Legge - 7/08/1990 - n. 241 art. 2 bis - Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento 1Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento 1
1. Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. 1-bis. Fatto salvo quanto previsto dal comma 1 e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, l'istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell' articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 . In tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento 2. [2. Le controversie relative all’applicazione del presente articolo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni.] 3 [1] Articolo inserito dall'articolo 7, comma 1, lettera c), della legge 18 giugno 2009, n. 69 [2] Comma inserito dall'articolo 28, comma 9, del D.L. 21 giugno 2013, n. 69 , convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 agosto 2013, n. 98. [3] Comma abrogato dall'articolo 3, comma 2, dell'Allegato 4 al D.Lgs.2 luglio 2010, n. 104. InquadramentoLa disposizione in esame introduce nel panorama legislativo un nuovo strumento di tutela contro l'inerzia della pubblica amministrazione. Essa prevede, infatti, che chi abbia subito un danno ingiusto in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine per la conclusione del procedimento possa chiederne il risarcimento davanti al giudice amministrativo ai sensi dell'art. 30 comma 2 c.p.a. entro il termine di 120 giorni, che decorre in ogni caso dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere ai sensi del comma 4 dell'art. 30 c.p.a. Il legislatore ha così inteso rafforzare l'effettività della norma che disciplina i tempi del procedimento amministrativo, contenuta nell'art. 2 della legge 241 del 1990, aggiungendo al rimedio del giudizio sul silenzio, una specifica ipotesi di responsabilità della p.a. per la ritardata adozione dei suoi atti, e offrendo, così, all'interesse degli amministrati ad una celere definizione dei loro rapporti con la p.a. un'ulteriore garanzia. La fattispecie del danno da ritardo assume aspetti peculiari in ragione del fatto che essa non si correla ad una illegittimità provvedimentale, ma ad una diversa patologia del potere amministrativo consistente nel suo mancato o ritardato esercizio in violazione della regola secondo cui la conclusione del procedimento deve avvenire con un provvedimento espresso ed entro i termini prestabiliti. Alla luce degli insegnamenti della storica sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, 22 luglio 1999, n. 500 (che, come noto, ha sancito il crollo del dogma della irrisarcibilità dell'interesse legittimo) deve ritenersi in via ormai pacifica che l'interesse legittimo sotteso alla conclusione del procedimento sia leso tanto dal mancato rispetto dell'obbligo a provvedere, quanto dalla semplice adozione di un provvedimento in epoca successiva rispetto al termine previsto. All'indomani della citata sentenza delle Sezioni Unite, invero, in sede interpretativa si è posto il problema di verificare le condizioni alle quali tali lesioni potessero ritenersi foriere di conseguenze risarcitorie. Tale problema, fortemente avvertito dalla giurisprudenza e dalla dottrina dell'ultimo decennio, aveva destato anche l'attenzione del legislatore, il quale aveva più volte posto mano a disegni di legge, peraltro mai approvati, che positivizzassero e consacrassero il diritto al risarcimento del danno a seguito della mancata o tardiva adozione del provvedimento finale. L'ultimo, in ordine di tempo, è il c.d. «disegno di legge Nicolais», mai divenuto legge, il quale prevedeva, tra l'altro, l'inserimento nella l. n. 241/1990 di un art. 2-bis, secondo cui «Le pubbliche amministrazioni sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, indipendentemente dalla spettanza del beneficio derivante dal provvedimento richiesto». Lo stesso disegno di legge, poi, prevedeva, a titolo sanzionatorio del mero ritardo, che la p.a. corrispondesse all'istante una somma di denaro in misura fissa ed eventualmente progressiva, per la sola inosservanza dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi. Il contenuto dell'art. 2-bis della l. n. 241/1990, previsto dal citato disegno di legge, è stato ripreso integralmente dalle precedenti versioni della legge; tuttavia, durante l'iter parlamentare che ha portato alla approvazione della legge, la norma ha subito una consistente contrazione, riducendosi dai quattro commi originari ai due attuali. Le modifiche intervenute hanno significativamente smorzato la carica innovativa della disposizione che, nella sua odierna versione, si limita – almeno in apparenza – a «fotografare» i tratti essenziali della situazione esistente senza prendere posizione sui nodi ancora controversi della responsabilità da ritardo nell'esercizio della funzione amministrativa. Nel testo finale dell'art. 2-bis della l. n. 241/1990, introdotto dalla legge sullo sviluppo economico e la semplificazione, è stato infatti espunto ogni riferimento alla autonomia del danno da ritardo rispetto alla spettanza del beneficio finale atteso dall'interessato, così come alla sanzionabilità della violazione dei termini procedimentali con una pena pecuniaria da devolversi al cittadino indipendentemente dalla prova di un danno. La norma, infatti, si limita a positivizzare l'obbligo, in capo alla p.a., di rifondere il «danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». L'intervento del legislatore va letto come una scelta di «sistema», consistente nell'aver voluto rafforzare l'effettività delle norme che disciplinano i tempi del procedimento amministrativo (contenute nell'art. 2 della l. n. 241/1990) con una specifica ipotesi di responsabilità dell'amministrazione per la ritardata adozione dei suoi atti. Le novità apportate dalla previsione normativa in commento possono, quindi, evincersi più che dalla sua stretta esegesi, attraverso il suo inquadramento sistematico nell'impianto ancora incerto della responsabilità da attività provvedimentale della p.a.. Prima di passare all'esame della fattispecie risarcitoria, va osservato, in via preliminare, che la previsione di un obbligo risarcitorio in capo alla p.a. nell'ipotesi di mancata o tardiva adozione del provvedimento finale, non esclude il persistere dell'obbligo di provvedere da parte dell'amministrazione competente: ne consegue che l'amministrazione attinta dalla richiesta risarcitoria del privato danneggiato dal mancato rispetto del termine a provvedere, sarà in ogni caso tenuta all'adozione del provvedimento (sul tema vedi, funditus, sub art. 2). Il risarcimento del «danno da ritardo» nella giurisprudenza prima della l. n. 69/2009 e del d.l. n. 69/2013La norma nell'attuale formulazione risolve il problema della possibilità di ottenere una somma di denaro spettante per violazione delle regole temporali anche in caso di non infondatezza della pretesa sostanziale, restando da accertare se ciò sarà a titolo risarcitorio o di mero indennizzo. Sul piano processuale la disciplina di riferimento è oramai contenuta negli art. 30,31 e 117 c.p.a.. Da tempo dottrina e giurisprudenza si confrontavano sul problema se il tempo costituisse di per sé bene autonomo suscettibile di tutela risarcitoria, con la conseguenza, sul crinale processuale, che potesse essere spiccata azione risarcitoria avverso l'amministrazione inerte a prescindere ed autonomamente rispetto all'esperimento dell'azione di cui all'art. 21-bis l. T.A.R. e, quindi, prima ed indipendentemente dall'impugnazione del silenzio che impediva il conseguimento del bene della vita oggetto sostanziale dell'istanza del privato (si tratta, dunque, di un'ipotesi particolare del ben noto problema della c.d. «pregiudiziale amministrativa»). Sul tema si fronteggiavano due distinti orientamenti. Secondo una prima tesi (Cons. St. VI, 17 luglio 2008, n. 3592) «l'affidamento del privato alla certezza dei tempi dell'azione amministrativa sembra – nell'attuale realtà economica e nella moderna concezione del c.d. rapporto amministrativo – essere interesse meritevole di tutela in sé considerato, non essendo sufficiente relegare tale tutela alla previsione ed all'azionabilità di strumenti processuali di carattere propulsivo, che si giustificano solo nell'ottica del conseguimento dell'utilità finale ma appaiono poco appaganti rispetto all'interesse del privato a vedere definita con certezza la propria posizione in relazione ad un'istanza rivolta all'amministrazione». In definitiva, dunque, tale tesi riconosceva valore assorbente al carattere autonomo del dovere procedimentale di correttezza violato dalla P.A. inerte, con la conseguente possibilità, proprio in ragione della sua autonomia, di conferirle piena tutela, anche risarcitoria. La correlativa responsabilità dell'amministrazione assumeva, secondo la posizione in commento, consistenza contrattuale (da contatto), con la conseguenza che non era necessario alcun giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita: si giungeva così a conferire tutela risarcitoria ai meri interessi procedimentali. Tale teoria, pur trovando autorevoli sostenitori, ha avuto limitata fortuna, anche in conseguenza del timore di estendere eccessivamente l'area della risarcibilità degli interessi legittimi, in presenza di vizi esclusivamente formali e in ordine ad interessi procedimentali svincolati dalla debenza del bene della vita. Questa impostazione era stata completamente disattesa dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ( Cons. St. Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7 ; conf. Cons. St. IV, n. 248/2008), la quale aveva chiarito che l'intervenuta, tardiva pronunzia della P.A. sulle istanze del privato non comporta, per ciò solo, l'affermazione della sua responsabilità per danni. Il sistema di tutela degli interessi legittimi, e segnatamente quelli pretensivi, consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo ove l'interesse, incapace di trovare realizzazione mediante l'atto omesso dall'amministrazione, assuma consistenza sostanziale e non meramente procedurale, come nel caso di mancato rispetto di un termine a provvedere, ove il suo ipotetico rispetto non avrebbe condotto ad un risultato diverso, lasciando comunque l'istante privo del vantaggio richiesto nell'istanza. Perciò, nel caso di perdurante silenzio, si riteneva che fosse possibile riconoscere un risarcimento nell'unico caso in cui – mediante un giudizio prognostico circa la spettanza del bene della vita – si potesse stabilire con buon grado di probabilità la spettanza del bene oggetto dell'istanza del privato medesimo. Tale ipotesi, peraltro, si scontrava con la difficoltà di operare una valutazione dell'esito finale del procedimento nel caso di discrezionalità della p.a., con la sua pratica preclusione nell'ipotesi di attività amministrativa discrezionale «pura». Secondo il Consiglio, peraltro, l'opposta soluzione conduceva ad ammettere una forma di risarcibilità del danno con funzione meramente sanzionatoria, invece sconosciuta al nostro ordinamento. Non solo: la trasposizione della responsabilità risarcitoria ex art. 21-bis l. T.A.R. in materia di risarcimento da ritardo provvedimentale implicava sempre l'allegazione e la dimostrazione del pregiudizio sofferto causalmente conseguente al comportamento contra jus. A fronte dell'inerzia della P.A., pertanto, sul cittadino gravava l'onere di attivare il giudizio ex art. 21-bis, onde ottenere il provvedimento a lui favorevole. Solo dopo averlo ottenuto (posto che la P.A. non perdeva il potere di emanare il provvedimento, che potrebbe essere anche sfavorevole all'istante), quest'ultimo poteva domandare il risarcimento ove il ritardo della concessione del provvedimento favorevole avesse causato qualche pregiudizio (Cons. St. VI, 18 giugno 2002, n. 3338). La nuova norma sul risarcimento del danno da ritardo provvedimentale.La fattispecie risarcitoria prevista dal nuovo art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 àncora il risarcimento al ritardo o al silenzio della p.a., indipendentemente dal contenuto dell'atto, con il superamento della prevalente giurisprudenza. Una lettura più meditata dalla norma in esame unitamente alle novità portate dalla disciplina del codice del processo amministrativo e dall'introduzione del comma 1-bis da parte del d.l. 69/2013, hanno consentito di superare il citato orientamento della Plenaria, consentendo di addivenire ad un approccio che offre una tutela a trecentosessanta gradi al cittadino. È evidente, infatti, che il privato che aspiri ad una risposta sollecita all'istanza presentata non abbia interesse allo svolgimento corretto dell'azione amministrativa, ma desideri anche eliminare le incertezze in ordine alla realizzabilità o meno di una propria iniziativa (Cons. St., Ad. plen., 3 dicembre 2008 n. 13). Come ricordato dall'ordinanza di rimessione alla Plenaria, infatti, «L'affidamento del privato alla certezza dei tempi dell'azione amministrativa – nell'attuale realtà economica e nella moderna concezione del c.d. rapporto amministrativo – sembra essere interesse meritevole di tutela in sé considerato, non essendo sufficiente relegare tale tutela alla previsione ed all'azionabilità di strumenti processuali a carattere propulsivo, che si giustificano solo nell'ottica del conseguimento dell'utilità finale ma appaiono poco appaganti rispetto all'interesse del privato a vedere definita con certezza la propria posizione in relazione ad un'istanza rivolta all'amministrazione». Il tempo, pertanto, è esso stesso bene della vita, la cui lesione consente di ottenere un ristoro patrimoniale. Ne consegue che nel rapporto con la P.A. i beni della vita da tutelare diventano, per tale via, due: quello da conseguire con la favorevole delibazione dell'istanza, tutelabile in forma specifica o per equivalente e quello all'evasione tempestiva della risposta da parte della P.A., ristorabile mediante l'indennizzo previsto dal comma 1-bis. Questa lettura, peraltro, è in perfetta linea con l'atipicità della tutela aquiliana tracciata dall'art. 2043 c.c.: ed invero, dopo che l'evoluzione giurisprudenziale ha definitivamente sganciato il concetto di ingiustizia del danno dalla lesione del diritto soggettivo, fino a comprendervi anche l'interesse legittimo, non vi è più alcun ostacolo a considerare anche quest'ultimo tra le posizioni giuridiche meritevoli di tutela. Ulteriore espressa conferma si desume dal tenore del comma 4 dell'art. 30 c.p.a., secondo il quale: «Per il risarcimento dell'eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura l'inadempimento». D'altro canto, deve osservarsi come lo strumento processuale fornito dall'art. 31 c.p.a. risponde ad una finalità diversa, mirando a garantire una tutela in forma specifica rispetto al risarcimento e non già finalizzata alla reintegrazione patrimoniale per equivalente della sfera giuridica del soggetto danneggiato, conseguente alla violazione dell'interesse procedimentale al rispetto dei tempi imposti dall'ordinamento. La tutela poliforme assicurata nel nostro ordinamento è oramai saldamente ancorata all'idea del superamento della pregiudiziale amministrativa, non solo per ciò che attiene il rapporto tra tutela caducatoria e tutela risarcitoria, ma anche tra quest'ultima e l'azione avverso il silenzio dell'amministrazione. Ciò non toglie che la mancata attivazione del giudizio ai sensi dell'art. 31 c.p.a., ma anche dei rimedi procedimentali sostitutori previsti dai commi 9-bis – 9-quinquies dell'art. 2, l. n. 241/1990, potrebbero rilevare ai fini dell'art. 1227 c.c., in ordine alla quantificazione del danno risarcibile. Ciò secondo i principi affermati dall'Adunanza Plenaria nella sentenza 23 marzo 2011, n. 3, propri di un ordinamento giuridico che, nell'assoggettare la funzione amministrativa al diritto, e dunque assicurare il primato della legge, riconosce al privato – come sopra esposto – un novero di mezzi a tutela dei propri interessi più ampio di quelli utilizzabili nei rapporti di diritto civile, ed in cui l'azione risarcitoria è solo uno dei rimedi a disposizione. Nel settore della responsabilità dell'amministrazione da illegittimo o mancato esercizio dei suoi poteri autoritativi il criterio in questione si declina nel senso che a carico del privato è posto un onere di ordinaria diligenza- come tale valutabile dal giudice- di attivarsi con ogni strumento procedimentale o processuale utile a salvaguardare il bene della vita correlato al suo interesse legittimo, in modo da delimitare in termini quantitativi, anche con riguardo a ciò, il perimetro del danno risarcibile. Del resto i timori della Plenaria che un'azione risarcitoria autonoma per il danno da ritardo possa comportare un'ingerenza del G.A. nel campo del merito amministrativo, risultano oramai superati, nella misura in cui, da un lato, si inquadra il tempo come un autonomo bene della vita, distinto e separato rispetto a quello sotteso all'istanza rimasta inevasa, e dall'altro, il legislatore pone un chiaro limite al sindacato del g.a. con il comma 3 dell'art. 31 c.p.a. secondo il quale: «Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione». Infatti, a fronte di potestà che hanno carattere vincolato, in astratto o in concreto, il giudice amministrativo può accertare il fondamento della pretesa anche nell'ambito del giudizio sul silenzio ex art. 31 c.p.a.: ne consegue che, se tale accertamento è consentito al G.A. in un contesto in cui ciò può comportare anche una sostituzione alla p.a. nella emanazione del provvedimento finale, a maggior ragione deve essere ammesso anche in sede risarcitoria del danno da ritardo. Quanto alla natura giuridica della responsabilità risarcitoria in capo alla p.a., la questione è stata definitivamente risolta grazie alla pronuncia dell'Adunanza Plenaria dal Consiglio di Stato n. 7613 del 23 aprile 2021, secondo la quale la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale. L'impossibilità di ricondurre la responsabilità da ritardo provvedimentale nell'alveo della responsabilità da inadempimento deriva dalla peculiare relazione che sussiste tra amministrazione e privato. Una relazione giuridica che si caratterizza per la coesistenza di due situazioni giuridiche attive l'interesse legittimo del privato e il potere dell'amministrazione nell'esercizio della sua funzione. In questo caso quindi è configurabile non già un obbligo giuridico in capo all'amministrazione – rapportabile a quello che caratterizza le relazioni giuridiche regolate dal diritto privato – bensì un potere attribuito dalla legge, che va esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza. Né la fattispecie in esame può essere ricondotta alla dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, nozione di «contatto sociale», in quanto, a tacer d'altro, oltre a quanto osservato sulla natura del «rapporto amministrativo», la relazione tra privato e amministrazione è comunque configurata in termini di «supremazia», cioè da un'asimmetria che mal si concilia con le teorie sul «contatto sociale» che si fondano sulla relazione paritaria. Il profilo oggettivo della fattispecie risarcitoria: il danno ingiusto.L'art. 2-bis chiarisce, sul crinale oggettivo, che il danno risarcibile deve essere «ingiusto». Tramonta così definitivamente l'idea di un risarcimento dal sapore latamente sanzionatorio della risarcibilità di un danno meramente patrimoniale. Secondo il modello aquiliano tipico, dunque, il danno patito dal privato, infatti, lungi dall'essere insito in re ipsa , va provato in tutti i suoi elementi costitutivi. Elementi costitutivi della responsabilità della pubblica amministrazione, anche ai sensi del danno da ritardo ex art. 2-bis, l. n. 241 del 1990, sono l'elemento oggettivo consistente nella violazione dei termini procedimentali; l'elemento soggettivo (colpa o dolo); il nesso di causalità materiale o strutturale e il danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo al rispetto dei predetti termini. Anche il fatto lesivo costituito dal ritardo o dalla inerzia deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati, in quanto la condotta inerte o tardiva dell'amministrazione deve essere stata causa di un danno altrimenti prodottosi nella sfera giuridica del privato che, con la propria istanza, ha dato avvio al procedimento amministrativo (Cons. St. II, n. 3269/2020). Anche il riferimento al dolo o colpa della p.a., pertanto, nell'escludere qualsivoglia responsabilità risarcitoria in via oggettiva dell'amministrazione, conferma la natura sostanzialmente retributiva, e non già sanzionatoria, del risarcimento in commento. Deve, quindi, trattarsi di un danno non jure e contra jus, la cui esistenza va dimostrata in giudizio a differenza di ciò che accade per il danno da inadempimento, nel quale la valutazione sull'ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale. Il privato dovrà quindi dimostrare la spettanza del bene della vita, essendo necessario provare che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza (da ultimo cfr. Cons. St. II, n. 8199/2020, Cons. St. n. 3318/2020; Cons. St. III, n. 6755/2020; Cons. St. IV, 1921/2021 e Cons. St. 1923/2021, Cons. St. n. 7622/2020, Cons. St. n. 6351/2020, Cons. St.n. 4669/2020; Cons. St. V, n. 2210/2020,; Cons, St. VI, n. 1354/2021, Cons. St.n. 2121/2020). La prova in ordine alla quantificazione del danno sofferto può essere raggiunta anche mediante presunzioni, atteso che per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, sulla scorta della regola dell'inferenza necessaria, ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit in virtù della regola dell'inferenza probabilistica, sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Cons. St. VI, n. 1354/2021). Quanto alle poste di danno ristorabili, esse vanno individuate nei danni-conseguenza, dovendosi imputare all'evento dannoso causalmente correlato al fatto illecito, sul piano della causalità materiale, i pregiudizi patrimoniali da reintegrare per equivalente monetario, conseguenze «dirette e immediate» dell'evento sul piano della causalità giuridica. Pertanto, il danno risarcibile comprende la perdita subita dal danneggiato (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) cagionate dal fatto illecito in forza di un rapporto di causalità giuridica e non meramente occasionate dallo stesso. Mentre per il danno emergente la prova risulta di più agevole definizione, per il lucro cessante il possibile incremento patrimoniale riveste comunque natura ipotetica, sicché il danno va liquidato secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa. Il profilo soggettivo della fattispecie risarcitoria.La nuova norma individua, in via analitica, i soggetti tenuti al risarcimento, stabilendo che sono obbligati anche i soggetti di cui all'art. 1, comma 1-terl. n. 241/1990 (al cui commento si rinvia), ovvero i soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative. Il legislatore del 2009, dunque, si è conformato alla concezione «oggettiva» di amministrazione che ha caratterizzato la riflessione normativa, dottrinaria e giurisprudenziale dell'ultimo decennio, la quale è passata da un'idea di P.A. quale ente soggettivamente pubblico, ad un modello «oggettivo», che faccia precipuo riferimento al tipo di attività svolta. Come anticipato, l'articolo in commento prevede che il danno ingiusto derivante dal ritardo nell'azione amministrativa sia risarcibile solo se l'inosservanza dei termini per la conclusione del procedimento sia stata dolosa o colposa. La norma si muove chiaramente in un'ottica di responsabilità extracontrattuale, ponendo a carico del ricorrente che propone l'azione risarcitoria la prova del carattere colposo dell'inerzia della p.a. Tuttavia, anche tale elemento non deve essere sopravvalutato. Già oggi, infatti, la giurisprudenza ritiene che la responsabilità della p.a. per danno da ritardo abbia, come in generale tutta la responsabilità per lesione di interessi legittimi, carattere extracontrattuale. Ciò, tuttavia, non le ha impedito di alleggerire l'onere probatorio a carico del ricorrente che agisce per il risarcimento attraverso un sistema di presunzioni semplici che ne semplificano l'assolvimento. Le pronunce più recenti hanno infatti stabilito che non spetta al ricorrente dare la prova di una colpa di apparato nei termini di «una disfunzione della azione amministrativa, determinata dalla disorganizzazione nella gestione del personale, dei mezzi e delle risorse degli uffici cui è imputabile l'adozione o l'esecuzione dell'atto illegittimo», così come aveva ritenuto la Cass. n. 500/1999. Il privato danneggiato potrà, invece, limitarsi ad invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà a quel punto all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti. Trasponendo tali concetti nell'ambito specifico del danno da ritardo, la giurisprudenza ha ritenuto che il mancato rispetto del termine di adozione del provvedimento finale comporti la violazione delle regole di buon andamento e costituisca, pertanto, una presunzione semplice di colpevolezza di cui all'art. 2727 c.c., che la p.a. può superare fornendo una prova circa l'esistenza di errori scusabili, alla luce dell'ordinario sforzo di diligenza sulla stessa incombente, che possono consistere nella particolare complessità della fattispecie o nel sopraggiungere di evenienze ad essa non imputabili. La sottolineatura del carattere colposo dell'inerzia della p.a. da parte del legislatore del 2009 non implica, pertanto, un aggravamento dell'onere probatorio che incombe sul ricorrente, suonando piuttosto come una conferma del fatto che il danno da ritardo non costituisce una fattispecie di responsabilità oggettiva dalla quale la p.a. non può liberarsi neppure attraverso la prova della sussistenza di circostanze che rendevano inesigibile una condotta diversa, alla luce del parametro della diligenza qualificata. In definitiva, La valutazione della colpa della p.a. non può essere fondata soltanto sul dato oggettivo del superamento del termine di conclusione del procedimento amministrativo; in ogni caso, infatti, occorre quantomeno verificare se il comportamento dell'apparato amministrativo abbia travalicato i canoni della correttezza e della buona amministrazione, ovvero sia trasmodato in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili (Cons. St. V, n. 5648/2021). Le norme contenute nel «Codice del processo amministrativo» (rinvio)Come anticipato nei paragrafi precedenti la disciplina del risarcimento del danno da ritardo si completa con le disposizioni di carattere processuale contenute nel codice del processo amministrativo, che dettano disposizioni in tema di azione risarcitoria anche derivante dall'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. L'azione si prescrive in 120 giorni, non decorre sino a che dura l'inadempimento, ma inizia in ogni caso decorso un anno dalla scadenza del termine per provvedere. L'onere della prova è a carico del danneggiato (art. 30, commi 3 e 4, c.p.a.). Di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo (art. 30, comma 6, c.p.a.). L'indennizzo in caso di ritardo.Il comma 1-bis dell'art. in commento, introdotto con l'art. 28 del d.l. 69/2013 convertito in l. 98/2013 disciplina l'indennizzo da mero ritardo, andando a precisare il rapporto tra la tutela risarcitoria e quella indennitaria. Presupposto per l'applicazione della misura indennitaria è l'esistenza di un termine entro il quale il procedimento doveva essere concluso. La norma in esame fissa due limiti una di natura soggettiva e l'altro di natura oggettiva: per quanto riguarda il primo, l'indennizzo spetta solo all'interessato, con esclusione di eventuali controinteressati. Sul piano oggettivo, la norma in esame si applica solo ai procedimenti ad istanza di parte per i quali sussiste l'obbligo di pronunciarsi da parte della P.A. Sono escluse di contro le ipotesi di silenzio significativo e di concorsi pubblici, nonché di s.c.i.a. e di d.i.a. Per attivare la procedura indennitaria, l'interessato, come si evince dalle linee guida del 9 gennaio 2014 elaborate dal Ministero della Pubblica amministrazione e della semplificazione, deve prima ricorrere all'attivazione del potere sostitutivo di cui al comma 9-bis dell'art. 2 l. n. 241/1990. Nel caso in cui il soggetto titolare del potere di sostituzione non adotti l'atto nel termine assegnato si potrà validamente proporre la richiesta di indennizzo all'Amministrazione cui è attribuibile il ritardo ed entro 20 giorni dalla scadenza del dies ad quem relativo al procedimento base. Il quantum dell'indennizzo è fissato nella misura di 30 euro per ogni giorno di ritardo fino ad un massimo di duemila euro. Il concorso fra risarcimento ed indennizzo è regolato dal principio di assorbimento, ricavabile dall'ultimo comma della disposizione in commento: se un danno ingiusto vi è stato, l'indennizzo verrà assorbito dal risarcimento, se invece non è possibile dimostrare l'esistenza del danno, non sarà dovuto il risarcimento, ma il solo indennizzo. Dunque, come anche affermato dal Consiglio di Stato con sentenza 6 giugno 2017, n. 2719, è escluso il cumulo di benefici di carattere indennitario, da un lato, e del risarcimento del danno, dall'altro, poiché «determinerebbe una locupletazione del danneggiato (il cui patrimonio, dopo l'evento di danno, risulterebbe addirittura incrementato rispetto a prima)», per cui si «impone di defalcare dalla somma dovuta a titolo di risarcimento l'eventuale importo riconosciuto al danneggiato in via indennitaria, che, in quanto avvinto al fatto illecito da un nesso (di carattere normativo o negoziale) di regolarità causale, né è, agli effetti giuridici, conseguenza «immediata e diretta» nell'accezione che di essa dà il diritto vivente». Quando la pretesa al danno da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo sia formulata in termini di indennizzo da mero ritardo di cui all'art. 2-bis, comma 2, della legge n. 241/1990 il ristoro è configurabile per il solo decorso del termine, anche in casi di situazioni fortuite, di forza maggiore, errore scusabile e prescinde anche dall'elemento della colpa (Cons. St. IV, n. 4712/2015). Questioni applicative.1) Quali sono le conseguenze dell'inquadramento in termini aquiliani della responsabilità da ritardo? L'ingiustizia del danno così declinata non è tuttavia il solo presupposto della responsabilità ex art. 2-bis l. n. 241 del 1990. Fondamentale è al riguardo la Plenaria 77/2021 che ribadisce la natura aquiliana della responsabilità della P.A. per attività (provvedimentale e omissiva) lesiva di interessi legittimi e ne trae i corollari in termini di prova e quantificazione del danno risarcibile. La Plenaria attribuisce rilievo centrale all'articolo 2 della legge 241 sui termini generali di «conclusione del procedimento». La disposizione ora richiamata – oltre ad enunciare il dovere di concludere il procedimento con provvedimento espresso (comma 1), la cui violazione sostanzia nei rapporti intersoggettivi l'antigiuridicità della condotta dell'amministrazione (mentre le conseguenze e le responsabilità interne sono regolate nel comma 9); a modulare variamente i termini, le relative decorrenze e le ipotesi di sospensione (commi 2-7); e a regolare le conseguenze per alcune categorie di atti (comma 8-bis) – prevede uno strumento di cooperazione con il privato istante, finalizzato a superare l'inerzia dell'amministrazione, incentrato sul potere di avocazione dell'affare (commi 9-bis - 9-quinquies). L'istituto ha un ruolo centrale nella fattispecie di responsabilità dell'amministrazione per danno da ritardo. La sua attivazione da parte del privato è infatti indice di serietà ed effettività dell'interesse legittimo di quest'ultimo al provvedimento espresso. All'opposto, in assenza di ulteriori iniziative del richiedente, potrebbe presumersi, salve diverse considerazioni che spieghino tale inerzia, che l'ulteriore decorso del tempo sia sostanzialmente indifferente per il privato, nell'ambito delle proprie autonome determinazioni. In tale prospettiva, il mancato utilizzo dello strumento può concorrere a costituire comportamento valutabile ai sensi dell'art. 30, comma 3, cod. proc. amm. al fine di escludere «il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti». Ciò secondo i principi affermati Ad. plen. 23 marzo 2011, n. 3, propri di un ordinamento giuridico che, nell'assoggettare la funzione amministrativa al diritto, e dunque assicurare il primato della legge, riconosce al privato – come sopra esposto – un novero di mezzi a tutela dei propri interessi più ampio di quelli utilizzabili nei rapporti di diritto civile, ed in cui l'azione risarcitoria è solo uno dei rimedi a disposizione. Allo strumento procedimentale ora esaminato si aggiungono quelli di ordine processuale, tra cui l'azione contro il silenzio (artt. 31 e 117 c,p,a..) e quella di ottemperanza (art. 112 e ss. c.p.a.), la cui proposizione di per sé evidenzia all'amministrazione che l'ulteriore ritardo nella conclusione del procedimento può comportare un pregiudizio economico. Queste azioni sono state nel caso di specie esperite dalla società ricorrente, e sulla base di tale circostanza il Consiglio di giustizia amministrativa ha accertato con efficacia di giudicato interno la colpa dell'amministrazione, oltre alla fondatezza per altro verso della pretesa della Iris Impianti Energia Rinnovabile Siracusa a realizzare e gestire tre dei quattro impianti fotovoltaici per i quali aveva chiesto alla Regione siciliana l'autorizzazione ai sensi del sopra citato art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003. Sul piano generale va in ogni caso precisato, in chiave nomofilattica, che la mancata sollecitazione del potere di avocazione previsto dall'art. 2, commi 9- bis e seguenti, l. n. 241 del 1990 – così come la mancata proposizione di ricorsi giurisdizionali – non ha rilievo come presupposto processuale dell'azione risarcitoria ex art. 2 -bis della medesima legge, la quale, al pari dell'azione risarcitoria per illegittimità provvedimentale, è ormai svincolata da ogni forma di pregiudiziale amministrativa. La condotta attiva del privato può invece assumere rilievo come fattore di mitigazione o anche di esclusione del risarcimento del danno ai sensi dell'art. 30, comma 3, secondo periodo, cod. proc. amm., laddove si accerti «che le condotte attive trascurate (...) avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno» (così la sentenza dell'Adunanza plenaria 23 marzo 2011, n. 3, da ultimo richiamata: § 7.2.2). In altri termini, la mancata attivazione dei rimedi procedimentali e processuali, al pari delle ragioni che sorreggano il mancato esperimento degli stessi, non è idonea in sé a precludere la pretesa risarcitoria, ma costituisce un elemento di valutazione che può concorrere, con altri, alla definizione della responsabilità. La necessità che nell'esame della domanda di risarcimento dei danni da illegittimo o mancato esercizio della funzione pubblica sia in ogni caso valutata la condotta del privato costituisce un profilo di peculiarità della responsabilità dell'amministrazione rispetto al modello di riferimento costituito dalla fattispecie generale dell'illecito civile prevista dall'art. 2043 del codice civile, in considerazione della complessa evoluzione che nel tempo, a partire dalla teorica del procedimento amministrativo, hanno subìto i rapporti tra amministrazione e privato in termini di partecipazione per quest'ultimo e di attenuazione della posizione di supremazia dell'amministrazione nell'esercizio della funzione; con conseguenti oneri Tuttavia l'onere di cooperazione in parola può essere ricondotto allo schema di carattere generale del «(c)oncorso del fatto colposo del creditore» previsto dall'art. 1227 del codice civile, richiamato dall'art. 2056 c.c. per la responsabilità da fatto illecito, e più precisamente nell'ipotesi del secondo comma (evocativo di un principio di causalità giuridica, a differenza del comma 1 che disciplina il nesso di causalità materiale condotta-evento), per la quale il risarcimento «non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza». Come ha precisato questa Adunanza plenaria nella più volte richiamata sentenza del 23 marzo 2011, n. 3, nell'ambito della struttura bipolare della responsabilità civile – come rilevato dalla stessa giurisprudenza civile – l'art. 1227, comma 2, c.c. rileva nella determinazione del danno, in combinato disposto con l'art. 1223, quale criterio (rectius: uno dei criteri) in base al quale selezionare le conseguenze risarcibili, dopo che si sia positivamente accertata la ingiusta lesione di un interesse giuridico meritevole di tutela in termini di conseguenza immediata e diretta della condotta (con la differenza che, nella responsabilità contrattuale, il requisito dell'ingiustizia risulta conseguenza in re ipsa dell'inadempimento, mentre costituisce co-elemento di struttura dell'illecito nella responsabilità aquiliana). Nel settore della responsabilità dell'amministrazione da illegittimo o mancato esercizio dei suoi poteri autoritativi il criterio in questione si declina nel senso che a carico del privato è posto un onere di ordinaria diligenza – come tale valutabile dal giudice – di attivarsi con ogni strumento procedimentale o processuale utile a salvaguardare il bene della vita correlato al suo interesse legittimo, in modo da delimitare in termini quantitativi, anche con riguardo a ciò, il perimetro del danno risarcibile. In modo parzialmente diverso da quanto si tende ad affermare nei rapporti regolati dal diritto civile, l'onere di cooperazione del privato nei confronti dell'esercizio della funzione pubblica assume quindi i connotati di un «obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno)», con la sola esclusione di «attività straordinarie o gravose attività», per cui «non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza» (così ancora l'Adunanza plenaria nella sentenza del 23 marzo 2011, n. 3, più volte richiamata). Comuni all'illecito civile sono invece le questioni concernenti il danno-conseguenza, in cui non vengono in rilievo profili di carattere pubblicistico, ma si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell'interesse legittimo, e dunque di imputare all'evento dannoso causalmente correlato al fatto illecito, sul piano della causalità materiale, i pregiudizi patrimoniali da reintegrare per equivalente monetario, conseguenze «dirette e immediate» dell'evento sul piano della causalità giuridica, come si dirà a breve. Il danno-conseguenza è disciplinato con carattere di generalità sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale che da fatto illecito (in virtù del più volte richiamato art. 2056 c.c.) dagli artt. 1223,1226 e 1227 del codice civile. Solo per la responsabilità da inadempimento opera il limite previsto dall'art. 1225 c.c. della prevedibilità del danno, salvo il caso di dolo. Una volta ricondotta la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell'art. 2043 c.c., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità. Assume invece un ruolo centrale il sopra menzionato art. 1223 c.c., anch'esso richiamato dall'art. 2056 c.c., secondo cui il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta». Nella sua parte descrittiva, la dicotomia danno emergente – lucro cessante esprime la funzione della responsabilità civile, anche nei rapporti di diritto pubblico, di rimedio previsto in funzione reintegratrice della sfera patrimoniale dell'individuo rispetto ad aggressioni esterne. Nondimeno alla funzione descritta della norma si aggiunge quella precettiva, per la quale, al pari del criterio dell'evitabilità previsto dall'art. 1227, comma 2, c.c., il criterio della consequenzialità immediata e diretta opera in funzione limitatrice delle conseguenze dannose risarcibili comprese nella serie causale originata dal fatto illecito. Sulla sua base si esclude il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi. Come chiarito dalla Plenaria nella più volte richiamata sentenza 23 marzo 2011, n. 3, i criteri in questione attengono alla c.d. causalità giuridica, da distinguere rispetto alla causalità c.d. materiale, sulla cui base imputare il fatto illecito all'evento dannoso. Attraverso quest'ultima, logicamente prioritaria rispetto alla prima, si pongono in correlazione accadimenti naturali e per essa si applicano pertanto i criteri di stampo penalistico enunciati dagli artt. 40 e 41 c.p.; la causalità giuridica attiene invece alla delimitazione delle conseguenze risarcibili, come poc'anzi accennato. Ecco quindi i principi affermati dalla Plenaria: a) la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; b) è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell'art. 2056 c.c. – da ritenere espressione di un principio generale dell'ordinamento – i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell'evitabilità con l'ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 c.c.; e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall'art. 1225 c.c.. 2) Quali problemi pone il risarcimento del danno da mancata adozione di provvedimento amministrativo avente carattere discrezionale? Tra le questioni che non hanno trovato una compiuta soluzione a livello giurisprudenziale v'è senz'altro da annoverare quella inerente alla risarcibilità del danno da mancata adozione di provvedimento amministrativo avente carattere discrezionale. Secondo la soluzione avallata dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, infatti, il danno ingiusto riparato per equivalente corrisponde alla negazione del bene della vita sotteso all'istanza rimasta inevasa. Si tratta di un'impostazione che corre parallela rispetto a quella che analizzando il danno da provvedimento negativo, aggancia il risarcimento del danno alla dimostrazione della spettanza del bene della vita, illegittimamente negato al privato, e che impone per l'attività discrezionale la riedizione del potere a seguito della caducazione dell'atto di diniego. Questione che pone margini di opinabilità è quella che riguarda l'ipotesi in cui il privato non abbia più interesse all'adozione del provvedimento o al caso in cui per sopravvenienze fattuali o giuridiche l'amministrazione non possa più adottarlo. È evidente che il danno in questo caso non venga meno, ma resta il problema di come ottenere la dimostrazione che il privato sia stato leso dal ritardo in ragione del fatto che il provvedimento avrebbe dovuto essere emanato a suo favore qualora l'amministrazione avesse agito tempestivamente. La soluzione in quest'ipotesi è di difficile individuazione. Occorre premettere che il danneggiato che agisca solo con l'azione risarcitoria vedrà respinta la sua domanda, per l'impossibilità di provare che l'esercizio tempestivo del potere discrezionale da parte dell'amministrazione avrebbe condotto a soddisfare la sua pretesa. Al contempo, l'utilizzo dell'azione avverso il silenzio dell'amministrazione (art. 31 c.p.a.) potrebbe incontrare il duplice limite del riscontro del sopravvenuto difetto di interesse ovvero dell'assenza sopravvenuta per motivi fattuali o giuridici dell'obbligo di provvedere in capo all'amministrazione. In questo caso l'unica soluzione al problema sembra essere rappresenta dall'esercizio in ogni caso dell'azione avverso il silenzio dell'amministrazione con l'esplicita indicazione che la stessa è proposta per ottenere un pronunciamento dell'amministrazione finalizzato a dimostrare la spettanza del bene della vita a fini risarcitori. Una strada complessa e tortuosa, segnata dall'ovvia considerazione che l'amministrazione non sarà particolarmente propensa a valorizzare le ragioni del privato, a pena di esporsi ad una successiva, già dichiarata, azione risarcitoria. BibliografiaCaringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2021; Caringella, Protto, Il nuovo procedimento amministrativo, Roma, 2009; Chieppa, Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2021; Protto, Il danno da ritardo: alla ricerca del tempo perduto, in Urb. app., 2021, 1171 ss.; Visconti, Ritardo nel provvedere e responsabilità aquiliana della p.a.: l'arrocco dell'Adunanza Plenaria, in Danno e resp., 2021, 509 ss.; Volpe, Danno da ritardo, natura dell'azione risarcitoria e spunti generali sulla responsabilità civile per lesione dell'interesse legittimo dell'Amministrazione, in lexitalia.it, maggio 2009. |