c.c. non può quindi essere svincolato da indici concreti di un effettivo controllo (T.A.R.Marche n. 695/2019). Il controllo interno di diritto deve risolversi in un potere effettivo di guida e di governo societario e, secondo l'opinione maggiormente accreditata, deve poter essere esercitato in forma stabile e continuativa (Pasteris, 32; Libonati, 1981, 64; Libonati, 2005, 272; Notari, 340). Secondo l'opinione più rigorosa, questa forma di controllo ricorre quando la disponibilità della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria consente al socio di assumere tutte le deliberazioni (Notari, Bertone, 705). Altra corrente di pensiero ritiene, invece, che l'influenza dominante in cui si traduce il controllo interno di diritto deve essere intesa «in senso ristretto, come capacità non solo di impedire che siano assunte decisioni o compiute operazioni contrarie al proprio volere, ma anche di imporre il proprio punto di vista, in particolare nella decisione di acquisto e nella gestione delle quote o azioni della società controllante da parte della controllata» (Spolidoro, 479). Poiché la competenza delle decisioni in materia di acquisto di partecipazioni spetta agli amministratori, chi aderisce a questa posizione precisa che il nucleo del controllo sia dato dalla «possibilità di piegare alla propria volontà l'organo amministrativo attraverso i due strumenti specificamente richiamati dall'art. 2359 c.c.: attraverso la leva del voto dell'assemblea ordinaria (quando si dispone del potere di nominare o revocare a proprio piacimento tanti membri dell'organo amministrativo quanti ne occorrono per decidere sugli investimenti in partecipazioni) oppure attraverso lo strumento contrattuale»; da qui la conclusione per cui la controllante va individuata in chi «ha il potere di nominare e revocare gli amministratori» (Spolidoro, 480). Il controllo interno di fatto.La nozione di controllo interno di fatto si basa anch'essa sulla titolarità di diritti di voto in assemblea ed in particolare presuppone la disponibilità di diritti di voto in assemblea ordinaria tali da poter esercitare un'influenza dominante. A differenza della situazione di controllo di diritto, quella in esame non è riconducibile a una percentuale prefissata di voti, ma è variabile e dipende da una pluralità di fattori. Per questo motivo, l'indagine sulla sussistenza del controllo civilistico ai sensi dell'art. 2359, comma 1, n. 2, c.c. si deve necessariamente ed esclusivamente orientare sull'analisi delle condotte di voto del socio ipoteticamente controllante nell'assemblea ordinaria della società ipoteticamente controllata. La sussistenza di una effettiva situazione di controllo interno di fatto dev'essere verificata sulla base del potenziale esercizio dell'influenza dominante, non del suo effettivo esercizio, come invece richiesto per il controllo esterno (Lamandini, 397; Notari, Bertone, 705). È opinione condivisa quella per cui: a) il controllo interno di fatto postula il possesso o, comunque, anche solo la disponibilità di «una partecipazione azionaria di per sé minoritaria, la quale risulta comunque idonea a consentire l'esercizio dell'influenza dominante in quanto consente il raggiungimento di una posizione di maggioranza rispetto alla porzione di capitale presente in assemblea» (per tutti, Notari, Bertone, 673; Campobasso, 287); b) l'influenza dominante che la partecipazione di per sé minoritaria deve consentire consiste nel disporre di voti sufficienti ad approvare la delibera dell'assemblea ordinaria e si deve tradurre quindi «nel potere di scegliere e ricambiare ciclicamente i gestori e i controllori e soprattutto nel condizionamento fattuale dei primi revocabili anche in assenza di giusta causa» (Schiuma, 1265); c) la disponibilità dei voti per assurgere a partecipazione di controllo di fatto «deve conseguire ad un assetto di poteri (relativamente) stabile», anche prognosticamente, e non a fattori del tutto episodici e occasionali (per tutti Mollo, Montesanto, 16 e 19; Notari, 340); d) il frazionamento del capitale e l'assenteismo dei soci costituiscono elementi che favoriscono il formarsi della posizione di controllo minoritario di fatto, ma è pur sempre necessario, perché una posizione di (apparente) maggioranza relativa sia qualificabile in termini di controllo di fatto, che in concreto e stabilmente essa si sia dimostrata capace (abbia avuto il potere) di essere da sola maggioritaria nelle decisioni rilevanti dell'assemblea ordinaria; e) la posizione di prevalenza in assemblea deve essere pure esclusiva, «unilaterale». Essere semplicemente una componente di una maggioranza assembleare, anche se determinante per la formazione di una maggioranza in assemblea, in assenza di accordi o collegamenti strutturali con altri soci necessari a far maggioranza integra al più la sussistenza in capo al soggetto che in tale posizione si trovi di influenza notevole sulla società, non controllo di fatto. Va esclusa, pertanto, la sussistenza di un rapporto di controllo laddove «la nomina degli amministratori non dipend[a] affatto da una scelta «libera» del socio di controllo ma dipend[a] dal mutevole gioco delle alleanze tra soci» (Lamandini, 319); f) il rapporto tra controllante e controllata deve essere tale da assicurare al primo un potere positivo di orientare le delibere assembleari. Il che significa che per verificare la sussistenza di un controllo di fatto non può essere sufficiente che un socio abbia la possibilità di impedire la assunzione di determinate delibere dell'assemblea ordinaria, essendo, invece, necessario, si ripete nuovamente, che egli possa imporre la propria volontà su quella dei consoci. La Consob ha condiviso gli approdi interpretativi appena esposti, sin dalla Comunicazione DEM/3074183 del 13 novembre 2003 (ripresa, nelle sue linee essenziali, anche dalle successive comunicazioni Comunicazione Consob n. 0088117 del 4 ottobre 2016, par. 2 e Comunicazione Consob DCG/0076067 del 1° ottobre 2015, par. 2, nonché le Comunicazioni Consob DOG/0079962 del 9 ottobre 2013, par. II.1, DEM/10064646 del 22 luglio 2010, par. 2, DOL/DEM/85385 del 16 novembre 2000, par. 2.3, oltre che dal Quaderno di Consob stessa, n. 8, Il controllo societario nel Testo Unico della Finanza, cit., che ne fa espresso richiamo, a conferma della sua perdurante validità). Sicché è sempre stato ed è un dato pacifico – anche per la Consob – che il controllo rilevante ai sensi dell'art. 2359, comma 1, n. 2) c.c. possa essere affermato quando il socio titolare di una partecipazione di maggioranza relativa riesca a imporre la propria volontà nelle principali decisioni dell'assemblea ordinaria: unilateralmente, cioè con i voti nella sua sola disponibilità – secondo un principio di autosufficienza – senza considerare i voti di terzi che assumano peso determinante per l'esito della votazione; in modo non occasionale e dunque stabile (con la precisazione che la stabilità è da misurare alla luce di una prognosi probabilistica confortata dalla effettività che emerge dalle vicende assembleari, riguardate evidentemente ex post). Il controllo esterno.Il rapporto di controllo esterno, disciplinato dall'art. 2359, comma 1, n. 3, c.c., si fonda sull'esistenza di particolari vincoli contrattuali tra due società in forza dei quali la prima, c.d. controllante, riesce ad esercitare un'influenza dominante sulla seconda, c.d. controllata. La specificità del controllo esterno si coglie in relazione al suo essere una forma di controllo che non si realizza all'interno dell'assemblea (come invece avviene nel controllo interno), sostanziandosi invece in una oggettiva dipendenza economica, derivante da particolari rapporti contrattuali, di una società rispetto ad un'altra. Il controllo esterno deve, come si è detto, necessariamente seguire particolari vincoli negoziali. Pertanto, non è idonea a dare luogo ad una situazione di controllo rilevante ai sensi dell'art. 2359, comma 1, n. 3) c.c. la sola dipendenza economica. Si tratta, dunque, di un condizionamento oggettivo ed esterno dell'attività sociale, che sussiste indipendentemente da chi nomina e può revocare gli amministratori, essendo l'attività economica stessa, in quanto tale, ad essere condizionata dalla relazione di controllo (Trib. Roma n. 11925/2016). Mentre, infatti, nel controllo interno l'operato degli amministratori è indirettamente condizionato da chi ha il potere di nominarli, rinnovarli in carica o revocarli, nel controllo esterno l'operato degli amministratori è influenzato indirettamente e fattualmente da vincoli contrattuali che sono “particolari”, perché idonei ad attribuire ad un'altra impresa poteri legittimi di condizionamento indiretto dell'operato degli amministratori della controllata esterna. A differenza del controllo interno, quello esterno deve essere effettivo (Lamandini, 397; Notari, Bertone, 705). Ai fini del controllo esterno non è rilevante qualsiasi contratto cui consegua un'influenza dominante, ma assumono rilievo solo quei contratti che, in virtù delle loro peculiarità, danno luogo a una situazione di dipendenza di una società verso la sua controparte contrattuale (Campobasso, 293; Abbadessa, 110; Rimini, 22). Quanto al novero dei contratti dai quali derivare un controllo esterno, si fa tradizionalmente riferimento a contratti di somministrazione, di agenzia, di commissione, di licenza di brevetto o di know-how, soprattutto ove accompagnati da un vincolo di esclusiva, contratti la cui costituzione ed il cui perdurare rappresentano la condizione di esistenza e di sopravvivenza della capacità di impresa della società controllata (Cass. n. 12094/2011). In altre parole, la giurisprudenza tende a richiedere un rapporto derivante dai suddetti vincoli contrattuali di subordinazione tra le due società, tale da ridurre l'una ad una vera e propria società satellite dell'altra (Trib. Roma 11 luglio 2011; Trib. Palermo 3 giugno2010). L'art. 2359, comma 1, n. 3 c.c. richiede che i rapporti contrattuali che generano la situazione di controllo interno siano particolari e che, dunque, sulla base di essi la società controllata non possa autonomamente determinare le proprie scelte strategiche in ordine allo svolgimento della propria attività imprenditoriale. In altre parole, l'atteggiarsi dei rapporti negoziali, per integrare la fattispecie di controllo esterno, deve generare la traslazione all'esterno della società del poter di direzione dell'attività sociale, ma ciò non si verifica sulla base della sola reiterazione nel tempo di più ordini. Ad opinare diversamente, si avrebbe una assoluta dilatazione del concetto di controllo esterno (come detto in contrasto con l'aggettivazione, contenuta nell'art. 2359 primo comma n. 3, dei rapporti contrattuali come “particolari”), il quale si verificherebbe automaticamente in ogni rapporto negoziale stabile che vede coinvolto un operatore del c.d. indotto generato dall'attività di una impresa (Trib. Roma n. 11925/2916). La nozione giuridica di controllo esterno appena illustrata è condivisa anche dall'ANAC, secondo cui la fattispecie di cui all'art. 2359, comma 1, n. 3, c.c. configura un'ipotesi di controllo non assembleare, ma fondata su vincoli negoziali «di forza tale da generare un'influenza dominante equivalente a quella conferita dal possesso della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria», con la conseguenza che «non ogni vincolo contrattuale da cui derivi un'influenza dominante rientra nella fattispecie del controllo esterno, risultando necessario, ai fini della rilevanza ex art. 2359, comma 1, n. 3, c.c., valutare quali siano in concreto gli effetti da esso prodotti, il suo contenuto e il contesto in cui si manifesta» e che «i particolari vincoli contrattuali, idonei a configurare l'influenza dominante esterna, devono rappresentare non già la mera occasione, bensì una vera condizione di esistenza e sopravvivenza, a loro volta, non della società in sé, bensì della sua capacità di impresa» (Delibera ANAC n. 1134 dell'8 novembre 2017, recante «Nuove linee guida per l'attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici». Sul punto, v. anche T.A.R. Lazio, RomaI, n. 5118/2019). A questo proposito, parte della dottrina interpreta l'espressione «particolare vincoli contrattuali» nel senso di ritenere: necessaria la presenza nei contratti commerciali di clausole speciali in grado di influire sull'attività della controllata nel suo complesso e di indirizzarne «talune fondamentali scelte gestorie»; non sufficienti la presenza di clausole che incidano semplicemente su alcuni comportamenti della controllata (Rimini, 25). Il controllo indirettoPer configurare una situazione di controllo interno (di diritto e/o di fatto) si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; non si computano i voti spettanti per conto di terzi. È questo il fenomeno del c.d. controllo indiretto disciplinato dall'art. 2359, comma 2, c.c. e applicabile anche alle società a partecipazione pubblica. Consenso unanime di tutte le parti: il controllo congiunto, condiviso e il controllo analogo congiuntoL'art. 2, comma 1, lett. b) del TUSP dispone, inoltre, che «[i]l controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo». La situazione disciplinata dall'art. 2, comma 1, lett. b) del TUSP è diversa da quella che si traduce nel c.d. controllo interno (di diritto o di fatto) di cui all'art. 2359, comma 1, nn. 1 e 2, c.c. Mentre, infatti, il controllo interno presuppone l'influenza dominante del socio sull'assemblea ordinaria e annette rilievo alla sola influenza positiva, non anche ai poteri d'interdizione dei soci minoritari, nella fattispecie disegnata dall'art. 2, comma 1 lett. b) del TUSP «viene in considerazione anche l'influenza «determinante», se pure soltanto negativa, e per di più con riguardo a delle materie che ricadrebbero, invero, nell'alveo dei poteri di gestione (straordinaria) degli amministratori». In altri termini, il TUSP assimila il controllo «interno», basato sulla disponibilità della maggioranza dei voti o sull'influenza dominante dell'assemblea ordinaria, al controllo «strategico» sulla gestione della società, conseguito con qualsiasi strumento o modalità (Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 228/2017, Considerazioni in tema di controllo, controllo congiunto e controllo analogo nella disciplina del TUSP). La nozione di controllo rilevante ai fini del TUSP, pertanto, non coincide con quella di cui all'art. 2359 c.c. E la giurisprudenza sul punto è intervenuta affermando che «l'accertamento della sussistenza dello status di società a controllo pubblico non può essere desunto dai meri indici costituiti dalla maggioranza di azioni e di consiglieri nel consiglio di amministrazione ma richiede precipua attività istruttoria volta a verificare se, nel caso concreto, sussistano le condizioni richieste dall'art. 2, lett. b) del d.lgs. n. 175/2016. In altre parole, ai fini del decidere se una società possa definirsi o meno società a controllo pubblico ovvero semplicemente società a partecipazione pubblica, assume rilievo decisivo lo scrutinio delle disposizioni statutarie e dei patti parasociali per verificare in che termini le pubbliche amministrazioni (enti locali) che detengono partecipazioni azionarie sono in grado di influire sulle “decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale”. Ciò si ricava dalla lettura dell'art. 2 lett. b) del d.lgs. n. 175/ 2016 che circoscrive in modo più rigoroso la nozione di “controllo pubblico” introducendo un'altra fattispecie, estranea alla nozione civilistica ex art. 2359 cod.civ.» (C. Conti S.U.giur., 16/2019; T.A.R. Marche, n. 480/2021). L'art. 2, comma 1, lett. b) del TUSP, consente di attribuire la qualità di «co-controllante» anche alla pubblica amministrazione che disponga di partecipazione di modesta entità, ma il cui voto sia concretamente «necessario», secondo le regole organizzative dello statuto, del patto parasociale o del contratto di coordinamento; non solo, cioè, in caso di previsione di maggioranze semplici o rafforzate, ma anche di unanimità, e quindi di influenza puramente negativa. La norma in commento disegna una forma di controllo congiunto sotto certi aspetti «rafforzata», perché: a) sul piano oggettivo, è riferita all'adozione delle sole decisioni finanziarie e gestionali e strategiche (e non riguarda, pertanto, lesole materie di competenza dell'assemblea); b) sul piano soggettivo, è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo (Demuro, 291). L'identificazione esatta di quali siano le decisioni finanziarie e gestionali strategiche che rilevano ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. b) del TUSP, non è però definita dal legislatore. Sul punto, può esser condivisa l'opinione della dottrina che riconduce a tale categoria: ogni proposta che il consiglio di amministrazione decide di rimettere all'assemblea straordinaria (si pensi all'approvazione dei progetti di fusione e di scissione); l'acquisizione di società e/o aziende e/o di rami di azienda per un valore superiore a un certo ammontare; la cessione di società e/o aziende e/o di rami di azienda; l'assunzione di finanziamenti a lungo termine di importo superiore a un certo ammontare; la concessione di garanzie reali su beni della società; la quotazione in Borsa della società; la sottoscrizione di contratti quadro di durata superiore a un certo lasso di tempo o che comportino un esborso finanziario superiore a un certo ammontare; l'approvazione del business plan della società (Bianchi, 243). L'ampliamento della nozione di controllo societario adottata dall'art. 2, comma 1, lett. b) del TUSP può esser giustificata alla luce dell'evoluzione del concetto di controllo, dopo la riforma delle società, e in particolare alla tesi della riconducibilità alla sfera dell'art. 2359 c.c. anche del c.d. controllo congiunto. Infatti, a seguito l'introduzione dell'art. 2341-bis, comma 1, c.c., che legittima anche nelle società chiuse i patti parasociali che, «al fine di stabilizzare il governo delle società», «hanno per oggetto per effetto l'esercizio anche congiunto di un'influenza dominante» e degli artt. 2497 ss. c.c. sull'attività di direzione e coordinamento, che prevede forme di «eterodirezione condivisa» basate su patti parasociali o contratti di coordinamento, nonché in ragione di varie altre considerazioni inerenti all'attuazione nell'ordinamento interno delle direttive 92/101/CEE e 2012/30/UE, è da più parti ritenuta superata la tesi della configurazione necessariamente «solitaria» del controllo (Demuro, 287; Lamandini, 755). Nella stessa direzione si muovono anche altre norme dello stesso Testo Unico. In linea generale, l'ipotesi del controllo congiunto è coerente con la ratio della riforma volta all'utilizzo ottimale delle risorse pubbliche e al contenimento della spesa (Orientamento MEF del 15 febbraio 2018, avente ad oggetto: «la nozione di «società a controllo pubblico» di cui all'art. 2, comma 1, lett. m), del d.lgs. n. 175/2016 (di seguito «TUSP»)»). Sul piano del diritto positivo, invece, l'art. 2, comma 1, lett. m) definisce come «società a controllo pubblico» le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lett. b), così confermando che ai fini del TUSP è pienamente ammissibile il controllo congiunto. Inoltre, sulla medesima linea si pone anche il successivo art. 16, che disciplina le società in house e prevede che il controllo analogo possa essere esercitato, in modo congiunto, da più amministrazioni. Questa forma di controllo (i.e. il controllo analogo congiunto) è a sua volta definita dall'art. 2, comma 1, lett. d), come «la situazione in cui l'amministrazione esercita congiuntamente con altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi». Il controllo analogo congiunto identifica una forma di controllo, da tempo riconosciuta dalla Corte di giustizia (CGCE,C-295/05, Asemfo, punti 56-61;CGCE,C-324/07, Coditel Brabant S.A., punti 47 e 50; CGCE, C-573/07, Sea, punti 54-65;CGCE,C-182/11 e C-183/11, Econord, punti 28-31), che è codificata anche nella Direttiva n. 2014/24/UE, il cui art. 12, comma 3, dispone che le amministrazioni aggiudicatrici esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto, se ed in quanto siano soddisfatte tutte e tre le condizioni ivi previste: «i) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti; ii) tali amministrazioni aggiudicatrici sono in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; e iii) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici controllanti» (di analogo tenore risultano le previsioni contenute negli artt. 17 e 28, rispettivamente, della Direttiva 2014/23/UE e della Direttivan. 2014/25/UE). La situazione del controllo analogo congiunto, si configura solo al ricorrere delle condizioni di cui all'articolo 5, comma 5, d.lgs. n. 50/2016. Pertanto, devono essere soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti; b) tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti. Le nozioni giuridiche di controllo congiunto e di controllo analogo congiunto vanno però tenute distinte. Più nel dettaglio, si ha controllo congiunto (non analogo) quando ciascun co-controllante ha un concorso volitivo nella formazione della volontà unitaria del gruppo. A questo fine, non è sufficiente la semplice adesione ad un patto parasociale, ma è necessario che le previsioni statutarie e/o pattizie prevedano maggioranze rafforzate – se non addirittura l'unanimità – se non su tutte, almeno sulla maggior parte delle materie più significative inerenti alle decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale (Lamandini, 755). Anche per configurare il controllo congiunto è necessaria una forma di raccordo stabile tra i soci, intesa quale esercizio continuo del coordinamento tra i co-controllanti (Demuro, 289). Per poter configurare un controllo analogo congiunto è invece necessario un quid pluris, costituito dall'influenza determinante, la quale si estrinseca nell'ambito della c.d. alta amministrazione e conferisce ai soci il potere di incidere su autonomia gestionale ed esecutiva dell'organo amministrativo, senza però annullarla del tutto (Demuro, 289; Guerrera, 6). A questo fine, la giurisprudenza ha apprezzato quali validi strumenti per l'esercizio del controllo analogo congiunto la costituzione di Comitati tecnici e /o assembleari, ma condizione che in essi ogni socio pubblico abbia un proprio rappresentante e che le deliberazioni siano assunte con maggioranze formate per unità e che siano previsti poteri di controllo e di gestione tali da restringere l'autonomia decisionale del consiglio di amministrazione imponendo indirizzi e prescrizioni, nonché prevedendo poteri consultivi preventivi (Cons. St. V, n. 8028/2020; Cons. St. V, n. 6460/2020). In questa prospettiva un Comitato assembleare costituito al fine di disciplinare la collaborazione tra i soci per l'esercizio del controllo analogo, se dotato di poteri vincolanti nei confronti del consiglio di amministrazione, è stato valutato come indicativo di una rilevante deroga ai meccanismi tipici di funzionamento della società di capitali in grado di assicurare ai soci pubblici, collettivamente considerati, un'influenza determinante e un controllo analogo sulla gestione dell'ente partecipato (Cons. St. V, n. 2599/2018). Questo orientamento è stato confermato anche a fronte dell'art. 11, comma 9, lett. d) del TUSP, che stabilisce il divieto per gli statuti delle società a controllo pubblico di «istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società». La norma in questione, infatti, è stata interpretata nel senso di non precludere ai soci pubblici il diritto di istituire organi speciali per esercitare il controllo congiunto sulla società in house (Cons. St. V, n. 8028/2020; Cons. St. V, n. 6460/2020). Ciò è stato affermato sulla base di tre principali argomentazioni. a) il divieto in questione è previsto in relazione alle società a controllo pubblico disciplinate appunto dall'art. 11 e non è ripetuto nell'art. 16 dedicato invece alle società in house, la cui disciplina è stata ritenuta, pertanto, speciale e derogatoria; b) rispetto alle società a controllo pubblico, per le quali, l'art. 2, comma 1, lett. m), d.lgs. n. 175/2016 richiede che il controllo si esplichi nelle forme dell'art. 2359 c.c., le società in house sono sottoposte a quella forma particolare di controllo pubblico che è costituita dal controllo analogo (come chiaramente precisato dall'art. 2, comma 1, lett. o). La logica sottesa al c.d. controllo analogo è stata, quindi, differenziata da quella del codice civile ove, per l'esigenza di garantire la separazione tra gestione dell'impresa sociale e proprietà della stessa, agli amministratori è riconosciuta la competenza gestoria con carattere generale; essi, pertanto, possono assumere tutti gli atti di gestione dell'impresa, non riservati ad altri organi, reputati necessari al conseguimento dell'oggetto sociale e all'assemblea spetta solo il controllo sulle modalità della gestione (salvo, naturalmente, le decisioni che comportano modifica sostanziale dell'oggetto sociale); c) nel caso del controllo analogo in forma congiunta i soci pubblici hanno necessità di concordare previamente le determinazioni da trasmettere agli organi di amministrazione della società. Tanto discende dal complesso delle condizioni poste dall'art. 5, comma 5 del d.lgs. n. 50/2016. I soci pubblici partecipanti, quindi, nominano rappresentati comuni negli organi decisionali, si accordano sulle decisioni più significative per la vita sociale, controllano reciprocamente che gli indirizzi elaborati non vadano a discapito dei propri interessi; esercizio «congiunto» sta, allora, per esercizio «condiviso»; descrive una modalità di gestione da parte dei soci pubblici controllanti caratterizzata da coordinamento delle decisioni affinché degli interessi pubblici perseguiti da ciascuno degli enti partecipanti si faccia sintesi nell'interesse pubblico comune perseguito dalla società nell'esecuzione del servizio. Perché si abbia condivisione del controllo è, allora, indispensabile una sede nella quale la volontà comune possa assumere la forma di determinazioni vincolanti per gli organi amministrativi e che non sia l'assemblea dei soci per la prevalenza che i soci di maggioranza vi esercitano secondo le ordinarie regole deliberative (principio di maggioranza azionaria) e per la predominanza, nelle deliberazioni ivi assunte, dell'interesse al risultato economico della società. I presupposti appena descritti al ricorrere dei quali si configura l'ipotesi del controllo analogo congiunto sono volti a garantire che le decisioni più importanti inerenti alla gestione della società siano sottoposti al vaglio preventivo della totalità delle amministrazioni pubbliche detentrici delle partecipazioni. Da qui la conclusione per cui il controllo analogo congiunto fa delle società in house una longa manus per plurime amministrazioni, ognuna delle quali è titolare del potere di indirizzo e di controllo della società partecipata da esercitare nell'ottica di una necessaria concordanza dei fini e secondo una logica di cooperazione istituzionale verticale (Stanizzi, 93 e 95). Gli enti locali.Gli «enti locali» sono identificati dall'art. 2, comma 1, lett. e) del TUSP negli enti di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 267/2000. Anche ai fini del TUSP, pertanto, si intendono per enti locali i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane e le unioni di comuni. Partecipazione e partecipazione indiretta.Ai fini del TUSP, la partecipazione consiste nella titolarità di rapporti comportanti la qualità di socio in società o nella titolarità di strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi (art. 2, comma 1, lett. f). La qualità di socio si acquisisce con la titolarità di azioni o di quote societarie. Nel diritto societario esistono, come è noto, diverse categorie di azioni (che si differenziano in base al contenuto dei diritti patrimoniali e amministrativi conferiti ai rispettivi titolari), ma ai fini del TUSP quello che conta è «la titolarità di rapporti comportanti la qualità di socio». Pertanto, la nozione giuridica di partecipazione accolta dal d.lgs. n. 175/2016 prescinde dalla tipologia di partecipazione azionaria concretamente rilevante (Nicodemo, 107). La partecipazione delle amministrazioni pubbliche nelle società disciplinate dal TUSP può essere diretta o indiretta (art. 2, comma 1, lett. g). In questo secondo caso, la partecipazione è detenuta da un'amministrazione pubblica per il tramite di società o altri organismi soggetti a controllo da parte della medesima amministrazione pubblica (si pensi, ad esempio, a una fondazione a controllo pubblico). Si ha partecipazione anche in presenza di strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi. Questo istituto è disciplinato, in linea generale, dall'art. 2346, ult. comma, c.c., a tenor del quale: «Resta salva la possibilità che la società, a seguito dell'apporto da parte dei soci o di terzi anche di opere o servizi, emetta strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nell'assemblea generale degli azionisti. In tal caso lo statuto ne disciplina le modalità e condizioni di emissione, i diritti che conferiscono, le sanzioni in caso di inadempimento delle prestazioni e, se ammessa, la legge di circolazione». L'attuale formulazione dell'art. 2346, ultimo comma, c.c. consente l'emissione di strumenti finanziari «partecipativi» anche a seguito dell'apporto di denaro. Ciò si desume dalla locuzione «anche di opere o servizi», dalla quale si desume che l'apporto di regola è in denaro o in natura. Ai sensi dell'art. 2346 c.c., i diritti attribuiti dagli strumenti finanziari partecipativi possono essere patrimoniali e amministrativi. L'opinione maggiormente diffusa tra gli studiosi considera questi ultimi accessori ai primi. Ai fini del TUSP, tuttavia, i diritti amministrativi non possono mai mancare. La dottrina è divisa tra chi (Stagno D'alcontres, 265) sostiene che i diritti amministrativi conferiti dagli strumenti finanziari non possano essere diversi da quelli che competono ai soci (ad esempio, il diritto di intervento in assemblea, il diritto di informazione proprio dei soci, il diritto di impugnazione delle delibere assembleari o di denuncia di gravi irregolarità, il diritto di opzione, che il titolare di strumenti finanziari può esercitare in caso di emissione di altri strumenti finanziari) e chi sostiene, invece, che i diritti amministrativi possano avere ad oggetto anche poteri gestori, come ad esempio il potere di nomina dei dirigenti delle società o di ottenere rendiconti periodici analoghi a quelli cui hanno diritto gli amministratori non esecutivi. Su questo punto è stato rilevato che «i diritti dell'«azionista» – e più specificamente dell'«azionista ordinario» – possono essere in astratto un utile parametro di riferimento volto a facilitare l'individuazione dei diritti amministrativi che possono essere attribuiti ai sensi dell'art. 2346, ultimo comma, c.c., ma non devono rappresentare in alcun modo un parametro vincolante»; e che «gli strumenti partecipativi possono essere dotati – nei limiti previsti dal legislatore o comunque ricavabili dal sistema – anche di diritti «amministrativi» diversi da quelli propri dell'azionista (ordinario)» (Tombari, 6). Il legislatore ha invece espressamente previsto che gli strumenti finanziari in esame possono essere dotati del «diritto di voto su argomenti specificamente indicati» (art. 2351, ultimo comma, c.c.). Questa previsione va coordinata con quanto disposto dall'art. 2346, ultimo comma, c.c., che a sua volta individua, quale limite invalicabile, quello costituito dall'attribuzione del diritto di voto nell'assemblea generale degli azionisti (Formica, 346). L'antinomia è però solo apparente, perché l'espressione «diritto di voto su argomenti specificamente indicati» può essere intesa nel senso che questo diritto deve essere esercitato nell'assemblea separata dei titolari di strumenti finanziari e non nell'assemblea generale degli azionisti, la quale sarà statutariamente tenuta ad uniformarsi alle indicazioni espresse in sede di assemblea separata (in questo senso, Notari, 87). Il codice civile prevede, inoltre, un'unica ipotesi (esemplificativa) di diritto di voto su argomenti specificamente indicati. A tal proposito, l'ultimo periodo dell'art. 2351, ultimo comma, c.c., dispone che a tali strumenti può essere «riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco» e che «alle persone così nominate si applicano le medesime norme previste per gli altri componenti dell'organo cui partecipano». In coerenza con la soluzione dell'apparente antinomia tra artt. 2346 e art. 2351 c.c. che è stata sopra rappresentata, è da ritenere che è da ritenere che anche il potere di nomina appena descritto debba essere esercitato al di fuori dell'assemblea generale degli azionisti. Ciò si ricava anche dall'art. 2383, comma 1, c.c., ove tra le eccezioni al principio generale per cui «la nomina degli amministratori spetta all'assemblea» si menziona espressamente l'ipotesi prevista dall'art. 2351 c.c. (Tombari, 9). Servizi di interesse generale e servizi di interesse economico generale.L'art. 2, comma 1 del TUSP definisce: a) alla lettera h), i «servizi di interesse generale» (SIG), come quelli aventi ad oggetto «le attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell'ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l'omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale»; b) alla successiva lettera i), i «servizi di interesse economico generale» (SIEG) come quei «servizi di interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato». Si tratta di due nozioni di derivazione euro-unitaria. La nozione giuridica di SIEG e di SIG ha infatti origine nel diritto europeo. «L'espressione «servizi di interesse generale» non è presente nel Trattato, ma è derivata nella prassi comunitaria dall'espressione «servizi di interesse economico generale» che invece è utilizzata nel Trattato. È un'espressione più ampia di «servizi di interesse economico generale» e riguarda sia i servizi di mercato che quelli non di mercato che le autorità pubbliche considerano di interesse generale e assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico» (Libro verde della Commissione europea del 21 maggio 2003 ai paragrafi 16 e 17). In sostanza, dal riferimento alla nozione positiva di «servizio di interesse economico generale» contenuto in alcune norme del Trattato, si è giunti ad enucleare la più ampia nozione di «servizio di interesse generale», formalmente assente. La fondamentale norma del Trattato che in ambito europeo assume rilievo ai fini dell'individuazione della nozione giuridica di SIEG è l'art. 106, par. 2TFUE, a tenor del quale: «Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell'Unione». L'art. 106, par. 2 TFUE assoggetta le imprese incaricate della gestione dei SIEG alle regole di concorrenza, ma a condizione che ciò non costituisca un ostacolo alla missione cui sono preposte. Per questa tipologia di servizi, infatti, è possibile che il mercato non sia strutturalmente in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della collettività. Da qui la conclusione secondo cui l'art. 106, par. 2 TFUE è una norma che giustifica deroghe agli obiettivi di piena concorrenza, la cui portata deve in ogni caso essere sempre verificata nel caso concreto (Allena, Giugliano, 120; Cintioli, 5; Gallo, 135). In questo senso si è espresso anche il Consiglio di Stato, precisando che l'art. 106, par. 2 TFUE consente «una «deroga» all'applicazione dei principi di libera concorrenza nel caso in cui essa possa ostacolare l'adempimento della «specifica missione» affidata alle imprese, pubbliche o private, incaricate della gestione di servizi definiti di «interesse economico generale» (cosiddetti SIEG)»; e che, «[i]n questo ambito rientrano, tra l'altro, gli obblighi di servizio universale che devono assicurare l'effettiva prestazione del servizio, qualunque sia la collocazione geografica dell'utente, a condizioni eque e non discriminatorie» (Cons. St., parere n. 968/2016). Un riferimento ai SIEG è inoltre contenuto nell'art. 14TFUE, in base al quale, fermo restando quanto disposto (tra gli altri) dall'art. 106 TFUE, «in considerazione dell'importanza dei servizi di interesse economico generale nell'ambito dei valori comuni dell'Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, l'Unione e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell'ambito del campo di applicazione dei trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti». Rientra, dunque, nell'autonomia degli Stati membri individuare gli ambiti in cui è necessario un intervento pubblico nel mercato per assicurare l'assolvimento della «specifica missione». Per l'istituzione di un SIEG è necessario che sussistano tre condizioni: a) deve avere ad oggetto una attività di impresa di rilevanza economica; b) vi deve essere un atto di uno Stato membro che assegni a una certa entità (pubblica o privata) una missione di interesse generale; c) l'interesse da realizzare deve avere un effettivo carattere generale (Cintioli, 2018, 43). Il «costo» del SIEG non può gravare sull'impresa pubblica (o privata) perché questa, senza l'imposizione dell'obbligo, non avrebbe reso quella prestazione nel rispetto delle specifiche modalità previste. Se tale costo fosse posto a carico dell'erogatore del servizio si realizzerebbe un'ingiustificata discriminazione rispetto ad altri, eventuali, operatori del medesimo settore che non sono gravati da analoghi obblighi. Le diverse discipline prevedono, pertanto, che il costo del servizio venga assunto dalla pubblica amministrazione oppure ripartito pro quota fra le imprese concorrenti in modo da ristabilire, quando è imposto ad una soltanto di esse, la par condicio tra gli operatori economici. Le regole di finanziamento dei SIEG appena descritte costituiscono la «deroga» all'applicazione delle «regole della concorrenza» cui si è fatto sopra riferimento che il diritto europeo consente proprio per assicurare che i singoli Stati adempiano alla «specifica missione» nell'interesse pubblico e cioè nell'interesse dei cittadini all'erogazione di quel servizio. La mancanza, infatti, di tale ragione di interesse pubblico comporterebbe la qualificazione delle «compensazioni economiche» quali illegittimi aiuti di stato. Il diritto UE, in definitiva, da un lato lascia agli Stati membri, salvo il caso dell'«errore manifesto» (Trib. primo grado, T-289/03, punto 220), ampia discrezionalità per individuare la tipologia di prestazioni da inserire nell'ambito dei SIEG; ma, dall'altro lato, impone poi il rispetto di precisi requisiti nella fase del finanziamento al fine di assicurare che vi sia un rapporto di stretta proporzionalità tra entità degli obblighi e misura della compensazione (CGUE,C-280/2000, Altmark). Nell'esercizio del potere discrezionale di cui dispone ai sensi dell'art. 106, par. 2 TFUE, la Commissione europea può adottare norme di condotta al fine di stabilire i criteri sulla base dei quali essa intende valutare la compatibilità, con il mercato interno, di misure di aiuto attinenti alla gestione di un SIEG, previste dagli Stati membri. Adottando simili norme di condotta, e annunciando con la loro pubblicazione che essa le applicherà da quel momento in poi alle fattispecie cui si riferiscono, la Commissione si autolimita nell'esercizio del potere discrezionale summenzionato e non può, in linea di principio, discostarsi dalle medesime norme, pena una sanzione, eventualmente, per violazione di principi generali del diritto, quali il principio della parità di trattamento o quello della tutela del legittimo affidamento (v., CGUE, C431/14, Grecia/Commissione, punti 68 e 69; Id., C526/14, Kotnik e a., punti 39 e 40). Avvalendosi di questa prerogativa, la Commissione europea ha adottato la comunicazione intitolata «Disciplina dell'Unione europea relativa agli aiuti di Stato concessi sotto forma di compensazione degli obblighi di servizio pubblico (2011)», che: a) al punto 14 della Sezione 2.2, intitolata «Effettivo servizio di interesse economico generale di cui all'articolo 106 [TFUE]», così dispone: «Ai fini dell'applicazione dei principi delineati nella presente comunicazione, è opportuno che gli Stati membri dimostrino di aver tenuto in debita considerazione le esigenze di servizio pubblico cui è offerto sostegno mediante una consultazione pubblica o altri strumenti adeguati per tener conto degli interessi di utenti e fornitori. Ciò non si applica qualora sia evidente che una nuova consultazione non apporterà nessun valore aggiunto significativo a una consultazione svolta di recente»; b) al punto 19 fella sezione 2.6, intitolata «Rispetto delle norme dell'Unione sull'aggiudicazione degli appalti», prevede: «Un aiuto verrà considerato compatibile con il mercato interno a norma dell'art. 106, paragrafo 2, [TFUE] soltanto se l'autorità responsabile, al momento di incaricare l'impresa in questione della fornitura del servizio, ha rispettato o si impegna a rispettare le norme dell'Unione applicabili in materia di appalti pubblici. Questo comprende eventuali condizioni relative a trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione sancite direttamente dal trattato e, se del caso, dal diritto derivato dell'Unione. Si ritiene che gli aiuti che non rispettano tali norme e condizioni compromettano lo sviluppo degli scambi in misura contraria agli interessi dell'Unione, a norma dell'art. 106, paragrafo 2, del trattato»; c) al punto 25 della Sezione 2.8, intitolata «Importo della compensazione», precisa quanto segue: «In base alla metodologia del costo evitato netto, il costo netto necessario – o che si prevede sia necessario – per ottemperare agli obblighi di servizio pubblico è calcolato come la differenza tra il costo netto per il fornitore del servizio soggetto ad un obbligo di servizio pubblico e il costo netto o utile del medesimo fornitore in assenza di tale obbligo. Va riservata una particolare attenzione alla corretta valutazione dei costi che si prevede che il fornitore del servizio eviti e delle entrate che si prevede questi non realizzi, in assenza dell'obbligo di servizio pubblico. Il calcolo del costo netto deve valutare i vantaggi, compresi per quanto possibile quelli immateriali, di cui beneficia il fornitore del SIEG»; d) nella sezione 2.9, intitolata «Possono essere necessarie condizioni aggiuntive per garantire che lo sviluppo degli scambi non sia compromesso in misura contraria agli interessi dell'Unione», così dispone: «51. Le condizioni previste alle sezioni da 2.1 a 2.8 sono di norma sufficienti per garantire che gli aiuti non falsino la concorrenza in misura contraria agli interessi dell'Unione. 52. Tuttavia è possibile che, in circostanze eccezionali, alcune gravi distorsioni della concorrenza nel mercato interno possano restare irrisolte e che l'aiuto possa incidere sugli scambi in misura contraria all'interesse dell'Unione. [...] 56. Un'altra situazione in cui può rendersi necessaria una valutazione più dettagliata potrebbe verificarsi qualora uno Stato membro incarichi un fornitore di servizi pubblici, senza procedura di selezione concorrenziale, di fornire un SIEG su un mercato non riservato dove sono già forniti servizi molto simili o si può prevedere che vengano forniti in un futuro prossimo in assenza del SIEG. Questi effetti negativi sullo sviluppo degli scambi possono essere più accentuati se il SIEG viene offerto a una tariffa inferiore ai costi dei fornitori esistenti o potenziali, in modo da causare la preclusione del mercato. La Commissione, sebbene rispetti pienamente l'ampio margine di discrezionalità di uno Stato membro per definire il SIEG, può tuttavia chiedere modifiche, ad esempio nell'attribuzione dell'aiuto, qualora possa ragionevolmente dimostrare la possibilità di fornire lo stesso SIEG a condizioni equivalenti per gli utenti, in maniera meno distorsiva e a costo minore per lo Stato»; e) al punto 60, contenuto nella sezione 2.10, intitolata «Trasparenza», stabilisce infine quanto segue: «Per ciascuna compensazione della prestazione di SIEG che rientra nel campo di applicazione della presente comunicazione, lo Stato interessato deve pubblicare le seguenti informazioni, su Internet o in altro modo adeguato: i risultati della consultazione pubblica o degli altri strumenti adeguati di cui al punto 14; l'oggetto e la durata degli obblighi di servizio pubblico; l'impresa e, se del caso, il territorio interessati; gli importi di aiuto concessi all'impresa su base annua». Nella sentenza Altmark (causa C280/00) la Corte di Giustizia, a sua volta, ha chiarito quando le imprese incaricate dell'adempimento di obblighi di servizio pubblico (OSP) non traggono in realtà un vantaggio finanziario dalla compensazione ricevuta come contropartita per l'adempimento di detti obblighi e non si trovano quindi in una posizione concorrenziale più favorevole rispetto alle loro concorrenti. Ciò si verifica in presenza di quattro condizioni. La prima, richiede una valutazione per stabilire se l'impresa beneficiaria della compensazione sia effettivamente incaricata dell'adempimento di OSP e se tali obblighi siano definiti in modo chiaro. La condizione in oggetto presenta pertanto aspetti diversi, sebbene strettamente connessi, che corrispondono in sostanza alle seguenti domande: (i) se le autorità pubbliche abbiano designato una fornitura di servizi come «servizi di interesse economico generale» ai sensi degli artt. 14 e 106, paragrafo 2,TFUE, (ii) se il compito di adempiere OSP nel contesto della fornitura di tali servizi sia stato affidato ad una (o più) imprese specifiche, e (iii) se gli obblighi di servizio pubblico siano definiti in modo chiaro. La seconda, riguarda i parametri sulla base dei quali viene calcolata la compensazione: essi devono essere previamente definiti in modo obiettivo e trasparente, onde evitare che essa attribuisca un vantaggio economico che può favorire l'impresa destinataria rispetto alle imprese concorrenti. In base alla terza condizione, la compensazione non può eccedere quanto necessario per coprire interamente o in parte i costi originati dall'adempimento degli OSP, tenendo conto dei relativi introiti nonché di un margine di utile ragionevole. Infine, in base alla quarta condizione, qualora l'impresa che deve adempiere gli OSP non venga scelta tramite una procedura di appalto pubblico, la compensazione deve essere determinata sulla base di un'analisi dei costi che un'impresa media, gestita in modo efficiente e adeguatamente dotata dei mezzi necessari a consentirle di soddisfare i necessari requisiti relativi al servizio pubblico, avrebbe sostenuto nell'adempimento di detti obblighi, tenuto conto dei relativi introiti nonché di un margine di utile ragionevole per l'adempimento di detti obblighi. Tra le quattro condizioni appena elencate, l'ultima è forse la più difficile da accertare. È stato osservato che, data la loro rigorosità, le condizioni Altmark sono difficili da soddisfare. È dunque importante rilevare, in tale contesto, che anche una misura che non soddisfi tali condizioni può tuttavia essere giustificata ai sensi dell'art. 106, paragrafo 2, TFUE. E, come la Corte ha indicato in modo chiaro nella sentenza Viasat, le condizioni Altmark non sono rilevanti nel valutare la compatibilità con il mercato interno di una misura di aiuto concessa ad un fornitore di SIEG (CGUE, Viasat Broadcasting UK/Commissione, C-660/15). Come si è detto, il diritto europeo distingue dai SIEG i «servizi di interesse generale» (SIG), che sono quelli non suscettibili di essere gestiti in regime di impresa e che attengono ai bisogni primari del cittadino (quale, ad esempio, scuola, sanità, assistenza sociale). Nel Libro verde della Commissione europea del 21 maggio 2003 ai paragrafi 16 e 17, si rileva che: «L'espressione «servizi di interesse generale» non è presente nel Trattato, ma è derivata nella prassi comunitaria dall'espressione «servizi di interesse economico generale» che invece è utilizzata nel Trattato. È un'espressione più ampia di «servizi di interesse economico generale» e riguarda sia i servizi di mercato che quelli non di mercato che le autorità pubbliche considerano di interesse generale e assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico». In sostanza, dal riferimento alla nozione positiva di «servizio di interesse economico generale» contenuto in alcune norme del Trattato, si è giunti ad enucleare la più ampia nozione di «servizio di interesse generale», formalmente assente. Ai fini dell'erogazione dei SIG gli Stati membri possono optare liberamente tra il regime di autoproduzione del servizio e quello di esternalizzazione (collocati dall'ordinamento europeo su un piano di equiordinazione) e solo nel secondo caso incombe sulle amministrazioni l'obbligo di operare nel pieno rispetto dell'ulteriore principio della massima concorrenzialità fra gli operatori di mercato (T.A.R. Lazio, Roma III-bis, n. 3504/2021; CGUE 9 giugno 2009, C-480/06, Commissione c. Repubblica Federale di Germania, § 45). Questo principio è enunciato dal Considerando 5 della Direttiva n. 2014/24/UE, ai sensi del quale «nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva». Sulla stessa linea, l'art. 1, par. 4, della stessa Direttiva n. 2014/24/UE dispone, a sua volta: «La presente direttiva fa salva la libertà, per gli Stati membri, di definire, in conformità del diritto dell'Unione, quali essi ritengano essere servizi d'interesse economico generale, in che modo tali servizi debbano essere organizzati e finanziati, in conformità delle regole sugli aiuti di Stato, e a quali obblighi specifici debbano essere soggetti. Analogamente, la presente direttiva fa salva la possibilità per le autorità pubbliche di decidere se, come e in che misura desiderano espletare funzioni pubbliche autonomamente in conformità dell'art. 14 TFUE e del protocollo n. 26». E nello stesso senso depone anche l'art. 2 della Direttiva 2014/23/UE. Non esiste un catalogo definitorio dei SIG e dei SIEG. Per la loro identificazione, occorre pertanto far riferimento alle specifiche previsioni di legge che qualificano determinati servizi pubblici come tali, ai provvedimenti della Commissione europea (su tutte, v. il Documento di lavoro 29.4.2013 SWD(2013) 53 final/2) o alle pronunce della giurisprudenza (secondo cui nella nozione di SIG vi è un richiamo alle finalità dell'attività di produzione e fornitura di beni o servizi e questa deve essere necessaria «per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento» al fine di garantire «l'omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale» – Cons. St. V, n. 578/2019; T.A.R. Veneto, n. 999/2019). In questa sede ci limiteremo a fare qualche esempio. L'art. 14, comma 1-bis, della l. n. 84/1994, dispone che «i servizi tecnico-nautici di pilotaggio, rimorchio, ormeggio e battellaggio sono servizi di interesse generale atti a garantire nei porti, ove essi sono istituiti, la sicurezza della navigazione e dell'approdo» (T.A.R. Campania,Salerno, n. 1582/2021). Ai sensi dell'art. 2 della Direttiva 2006/123/CE «Bolkestein» i servizi sanitari debbono essere considerati servizi di interesse generale e, in quanto tali, sono esclusi dall'ambito di applicazione della direttiva stessa in tema di c.d. liberalizzazione delle attività economiche (Cons. St. III, n. 5284/2021). Sono stati ritenuti servizi di interesse generale anche quelli di trasporto sanitario (Cons. St. III, n. 5199/2020, secondo cui questi servizi possono essere oggetto affidamento diretto a associazioni di volontariato, in quanto si realizzi un risultato più favorevole rispetto al ricorso al libero mercato); quelli di mantenimento e il miglioramento della sicurezza della navigazione aerea, del controllo aereo; quelli di sorveglianza antinquinamento (CGUE, C-343/95, Calì & Figli, punto 22); quelli di organizzazione, finanziamento e esecuzione di misure penitenziarie allo scopo di garantire l'attuazione del sistema penale (Decisione della Commissione relativa al caso N 140/2006 – Lituania – «Allotment of subsidies to correction houses»); le prestazioni di assistenza all'infanzia e insegnamento pubblico che adempiono un compito di servizio pubblico in campo sociale, culturale, educativo rivolto ai cittadini (CGUE, C-263/86, Humbel, punto 18; Id., C-318/05, Commissione/Repubblica federale di Germania, punti 74-75). La nozione di società rilevante ai fini del TUSP (rinvio)Ai fini dell'applicazione del TUSP per società si intendono «gli organismi di cui ai titoli V e VI, capo I, del libro V del codice civile, anche aventi come oggetto sociale lo svolgimento di attività consortili, ai sensi dell'art. 2615-ter del c.c.». Per un compiuto esame di questa nozione, nell'ambito della disciplina dedicata alle società a partecipazione pubblica dal d.lgs. n. 175/2016, si rinvia al commento del successivo art. 3. Le società in house (rinvio)Le «società in house» sono quelle «sulle quali un'amministrazione esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo congiunto, nelle quali la partecipazione di capitali privati avviene nelle forme di cui all'art. 16, comma 1, e che soddisfano il requisito dell'attività prevalente di cui all'art. 16, comma 3». Anche per la disamina di questo istituto si rinvia al commento del successivo art. 16. Le società quotate.La nozione di società quotate è quella definita dall'art. 2, comma 1, lett. p) del d.lgs. n. 175/2016 ed è riferita alle «società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati» e alle «società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati». Il primo riferimento corrisponde sostanzialmente al modello civilistico di società quotata (Allena, Giugliano, 144), per la cui identificazione non si può prescindere dall'art. 119 del TUF, che apre il capo dedicato alla «Disciplina delle società quotate», disponendo in particolar modo che «Le disposizioni del presente capo si applicano, salvo che sia diversamente specificato, alle società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell'Unione Europea (società con azioni quotate)». Sono da ritenersi escluse dalla nozione giuridica di società quotata rilevante ai fini del TUSP le società quotate all'AIM, in quanto escluso dall'Elenco dei mercati regolamentati predisposto da Consob ai sensi dell'art. 63, comma 2 del TUF (Montalenti, 306; Tola, 317). Nella nozione di «società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati», invece, sono riconducibili le società che alla predetta data del 31 dicembre 2015 hanno emesso strumenti finanziari elencati nella Sezione C dell'Allegato I al TUF, purché quotati in mercati regolamentati (v. art. 1, comma 2, TUF). 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