Legge - 7/08/1990 - n. 241 art. 2 - Conclusione del procedimento 1 2

Luigi Tarantino

Conclusione del procedimento12

 

1. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un'istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l'adozione di un provvedimento espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilita', inammissibilita', improcedibilita' o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione puo' consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo3.

2. Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni. .

3. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell' articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 , su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, sono individuati i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza4.

4. Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione5.

4-bis. Le pubbliche amministrazioni misurano e pubblicano nel proprio sito internet istituzionale, nella sezione "Amministrazione trasparente", i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per i cittadini e per le imprese, comparandoli con i termini previsti dalla normativa vigente. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, previa intesa in Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti modalita' e criteri di misurazione dei tempi effettivi di conclusione dei procedimenti, nonché le ulteriori modalità di pubblicazione di cui al primo periodo6.

5. Fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di garanzia e di vigilanza disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza.

6. I termini per la conclusione del procedimento decorrono dall'inizio del procedimento d'ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte.

7. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 17, i termini di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 del presente articolo possono essere sospesi, per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, per l'acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si applicano le disposizioni dell'articolo 14, comma 2.

8. La tutela in materia di silenzio dell'amministrazione e' disciplinata dal codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n.104. Le sentenze passate in giudicato che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento dell'amministrazione sono trasmesse, in via telematica, alla Corte dei conti7.

8-bis. Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all'ultima riunione di cui all'articolo 14-ter, comma 7, nonche' i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attivita' e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all'articolo 19, commi 3 e 6-bis, primo periodo, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni8.

9. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento [nei termini] costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonche' di responsabilita' disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente9.

9-bis.L' organo di governo individua un soggetto nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione o una unità organizzativa cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell'ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in mancanza al funzionario di piu' elevato livello presente nell'amministrazione. Per ciascun procedimento, sul sito internet istituzionale dell'amministrazione e' pubblicata, in formato tabellare e con collegamento ben visibile nella homepage, l'indicazione del soggetto o dell'unità organizzativa a cui e' attribuito il potere sostitutivo e a cui l'interessato puo' rivolgersi ai sensi e per gli effetti del comma 9-ter. Tale soggetto, in caso di ritardo, comunica senza indugio il nominativo del responsabile, ai fini della valutazione dell'avvio del procedimento disciplinare, secondo le disposizioni del proprio ordinamento e dei contratti collettivi nazionali di lavoro, e, in caso di mancata ottemperanza alle disposizioni del presente comma, assume la sua medesima responsabilita' oltre a quella propria 1011(A).

9-ter. Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento o quello superiore di cui al comma 7, il responsabile o l'unità organizzativa di cui al comma 9-bis, d'ufficio o su richiesta dell'interessato, esercita il potere sostitutivo e, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, conclude il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario​12.

9-quater. Il responsabile individuato ai sensi del comma 9-bis, entro il 30 gennaio di ogni anno, comunica all'organo di governo, i procedimenti, suddivisi per tipologia e strutture amministrative competenti, nei quali non e' stato rispettato il termine di conclusione previsto dalla legge o dai regolamenti. Le Amministrazioni provvedono all'attuazione del presente comma, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica13.

9-quinquies. Nei provvedimenti rilasciati in ritardo su istanza di parte sono espressamente indicati il termine previsto dalla legge o dai regolamenti [di cui all' articolo 2 ] e quello effettivamente impiegato1415.

_______________

(A) In riferimento all'attribuzione del potere sostitutivo, di cui al presente comma, vedi: Decreto direttoriale INL - Ispettorato nazionale del lavoro 8 giugno 2020 n. 39.

[1]  Articolo modificato dagli articoli 2 e 21, comma 1, lettera b), della legge 11 febbraio 2005, n. 15 e successivamente sostituito dall’articolo 3, comma 6-bis, del D.L. 14 marzo 2005, n. 35 e dall’articolo 7, comma 1, lettera b), della legge 18 giugno 2009, n. 69. Vedi inoltre l'articolo 7, comma 3, della legge 69/2009 medesima.

[4]  Per l'attuazione del presente comma, vedi il D.P.C.M. 22 dicembre 2010, n. 275. Per il regolamento recante attuazione del presente comma, in materia di termini, non superiori a 90 giorni, di conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza del Ministero dell'economia e delle finanze, della Scuola superiore dell'economia e delle finanze, dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, della Guardia di finanza e dei Fondi previdenziali e assistenziali del personale della Guardia di finanza, vedi il D.P.C.M. 30 giugno 2011, n. 147. Per il regolamento di attuazione di cui al presente comma, riguardante i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi del Ministero degli affari esteri aventi durata non superiore a novanta giorni, vedi il D.P.C.M. 8 settembre 2011 n. 178 . Per il regolamento di attuazione del presente comma, riguardante i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza del Ministero dell'interno di durata non superiore a novanta giorni, vedi il D.P.C.M. 10 ottobre 2012, n. 214.

[5] Per l'attuazione delle disposizioni di cui al presente comma, vedi D.P.C.M. 5 maggio 2011, n. 109. Per il regolamento di attuazione di cui al presente comma, riguardante i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza del Ministero dell'interno di durata superiore a novanta giorni, vedi il D.P.C.M. 21 marzo 2013, n. 58. Per il regolamento concernente i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza del Ministero della salute aventi durata non superiore a novanta giorni, in attuazione del presente comma, vedi il D.P.C.M. 21 gennaio 2015, n. 24.

[11] Per il regolamento riguardante l'individuazione del responsabile del procedimento amministrativo e del titolare del potere sostitutivo, ai sensi del presente comma, per i procedimenti amministrativi di competenza della Presidenza del Consiglio dei ministri, vedi il D.P.C.M. 6 giugno 2015, n. 184.

[12] Comma inserito dall’articolo 1, comma 1, del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5 e successivamente sostituito dall'articolo 61, comma 1, lettera b), del D.L. 31 maggio 2021, n. 77, convertito con modificazioni dalla Legge 29 luglio 2021, n. 108.

[15] Per l'attuazione del presente articolo vedi il D.P.C.M. 22 dicembre 2010, n. 271 e il D.P.C.M. 8 settembre 2011 n.178.

Inquadramento

L'obbligo di concludere il procedimento amministrativo mediante l'adozione di un provvedimento espresso viene sancito per la prima volta con la l. n. 241/1990, che ha stabilito il generale obbligo per tutte le p.a., generalmente intese, di formalizzare le proprie determinazioni procedimentali in un atto esplicito. Tale necessità, fortemente avvertita dalla dottrina e dalla giurisprudenza ante 1990, invero, risponde all'esigenza di disporre di uno strumento forte di garanzia per il corretto svolgimento dell'iter procedimentale, assicurando l'esame delle istanze dei cittadini e, più in generale, la certezza del diritto, evitando che la pendenza ad oltranza di un procedimento amministrativo di fatto crei situazioni «precarie» di incertezza giuridica.

Si tratta di un obbligo che trova il suo fondamento nel generale dovere di buona amministrazione e di correttezza che deve orientare l'attività amministrativa e dal quale sorge un'aspettativa in capo al privato di ottenere una risposta esplicita all'istanza presentata. In ragione di ciò, l'obbligo di provvedere espressamente prescinde dalla fondatezza dell'istanza avanzata, e richiede soltanto la sussistenza di idonea legittimazione da parte di colui che si rivolge all'amministrazione competente.

Ed infatti, il rapporto tra i termini del procedimento e l'esercizio del potere amministrativo incide notevolmente sull'effettività dell'esercizio di quest'ultimo: la pendenza di un procedimento amministrativo a tempo indefinito vanifica, di fatto, le aspettative dell'istante, e più in generale dei titolari delle posizioni soggettive coinvolte nel procedimento (Caringella, 1051). A tali soggetti, invero, non importa solo il conseguimento di un provvedimento positivo di ampliamento delle propria sfera giuridica, ma, anche – e per certi versi soprattutto – il conseguimento di tale atto in tempi brevi e certi. In definitiva, il passare indefinito del tempo frustra non poco la stessa utilità del bene della vita al quale l'istante aspira, di guisa che il suo ottenimento a distanza di troppo tempo non si manifesta più come effettivamente satisfattivo. Analoghe considerazioni, poi, possono svolgersi in riferimento ai provvedimenti negativi, destinati ad incidere restrittivamente sulle posizioni giuridiche dei soggetti coinvolti nell'iter procedimentale: è evidente, infatti, che il protrarsi del procedimento amministrativo implica un'intollerabile incertezza sull'effettiva consistenza degli interessi coinvolti nello stesso.

Prima del varo della l. n. 241/1990, nonostante l'importanza centrale della certezza dei tempi dell'azione amministrativa, la sussistenza dell'obbligo di provvedere in capo all'amministrazione, benché predicata dalla dottrina, non veniva riconosciuta dalla giurisprudenza, che, sollecitata sul punto con il meccanismo del silenzio rifiuto, selezionava di volta in volta le ipotesi nelle quali l'amministrazione era tenuta a concludere il procedimento con una formula provvedimentale espressa. La questione risultava particolarmente importante, considerato che, ante 1990, i moduli di silenzio significativo (silenzio assenso, silenzio diniego) o di liberalizzazione in senso stretto (d.i.a.) non erano particolarmente diffusi, sicché tutta l'attività amministrativa trovava espressione nelle formule provvedimentali espresse. La giurisprudenza e la dottrina dell'epoca erano concordi nel ritenere che gli atti formali di iniziativa producevano effetti giuridici procedimentali, sostenendo che l'istanza del privato comportasse un obbligo di procedere più che di provvedere, ossia l'obbligo di sottoporre l'istanza all'ufficio competente della fase istruttoria e delle altre fasi del procedimento. Perciò, qualora l'inadempimento di uno qualsiasi degli uffici coinvolti avesse arrestato la sequenza procedimentale, la pretesa sostanziale del privato risultava vanificata, senza che fosse previsto alcuno strumento di tutela (Auciello, 75).

Il vero limite alla tesi della presenza di un obbligo di provvedere andava individuato nell'assenza della previsione di un termine definito, che rendesse certa e prevedibile la collocazione temporale della definizione dell'iter procedurale.

Prima dell'entrata in vigore della l. n. 241/1990, l'unica fonte normativa che imponeva un obbligo di attivazione da parte dei funzionari pubblici era l'art. 328 c.p. (« Omissione di atti d'ufficio »), come modificato dall'art. 16 l. n. 86/1990, che costituiva l'unico rimedio apprestato dall'ordinamento contro l'astensione della p.a. ove essa risultava di particolare gravità.

La previsione di cui all'art. 328 c.p., tuttavia, forniva una tutela sicuramente parziale e incompleta al privato; la fattispecie penale, infatti, non impone un generale obbligo di conclusione del procedimento, poiché prevede, ai fini dell'esonero della responsabilità penale, l'obbligo di un più generico – e agevole – riscontro da parte del funzionario attinto dalla richiesta del privato, idoneo a giustificare la mancanza del compimento dell'atto richiesto. Non può tacersi, poi, che la norma in esame, proprio in ragione della sua natura penale, si rivolge al singolo funzionario pubblico e non alla p.a. complessivamente intesa, e non prevede alcuna forma di attivazione specifica, ancorché postuma, che imponga, al di là della irrogazione della sanzione penale, l'emanazione, sia pur intempestiva, del provvedimento, onde dare riscontro, sia pur tardivo, alle istanze del privato.

I primi interventi normativi sul tempo procedimentale: l. 7 agosto 1990 n. 241

Stante l'insufficienza e la lacunosità delle soluzioni offerte dall'ordinamento giuridico positivo, onde dare un'adeguata risposta in termini di tutela positiva alle esigenze, fortemente avvertite dalle istanze dottrinarie e pretorie, di effettività dell'azione amministrativa e di certezza giuridica dei suoi provvedimenti, il legislatore del 1990 stabilì, all'art. 2 l. n. 241/1990, con una disposizione di portata generale, l'obbligo per la P.A. di concludere il procedimento amministrativo mediante l'adozione di un provvedimento espresso.

Per la prima volta, dunque, veniva consacrato a livello generale l'obbligo per tutte le P.A., universalmente intese, di formalizzare le proprie determinazioni procedimentali in un atto esplicito, in guisa da rispondere all'esigenza di disporre di uno strumento forte di garanzia per il corretto svolgimento dell'iter procedimentale, assicurando l'esame delle istanze dei cittadini e, più in generale, la certezza del diritto, ed evitando che la pendenza ad oltranza di un procedimento amministrativo di fatto creasse situazioni «precarie» di incertezza giuridica.

Accanto alla legge sul procedimento, peraltro, deve evidenziarsi che nel corso degli anni 90, in un clima storico coevo all'emanazione della l. n. 241, altri interventi normativi confermarono l'interesse del legislatore per il rispetto dei tempi procedimentali. Si pensi, ad esempio, alla riforma del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, che, nell'ambito di una generale valorizzazione del ruolo della dirigenza nell'attuazione degli strumenti di accelerazione del procedimento, prevede espressamente il potere sostituivo dei dirigenti generali in caso di inerzia dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti amministrativi (art. 16, lett. e, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165). Ancora più significativo, pur se rimasto largamente inattuato, è il disposto di cui all'art. 17, lett. f) della l. n. 59/1997, che prevede un indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento – per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento e di mancata o ritardata adozione del provvedimento.

Un passo decisivo verso il ristoro del pregiudizio patrimoniale patito dal privato a causa del silenzio dell'amministrazione, poi, è stato compiuto grazie alla storica sentenza Cass. S.U., n. 500/1999, che ha dato la stura alla risarcibilità degli interessi legittimi, con il riconoscimento in capo al G.A., al quale la l. n. 205/2000 ha affidato la tutela risarcitoria degli interessi legittimi, del potere di conoscere anche del c.d. «danno da ritardo», caratterizzato, come si dirà più innanzi, dalla mera inosservanza del termine, a prescindere dal giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita.

In definitiva, le fonti sin qui citate hanno sancito il principio generale secondo cui, salve specifiche eccezioni enucleate in sede pretoria, la P.A. ha sempre l'obbligo di provvedere entro un tempo prestabilito sull'istanza del privato volta al conseguimento di un provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica. Si è così conferita dignità formale ad un principio già da tempo enunciato in sede pretoria, pur se in assenza di norme esplicite, sulla base dei principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost.

L'obbligo di concludere il procedimento amministrativo, peraltro, non poteva prescindere dalla previsione di un termine definito, che rendesse certa e prevedibile la collocazione temporale della definizione dell'iter procedurale: la mancanza di un termine espresso e predeterminato entro il quale la P.A. dovesse adempiere all'obbligo di provvedere, infatti, avrebbe svuotato di contenuto la norma, venendo meno le garanzie di esame delle istanze dei cittadini e, più in generale, di certezza del diritto, che sottendono l'istituto in esame.

Per tale ragione l'art. 2, nella sua originaria determinazione prevedeva una scansione temporale riferita non di volta in volta al singolo procedimento, ma alla relativa «tipologia procedimentale astratta» (Tenca, 26) al fine di garantire imparzialità e trasparenza all'azione amministrativa. A tal fine, l'originaria versione dell'art. 2 conferiva alle singole P.A. il potere di individuare il termine di conclusione di ciascuna tipologia procedimentale di propria competenza, prevedendo altresì un termine suppletorio di 30 giorni nel caso in cui le amministrazioni non avessero provveduto a determinarlo in via autonoma.

La previsione originaria dell'art. 2 della legge sul procedimento può essere considerata il «nocciolo duro» dell'istituto della tempistica procedimentale: le diverse modifiche successivamente subite dalla norma, infatti, hanno precisato e regolamentato in maniera più incisiva il generale dovere della P.A. di concludere il procedimento ed il relativo schema disciplinatorio, basato sulla dicotomia autodeterminazione del termine – termine suppletorio, previsti per la prima volta dall'originaria formulazione della norma in esame.

Le novità contenute nelle l. n. 15/2005 e 80/2005

In questo quadro di crescente interesse per la tempistica amministrativa, il legislatore era intervenuto nuovamente con due distinti provvedimenti normativi: la l. n. 15/2005 e, ancor più, il d.l. n. 35/2005 (convertito nella l. n. 80/2005) che riscriveva interamente gli artt. 2,19 e 20 della l. n. 241/1990, rivoluzionando completamente, tra l'altro, il modo di concepire l'inerzia della P.A.

L'attenzione del legislatore della riforma del procedimento amministrativo, dunque, investiva globalmente l'intero fenomeno dell'inattività della P.A., disegnando un modello normativo che, per un verso, liberalizzava gran parte delle attività private prima sottoposte ad autorizzazioni amministrative (art. 19) ed implementava le ipotesi di silenzio significativo – e segnatamente di silenzio – assenso (art. 20) – in guisa da ridurre considerevolmente le ipotesi in cui non fosse possibile ascrivere alla condotta omissiva della P.A. veste pattizia, sia pur implicita; d'altro canto, la riforma del 2005 ribadiva l'obbligo generale per tutte le P.A. di concludere il procedimento nel termine stabilito per legge, introducendo specifici meccanismi di determinazione dello stesso da parte delle amministrazioni.

La riforma in esame, dunque, era finalizzata a limitare il più possibile i casi in cui l'inerzia della P.A. si traducesse di fatto in una intollerabile situazione di incertezza per i privati: non poteva perciò non dedicare importanti modifiche anche ai tempi di conclusione del procedimento amministrativo, per conferire maggiore pregnanza ed efficacia ad un istituto nella prassi assai spesso trascurato e poco applicato (Garofoli, Ferrari, 615).

La disciplina tratteggiata dal legislatore della riforma (ci si riferisce, nello specifico, alla l. n. 15/2005, nonché all'art. 3, comma 6-bis, del d.l. 35/2005) prevedeva la fissazione dei termini entro i quali i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali dovevano concludersi, ove non fossero direttamente previsti per legge, ad opera di uno o più regolamenti governativi (da adottare entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 35/2005). Da tale previsione, peraltro, erano esclusi gli enti pubblici nazionali, i quali dovevano procedere alla individuazione, secondo i propri ordinamenti, dei termini entro i quali dovevano concludersi i procedimenti di propria competenza. La determinazione dei termini di conclusione del procedimento doveva avvenire considerando «la loro sostenibilità, sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa e della natura degli interessi pubblici tutelati». (Cfr. la vecchia formulazione dell'art. 2, comma 2).

L'art. 2, nella sua formulazione post 2005, peraltro, conservava il meccanismo del termine suppletorio nel caso in cui le P.A. non avessero provveduto all'individuazione dei tempi procedurali, determinandolo in 90 giorni dall'avvio del procedimento.

La norma, poi, prevedeva ipotesi di sospensione dei termini procedimentali in caso di acquisizione di valutazioni tecniche di organi o enti appositi, ovvero di acquisizione di informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre P.A., da acquisirsi, eventualmente, anche mediante conferenza di servizi di cui agli artt. 14 ss. l. n. 241/1990.

Infine, con riferimento a quei casi, resi residuali dalla riscrittura del citato art. 20, in cui l'inerzia della P.A. continuava a non avere valore provvedimentale, il novellato art. 2, da un lato semplificava il procedimento di formazione del silenzio-rifiuto, eliminando la necessità della preventiva diffida a provvedere; d'altro canto sottraeva il termine per proporre ricorso alle forche caudine dell'ordinario termine impugnatorio di 60 giorni, prevedendo che il ricorso avverso il silenzio-inadempimento potesse essere esperito «fintanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini» procedurali. Il legislatore, inoltre, aveva potenziato l'intensità del sindacato giurisdizionale consentito al G.A. in sede di ricorso contro il silenzio-rifiuto, riconoscendo espressamente al giudice amministrativo il potere di conoscere la fondatezza dell'istanza.

Il tempo amministrativo come bene della vita: l. n. 69/2009

A distanza di soli quattro anni dalle leggi del 2005 salutate come «la riforma» del procedimento amministrativo, il legislatore parlamentare, nel porre mano ancora una volta al lavoro di restyling della legge sul procedimento, è tornato ad occuparsi dell'istituto del silenzio e dell'obbligo procedimentale di adottare un provvedimento espresso.

L'esigenza di fornire al privato una più pregnante garanzia per la celere e sicura conclusione del procedimento, a definizione dell'incertezza relativa alle posizioni giuridiche coinvolte in pendenza del procedimento, ha indotto il legislatore ad intervenire con la l. 18 giugno 2009, n. 69, che, in sede di riforma del procedimento amministrativo, ha tra l'altro sensibilmente modificato l'art. 2. Come si dirà più innanzi, invero, la nuova norma ha ridotto il termine di conclusione del procedimento a 30 giorni, ove le pp.aa. non individuino un termine diverso; in tali ultime ipotesi, peraltro, la nuova formulazione dell'art. 2 disciplina analiticamente le modalità di individuazione di detti termini da parte delle amministrazioni e prevede dei termini massimi quali limite alla libera determinazione da parte delle stesse.

Il legislatore della riforma, inoltre, a maggiore garanzia di effettività dell'obbligo di concludere il procedimento nel termine stabilito, ha previsto forme di responsabilità risarcitoria (vedi sub art. 2-bis) e dirigenziale in caso di mancato rispetto dei termini.

L'intento che ha mosso stavolta il legislatore risiede nell'esigenza di «creare un ambiente di infrastrutture burocratiche più favorevole allo svolgimento delle attività economiche e, al tempo stesso, garantire ai cittadini la qualità dei servizi resi, sia dalla amministrazione pubblica, che dai soggetti che ad essa si sono sostituiti in settori di rilevante importanza per la vita quotidiana (come i gestori di servizi pubblici)» (v. la relazione governativa alla Legge 18 giugno 2009, n. 69).

Tale risultato viene perseguito mediante la semplificazione e l'accelerazione dei tempi e delle modalità di svolgimento dell'attività amministrativa, improntato, da un lato, al principio della ragionevolezza delle disposizioni che fissano termini più lunghi di quelli previsti dalla legge, nonché al controllo costante dei tempi dell'azione amministrativa, nella logica della manutenzione continua dei procedimenti; dall'altro, all'individuazione di misure volte a rendere concretamente efficaci e perseguibili gli obiettivi di certezza e di riduzione dei tempi, mediante l'introduzione di forme di responsabilità volte a scoraggiare l'inerzia ingiustificata dell'amministrazione.

Nei successivi paragrafi verranno affrontati in via sistematica ed esaustiva tutti gli aspetti e le implicazioni problematiche della nuova disciplina, i diversi punti di contatto ed i meccanismi di interazione con gli altri istituti procedimentali, nonché tutti i corollari applicativi della stessa.

Sembra tuttavia opportuno tracciare preliminarmente un breve quadro della nuova disciplina, così come ridisegnata dall'art. 7 della legge di riforma 2009, onde fornire un quadro di insieme dei nuovi connotati dell'istituto, che verranno singolarmente esaustivamente esaminati nei paragrafi seguenti.

Innanzitutto, resta inalterato il generale obbligo per ogni amministrazione pubblica, di concludere ciascun procedimento, indipendentemente dalle modalità del suo avvio, con l'adozione di un provvedimento espresso ed entro termini prefissati.

Anche la nuova versione dell'art. 2 stabilisce un termine suppletorio entro il quale le amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali sono obbligate a concludere il procedimento amministrativo in assenza di un diverso termine fissato dalla legge o dalle stesse amministrazioni competenti, individuato in 30 giorni dall'avvio del procedimento.

Resta inalterata, poi, la possibilità per ciascuna amministrazione di determinare il termine di conclusione per i procedimenti di propria competenza. La legge di riforma, tuttavia, si è preoccupata di fissare dei limiti per le P.A. nella determinazione dei termini di conclusione del procedimento, onde evitare che la determinazione di termini abnormi di fatto vanificasse la ratio di celerità e certezza dell'agere amministrativo: il nuovo art. 2 stabilisce che i termini che possono essere fissati per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, non possono in via generale superare i 90 giorni.

Inoltre, la determinazione di tali termini per le amministrazioni statali non è più rimessa a regolamenti governativi (da adottare con d.P.R. ai sensi dell'art. 17, comma 1, della l. n. 400/1988) ma a regolamenti, da adottare (ex art. 17, comma 3, della stessa l. n. 400/1988) con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro di volta in volta competente, di concerto con i Ministri per la Pubblica Amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa.

Ai fini di contemperare l'esigenza di certezza e celerità dell'azione amministrativa con la complessità di taluni procedimenti, per ragioni connesse all'organizzazione amministrativa o per la particolare natura degli interessi pubblici tutelati, poi, la nuova norma prevede che tali procedimenti possano concludersi in un termine superiore ai 90 giorni, a condizione che esso venga determinato con d.P.C.M., adottato anche su proposta dei Ministri per la Pubblica Amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il termine in questione, peraltro, non può in ogni caso superare i 180 giorni, salvo che si tratti di procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana ovvero relativi all'immigrazione.

Il termine per la conclusione del procedimento, sia suppletorio che determinato in via regolamentare, può essere sospeso, a mente del nuovo disposto normativo, per una sola volta, onde consentire alla P.A. procedente di acquisire informazioni o certificazioni non in suo possesso. In ogni caso la sospensione non può protrarsi per un periodo superiore ai 30 giorni.

Una assoluta novità, infine, è costituita dal comma 9 dell'art. 2, il quale, onde incentivare il rispetto dei termini di conclusione del procedimento, prevede espressamente che la mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce «elemento di valutazione» della responsabilità dirigenziale.

Allo stesso fine, da ultimo, risponde il nuovo art. 2 -bis , introdotto ex novo dalla legge di riforma, il quale, a corredo della disciplina dispositiva di cui all'articolo precedente, prevede una particolare forma di «danno da ritardo», ponendo a carico di tutte le amministrazioni pubbliche – nonché dei soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative di cui all'art. 1, comma 1-ter, della medesima l. n. 241/1990 – l'obbligo di risarcire il danno ingiusto causato dall'inosservanza, dolosa o colposa, dei termini procedimentali (sul tema si rinvia al commento sub art. 2-bis).

Conseguenze interne all'amministrazione derivanti da violazione del termine di conclusione del procedimento

L'attenzione posta dal legislatore sull'art. 2 della l. n. 241/1990 è direttamente proporzionale alle conseguenze derivanti dalla mancata osservanza del rispetto del termine di conclusione del procedimento sui cittadini e sulle imprese, in termini di effettività dei diritti e di competitività del tessuto economico. Pertanto, una volta tracciato un quadro definito della disciplina sostanziale e rimesso al codice del processo amministrativo il regime delle reazioni giurisdizionali avverso il silenzio dell'amministrazione (art. 2 comma 8), il legislatore apre un nuovo importante capitolo degli strumenti volti a scongiurare l'inerzia dell'amministrazione, attraverso una serie di interventi normativi (l. n. 35/2012; l. n. 120/2020; l. n. 108/2021), che disegnano le conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento sul versante interno. Innanzitutto, il comma 8, cui fa da eco il comma 9 (entrambi modificati dalla l. n. 35/2012), prevede, quale conseguenza automatica dell'accoglimento dell'azione avverso il silenzio dell'amministrazione da parte del giudice amministrativo, l'invio della pronuncia passata in giudicato alla Corte dei Conti per la verifica dell'azione di responsabilità nei confronti del funzionario. Ancora il comma 8- bis, introdotto dalla l. n. 120/2020, delineando un caso di difetto assoluto di attribuzione ex art. 21 septies, introduce una disciplina rilevante per i provvedimenti sopravvenuti al decorso del termine di conclusione del procedimento, chiarendo che: «Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all'ultima riunione di cui all'articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all'articolo 19, commi 3 e 6-bis, primo periodo, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni.»

I commi 9-bis, 9-ter, contengono, invece, la disciplina relativa all'attribuzione del potere sostitutivo, che deve essere esercitato nel caso di mancato rispetto del termine del procedimento, con la precisa individuazione del soggetto incaricato e dei compiti che sullo stesso incombono.

La misurazione della performance dell'amministrazione e la comunicazione dei ritardi

Gli ultimi tasselli che compongono il mosaico della disciplina sul silenzio riguardano, da un lato, la comunicazione all'interno e all'esterno dei ritardi; dall'altro, la misurazione della performance dell'amministrazione.

Infatti, il comma 9-quater, sul versante interno, prevede che il titolare del potere sostitutivo comunichi all'organo di governo, i procedimenti, suddivisi per tipologia e strutture amministrative competenti, nei quali non è stato rispettato il termine di conclusione previsto dalla legge o dai regolamenti. Mentre il comma 9-quinquies, su quello esterno, stabilisce che nei provvedimenti rilasciati in ritardo su istanza di parte sono espressamente indicati il termine previsto dalla legge o dai regolamenti e quello effettivamente impiegato.

Il quadro della trasparenza e della diffusione dei dati a fini di misurazione della performance dell'amministrazione si completa con il comma 4-bis, secondo il quale: «Le pubbliche amministrazioni misurano e pubblicano nel proprio sito internet istituzionale, nella sezione “Amministrazione trasparente”, i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per i cittadini e per le imprese, comparandoli con i termini previsti dalla normativa vigente. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, previa intesa in Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti modalità e criteri di misurazione dei tempi effettivi di conclusione dei procedimenti, nonché le ulteriori modalità di pubblicazione di cui al primo periodo».

Problemi attuali.

Il termine di conclusione del procedimento: autodeterminazione delle p.a. (commi 1 e 2)

L'obbligo di adottare un provvedimento espresso riguarda ogni tipologia di procedimento e sorge per il solo fatto dell'avvio dell'iter procedimentale, indipendentemente dalla circostanza che esso sia stato sollecitato da un'istanza di parte ovvero sia avviato per iniziativa d'ufficio.

La scelta originaria del legislatore era stata quella di garantire, al secondo comma dell'art. 2, la più ampia autonomia alle p.a., concedendo ad esse la potestà normativa in ordine alla concreta individuazione del termine di adozione del provvedimento finale, secondo le proprie esigenze organizzative, mediante proprio regolamento, in relazione anche all'entità degli adempimenti procedurali posti a carico di ciascuna amministrazione per ogni singolo provvedimento. L'uso di tale discrezionalità, tuttavia, prevista dal legislatore in ossequio alle specifiche esigenze di ciascuna amministrazione, si prestava ad un uso distorto, in chiave elusiva, dell'autonomia prevista dalla norma, consentendo sovente alle p.a. di imporre termini abnormi di conclusione dell'iter procedimentale, contro i quali il cittadino era di fatto sprovvisto di tutela.

Per tale ragione, il legislatore, con le leggi nn. 15 e 80 del 2005, aveva sottratto qualsivoglia spazio di autonomia alle amministrazioni nazionali, prevedendo che i termini entro i quali i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali dovessero concludersi, ove non fossero direttamente previsti per legge, fossero stabiliti mediante regolamento ministerialeex art. 17, comma 1, della l. n. 400/1988.

Infatti, «avviato, anche d'ufficio, un procedimento, l'amministrazione ha, comunque, il dovere di concluderlo con un provvedimento espresso, diretto a indicare, in modo trasparente, la decisione assunta, nell'ambito delle opzioni discrezionali consentite (art. 2, l. 7 agosto 1990, n, 241, me sostituito dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in legge 2005, n. 80)» (Cons. St. V, n. 3487/2010).

La l. n. 69/2009, ha ulteriormente modificato tale previsione, stabilendo che lo strumento normativo mediante il quale devono essere predeterminati i termini di conclusione dei procedimenti avviati dalle p.a. statali sia il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ex art. 17, comma 3, della l. n. 400/1988, adottato su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e la semplificazione normativa, onde garantire una maggiore ponderazione degli specifici incombenti procedurali a carico delle singole amministrazioni.

La norma, così come modificata dalla riforma del 2009, inoltre, si preoccupa di impedire un uso deflattivo della decretazione in commento, onde evitare che la determinazione di termini abnormi di fatto vanifichi la ratio di celerità e certezza dell'agere amministrativo. Costituiva infatti una prassi ormai invalsa, evidentemente poco rispettosa del dettato normativo, la determinazione, da parte di molti enti pubblici, di termini assolutamente incongrui (spesso addirittura di anni) (Tenca, 26). Per tali ragioni, lo stesso comma 3 dell'art. 2 stabilisce che i termini individuati in sede di regolamentazione ex art. 17 comma 3 l. n. 400/88 non possono superare, in ogni caso, i novanta giorni. È evidente, anche sotto tale ulteriore profilo, pertanto, l'esigenza di contemperare le specifiche esigenze organizzative delle singole p.a. con la contrapposta necessità che il procedimento amministrativo sia portato a conclusione in termini ragionevolmente brevi.

D'altra parte, il legislatore non ignora la possibilità che, per particolari esigenze organizzative delle pp.aa., i tempi procedurali imposti dalla norma non appaiano sostenibili, anche alla luce della natura degli interessi coinvolti nel procedimento e della particolare complessità ed articolazione di quest'ultimo: in riferimento a tali ipotesi, il comma 4 dell'art. 2, così come modificato dalla novella del 2009, ha stabilito che possono essere fissati termini per la conclusione del procedimento superiori a novanta giorni, mediante decreto (di cui al comma 3), adottato anche su proposta dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. In tal modo, pertanto, la legge attribuisce alla responsabilità collegiale del Consiglio dei Ministri il controllo della effettiva sussistenza di fondate ragioni per procedere in tal senso (come peraltro espressamente ribadito dalla relazione governativa alla Legge 18 giugno 2009, n. 69). In particolare, la norma prevede che la deroga temporale possa essere concessa solo tenuto conto della sostenibilità dei termini sotto il profilo dell'organizzazione delle singole amministrazioni, nonché della natura degli interessi pubblici da tutelare.

Anche in tale ipotesi, tuttavia, il legislatore si preoccupa di limitare la possibilità che il termine in tal modo determinato comporti di fatto un'eccessiva dilatazione dei tempi procedimentali, stabilendo all'uopo che, in ogni caso, i termini in parola non possono superare i centottanta giorni (salvo che si tratti di procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana ovvero relativi all'immigrazione).

La giurisprudenza ritiene che, prima delle modifiche di cui alla l. 69/2009, «trova applicazione l'art. 2, comma 2, l. n. 241/1990, nel teso introdotto dalla l. 14 maggio 2005, n. 80 di conversione del d.l. n. 35 del 2005, che sancisce l'obbligo di concludere il procedimento nel termine indicato dalla legge, così rendendo inoperante il termine generale di 90 giorni di cui al successivo comma 3 (nel testo applicabile ratione temporis, ossia prima della modifica di cui alla legge 69 del 2009)» (Cons. St. n. 3326/2010).

Il termine di cui all'art. 2 deve essere considerato in chiave unitaria, comprensivo, quindi, degli eventuali subprocedimenti che caratterizzino le singole procedure, anche se affidati ad amministrazioni diverse da quelle dotate del potere di provvedere. Una diversa interpretazione, infatti, si tradurrebbe in un'ipertrofia del tempo complessivo di conclusione del procedimento, in violazione dei principi generali ai quali deve ispirarsi l'attività amministrativa.

Al fine di assicurare il principio di efficienza e di economicità dell'azione amministrativa l'art. 1, comma 38, l. 6 novembre 2012, n. 190, ha modificato il comma 1, prevedendo che la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, consente alle pubbliche amministrazioni di concludere il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo. In questo modo si evita che l'amministrazione possa essere ingolfata da istanze sostanzialmente pretestuose, consentendo un commodus discessus, che coniuga il principio della manifestazione espressa del potere pubblico (Cons. St. VI, 28 aprile 2021, n. 3430), laddove previsto, con l'esigenza di non dissipare le limitate risorse pubbliche in adempimenti non necessari.

Deve evidenziarsi, infine, che la norma in commento esclude dalla dettagliata disciplina sin qui esaminata gli enti pubblici nazionali, ai quali riserva in via esclusiva la facoltà di determinare, secondo i propri ordinamenti ed in ragione delle proprie esigenze istruttorie e procedimentali, i termini entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. In ogni caso, al fine di evitare che tale ampia discrezionalità si concretizzi, ancora una volta, in uno strumento elusivo della norma, l'art. 2 prevede espressamente che il termine in tal modo determinato non possa superare i 90 giorni dall'avvio del procedimento.

Termine suppletorio (comma 3)

Il secondo comma dell'art. 2 prevede un termine suppletorio qualora le pp.aa. non determinino, secondo i meccanismi sopra esaminati, un termine diverso, onde evitare che il lassismo dell'amministrazione nella determinazione del termine di conclusione del procedimento costituisca di fatto un comodo strumento elusivo dell'imperatività della norma. Tanto emerge ancor più chiaramente dalla collocazione sistematica dell'istituto del termine suppletorio nel nuovo testo dell'art. 2; con un'inversione logica rispetto alla formulazione precedente, invero, il legislatore ha «anticipato» la definizione di tale istituto al comma 2, rispetto alla precedente lettera della norma, che la posponeva al comma 3, successivamente alla disciplina deputata alla fissazione del termine da parte delle singole amministrazioni.

Il legislatore, dunque, dispone che, ove la p.a. non provveda diversamente, il termine entro il quale deve concludersi il procedimento è di 30 giorni (termine così modificato dalla l. n. 69/2009, che ha sostituito il termine di 90 giorni introdotto dalla l. n. 15/2005; l'originario art. 2 della l. n. 241/1990, infine, prevedeva il diverso termine di 60 giorni).

La nuova formulazione dell'art. 2 ad opera della Novella del 2009 mantiene il riferimento all'operatività del termine suppletorio per le sole pp.aa. statali ed agli enti pubblici nazionali, ma l'art. 29, comma 2-bis, l. n. 241/1990, indica l'obbligo di concludere il procedimento entro un termine prefissato quale livello essenzialeex art. 117, comma 2, lett. m), Cost.

Dal combinato disposto delle suddette disposizioni, quindi, emerge che il legislatore della riforma ha recepito l'orientamento costante di dottrina e giurisprudenza, le quali erano pressoché unanimemente orientate nel senso di ritenere che il termine suppletivo previsto dall'art. 2 dovesse applicarsi a tutti i procedimenti amministrativi di competenza di qualsiasi amministrazione, ancorché locale, di guisa da non frustrare in chiave elusiva l'intero spirito della norma.

La nuova formulazione normativa, inoltre, chiarisce definitivamente che il termine suppletorio di 30 giorni trova applicazione anche in carenza di esplicite disposizioni di legge che stabiliscano un diverso termine di conclusione procedimentale (in questi termini, con riferimento alla previgente disciplina, v. T.A.R. Lazio, Roma II, 26 giugno 2009, n. 6260).

Decorrenza del termine per la conclusione del procedimento (comma 6)

L'obbligo di adottare un provvedimento espresso a conclusione del procedimento amministrativo, dunque, riguarda ogni tipologia procedimentale, indipendentemente dalle modalità di avvio del relativo iter, restando assolutamente ininfluenti le modalità, ex officio o dietro sollecitazione di parte, di avvio del procedimento. Tale principio, consacrato dal comma 1 dell'art. 2, è ulteriormente, ancorché indirettamente, comprovato dal comma 6 della norma in commento, il quale, con una previsione completamente nuova, si preoccupa espressamente di individuare il momento dal quale decorre il termine, autodeterminato o suppletivo, per la conclusione del procedimento, così esplicitando come restano assolutamente ininfluenti le modalità di avvio del procedimento, ex officio o dietro sollecitazione di parte.

Nello specifico, il comma 6 dell'art. 2 stabilisce che il termine in questione decorre dall'avvio del procedimento d'ufficio, ovvero dal ricevimento dell'istanza, ove il procedimento sia iniziato ad iniziativa di parte.

La portata innovativa della disposizione, dunque, risiede nella esatta identificazione del dies a quo dal quale far decorrere il termine in commento in caso di avvio del procedimento d'ufficio, risolvendo in tal modo i pregressi dubbi interpretativi emersi sul punto in sede applicativa.

Ambito di applicazione dell'art. 2

Sul piano oggettivo, il nuovo tenore letterale dell'art. 2, comma 2, chiarisce definitivamente che il termine suppletivo di 30 giorni non trova applicazione in presenza di esplicite disposizioni di legge che stabiliscano un diverso termine di conclusione procedimentale, secondo il consolidato principio secondo cui lex specialis derogat lex generalis, come peraltro già evidenziato da autorevole dottrina (Virga).

Il comma 4, inoltre, prevede, in deroga alla disciplina generale ivi sancita, che il termine massimo di 180 giorni di cui si è detto non trova applicazione in riferimento ai procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana ed in materia di immigrazione, ove la particolare delicatezza degli interessi coinvolti, in uno alla complessità dei procedimenti in questione, non tollerano le strette compressioni temporali previste dalla norma in commento.

Deve evidenziarsi, infine, come la disciplina di cui all'art. 2 l. n. 241/1990 sia applicabile alle sole ipotesi in cui la mancata conclusione del procedimento mediante il contegno inerte della P.A. non assume alcun significato implicito, di rigetto o di accoglimento della domanda, secondo l'antico brocardo latino «qui negat neque dicit, neque negat» (Garofoli, Ferrari, 627).

Devono pertanto escludersi dall'operatività della norma in esame le ipotesi in cui il comportamento silente dell'amministrazione adita assuma implicito valore provvedimentale in ragione di una qualificazione effettuata ope legis da specifiche norme (come nel caso di silenzio-assenso o silenzio rigetto).

Sul crinale soggettivo, dall'esame della disposizione in commento, inoltre, emerge chiaramente come il legislatore abbia definitivamente ed esplicitamente consacrato l'obbligo generale di conclusione del procedimento per tutte le pubbliche amministrazioni. In riferimento alle modalità di determinazione autonoma del termine di conclusione, invece, la norma esclude espressamente che soggiacciano ai meccanismi di autodeterminazione consacrati al comma 3 dell'art. 2 gli enti territoriali e locali, che pertanto provvederanno ad individuare i detti termini autonomamente, secondo la propria organizzazione ed i propri statuti. Tale scelta legislativa costituisce, evidentemente, un chiaro adeguamento della legge sul procedimento amministrativo al mutato assetto costituzionale, che si muove sempre più verso una più effettiva ed efficace autonomia degli enti locali.

Deve evidenziarsi, peraltro, come la disposizione in commento vada coordinata con il disposto dell'art. 29 l. n. 241/1990, come riscritto dalla l. n. 69/2009.

In sede di Novella della legge sul procedimento, invero, il legislatore ha provveduto ad identificare in modo più netto l'ambito di applicazione della l. n. 241, provvedendo ad indicare puntualmente le amministrazioni tenute all'osservanza della legge sul procedimento. Esse sono individuate nelle amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali, nonché nelle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all'esercizio delle funzioni amministrative.

Inoltre, al fine di evitare un'applicazione «a macchia di leopardo» delle principali norme garantistiche del privato, che forniscono una tutela «forte» al limite di quella giurisdizionale, il legislatore della novella ha previsto espressamente che «le disposizioni di cui agli artt. 2-bis, 11, 15 e 25, commi 5, 5-bis e 6, nonché quelle del capo IV-bis si applicano a tutte le amministrazioni pubbliche». Il legislatore della l. n. 120/2020, infine, ha individuato puntualmente all'art. 29, i livelli essenziali delle prestazioni di cui all'art. 117, comma 2, lett. m), Cost. che devono essere garantite dalla P.A., includendo nel relativo catalogo anche, per quel che qui ci occupa, le disposizioni della presente legge concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione di garantire la partecipazione dell'interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro il termine prefissato, di misurare i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti e di assicurare l'accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelle relative alla durata massima dei procedimenti.

Ne consegue che la libertà accordata dall'art. 2 a regioni ed enti locali nel disciplinare i termini di conclusione dei procedimenti di propria competenza incontra un limite nel disposto dell'art. 29, il quale impedisce alle regioni ed agli enti locali di stabilire garanzie procedimentali e risarcitorie inferiori a quelle assicurate dalla stessa legge, fermo restando, in ogni caso, la possibilità di prevedere livelli ulteriori di tutela. Tali conclusioni, peraltro, erano state già rassegnate dalla dottrina, la quale, già prima della riforma del 2009, che aveva individuato tra la prestazioni essenziali il solo obbligo di concludere il procedimento entro il termine prefissato e di assicurare l'accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelle relative alla durata massima dei procedimenti, aveva evidenziato l'attinenza delle garanzie procedimentali fissate dall'art. 2 ai «livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali» di cui all'art. 117 Cost. (Garofoli, Ferrari, 618).

L'art. 2 della l. n. 241/1990, inoltre, prevede che anche gli enti pubblici nazionali stabiliscano il termine di conclusione del procedimento secondo i propri ordinamenti.

Invece, per ciò che attiene alle Autorità di Garanzia e Vigilanza, il comma 5 dell'art. 2 stabilisce che i termini di conclusione dei procedimenti di competenza delle suddette Authorities sono individuati mediante una disciplina ad hoc emanata dalle stesse Autorità secondo i propri ordinamenti. Tale previsione, che in ogni caso fa espressamente salvo quanto disposto da specifiche disposizioni normative, mira a garantire l'autonomia delle Autorità Indipendenti rispetto alle altre articolazioni dell'apparato pubblico, rimettendo la fissazione del termine alle stesse Autorità, anche al fine di consentire una specifica ed adeguata ponderazione delle specificità procedimentali tipiche dei procedimenti in discorso.

La giurisprudenza di legittimità chiarisce definitivamente che il termine di cui all'art. 2 della legge 241 del 1990 non è applicabile nei procedimenti per l'irrogazione di sanzioni amministrative (è il caso delle sanzioni per infrazioni al Codice della Strada, le cui disposizioni, di carattere speciale, prevalgono su quelle generali della legge 241/1990: cfr. Cass. n. 5784/2009; Cass.S.U., n. 9591/2006).

L'obbligo di provvedere.

L'art. 2, comma 1, legge n. 241/1990, stabilisce che «ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un'istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l'adozione di un provvedimento espresso» (anche in caso di controllo sulla scia e di autotutela o misure sanzionatorie sollecitate da soggetto terzo portatore di interesse qualificato: Cons. St. IV, n. 1737/2022 e VI n. 3086/2021).

La norma prevede un obbligo di provvedere in capo alla P.A., in presenza del quale l'inerzia assumere rilevanza giuridica sub specie di silenzio-rifiuto (cfr., da ultimo, Cons. St. VI, 28 aprile 2021, n. 3430). Ciò emerge chiaramente dalla lettura della decisione dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, n. 1/2002, in cui si afferma a chiare lettere che il «silenzio» si collega al «dovere» delle Amministrazioni pubbliche di concludere il procedimento «mediante l'adozione di un provvedimento espresso», nei casi in cui esso «consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio».

L'obbligo di provvedere sussiste, anzitutto, quando la legge espressamente riconosce al privato il potere di presentare un'istanza e quindi la titolarità di una situazione qualificata e differenziata che legittimi l'istanza medesima (cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, III, 18 dicembre 2009, n. 5628, ove si legge che «il silenzio-rifiuto è istituto riconducibile a inadempienza dell'Amministrazione, in rapporto ad un sussistente obbligo di provvedere; tale obbligo può discendere dalla legge, da un regolamento o anche da un atto di autolimitazione dell'Amministrazione stessa, ed in ogni caso deve corrispondere ad una situazione soggettiva protetta, qualificata come tale dall'ordinamento»).

La giurisprudenza amministrativa, tuttavia, partendo dal principio generale della doverosità dell'azione amministrativa e integrandolo con le regole di ragionevolezza e buona fede, tende ad ampliare l'ambito delle situazioni in cui vi è obbligo di provvedere al di là di quelle espressamente riconosciute dalla legge.

Si afferma, così, che esiste l'obbligo di provvedere, oltre che nei casi stabiliti dalla legge, in fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l'adozione di un provvedimento, così estendendo le possibilità di protezione contro le inerzie della Amministrazione pur in assenza di una norma ad hoc.

Vi sono, ad esempio, dei casi in cui il dovere di provvedere viene individuato facendo applicazione del principio di imparzialità. In tal senso, si segnala Cons. St. IV, n. 7975/2004, secondo cui, «indipendentemente dall'esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l'adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un'esplicita pronuncia» (negli stessi termini vedi anche Cons. St. VI, n. 2318/2007).

In altri casi, l'obbligo di provvedere viene desunto direttamente dal principio del buon andamento: si afferma la necessità che l'Amministrazione provveda quando abbia suscitato con il proprio comportamento un affidamento ragionevole e giustificato circa gli esiti di un procedimento sull'inizio del quale vi sia assoluta discrezionalità.

In definitiva, il dovere di provvedere rilevante ai fini del ricorso contro il silenzio può scaturire da norme che espressamente lo prevedono, ma può anche sorgere in concomitanza con l'esercizio di attività assolutamente discrezionali, quando il non emanare il provvedimento si concretizza in una violazione delle regole di fondo dell'attività amministrativa. Si inserisce in tale filone giurisprudenziale una significativa pronuncia del Consiglio di Stato (VI, n. 2318/2007) che compie uno sforzo ricostruttivo ulteriore, volto ad individuare le fattispecie non tipizzate da cui nasce l'obbligo per la p.a. di provvedere.

Si osserva che il c.d. diritto di domanda (ed il correlato obbligo di provvedere in capo alla P.A.), pur non espressamente previsto dalla legge, può sussistere in relazione ad una situazione di interesse legittimo pretensivo di cui il privato risulti titolare.

Non è seriamente dubitabile, infatti, che colui che ha un interesse differenziato e qualificato ad un bene della vita per il cui conseguimento è necessario l'esercizio del potere amministrativo sia titolare di una situazione giuridica che lo legittima, pur in assenza di una norma specifica che gli attribuisca un autonomo diritto di iniziativa, a presentare un'istanza dalla quale nasce in capo alla P.A. quantomeno un obbligo di pronunciarsi. Il silenzio della P.A. ex art. 2 l. n. 241 del 1990 è attivabile solo nei confronti di omissioni di attività amministrative e non anche per l'omessa adozione di atti normativi di portata generale. In altri termini, per qualificare come silenzio impugnabile un comportamento asseritamente omissivo della P.A. occorre un'attività amministrativa in senso stretto esercitata dai pubblici poteri ed una norma attributiva del potere che definisca in modo specifico anche la corretta posizione individuale del cittadino che fronteggia il potere pubblico, di modo che allo stesso possa riconoscersi lo ius agendi a tutela del proprio interesse. Al contrario, quando la norma attribuisce all'autorità pubblica un potere discrezionale che si deve tradurre nell'adozione di atti normativo- regolamentari, non può essere riconosciuta ai singoli cittadini una posizione differenziata che li abiliti ad impugnare il silenzio dell'autorità stessa che omette o ritarda l'esercizio del potere).

I limiti all'obbligo di provvedere.

L'obbligo della p.a. di provvedere non è indistinto ed indiscriminato, incontrando dei limiti intrinseci, puntualmente individuati dalla giurisprudenza, che si sono ridotti all'indomani della modifica del comma 1, introdotta dalla l. n. 190/2012, rappresentati, ad esempio dalle pretese illegali, non potendosi dar corso, in tali ipotesi, alla tutela di «interessi legittimi illegittimi» (Cons. St. V, 3 agosto 1993, n. 838). Il T.A.R. Sardegna, II, 24 ottobre 2008, n. 1833, ha precisato che: «ai fini della formazione del silenzio rifiuto (o inadempimento) di cui all'art. 2, comma 5, l. 7 agosto 1990 n. 241, l'obbligo di provvedere presuppone la presentazione di una richiesta formalmente e sostanzialmente idonea a suscitare nell'organo deputato a provvedere la piena consapevolezza di dover agire; in tale contesto, non può considerarsi idonea a determinare l'insorgenza di un obbligo di provvedere la ricezione, da parte dell'Amministrazione, di un'istanza proveniente da soggetti non legittimati, in quanto terzi rispetto al suo oggetto».

Al contrario, la domanda del privato volta ad ottenere atti diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi, con immediati vantaggi (c.d. interessi strumentali) per il richiedente, ha valore non già di mero esposto bensì di istanza, suscettibile, pur se non tipizzata, di far sorgere in capo alla p.a. l'obbligo di provvedere, nella misura in cui il richiedente sia portatore di uno specifico e rilevante interesse, che valga a differenziare la sua posizione da quella della collettività (Cons. St. VI, n. 2318/2007).

Manca, inoltre, un obbligo di provvedere laddove l'istanza del privato sia volta a sollecitare il riesame di un atto divenuto inoppugnabile. Le ragioni di tale orientamento risiedono nel fatto che – volendosi affermare un generalizzato obbligo in capo all'amministrazione di rivalutare un proprio provvedimento anche quando rispetto ad esso siano decorsi i termini per proporre ricorso, sarebbe vulnerata l'esigenza di certezza e stabilità dei rapporti giuridici e resterebbe lettera morta il regime decadenziale dei termini per impugnare (Cons. St. n. 2540/2020).

L'interruzione del termine (comma 7)

Il termine di cui all'art. 2 può essere interrotto, a mente del comma 7, ove sia necessario procedere a valutazioni tecniche di organi o enti appositi, ovvero per l'acquisizione di informazioni o certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. In tale ipotesi il termine di conclusione del procedimento resta sospeso fino all'acquisizione delle valutazioni tecniche, per un periodo massimo che comunque non può superare i 30 giorni.

Con il comma 7, dunque, si è inteso imprimere un'accelerazione al procedimento amministrativo, ponendo un preciso limite alla possibilità di sospendere il termine in commento ai fini di particolari esigenze istruttorie.

Un primo limite ha una connotazione strettamente temporale, individuando come termine massimo di sospensione 30 giorni, in luogo dei precedenti 90.

Dal disposto della norma, che brilla per la sinteticità della sua formulazione, sono poi desumibili ulteriori limiti alla possibilità di sospensione del procedimento, insiti nei doveri istruttori che l'art. 2, ancorché implicitamente, pone a carico dell'amministrazione procedente. Il tenore letterale dell'art. in esame, invero, limita la possibilità di acquisizione della documentazione ai soli casi in cui le informazioni necessarie per l'espletamento del procedimento non siano attestate in documenti già in possesso dell'amministrazione, ovvero non siano direttamente acquisibili presso altri enti pubblici. In tali ipotesi, è evidente, la P.A. non potrà richiedere al privato la produzione della documentazione, incombendo sulla stessa amministrazione procedente l'onere di reperire presso i suoi archivi i documenti già in suo possesso, ovvero di acquisirli da altro ente pubblico, in ossequio al principio del divieto di aggravio del procedimento di cui all'art. 1, comma 2 L. n. 241/1990. In questi casi, infatti, è palese come vengano meno le stesse ragioni di complessità probatoria che impongono la sospensione dei termini per la conclusione del procedimento, che, ove posta in essere, si tradurrebbe in un'ingiustificata violazione dei termini stabiliti dall'art. 2.

Il nuovo testo dell'art. 2, inoltre, fa espressamente salvo quanto disposto dall'art. 17 della stessa l. n. 241 (al cui commento si rinvia), il quale garantisce che, nelle ipotesi in cui l'istruttoria procedimentale necessiti dell'acquisizione di valutazioni tecniche da altri organi od amministrazioni, lo svolgimento dell'istruttoria medesima non debba comportare di fatto l'abnorme dilatazione dei termini procedurali. A tal fine la norma in parola impone che, ove gli enti attinti dalla richiesta del parere non provvedano entro 90 giorni dal ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento debba chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi dell'amministrazione pubblica che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti.

Il legislatore della Novella, invece, non prende posizione in ordine alla vexata quaestio relativa all'obbligo di stabilire o meno, in sede regolamentare, ai sensi del comma 3 dell'art. 2, anche i termini nei quali le PP.AA. devono concludere gli endoprocedimenti istruttori richiesti da altre amministrazioni (in senso positivo ha concluso Cons. St., Ad. gen., 25 novembre 1993, n. 121, che, nello stabilire che «nei procedimenti in cui si inseriscano fasi procedimentali di competenza di altre amministrazioni, il termine finale comprendere anche la fase endoprocedimentale, cosicché il termine finale non può decorrere dalla data della ricezione degli atti da parte di altre amministrazioni», ha chiarito che «ai sensi degli artt. 2 e 4 l. 7 agosto 1990 n. 241 i termini delle fasi endoprocedimentali dei procedimenti di competenza di altre amministrazioni devono essere stabiliti dagli schemi di regolamento per la determinazione dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi»).

Parimenti, il riformato testo del comma 7 dell'art 2 tace in ordine alla questione, correlata alla precedente, relativa al rapporto tra la tutela dell'interesse del privato ad una celere conclusione del procedimento e l'estensione del potere della P.A. di sospensione dello stesso. Nello specifico, quid iuris nel caso in cui la P.A. non concluda il subprocedimento di sua competenza nei 30 giorni di cui al comma 7 art. 2, ovvero non rispetti il diverso termine determinato in sede di sospensione?

Il problema è stato risolto in sede interpretativa, ove è stato evidenziato come anche in tale ipotesi deve trovare applicazione il principio di carattere generale di cui all'art. 2, che impone all'amministrazione di concludere il procedimento entro un termine predeterminato. Si è osservato, infatti, che il principio di inderogabilità dell'obbligo di concludere il procedimento non risponde soltanto ad un'esigenza di certezza dei rapporti con l'istante, rappresentando altresì una garanzia obiettiva del buon andamento della P.A; ne consegue, dunque, che, «nell'assetto dei molteplici interessi coinvolti dall'attività amministrativa, la sospensione non può tradursi in un arresto definitivo del procedimento, dovendo essere limitata al tempo strettamente necessario per l'acquisizione degli strumenti istruttori» (Garofoli, Ferrari, 620).

Tale principio trova applicazione per lo più in materia ambientale, in relazione ai procedimenti di rilascio dell'autorizzazione per l'installazione sul territorio comunale, delle stazioni radio base per i servizi di telecomunicazione: assai spesso, invero, il Comune competente per il rilascio del titolo abilitativo sospende il procedimento in attesa di acquisire il parere dell'A.R.P.A. circa la compatibilità dell'impianto con la normativa tecnica in materia di inquinamento elettromagnetico. Conformemente alle conclusioni sopra rassegnate, la giurisprudenza amministrativa ha affermato l'illegittimità di detti provvedimenti di sospensione ove eccedano i termini di legge: ex multis, Cons. St. VI, n. 1431/2007; T.A.R. Puglia, Lecce I, n. 51/2008; T.A.R. Lazio, Roma II-bis, n. 4006/2007; T.A.R. Puglia, Lecce II, n. 5142/2006; T.A.R. Veneto, Venezia, III, n. 32/2006; T.A.R. Piemonte, I, n. 2441/2005).

Il problema, a questo punto, si sposta sul piano processuale, investendo l'identificazione degli strumenti concessi al privato per reagire all'ingiustificato protrarsi del periodo di sospensione del procedimento.

In relazione a tale profilo, dottrina e giurisprudenza ritengono possibile l'estensione analogica della disciplina prevista per l'ipotesi di mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento: ne consegue che l'istante che veda decorrere invano il termine, imposto ex lege od autodeterminato, per la conclusione degli incombenti istruttori, potrà esperire ricorso ex art. 21-bis l. T.A.R., con la conseguente possibilità di avviare il rito del silenzio, il cui ambito applicativo può estendersi anche alle omissioni interne alla serie procedimentale, posto che non vi osta in tal senso il tenore letterale dell'art. 21-bis suddetto, il quale, al contrario, è finalizzato proprio a porre rimedio a fenomeni di ingiustificato arresto procedimentale (T.A.R. Lazio, Roma II-quater, n. 3778/2006; T.A.R. Campania, Napoli, I, n. 9921/2005; T.A.R. Campania, Napol i I, n. 20709/2005).

La sospensione del termine a provvedere, poi, va coordinata con i nuovi istituti procedimentali introdotti dalla novella del 2005.

Rinviando ai commenti dei rispettivi articoli per la trattazione esaustiva degli istituti in questione, in questa sede si rammenta solo che l'art. 10-bis stabilisce che prima dell'adozione di un provvedimento negativo all'esito di un procedimento avviato ad istanza di parte, l'amministrazione deve comunicarne le ragioni ostative all'istante, con l'interruzione del termine per la conclusione del procedimento; questo ricomincia poi a decorrere dal giorno in cui l'interessato presenta alla p.a. le proprie osservazioni, che devono pervenirle entro 10 giorni dal ricevimento della comunicazione, ovvero, in mancanza, dalla scadenza di detto termine.

Obbligo di provvedere e silenzio significativo: cenni e rinvio.

È importante sottolineare che la disciplina di cui all'art. 2 l. n. 241/1990 pone l'obbligo di provvedere in capo alle p.a. solo ove la sua inerzia comporti il protrarsi di una situazione di incertezza in ordine alle posizioni soggettive coinvolte nel procedimento. Tale disciplina, pertanto, è destinata a non trovare applicazione in tutte le ipotesi per le quali la legge «qualifica» il silenzio, ascrivendovi ex lege un significato legale (silenzio assenso, rigetto o diniego). Il mancato rispetto delle disposizioni di cui all'art. 2, invece, implica un mero comportamento silente, che non assume alcun valore contenutistico.

Per la trattazione esaustiva delle tematiche relative al silenzio amministrativo vedi subartt. 20 e ss. l. n. 241/1990.

La responsabilità dirigenziale (comma 9)

La disciplina dettata dall'art. 2 è poi corredata dalla previsione di forme di responsabilità in caso di mancata emanazione del provvedimento finale nei termini ivi previsti. Al fine di conferire effettività alla disciplina sin qui esaminata, il legislatore ha previsto, da un lato, la responsabilità risarcitoria della p.a. nei confronti del privato in caso di inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ove questa abbia procurato un danno ingiusto all'interessato (vedi sub art. 2-bis) e, dall'altro, la responsabilità dirigenziale del funzionario competente all'emanazione del provvedimento finale – ovvero del responsabile del procedimento (cfr. sub art. 5) – in caso di mancata emanazione del provvedimento nei termini, che costituisce, a mente del comma 9 art. 2, «elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale».

Tale previsione è poi compendiata dal comma 2 dell'art. 7 della l. 18 giugno 2009, n. 69, che, nel ribadire come: «Il rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti rappresenta un elemento di valutazione dei dirigenti», prevede che di esso si tenga conto al fine della corresponsione della retribuzione di risultato e demanda al Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il Ministro per la semplificazione normativa, la competenza ad adottare le linee di indirizzo per l'attuazione della norma.

La responsabilità dirigenziale di cui all'art. 4, comma 2, del T.U. pubbl. imp. (d.lgs. n. 165/2001) si sostanzia nella responsabilità in via esclusiva dei dirigenti per l'attività amministrativa, la gestione ed i risultati.

Si tratta di una responsabilità autonoma, aggiuntiva rispetto a quella riferibile al complesso delle attività svolte dall'ufficio cui il dirigente è preposto e rispetto all'ordinaria responsabilità del dipendente pubblico: la responsabilità dirigenziale, dunque, non ha per oggetto la violazione di norme giuridiche da parte del dirigente, bensì la valutazione complessiva dell'attività della struttura cui è preposto, ricollegandosi ai risultati prodotti dalla organizzazione al cui presidio il dirigente è demandato.

Sul crinale sanzionatorio, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, l'art. 21 T.U. p.i. prevede una gamma di sanzioni graduate in relazione alla gravità dei casi, quali la revoca e la destinazione ad altro incarico, presso la medesima od altra amministrazione, ovvero, nel caso di inosservanza delle direttive, la possibile esclusione dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corrispondenti a quello revocato, per un periodo non inferiore a due anni; nei casi di maggiore gravità, inoltre, l'amministrazione può recedere dal rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del Codice Civile e dei contratti collettivi.

Presupposto per l'applicazione delle misure sopra richiamate è la c.d. «valutazione dei dirigenti», ai sensi del d.lgs. n. 150/2009.

La valutazione dirigenziale, peraltro, implica importanti ricadute anche sul trattamento economico del dirigente. L'art. 24 del d.lgs. 165, infatti, stabilisce che il trattamento economico del personale con qualifica di dirigente consta, tra l'altro, di un trattamento economico accessorio, composto di due voci: la retribuzione di posizione (corrisposta in misura fissa) e la retribuzione di risultato, commisurato alle funzioni attribuite al singolo dirigente ed alle responsabilità connesse.

Orbene, è proprio sulla quantificazione del trattamento economico accessorio che incide la valutazione dirigenziale richiamata dal comma 9 dell'art. 2 l. n. 241: l'emolumento accessorio, invero, deve essere correlato sia al livello di responsabilità che l'incarico comporta, sia – soprattutto – ai risultati conseguiti dal dirigente generale nell'esercizio delle funzioni amministrative e di gestione.

La legge 35/2012 ha ulteriormente ampliato sia l'ambito soggettivo che quello oggettivo di responsabilità conseguente al mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento. L'attuale formulazione del comma 9, infatti, da un lato, prevede che il dato in questione venga utilizzato per valutare i funzionari nella loro performance individuale. Dall'altro, esplicita tutte le forme di responsabilità, latu sensu, amministrativa che possono discendere dal mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento, indicando in modo esplicito oltre alla responsabilità per mancato conseguimento degli obiettivi anche la responsabilità disciplinare e quella amministrativo-contabile.

L'esercizio del potere sostitutivo (comma 9-bis, 9-ter, 9-quater, 9-quinquies)

Tra le maggiori novità contenute nelle novelle che hanno interessato negli ultimi dieci anni l'art. 2 rientra il regime del potere sostitutivo. Secondo la disciplina vigente spetta all'organo di governo individuare un soggetto nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione o una unità organizzativa cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nel caso di mancata individuazione dell'incaricato dell'esercizio del potere sostitutivo il legislatore l'individua in via automatica in capo al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell'amministrazione. Al fine di assicurare che l'interessato abbia facile accesso all'informazione in questione è previsto che il nominativo del titolare del potere sostitutivo sia pubblicato sul sito internet dell'amministrazione. Il soggetto in questione deve, in caso di ritardo: a) comunicare senza indugio il nominativo del responsabile, ai fini della valutazione dell'avvio del procedimento disciplinare, secondo le disposizioni del proprio ordinamento e dei contratti collettivi nazionali di lavoro, e, in caso di mancata ottemperanza alle disposizioni del presente comma, assume la sua medesima responsabilità oltre a quella propria; b) esercitare, su istanza di parte o d'ufficio, il potere sostitutivo e, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, conclude il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario; c) comunicare all'organo di governo, i procedimenti, suddivisi per tipologia e strutture amministrative competenti, nei quali non è stato rispettato il termine di conclusione previsto dalla legge o dai regolamenti.

A garanzia della possibilità del provato di poter valutare se agire in sede risarcitoria, l'amministrazione emanante indica il termine previsto dalla legge o dai regolamenti e quello effettivamente impiegato.

Il termine di conclusione del procedimento ha natura ordinatoria o perentoria?

Una questione di particolare interesse, che ha a lungo animato dibattiti in dottrina e giurisprudenza, concerne la natura del termine a provvedere di cui all'art. 2.

Lungi dal costituire una questione meramente teorica, il problema in esame presenta importanti corollari applicativi, a cominciare dalla risarcibilità del danno da ritardo, quanto meno sino all'introduzione, ad opera della recentissima riforma del 2009, dell'art. 2-bis (per il quale si rinvia al relativo commento).

Il Consiglio di Stato (Cons. St. VI, n. 140/2009; Cons. St. VI, n. 3215/2008; Cons. St. VI, n. 2195/2006; vedi anche T.A.R. Piemonte Torino, I, n. 2901/2008) ha più volte ribadito come il termine di cui all'art. 2 abbia natura ordinatoriae segnatamente acceleratoria – in quanto costituisce principio generale, ex art. 152 c.p.c., che i termini legali devono essere considerati ordinatori, se non è diversamente previsto per legge, in maniera espressa ovvero implicitamente desumibile dalla ratio legis.

Nella fattispecie in esame, tuttavia, deve escludersi una voluntas legis di tal fatta: la legge, infatti, prevede lo strumento exartt. 31 e 117 c.p.a. che consente l'ottenimento – coattivo e tardivo – del provvedimento omesso dall'amministrazione inerte: è di tutta evidenza che la predisposizione di uno strumento di questo tipo, che consente il soddisfacimento tardivo delle pretese del privato, non avrebbe alcun senso ove il termine di conclusione del procedimento fosse da considerarsi perentorio. D'altro canto, a tale conclusione induce la stessa procedura stabilita dagli artt. 31 e 117 c.p.a., che prevedono tra l'altro la nomina di un commissario ad acta chiamato a provvedere ove la P.A. insista nel proprio comportamento silente. L'identificazione della natura acceleratoria del termine, quindi, non comporta la decadenza della potestà amministrativa né l'illegittimità del provvedimento tardivamente adottato (Cass. S.U., n. 9591/2007).

Deve evidenziarsi, tuttavia, come tale tesi è stata avversata da una parte minoritaria della dottrina (Cerulli Irelli, in Garofoli, Ferrari, 618), la quale ha sostenuto l'inapplicabilità dell'art. 152 c.p.c. (il quale, come visto, stabilisce la natura acceleratoria dei termini processuali ove non sia diversamente previsto) al diritto amministrativo. D'altro canto, la tesi sopra esposta sarebbe compatibile con la sola ipotesi di istanza volta ad ottenere provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del privato, posto che in tale ipotesi prevarrebbe l'interesse dell'istante ad ottenere, sia pur in ritardo, il provvedimento favorevole: in nessun caso, invece, potrebbe ritenersi legittimo un provvedimento che incida negativamente sulla sfera giuridica del privato, adottato dopo la scadenza dei termini a provvedere.

La teoria sopra esposta, tuttavia, non ha trovato riscontro in sede giurisprudenziale, anche sulla base della considerazione che la qualificazione ordinatoria del termine di cui all'art. 2 incide comunque, in maniera significativa, sul momento di determinazione della responsabilità civile, penale ed amministrativa del dirigente al quale è imputabile il ritardo o l'omissione, sull'azionabilità dello strumento di cui agli artt. artt. 31 e 117 c.p.a. in tema di silenzio, nonché sull'illegittimità dell'inerzia amministrativa ai fini risarcitori.

La relatività del tempo dell'azione amministrativa (Cons. St. VI, 19 gennaio 2021, n. 584)

Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St. IV, n. 6255/2021) il termine di conclusione del procedimento amministrativo, previsto dall'articolo 2 della l. n. 241/1990, non ha natura perentoria e il suo mancato rispetto, pur dando luogo alle conseguenze previste dal medesimo articolo 2 e dal successivo articolo 2-bis della medesima l. n. 241/1990, non incide di per sé sulla validità del provvedimento successivamente adottato. L'idea di fondo è quella che Il termine per la conclusione dei procedimenti amministrativi di cui all'art. 2 della l. n. 241/1990, in linea generale, è pacificamente un termine meramente ordinatorio/acceleratorio, in mancanza di diversa espressa previsione di legge, e la sua violazione non produce l'illegittimità del provvedimento conclusivo.

Una simile conclusione risulta piuttosto agevole laddove il procedimento si apra su istanza di parte e sia finalizzato all'adozione di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell'istante.

Questione decisamente più complessa è quella della qualificazione del termine di conclusione del provvedimento restrittivo della sfera giuridica del privato, laddove non vi sia un'espressa indicazione normativa in ordine alla perentorietà del termine di conclusione del procedimento.

Particolarmente significativa sul punto è la sentenza Cons. St. V, n. 584/2021, che ha definito la relatività del tempo dell'azione amministrativa, affrontando funditus il tema della natura ordinatoria e perentoria del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio avviato dall'ARERA in merito alla presunta violazione da parte di un'impresa della normativa in materia di pronto intervento nel settore gas. L'importanza della pronuncia in questione si coglie nella presenza di un contrasto giurisprudenziale all'interno della stessa VI Sezione proprio in relazione al procedimento sanzionatorio dinanzi all'ARERA.

Infatti, secondo una prima tesi, ad esempio Cons. St. VI, n. 911/2018: «In tema di provvedimenti sanzionatori emessi dall'Autorità per l'Energia Elettrica e il Gas, va osservato come nessuna disposizione di legge stabilisca una perentorietà dei termini di conclusione del procedimento, di guisa che sarebbe arbitrario, in quanto sfornito di base di legge, sostenere che lo spirare del termine fissato da AEEG nell'avvio del procedimento determinerebbe ipso iure l'illegittimità del provvedimento tardivamente adottato» (in senso conforme Cons. St., n. 6891/2020; Cons. St., n. 1053/2018; Cons. St., n. 3401/2015; analogamente in relazione al procedimento sanzionatorio dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato Cons. St. VI, n. 3197/2018; I Cons. St. VI, n. 4110/2018; Cons. St. VI, n. 5253/2015; analogamente sul procedimento sanzionatorio dell'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici cfr. Cons. St. VI, n. 468/2015).

Pertanto, il termine di conclusione del procedimento sanzionatorio, ove non diversamente previsto dalla legge, non sarebbe perentorio, ma soltanto ordinatorio. Tale conclusione è fondata sul rilievo che la perentorietà di un termine procedimentale, incidendo direttamente sulle situazioni degli interessati, potrebbe inferirsi soltanto da un'esplicita previsione legislativa, che espressamente correli al superamento di un dato termine un effetto decadenziale, di guisa che sarebbe arbitrario, in quanto sfornito di base legislativa, sostenere che lo spirare del termine fissato nell'avvio del procedimento determinerebbe ipso iure l'illegittimità del provvedimento tardivamente adottato.

Secondo tale prospettiva, il mancato rispetto dei termini, come tali fissati da regolamenti o da delibere generali dell'Autorità indipendente, avrebbero valenza soltanto ordinatoria, potendosi in tale caso dare rilievo soltanto a una «lunghezza eccessiva» del tempo impiegato, secondo il caso concreto.

Pertanto, il provvedimento intervenuto all'indomani dello spirare del termine di conclusione del procedimento non sarebbe illegittimo, purché intervenuto nel termine prescrizionale di cinque anni previsto dall'art. 28 della l. n. 689/1981.

Questa tesi richiama un orientamento della Cassazione (cfr. ex plurimis, Cass. lav., 17 giugno 2003 n. 9680) in tema di ordinanza-ingiunzione del prefetto ex art. 18, l. n. 690/1981, che faceva prevalere il termine prescrizionale su quello procedimentale previsto dall'art. 2, l. n. 241/1990, ritenendo quest'ultimo troppo breve per assicurare il rispetto delle garanzie derivanti dal procedimento contenzioso che porta alla adozione della ordinanza-ingiunzione.

La disciplina in questione, così interpretata, dovrebbe ritenersi, in via generale, conforme alla Costituzione (v. sentenze Corte cost., n. 355/2002 e n. 262/1997), perché, anche se la decadenza dal potere sanzionatorio non si verifica, il privato non rimarrebbe senza difesa e, in particolare, non sarebbe esposto senza limiti di tempo alla possibilità di essere sanzionato, potendo esso per un verso attivare i rimedi processuali contro il silenzio, ed essendo, per altro verso, a norma dell'art. 28, comma 1, l. n. 689/1981 il diritto dell'amministrazione a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative assoggettato al termine di prescrizione di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione (sicché, con riguardo a tale ultimo profilo, il privato sarebbe garantito anche se rimanga inerte). Inoltre, il carattere vincolato del provvedimento sanzionatorio sterilizzerebbe qualsivoglia efficacia caducante della violazione non influendo sul diritto di difesa anche ai sensi di quanto disposto dall'art. 21-octies, l. n. 241/1990 (cfr. Cass. II, n. 4/2019, Id. n. 1065/2004; Cass.S.U., n. 20935/2009).

Un opposto filone giurisprudenziale, invece, esprime la seguente massima: «In materia di sanzioni amministrative, il termine fissato per l'adozione del provvedimento finale ha natura perentoria, a prescindere da una espressa qualificazione in tali termini nella legge o nel regolamento che lo preveda».

Si tratta di un orientamento relativo in particolare al procedimento sanzionatorio della Banca d'Italia (Cons. St. VI, n. 1199/2016; Id., n. 4113/2013; Cons. St. VI, n. 542/2013), al procedimento sanzionatorio del MISE ai sensi dell'art. 124 r.d.l. n. 1933/1938 (Cons. St. VI, n. 3015/2011); al procedimento sanzionatorio dell'IVASS, disciplinato dall'art. 5 comma 1, d.lgs. n. 209 del 2005 (Cons. St. VI, n. 2042/2019); al procedimento sanzionatorio dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni disciplinato dalla delibera Agcom n. 136/06 (Cons. St. VI, n. 7153/2020).

Questo orientamento conclude per la natura perentoria del termine de quo, a prescindere da una espressa qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che lo preveda, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l'effettività del diritto di difesa dell'incolpato, avente come è noto protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.), oltre che per la esigenza di certezza dei rapporti giuridici e delle posizioni soggettive.

Ciò anche in quanto l'adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, in base all'art. 28 della l. n. 689/1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per l'adozione dell'atto, equivarrebbe ad esporre l'incolpato ad un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa.

Gli argomenti a sostegno della tesi in esame sono i seguenti: a) la giurisprudenza del giudice ordinario formatasi in tema di sanzioni irrogate ai sensi della legge n. 689 del 1981 si sarebbe orientata nel senso di ritenere perentorio il termine fissato dall'art. 18 all'autorità competente per l'adozione della ordinanza-ingiunzione, dopo che le sezioni unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 9591/2006) hanno rilevato il carattere perentorio o comunque la natura decadenziale del termine fissato all'autorità amministrativa per l'adozione del provvedimento sanzionatorio conclusivo; b) la particolarità del procedimento sanzionatorio assumerebbe carattere decisivo rispetto al generale paradigma del procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241 del 1990 (in cui è pacifico, per contro, che lo spirare del termine per provvedere non determina conseguenze invalidanti sul provvedimento tardivamente adottato), sicché in ragione del criterio di specialità e del criterio cronologico di risoluzione delle antinomie la disciplina generale del procedimento avrebbe carattere recessivo; c) pur non essendo necessaria un'espressa previsione di perentorietà del termine per provvedere, resterebbe nondimeno necessario che la normativa che regola lo specifico procedimento sanzionatorio contenga una norma primaria che, prevedendo termini, la cui determinazione potrebbe essere specificata da atti regolamentari o puntuali, per l'avvio e la conduzione del procedimento, e per la sua conclusione in deroga alle previsioni generali della l. n. 689 del 1981, consenta la qualificazione dei termini come termini perentori; d) le sanzioni si distinguerebbero in sanzioni in senso lato e sanzioni in senso stretto. Le prime avrebbero una finalità ripristinatoria, in forma specifica o per equivalente, dell'interesse pubblico leso dal comportamento antigiuridico; le seconde avrebbero una finalità afflittiva, essendo indirizzate a punire il responsabile dell'illecito allo scopo di assicurare obiettivi di prevenzione generale e speciale. Le principali tipologie di sanzioni in senso stretto sarebbero pecuniarie, quando consistono nel pagamento di una somma di denaro, ovvero interdittive, quando impedirebbero l'esercizio di diritti o facoltà da parte del soggetto inadempiente. La disciplina generale delle sanzioni pecuniarie, modellata alla luce dei principi di matrice penalistica, è contenuta nella legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).

Tanto premesso la VI Sezione trae argomento decisivo dalla circostanza che è erroneo il ritenere che il tempo dell'azione amministrativa sia uniforme rispetto a tutti i sistemi di relazione tra amministrazione e amministrato.

Questa conclusione non merita di essere condivisa, atteso che il tempo dell'agire amministrativo nel suo valore intrinseco va declinato non in termini assoluti ma in termini relativi, mentre deve essere declinato in termini assoluti solo quando si rifletta sul suo valore estrinseco, ossia sulla sua rilevanza effettuale.

Il tempo dell'azione amministrativa, infatti, rappresenta una parentesi all'interno della quale la potestà amministrativa spiega efficacia attrattiva sulla sfera giuridica dell'amministrato.

La relazione che può generarsi è chiaramente poliforme e dipende dalla trama normativa di riferimento, nonché dagli interessi sostanziali in gioco.

Pertanto, sia la potestà amministrativa che la posizione giuridica soggettiva dell'amministrato possono comporsi in modo differente.

Ciò ha condotto a elencare all'interno della stessa nozione di interesse legittimo, distinte classificazioni, così enucleate: a) interessi legittimi oppositivi (in senso stretto), spettanti ai diretti destinatari di un potere ablatorio; b) interessi legittimi pretensivi (in senso stretto), spettanti ai diretti destinatari di un potere ampliativo; c) interessi legittimi rivali, in capo ai partecipanti ad una procedura selettiva di natura concorsuale o competitiva; d) interessi legittimi ostili, configurabili in capo a coloro che sono terzi rispetto all'esercizio (pregiudizievole nei loro confronti) di un potere ampliativo; e) interessi legittimi alla legalità, da riconoscere in capo ai terzi pregiudicati dall'esercizio di un potere ad efficacia plurisoggettiva (o, se si preferisce, plurioffensiva); f) interessi legittimi dipendenti, intestati in capo a chi si trova in un rapporto di «dipendenza» con il titolare di uno dei precedenti tipi di interessi legittimi.

La esemplificazione di una pluralità di figure di interesse legittimo evidenzia la presenza di un diverso atteggiarsi della potestà pubblica, che a sua volta impone la presenza di regole sostanziali differenti nel delineare facoltà e obblighi dell'amministrazione e dell'amministrato.

Accettando questa visione, risulta insostenibile affermare il carattere assoluto nel suo valore intrinseco del tempo dell'agire amministrativo.

Così nell'ipotesi in esame la previsione di un tempo procedimentale, la cui determinazione è rimessa all'amministrazione in ragione del singolo caso concreto, è difficile ritenere non debba garantire che il tempo dell'accertamento della violazione sia ravvicinato rispetto a quello della sua punizione.

A quanto appena sopra osservato, deve aggiungersi che il processo sanzionatorio (quasi penale) è di per sé una pena, e per cittadini e imprese i tempi moderni esigono certezze dei rapporti giuridici, per ulteriori plurime ragioni: a) la possibilità dell'amministrazione di provare la sussistenza della violazione si deteriora con il decorso del tempo; b) la possibilità per l'amministrato di offrire la prova contraria soffre la stessa sorte; c) l'effetto dissuasivo di prevenzione speciale è assicurato dall'esistenza di un lasso temporale ristretto tra contestazione della violazione e adozione del provvedimento sanzionatorio; d) lo stesso dicasi per l'effetto dissuasivo di prevenzione generale; e) in generale, il tempo ha la sua rilevanza come fatto giuridico e, in materia sanzionatoria, alla lunga, esso cancella ogni cosa.

Il tempo dell'agire amministrativo sostiene nell'ipotesi del potere sanzionatorio dell'ARERA il soddisfacimento di interessi che sono ulteriori rispetto al mero rilievo dell'avvenuta infrazione.

Ciò si coglie in modo chiaro anche dal considerando 34 della direttiva n. 2009/73/CE attuata dal d.lgs. 93/2011, secondo il quale: «Qualsiasi armonizzazione dei poteri delle autorità nazionali di regolamentazione dovrebbe comprendere i poteri di fornire incentivi alle imprese di gas naturale e di imporre sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive a tali imprese...».

È evidente che il carattere effettivo e dissuasivo della sanzione è fortemente condizionato dal rispetto della tempistica procedimentale, poiché se l'irrogazione della sanzione avvenisse a distanza di tempo dalla sua commissione e dal suo accertamento potrebbe fallire il suo obiettivo.

Risulta ragionevole, pertanto, affermare che in questo caso l'inutile decorso tempo dell'agire amministrativo ridonda in illegittimità del provvedimento sanzionatorio.

Una simile conclusione è avvalorata anche se si considera il tempo dell'agire dell'amministrazione per la sua valenza estrinseca e le implicazioni che ne derivano a livello processuale.

Il tempo dell'agire dell'amministrazione per la sua valenza estrinseca ha carattere assoluto, come il tempo dell'agire umano, sottratto alle leggi della fisica quantistica, e scorre in una sola direzione.

Il processo amministrativo da sempre utilizza delle finzioni giuridiche per contrastare questa verità. Così la pronuncia costitutiva di annullamento del provvedimento compressivo della sfera giuridica del privato comporta, attraverso una qualificazione giuridica negativa, la rimozione ex tunc degli effetti del provvedimento stesso.

Ma una simile fictio non può spingersi sino al punto da restituire all'amministrato il tempo trascorso del procedimento, ossia «quel tempo» sprecato dall'amministrazione. Come l'annullamento del provvedimento di diniego può assegnare all'amministrato un «altro tempo» utile per vedere soddisfatto il suo interesse, così l'annullamento di un provvedimento sanzionatorio non può riportare indietro le lancette dell'orologio, restituendo all'amministrato «quel tempo» male utilizzato dall'amministrazione. In definitiva, il tempo dell'amministrazione è nel suo valore intrinseco relativo e nel suo valore estrinseco assoluto.

Quanto ai mezzi di tutela giurisdizionale a valle del decorso del termine del procedimento, è piuttosto dubbio che l'esercizio dell'azione ai sensi dell'art. 31 c.p.a. sia sorretto da un valido interesse del ricorrente.

Nel procedimento sanzionatorio l'interesse dell'amministrato è quello di non essere sanzionato, ovvero è quello che il procedimento si concluda tempestivamente con un provvedimento a lui favorevole.

Pertanto, il predicare che il soggetto sottoposto a procedimento sanzionatorio abbia interesse a veder concluso il procedimento in qualsivoglia modo una volta sia decorso il termine ultimo per provvedere, sembra evocare una nozione di interesse legittimo inteso come interesse alla legittimità formale dell'azione amministrativa rispetto alla quale l'interesse del privato è solo occasionalmente protetto.

Al contrario, una visione contemporanea della nozione di interesse legittimo aprirebbe al più la strada ad un'azione atipica di accertamento dell'inutile decorso del termine per adottare il provvedimento sanzionatorio con ciò che ne consegue, ad esempio, in termini di venir meno delle misure cautelari medio tempore adottate dall'amministrazione procedente e di azione risarcitoria spiegata per i danni derivati dalla sottoposizione a procedimento per il rischio di subire un provvedimento sanzionatorio (si pensi al danno reputazionale societario).

Precisa ancora la Sezione che nel diritto amministrativo non risulta corretta l'individuazione a priori di regole di validità e regole di comportamento all'interno della relazione tra potestà dell'amministrazione e interesse legittimo dell'amministrato, giacché il mancato rispetto della regola non è in grado di descrivere in se la lesione generata ed il rimedio appropriato per fronteggiarla. Emblematica è l'ipotesi della violazione della regola che fissa il termine finale per adottare il provvedimento sanzionatorio pecuniario. In questo caso per le ragioni sopra esposte, la regola si presenta come regola di validità e la lesione è rimediabile solo attraverso la caducazione dell'atto.

Del resto, anche sotto il profilo rimediale non avrebbe alcun senso ritenere che l'amministrato possa invocare la sola tutela risarcitoria, riducendo la relazione giuridica con l'Autorità ad un rapporto reciproco di dare/avere, ossia di sanzione pecuniaria versus risarcimento del danno.

L'impostazione chiovendiana del processo, che ha oramai permeato il giudizio amministrativo, impone, infatti, di assicurare al ricorrente la tutela effettiva che può in concreto ottenere in termini di eliminazione della lesione subita piuttosto che in termini di pallida vittoria, che da un lato non ripristina la sfera giuridica del ricorrente; dall'altro non consente di orientare efficacemente per il futuro l'agire dell'amministrazione.

Ciò induce, pertanto, il Consiglio a ritenere che il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio promosso dall'ARERA ha natura perentoria, sicché il suo superamento inficia il provvedimento sanzionatorio impugnato, con ciò che ne consegue in termini di illegittimità dello stesso.

Esiste un principio generale di perentorietà del tempo di esercizio del potere amministrativo punitivo?

Rinviando per approfondimenti agli articoli 1 e 12 della legge 689/1981, si osserva che, secondo Cons. St. VI, 512/2020, le norme di principio, relative ad una immediatezza della contestazione o comunque a una non irragionevole dilatazione dei suoi tempi, contenute nel Capo I della l. 24 novembre 1981, n. 689, sono dotate di applicazione generale dal momento che, in base all'art. 12, le stesse devono essere osservate con riguardo a tutte le violazioni aventi natura amministrativa per le quali è applicata la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro, compresa la materia dell'Antitrust.

In termini applicativi, il fatto che l'Autorità Antitrust deliberi l'avvio dell'istruttoria a distanza di vari mesi – ma non di vari anni – dalla segnalazione della possibile infrazione non può essere considerato come una violazione dei diritti delle imprese coinvolte, né un superamento dei termini procedimentali, in quanto la stessa valutazione dell'esigenza di avviare o meno l'istruttoria può presentarsi complessa; di conseguenza, il termine di novanta giorni previsto dal comma 2 dell'art. 14, l. n. 689 del 1981 inizia a decorrere solo dal momento in cui è compiuta – o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in relazione alla complessità della fattispecie – l'attività amministrativa intesa a verificare l'esistenza dell'infrazione, comprensiva delle indagini intese a riscontrare la sussistenza di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi dell'infrazione stessa. Ha chiarito il Supremo Consesso Amministrativo che (l'intento del Legislatore è stato quello di assoggettare ad un statuto unico ed esaustivo (e con un medesimo livello di prerogative e garanzie procedimentali per il soggetto inciso) tutte le ipotesi di sanzioni amministrative, sia che siano attinenti a reati depenalizzati sia che conseguano ad illeciti qualificati «ab origine» come amministrativi, con la sola eccezione delle violazioni disciplinari e di quelle comportanti sanzioni non pecuniarie. La preventiva comunicazione e descrizione sommaria del fatto contestato con l'indicazione delle circostanze di tempo e di luogo (idonee ad assicurare, già nella fase del procedimento amministrativo anteriore all'emissione dell'ordinanza-ingiunzione, la tempestiva difesa dell'interessato), attiene ai principi del contraddittorio ed è garantito dalla l. n. 689/1981, attraverso la prescrizione di una tempestiva contestazione la cui l'osservanza è assicurata mediante la previsione espressa dell'inapplicabilità della sanzione. Il termine per la contestazione delle violazioni amministrative ha infatti pacificamente natura perentoria avendo la precisa funzione di garanzia di consentire un tempestivo esercizio del diritto di difesa. L'ampia portata precettiva è esclusa soltanto dalla presenza di una diversa regolamentazione da parte di fonte normativa, pari ordinata, che per il suo carattere di specialità si configuri idonea ad introdurre deroga alla norma generale e di principio. Lo stesso art. 31 della legge n. 287 del 1990 prevede infatti l'applicazione delle norme generali di cui alla legge n. 689 del 1981 «in quanto applicabili». Ebbene, con specifico riferimento alla disciplina della potestà sanzionatoria dell'Autorità non emergono le condizioni per derogare al sistema di repressione degli illeciti amministrativi per mezzo di sanzione pecuniaria ivi delineato. Il d.P.R. 30 aprile 1998, n. 217 non reca indicazione di alcun termine per la contestazione degli addebiti, e quindi non può far ritenere «diversamente stabilita» la scansione procedimentale e, quindi, inapplicabile il termine di cui si discute. Tale interpretazione è preferibile anche in quanto orientata dalla sicura ascendenza costituzionale del principio di tempestività della contestazione, posto a tutela del diritto di difesa.

Per il carattere generalmente perentorio dei ermini relativi ai procedimenti sanzionatori presso le Autorità Indipendenti vedi Cons. St. VI 584/2021 , analizzata sub art. 12 legge 689/1981.

 In conformità a tale indirizzo, Cons. St. V 5969/2023 ha ritenuto che è perentorio  il  termine di sessanta giorni entro il quale – ai sensi dell’art. 40 del Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio nei confronti delle SOA – l’ANAC deve inviare la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio.

La propensione legislativa ad ampliare la consumazione del potere con l'avvento del modello del one shot

Il nuovo comma 8- bis dell'art. 2 della legge n. 241/1990 (dopo la legge n. 120/2020, di conversione del decreto Semplificazioni n. 76/2020) ha incrementato i casi di consumazione del potere tardivamente esercitato, abbracciando una soluzione innovativa: il provvedimento tardivo dopo la formazione del silenzio significativo è inefficace in ragione della consumazione del potere di amministrazione attiva, salva l'autotutela (cd. tempistica in una logica di preclusione). Il provvedimento tardivo non è pertanto solo illegittimo, ma, a seconda delle tesi, inesistente per carenza in astratto di potere o nullo per difetto assoluto di attribuzione. In ogni caso l'atto è inefficace, con i riflessi conseguenti in tema di riparto di giurisdizione laddove l'atto incida su preesistenti posizioni di diritto soggettivo. Nei rapporti trilaterali incisi dai cd. «provvedimenti a doppio effetto» la consumazione rischia di sortire ripercussioni negative per l'interesse legittimo oppositivo del terzo, che sarà costretto a impugnare il silenzio significativo ovvero a proporre istanza di autotutela, che, solo secondo la dottrina e la giurisprudenza più significative è idonea a innescare un dovere d riposta sa sanzionata dalla formazione del silenzio-rifiuto ove presentata da soggetto titolare di un una situazione giuridica sostanziale e autonoma.

A sua volta l'articolo 10- bis – da considerarsi alla stregua di disposizione eccezionale, non analogicamente estensibile – ha poi trasformato il cd «one shot temperato» in un «one shot procedimentale secco» (dal dovere di riesame al dovere di esame nella sua interezza dell'affare), imponendo alla pubblica amministrazione l'originaria esternazione di tutte le ragioni di diniego risultanti «ex actis»; le acquisizioni procedimentali diventano quindi un vincolo stringente in quanto devono essere dedotte immediatamente visto che la consumazione si produce all'esito del procedimento, non già del processo; la soluzione, coniata dal legislatore, per evitare la frammentazione del potere e del processo, apre la strada a un giudizio amministrativo di attribuzione, ma senza spettanza (attribuzione del bene per via della combinazione dell'illegittimità del provvedimento e della consumazione del potere), con una discutibile iper-protezione dell'interesse legittimo; un giudizio non sul rapporto, ma avulso dal rapporto; intuibili i riflessi pregiudizievoli sull'intensità della cognizione giurisdizionale e sulla protezione dei terzi controinteressati portatori di un interesse oppositivo; costoro potranno ottenere tutela solo con la tutela risarcitoria e il ricorso incidentale ex articolo 41 c.p.a. nei confronti del primo provvedimento, condizionatamente illegittimo nella parte in cui non valorizza illico et immediate tutte le ragioni di diniego risultanti dalle acquisizioni procedimentali; appare ancora, svilito il senso della comunicazione dei motivi ostativi e del corrispondente contraddittorio, visato che si consente alla p.a. di fare volere, dopo il giudicato, motivi nuovi, ma non motivi già emersi nel contraddittorio procedurale.

Più in generale la consumazione del potere è una soluzione paventabile solo nel caso di rapporto schiettamente bilaterale, basato sulla contrapposizione autorità-libertà, non per i frequenti rapporto multipolari che necessitano di una presa in carico dell'esigenza di tutela del terzo.

Va altresì rilevata la necessità di distinguere il caso in cui la consumazione del potere sia solo temporanea o endo-procedimentale, nel senso di consentire il riesercizio del potere attraverso l'attivazione di una nuova procedura (si pensi al caso del termine perentorio nell''espropriazione); dal caso di consumazione sostanziale (o definitiva o eso-procedimentale), ove il singolo procedimento sia l'unico luogo di esercizio di un potere originariamente circoscritto (come accade nel caso del procedimento disciplinare, sanzionatorio o nel potere inibitorio ex articolo 19 o nel silenzio con valore legale tipico ex comma 8-bis); nel caso del 10-bis è definitivamente consumato il potere per i motivi ricavabili dal procedimento svolto, mentre il potere è riesercitabile per motivi sopravvenuti e autonomi.

Questioni applicative.

1) Quali sono le deroghe al generale obbligo di provvedere?

L'obbligo di provvedere ha quindi portata generale, con la conseguenza che la sua violazione produce la formazione (in v via automatica e senza necessità di ulteriore diffida) del silenzio-rifiuto (o inadempimento) conestabile innanzi al GA con il rito del silenzio exartt. 31 e 117 c.p.a. e con l'azione risarcitoria di cui si dirà ins ed i comento al successivo art. 2-bis della l. n. 241.

Come la dottrina ha correttamente rilevato, «di fronte alle istanze dei privati vi è sempre un obbligo di provvedere se l'iniziativa nasce da una situazione soggettiva protetta dalle norme, se cioè è prevista dalla legge» (Morbidelli). Si deve, quindi, trattare di una posizione qualificata che legittimi l'istanza, in virtù delle norme che disciplinano il potere e il procedimento assegnando all'istante una situazione qualificata e differenziata.

Il c.d. diritto di domanda (e il correlato obbligo di provvedere in capo alla P.A.), pur non espressamente previsto dalla legge, può sussistere, dunque, in correlazione a una situazione di interesse legittimo pretensivo di cui il privato risulti titolare.

Anche in assenza di una esplicita previsione normativa, infatti, la giurisprudenza si è orientata a riconoscere l'esistenza di ulteriori ipotesi di un obbligo di provvedere, in ossequio al principio generale della doverosità dell'azione amministrativa e dei criteri di ragionevolezza e buona fede.

Così la giurisprudenza ha reputato sussistente l'obbligo, anche in assenza di previsione legale, quando la mancata emanazione si concretizzi in una violazione delle regole di fondo dell'attività amministrativa (Cons. St. VI, 11 maggio 2007, n. 2318), ovvero quando esigenze di giustizia sostanziale impongano l'adozione di un atto espresso in ossequio ai doveri di correttezza e di buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad una pronuncia.

Così, si è affermato che la P.A. è tenuta a provvedere non solo se l'istante chieda l'adozione di un provvedimento a sé favorevole, ma anche laddove sia titolare di una posizione di interesse differenziato che lo legittimi a invocare l'adozione di atti diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti dei terzi, dai quali possa trarre indirettamente vantaggio. Si deve trattare di ipotesi in cui la legge regolativa prende in considerazione l'interesse dell'istante o, comunque, le istanze siano presentate da soggetti che versano in posizioni qualificate e differenziate (si pensi al criterio della vicinitas, che legittima l'istante che possa subire un danno dall'attività o opera del terzo: Conf. T.A.R. Lazio, Sez. II, 25 novembre 2020, n. 12580, vedi anche T.A.R. Lazio, sez. II, 28 aprile 2020, n. 4333: «L'interpretazione costituzionalmente orientata, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., dell'obbligo di provvedere sull'istanza dell'interessato «negli altri casi previsti dalla legge», sancito dall'art. 31, comma 1, c.p.a., porta ad affermare la sussistenza del dovere di provvedere in relazione alla posizione giuridica del terzo, titolare di un interesse legittimo oppositivo, i cui interessi materiali, oggetto di un rapporto negoziale posto a valle, siano pregiudicati, in via diretta o indiretta, da rapporto di diritto pubblico posto a monte».

Si esclude, invece, che sussista tale obbligo ove non vi siano tali presupposti e venga in rilevo un mero esposto-denuncia.

Dall'esame della giurisprudenza emerge, tuttavia, che l'obbligo di provvedere, pur sussistendo in astratto, può risultare mancante in concreto.

Ciò accade, ad esempio, secondo la prevalente elaborazione pretoria, quando la domanda inoltrata dal privato sia manifestamente infondata o esorbitante dall'ambito delle pretese astrattamente riconducibili al rapporto amministrativo.

Ne deriva che, in coerenza con le coordinate di un giudizio sul rapporto, il G.A., adito in sede di ricorso contro il silenzio (artt. 31 e 117 c.p.a.), non può esimersi dal valutare la sussistenza in capo al ricorrente di un interesse alla decisione, interesse mancante laddove, pur essendo il termine scaduto per provvedere, l'istanza risulti manifestamente infondata o inammissibile.

In senso contrario, va tuttavia rilevato che il comma 1 dell'art. 2 impone un provvedimento espresso (pure se sinteticamente motivato) anche in caso di istanza manifestamente infondata, inammissibile, irricevibile e improcedibile.

Ancora, si ritiene che l'obbligo di provvedere sia mancante in concreto quando l'istanza sia inaccoglibile per motivi pregiudiziali o formali, quali, ad esempio, la carenza di legittimazione in chi abbia presentato l'istanza, ovvero l'incompetenza dell'organo adito, nonché l'insufficiente determinatezza dell'oggetto o la presenza di irregolarità formali.

Ulteriori eccezioni all'obbligo di provvedere sono state ravvisate con riferimento al caso di istanza di riesame in autotutela di un precedente provvedimento autoritativo non tempestivamente impugnato (Cons. St. V, n. 7655/2019), salvi i casi di:

a) sopravvenienze che mutino le circostanze prese in considerazione;

b) vincoli comunitari che obblighino almeno all'attivazione della procedura di autotutela;

c) analoghi provvedimenti adottati nei confronti di soggetti versanti nelle medesime condizioni, che obblighino a una parificazione di trattamento per ragioni di eguaglianza e giustizia sostanziale.

La giurisprudenza più recente tende poi a considerare sussistente un dovere di risposta ove l'istanza di autotutela sia presentata da soggetto portatore di un interesse qualificato e differenziato: in questo caso, infatti, non si tratterebbe di un esposto volto ad eccitare un potere d'ufficio ma di una vera istanza di un soggetto titolare di una posizione specifica di carattere pretensivo (Cons. St. VI, n. 5208/2021; Cons. St. IV, n. 1737/2022; VI, n. 3086/2021) T.A.R. Lazio, II-quater, 25 gennaio 2021, n. 911; 10702/2020).

Infine, non ricorre il dovere, quando oggetto della richiesta sia l'estensione del giudicato formatosi in relazione ad altro ricorrente.

2) Quali sono i casi eccezionali di termini perentori?

In alcuni casi, come si è accennato, la giurisprudenza riconosce l'esistenza di termini perentori, la cui violazione implica decadenza dal potere di provvedere.

La perentorietà può derivare da una espressa previsione di legge o desumersi implicitamente dal sistema.

Come esempio di termine perentorio viene normalmente indicato il termine previsto dall'art. 61, comma 1°, d.lgs. n. 42/2004 (Testo Unico dei Beni Culturali) per l'esercizio del diritto di prelazione che la legge attribuisce al Ministero per i beni e le attività culturali nel caso in cui un privato intenda alienare ad altro privato un bene di interesse storico, artistico, archeologico. La legge impone al proprietario di denunciare l'alienazione al Ministero, che ha facoltà di acquistare la cosa al medesimo prezzo stabilito nell'atto di alienazione. La prelazione, ai sensi dell'art. 61, comma 1°, cit. deve essere esercitata nel termine di sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia. Tale termine, secondo la giurisprudenza consolidata, è di decadenza, con la conseguenza che il provvedimento con il quale l'amministrazione esercita il diritto di prelazione, qualora venga emanato in ritardo, è emesso in carenza di potere e, pertanto, la controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.

Lo stesso è a dirsi per il termine fissato dall'art. 159 d.lgs. n. n. 42/2004, per il potere di annullamento statale dell'autorizzazione paesaggistica.

Sono stati considerati perentori, in quanto posti a tutela del diritto di proprietà, anche i termini fissati per l'adozione del provvedimento di espropriazione per pubblica utilità, a decorrere dalla dichiarazione di pubblica utilità (articolo 13 della legge fondamentale del 1865). L'opzione della perentorietà è ancor più nettamente sposata dal Testo Unico Espr. n. 327/2001 per quel che riguarda la scadenza dei termini di efficacia dei vincoli preordinati all'esproprio (art. 9: entro cinque anni va emanata la dichiarazione), della dichiarazione di P.U. (art. 13: entro cinque anni va emanato il decreto di espropriazione) e dello stesso provvedimento di espropriazione (artt. 22 e 23: entro due anni dall'emanazione, il decreto di espropriazione va notificato ed eseguito).

In altri casi è la legge a qualificare espressamente come perentorio il termine per provvedere: ad esempio, con riferimento al procedimento per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari regolamentato dal d.P.R. n. 3/1957, l'art. 120 prevede che il procedimento disciplinare si estingue, e non può essere rinnovato, «quando siano decorsi novanta giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto». Si tratta in questo caso di un termine riferito non all'atto conclusivo del procedimento, ma agli atti endoprocedimentali di un procedimento a struttura complessa, nel quale trova ampio spazio il contraddittorio.

Sempre in materia di sanzioni, una fattispecie di termine perentorio è quella prevista dall'art. 204, comma 1-bis, d.lgs. n. 285/1992 (Codice della Strada) per l'emanazione dell'ordinanza ingiunzione da parte del Prefetto.

Ancora, alcune ipotesi di termine perentorio sono previste dalla legge n. 287/1990 in materia di tutela della concorrenza.

La prima riguarda la materia delle intese restrittive della concorrenza (art. 13 della legge n. 287/1990); e in materia di concentrazioni tra imprese restrittive della concorrenza, (art. 16, comma 4, della stessa legge).

In tema di sanzioni amministrative punitive, Cons. St. VI, 12 gennaio, n. 584/2021 ha, peraltro, ritenuto ravvisabile l'operatività di termini perentori non espliciti, ricavabili dal sistema normativo (vedi parte 3, cap. 1 par. 13). Secondo il Consiglio, «l'affermazione secondo la quale la natura perentoria del termine di conclusione del procedimento deve essere accompagnata da un'esplicita previsione legislativa in tal senso nella sua rigidità, da un lato, presuppone che il legislatore possa disporre in via esclusiva di valori di rilievo costituzionale o convenzionale al punto di rimetterla ad un'espressa previsione. Dall'altro, porterebbe a concludere che anche qualora il legislatore costruisca una disciplina che premia la necessità del rispetto del termine di conclusione del procedimento in termini di normazione sostanziale, la mancanza di una locuzione esplicita ponga nel nulla l'impianto complessivo della disciplina. Infine, vedrebbe sminuito il ruolo dell'interprete, avallando un approccio esegetico, cieco rispetto all'ìmperante pluralismo normativo delle fonti nazionali e sovranazionali. È noto, infatti, al contrario come la ricerca di un non semplice equilibrio tra le fonti multilivello in ogni campo dell'amministrazione ha accresciuto, e non diminuito, l'importanza del momento interpretativo. In una parola, non è escluso che la esigenza di fissazione di termini perentori a pena di decadenza possa essere soddisfatta, nel rispetto del principio di legalità sostanziale, da atti normativi secondari o generali a ciò autorizzati o al limite anche in sede di avvio del procedimento, con una autolimitazione della successiva attività».

Da ultimo, come detto, con l'inserimento di un comma 8 -bis nell'art. 2 della Legge 241, il d.l. Semplificazioni n. 76/2020 ha chiarito che sono inefficaci i provvedimenti inibitori successivi ai termini perentori di cui all'art. 19 l. n. 241 nonché successivi ai silenzi assensi di cui agli artt. 14-bis, 14-ter, 17-bis e 20.

3) Quali sono gli argomenti sostenuti dalla minoritaria tesi dottrinale che afferma il carattere perentorio del termine relativo all'esercizio sfavorevole del potere?

Si deve approfondire ulteriormente l'esposta dottrina minoritaria (Clarich) secondo cui la crescente importanza del principio della certezza temporale dell'azione amministrativa dovrebbe indurre a rivisitare il tradizionale orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, che sostiene, salve eccezioni specifiche, l'irrilevanza della violazione del termine del procedimento in caso di provvedimenti restrittivi.

Si è sostenuto che, così come nei procedimenti ampliativi vale, in caso di silenzio assenso, la regola, sancita dal nuovo art. 20 l. n. 241/1990, secondo cui la scadenza del termine consuma il potere (determinando l'accoglimento dell'istanza presentata dal privato), allo stesso modo, anche nei procedimenti restrittivi, la scadenza del termine dovrebbe comportare la consumazione del potere, con conseguente illegittimità ( sub specie di annullabilità o, secondo alcuni, di nullità) del provvedimento tardivo.

In altri termini, una volta che il «valore» della certezza del tempo dell'azione amministrativa acquista la consistenza di principio generale, sanzionato, in materia di procedimenti ampliativi, con la regola del silenzio-assenso, si potrebbe sostenere che, pure nell'ambito dei procedimenti restrittivi, l'importanza attribuita al «tempo» dalle recenti riforme legislative induca a capovolgere la tradizionale affermazione giurisprudenziale e ad affermare che tutti i termini debbono essere considerati perentori, a meno che una espressa previsione legislativa non attribuisca ad essi natura ordinatoria.

Le obiezioni avanzate dalla dottrina in esame alle argomentazioni prima riportate della giurisprudenza prevalente possono essere così sintetizzate.

Si dubita, anzitutto, della correttezza del procedimento interpretativo volto ad estendere l'art. 152 c.p.c. a una fattispecie di diritto sostanziale quale l'esercizio del potere amministrativo. Si è osservato, in particolare, che «nell'ambito dei rapporti sostanziali, il termine ha la funzione di delimitare nel tempo la situazione di incertezza e di sospensione nell'assetto delle relazioni giuridiche tra le parti, a tutela di un interesse pubblico o privato, dovuta al fatto che a un soggetto è attribuito il potere di incidere in modo unilaterale nella sfera giuridica altrui modificando così il confine tra le rispettive sfere giuridiche (termine di decadenza); oppure la funzione di adeguare lo stato di diritto a uno stato di fatto (inerzia) allo scopo, anche qui, di segnare nuovi confini tra le sfere giuridiche dei soggetti del rapporto (termine di prescrizione). In siffatto contesto non c'è spazio per i termini di tipo ordinatorio, intesi come termini il cui decorso non comporta l'estinzione del potere». Nell'ambito del processo, invece, la scansione temporale dei vari tipi di atti posti in essere dalle parti e dal giudice lascia spazio per una graduazione tra termini ordinatori e perentori: i primi hanno lo scopo di regolare le attività processuali secondo le necessità del normale andamento del processo; i secondi, che non riguardano mai l'attività e gli atti del giudice, servono a imprimere al processo un ritmo più serrato in vista della sua conclusione naturale o della sua estinzione anche in presenza dell'inattività delle parti. Tenendo conto di questi elementi, si è ritenuto che al potere amministrativo possa esser applicato, anche per ciò che riguarda il regime del termine finale del procedimento, il quadro concettuale di riferimento delle situazioni giuridiche sostanziali piuttosto che quelle processuali.

In secondo luogo, si è evidenziato che l'opzione interpretativa della giurisprudenza finisce per attribuire all'amministrazione un autentico privilegio, in palese controtendenza rispetto alla direzione dell'ordinamento giuridico, sempre più proiettato verso l'ampliamento dei mezzi di tutela del privato e la riduzione dell'area di irresponsabilità dei soggetti pubblici.

La soluzione interpretativa seguita dalla giurisprudenza sottovaluta, inoltre, la portata delle innovazioni recate dalla legge n. 241/1990: la certezza temporale deve accompagnarsi a quella della sanzione, altrimenti verrebbe meno l'effettività della previsione legislativa e la sua garanzia di tutela del privato.

Si osserva, a tal proposito, che la soluzione caldeggiata dalla giurisprudenza poteva avere una qualche plausibilità prima della l. n. 241/1990, quando per pochi tipi di procedimenti era previsto, per legge o per regolamento, un termine e, quindi, il tempo dell'agire dell'amministrazione era rimesso alla valutazione discrezionale della stessa. In tale contesto poteva trovare giustificazione il principio tradizionale secondo cui i termini sono ordinatori, tranne che per espressa previsione ad essi non sia attribuita natura perentoria. Nel sistema attuale la situazione appare però rovesciata, visto che la regola generale è ormai che il tempo dell'agire della pubblica amministrazione è scandito con precisione dai termini fissati per tutti i tipi di procedimenti.

Una volta che la certezza del tempo dell'agire della pubblica amministrazione acquista la consistenza di un nuovo principio generale, fondato su una espressa disposizione normativa di rango primario (art. 2 l. n. 241/1990), il ragionamento si presta ad essere capovolto: si dovrebbe affermare che i termini devono essere considerati perentori, a meno che una espressa previsione di legge non attribuisca ad essi natura ordinatoria.

Sul piano ricostruttivo la tesi esposta dalla dottrina segue una impostazione analitica, distinguendo la funzione del termine a seconda che esso riguardi, alternativamente, procedimenti ampliativi, originati dalla richiesta del privato, oppure provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del destinatario dell'atto, derivanti da un'iniziativa di ufficio della stessa amministrazione.

Nel primo caso soltanto, la tesi della giurisprudenza conserverebbe intatta la propria esattezza.

Fermo restando, tuttavia, che la violazione del termine non resterebbe priva di conseguenze, in relazione alla responsabilità dell'amministrazione e dei funzionari. In questo caso, infatti, il termine si colloca all'interno della relazione diritto soggettivo-obbligo che si instaura tra il privato che presenta l'istanza e l'amministrazione che è tenuta ad emanare nel termine un provvedimento espresso che l'accolga o lo respinga.

Il modello concettuale di riferimento è, quindi, il termine per l'adempimento delle obbligazioni, con conseguente applicazione dell'art. 1218 c.c., secondo il quale il ritardo nell'adempimento derivante da causa imputabile al debitore fa sorgere in capo a quest'ultimo l'obbligo di risarcire il danno. Si tratta del danno generato dallo stato di incertezza in ordine all'accoglimento o al rigetto dell'istanza, stato di incertezza che dopo la scadenza del termine per provvedere diviene illecito e riconducibile, sotto il profilo causale, al comportamento inadempiente dell'amministrazione. Derivando dalla situazione di incertezza conseguente alla violazione dell'obbligo legale di provvedere nei termini, tale responsabilità sussiste a prescindere dalla legittimità o illegittimità del provvedimento tardivo: essa cioè sorge anche nei casi di accoglimento tardivo dell'istanza e di rigetto legittimo tardivo della medesima.

Nei procedimenti del secondo tipo diretti all'emanazione di provvedimenti restrittivi, il termine si collocherebbe all'interno della relazione tra potere dell'amministrazione di emanare il provvedimento che incide negativamente sulla sfera giuridica del destinatario e diritto soggettivo di quest'ultimo. Il modello concettuale di riferimento sarebbe allora il termine per l'esercizio dei diritti potestativi.

Secondo questa impostazione, in particolare, l'atto emanato fuori termine è nullo per carenza sopravvenuta di potere. Il termine finale viene qualificato come una sorta di elemento negativo della fattispecie: il potere sorge e può essere esercitato in presenza di tutti i presupposti e requisiti previsti dalla legge e in tanto in quanto il termine non sia scaduto. La scadenza del termine assume, quindi, il significato di fatto impeditivo o preclusivo dell'esercizio del potere.

In tale ottica, nella dinamica del rapporto procedimentale che si instaura tra l'amministrazione che esercita in concreto il potere e il privato posto in una situazione di soggezione, il termine ha una funzione di garanzia degli interessi di questo che è posto in una situazione di soggezione. Si tratterebbe di un limite assimilabile a quello dei rapporti interprivati nei termini previsti per l'esercizio dei diritti potestativi, con riferimento ai quali entra in gioco, sempre ed esclusivamente, l'istituto della decadenza. Ne conseguirebbe, alla scadenza del termine per l'esercizio del potere, l'inidoneità dell'atto tardivo a produrre l'effetto costitutivo tipico, e non invece la semplice possibilità di far annullare l'atto tardivamente adottato.

4) Quali sono problemi teorici e pratici posti dal nuovo potere sostitutivo:?

Si è detto in sede di commento che l'attivazione del potere sostitutivo (potenziato, da ultimo, dai commi 9-bis e 9-ter dell'art. 2 della legge 241, introdotti dal d.l. n, 77/2021) è condizione necessaria affinché l'istante possa chiedere ed ottenere l'indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo.

Il potere sostitutivo si colloca nell'ambito delle c.d. forme di tutela successiva avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione, distinguendosi pertanto dalle forme di tutela preventiva che, in quanto tali, prevengono il rischio di pregiudizio che il silenzio dell'amministrazione può arrecare all'istante. Secondo attenta dottrina, lo strumento in esame è teso a «riparare la discontinuità della funzione», nel senso che consente la sostituzione, contingentata nel tempo, di un organo che non funziona.

Ulteriore conseguenza processuale di tale scissione è quella di rendere evidente come l'azione ordinaria sul silenzio possa essere proposta al solo fine di sentire dichiarare la violazione dell'obbligo di provvedere e senza investire il giudice dell'accertamento sulla fondatezza della domanda provvedimentale. Ove però la domanda sul silenzio sia corredata della domanda indennitaria, l'azione non potrà limitarsi al mero accertamento della violazione dell'obbligo procedimentale, ma dovrà estendersi anche alla ammissibilità e alla fondatezza della domanda provvedimentale. Ne deriva, ulteriormente, che tale questione costituirà uno dei capi di domanda, se l'azione sarà stata proposta con il rito dell'art. 117 c.p.a.; costituirà, invece, una questione pregiudiziale, insuscettibile, ex art. 8 c.p.a., di far stato, se il ricorrente avrà agito ex art. 118 c.p.a.

Più nello specifico, il potere sostitutivo è da considerarsi forma di tutela successiva di tipo amministrativo, perché interna alla Pubblica amministrazione, lo stesso distinguendosi e sommandosi alla tutela successiva di tipo giurisdizionale conosciuta come «rito avverso il silenzio inadempimento», di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a..

5) Quali sono le regole fondamentali del giudizio relativo al silenzio-rifiuto?

Il Consiglio di Stato offre un decalogo delle regole sul silenzio-inadempimento (Cons. St. VI, 28 aprile 2021, n. 3420).

Rares sont les mots qui valent mieux que le silence, ricorda Henry de Montherlant. Il silenzio è in effetti, più misterioso ed eloquente, delle parole inutili perché pone il destinatario di fronte all'affascinante decifrazione di un enigma. Questo motto vale, in modo particolare, per il silenzio amministrativo se è vero, per dirla con Bobbio, che il vero potere amministrativo non è quello di decidere, ma quello di non decidere, mettendo il privato nella condizione infausta dell'attesa infinita e rassegnata.

In effetti l'inerzia amministrativa ha dato la stura, sul pino sostanziale e sul crinale processuale, a problemi ricostruttivi di notevole spessore che trovano oggi un'efficace sintesi nella sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato 28 aprile 2021, n. 3430, riferita al un caso in cui il ricorrente n prime cure aveva un'azione exartt. 31 e 117 c.p.a. volta ad ottenere l'accertamento di una fattispecie di silenzio inadempimento sull'istanza di adozione di in provvedimento sanzionatorio in materia edilizia ex art. 37 T.U. Edilizia, con conseguente condanna dell'Amministrazione al rilascio del provvedimento sollecitato con l'atto di diffida asseritamente non riscontrato.

Precisano in prima battuta i giudici di Palazzo Spada che l'azione avverso il silenzio assume una natura giuridica mista, tendendo ad ottenere sia l'accertamento dell'obbligo di definire il procedimento nel termine prescritto dalla disciplina legislativa o regolamentare ai sensi dell'art. 2 Legge n. 241 del 1990, sia la condanna della stessa Amministrazione inadempiente all'adozione di un provvedimento esplicito, con possibilità, altresì, di formulare in sede giurisdizionale un giudizio di spettanza del bene della vita agognato dal ricorrente, qualora si controverta in tema di azione vincolata ed emerga la fondatezza sostanziale della pretesa azionata in giudizio.

Venendo ai presupposti legittimati si aggiunge che, per configurarsi il silenzio inadempimento contestabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 l. n. 241 del 1990, 31 c.p.a. e 117 c.p.a., occorre che sussista un obbligo di provvedere e che, decorso il termine di conclusione del procedimento, non sia stato assunto alcun provvedimento espresso, avendo tenuto l'Amministrazione procedente una condotta inerte. Assecondando esigenze di effettività e pienezza della tutela, la giurisprudenza a ha, al riguardo, abbracciato un'opzione estensiva secondo la quale un obbligo di provvedere sussista in tutte le fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano all'Amministrazione l'adozione di un provvedimento e, quindi, tutte le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione pubblica (cfr. Cons. St. IV, n. 05344/2018). Ogniqualvolta la realizzazione della pretesa sostanziale vantata dal privato dipenda dall'intermediazione del pubblico potere, l'Amministrazione, dunque, è tenuta ad assumere una decisione espressa, anche qualora si faccia questione di procedimenti ad istanza di parte e l'organo procedente ravvisi ragioni ostative alla valutazione, nel merito, della relativa domanda: l'attuale formulazione dell'art. 2, comma 1, l. n. 241 del 1990, pure in caso di «manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità ... della domanda», impone l'adozione di un provvedimento espresso, consentendosi in tali ipotesi soltanto una sua redazione in forma semplificata, ma non giustificandosi una condotta meramente inerte.

Il silenzio inadempimento non può, invece, configurarsi in presenza di posizioni giuridiche di diritto soggettivo, aventi ad oggetto un'utilità giuridico economica attribuita direttamente dal dato positivo, non necessitante dell'intermediazione amministrativa per la sua acquisizione al patrimonio giuridico individuale della parte ricorrente. In particolare, l'azione avverso il silenzio «presuppone la sussistenza di posizioni d interesse legittimo (da tutelare dall'inerzia dell'amministrazione) e non già di diritto soggettivo. Tantomeno il procedimento avverso il silenzio può essere attivato per ottenere la tutela di diritti di credito nei confronti della Pubblica Amministrazione» (Cons. St. IV, n. 1904/2018).

Come precisato da questo Consiglio, «la fattispecie del del c.d. “silenzio-inadempimento” riguarda le ipotesi in cui, di fronte alla formale richiesta di un provvedimento da parte di un privato, costituente atto iniziale di una procedura amministrativa normativamente prevista per l'emanazione di una determinazione autoritativa su istanza di parte, l'Amministrazione, titolare della relativa competenza, omette di provvedere entro i termini stabiliti dalla legge; di conseguenza, l'omissione dell'adozione del provvedimento finale assume il valore di silenzio-inadempimento (o rifiuto) solo nel caso in cui sussisteva un obbligo giuridico di provvedere, cioè di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell'organo amministrativo destinatario della richiesta, attivando un procedimento amministrativo in funzione dell'adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico; presupposto per l'azione avverso il silenzio è, dunque, l'esistenza di uno specifico obbligo (e non di una generica facoltà o di una mera potestà) in capo all'amministrazione di adottare un provvedimento amministrativo esplicito, volto ad incidere, positivamente o negativamente, sulla posizione giuridica e differenziata del ricorrente” (così, ex multis, IV Sezione, sentenza n. 5417/2019).

I presupposti per l'attivazione del rito sono dunque sia l'esistenza di uno specifico obbligo di provvedere in capo all'amministrazione, sia la natura provvedimentale dell'attività oggetto della sollecitazione: il rito previsto dagli artt. 31 e 117 del codice del processo amministrativo rappresenta infatti sul piano processuale lo strumento rimediale per la violazione della regola dell'obbligo di agire in via provvedimentale sancita dall'art. 2 della l. n. 241 del 1990» (Con. St. III, n. 4204/2020).

L'obbligo di provvedere, peraltro, non può considerarsi assolto mediante l'adozione di atti meramente interlocutori, finalizzati a stimolare il contraddittorio infraprocedimentale, per propria natura non idonei a manifestare la volontà dispositiva dell'ente procedente e, dunque, a configurare una decisione provvedimentale sulle questioni oggetto del procedimento (cfr. Cons. St. V, n. 5040/2013).

L'insussistenza di un obbligo di provvedere o l'avvenuta conclusione del procedimento con un atto espresso ostano, dunque, all'accoglimento del ricorso ex artt. 31 e 117 c.p.a.

Applicando le coordinate esposte al caso di specie, la VI Sezione del Consiglio, pur non dubitando della sussistenza dell'obbligo comunale di provvedere sull'istanza di repressione di abusi edilizi, presentata dal proprietario dell'area confinante a quella di realizzazione delle opere abusive – il quale, per via della vicinitas, gode d'una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell'eventuale illecito edilizio non represso ed è quindi titolare di un interesse pretensivo alla repressione dell'abuso – esclude la sussistenza di un'inerzia amministrativa, avendo il Comune comunque concluso il procedimento amministrativo di repressione degli abusi edilizi, manifestando una volontà dispositiva ostativa alla demolizione delle opere allo stato residuanti nell'area di proprietà dei controinteressati, ritenute dall'Amministrazione assentite da titoli in sanatoria. in tale modo, il Comune è pervenuto all'archiviazione del relativo procedimento amministrativo, assumendo una decisione censurabile con un'azione impugnatoria, ma non con il rimedio di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a..

Insomma la rottura del silenzio preclude l'accesso al rito speciale e impone il ritorno all'azione di annullamento, «vecchia signora» del processo amministrativo che trova nel suo profumo antico uno straordinario profumo di attualità.

6) Sussiste un obbligo di provvedere a fronte dell'istanza di indizione di una gara?

Negativa la risposta di Cons. Stato, V, 19 dicembre 20222, n. 11064.

Il Consiglio di Stato  ribadisce che rispetto alla partecipazione a una futura gara, l'appellante vanta tuttavia una mera aspettativa di fatto, atteso che l'amministrazione non ha alcun obbligo di bandirla.

La giurisprudenza amministrativa ha individuato tre ipotesi tassative in cui, eccezionalmente, l'interesse strumentale dell'operatore economico del settore che non abbia partecipato ad una procedura ad evidenza pubblica assume una dimensione sostanziale sub specie di interesse legittimo e legittima la proposizione del ricorso, che ricorrono quando: a) si contesti in radice l'indizione della gara; b) all'inverso, si contesti che una gara sia mancata, avendo l'amministrazione disposto l'affidamento in via diretta del contratto; c) si impugnino direttamente le clausole del bando assumendo che le stesse siano immediatamente escludenti (ex multis Cons. Stato, sez. V, 18 luglio 2019, n. 5057 con richiamo ai principi espressi dalla sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 4 del 2018).

 Nel caso in esame non si ravvisa alcune delle suddette ipotesi, dal momento che una gara non vi è mai stata e, come detto, l'amministrazione non ha alcun obbligo di bandirla.

 E invero sino a quanto la gara non viene bandita l'operatore economico gode di una mera aspettativa di fatto e non di una posizione giuridicamente tutelata quale l'interesse legittimo (cfr. a contrario Consiglio di Stato sez. V, 11/01/2021, n.368 secondo cui nel caso di mancata conclusione del procedimento di project financing, sussiste la responsabilità precontrattuale dell'Amministrazione se, pur non avendo adottato provvedimenti illegittimi, tenga un comportamento non ispirato al canone di correttezza e buona fede e, perciò, lesivo delle legittime aspettative ingenerate nel contraente privato ovvero della ragionevole convinzione del danneggiato circa il buon esito delle trattative. Infatti, l'indizione della gara e, soprattutto, la disposta aggiudicazione, ha trasformato la posizione dell'operatore economico da aspettativa di mero fatto in aspettativa giuridicamente tutelata alla consequenziale stipula del contratto).

(7) Si forma il  silenzio-rifiuto in materia di diritti soggettivi?

Negativa la riposta di Cons. St, V, 5 dicembre 2022, n. 10630, che ribadisce il pacifico indirizzo pretorio secondo cui il rito di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a. non è compatibile con le controversie che solo apparentemente abbiano per oggetto una situazione di inerzia dell'organo pubblico a provvedere, come nei casi in cui l'accertamento verta su pretese patrimoniali costitutive di diritti di credito in base a norme che regolano l'azione dell'amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18 giugno 2008, n. 3007; Cons. Stato IV, 1 luglio 2021, n. 5037).

Bibliografia

Auciello, Conclusione del procedimento, in Tomei (a cura di), La nuova disciplina dell'azione amministrativa. Commento alla legge 241 del 1990, aggiornato alle leggi 241/1990 e processo amministrativo, Padova, 2005, 73 ss.; Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2021; Cerulli Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. 241/1990 – II parte, in giustamm.it, 2005, n. 2; Chieppa, Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2021; Garofoli, Ferrari, Manuale superiore di diritto amministrativo, Roma, 2021; Gisondi, Denunzia di inizio attività ed azione atipica di accertamento autonomo: il Consiglio di Stato separa l'interesse legittimo dal potere, in Il diritto per i concorsi, 3, 2009, 99; Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964; Tenca, Il termine del procedimento amministrativo, in Comuni d'Italia, n. 7-8/06, 2006, 26; Virga, Le modifiche ed integrazioni alla l. 241/1990 recentemente approvate, in lexitalia.it, 2007.

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