Legge - 7/08/1990 - n. 241 art. 3 - Motivazione del provvedimento 1

Luigi Tarantino

Motivazione del provvedimento1

 

1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria.

2. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.

3. Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama.

4. In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere.

Inquadramento

L'istituto della motivazione del provvedimento è stata elaborata per la prima volta in maniera organica dal Consiglio di Stato francese alla fine del 1800; l'esperienza d'Oltralpe fu poi presto mutuata dai tribunali amministrativi tedeschi e dagli organi di giustizia amministrativa italiana. Esso nasce tradizionalmente sulla falsariga dell'istituto civilistico della causa del contratto e del negozio giuridico (Italia, Bassani, 55), quale sinonimo di «ragione costante», ovvero come «perché» del contratto. Trasposto sul piano amministrativo, dunque, la motivazione diviene il perché del provvedimento, la cui esternalizzazione era necessaria quantomeno ove l'atto richiedeva un sacrificio al destinatario del provvedimento.

Prima di trovare espressa consacrazione in un testo normativo, peraltro, la motivazione del provvedimento ha avuto una lunga gestazione dottrinaria e pretoria: prima della l. n. 241/1990, infatti, non esisteva una disciplina di carattere generale relativa alla motivazione del provvedimento amministrativo. L'assenza di una norma specifica aveva spinto parte della dottrina ad individuare in alcune norme di copertura il fondamento di un obbligo generale di motivazione. Si era così fatto riferimento alla legge di abolizione del contenzioso amministrativo (art. 3, l. n. 2248/1865, all. E, poi ripreso dall'art. 5, comma 2, del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, e art. 7 della stessa legge in tema di provvedimenti dispositivi della proprietà privata), che prevede l'obbligatorietà della motivazione per le decisioni sui ricorsi amministrativi.

Altri Autori, invece, deducevano l'obbligo di motivazione dall'esecutorietà del provvedimento amministrativo, che, evidentemente, implica la necessità che l'atto si giustifichi nei confronti dei suoi destinatari. Altri ancora rinvenivano il fondamento dell'istituto in parola nell'art. 111 Cost., anche se le ontologiche differenze tra provvedimenti giurisdizionali e amministrativi rendevano la tesi in questione difficilmente sostenibile.

In ogni caso, quale che fosse il fondamento normativo di volta in volta allegato, il difetto di motivazione veniva considerato dalla giurisprudenza vizio inficiante l'atto sub specie di eccesso di potere, soprattutto con riferimento a particolari categorie di atti, quali i pareri, gli atti di ritiro, gli atti comparativi di scelta, gli atti difformi dai pareri, e, più in generale, tutti i provvedimenti che implicavano un alto tasso di discrezionalità dell'amministrazione procedente.

Tale lacuna normativa si sostanziava, sul piano applicativo, in un vulnus delle garanzie in favore del privato inciso dall'atto amministrativo. Una prima conseguenza negativa si verificava sul piano della trasparenza dell'azione amministrativa: la motivazione, infatti, risponde essenzialmente all'esigenza primaria di assicurare la possibilità di conoscere l'operato dei pubblici poteri, giacché solo l'esplicazione dell'iter logico seguito dell'autorità decidente permette di accertare la correttezza dell'operato della P.A.

Inoltre, il deficit motivazionale dei provvedimenti amministrativi finiva per tradursi in una sostanziale vanificazione della tutela giurisdizionale. La mancata conoscenza dell'atto terminale, unitamente alla sua non ostensibilità, prima della l. n. 241/1990, della documentazione relativa al procedimento amministrativo, imponeva al privato che intendesse interporre gravame, di articolare un ricorso al buio. Senza il supporto della conoscenza delle argomentazioni e degli elementi di fatto posti a sostegno della determinazione, infatti, (carenza solo in parte sanabile nel corso del giudizio per via dell'esercizio dei poteri istruttori da parte dell'organo decidente) non potevano essere compresi appieno, da parte del ricorrente, gli elementi di illegittimità dell'atto e per tale via le eventuali possibilità di tutela.

Parimenti evidente si presentava il depotenziamento del controllo giurisdizionale, posto che il sindacato estrinseco sulla legittimità di un atto, proprio del processo impugnatorio nella giurisdizione di legittimità, diventava a dir poco difficoltoso in assenza di un supporto motivazionale dal quale sondarne la logicità e la congruità in rapporto alla situazione di fatto ed alle acquisizioni istruttorie.

Al fine di scongiurare questi effetti negativi, dottrina e giurisprudenza avevano enucleato ipotesi in cui la necessità del supporto motivazionale derivava dalla natura del provvedimento o dal suo rapporto con l'iter procedimentale: l'obbligo di motivazione era stato così affermato per alcune tipologie di atti (pareri, atti di ritiro, atti comparativi di scelta e valutazione, provvedimenti difformi dai pareri acquisiti in sede istruttoria, atti sacrificativi della sfera giuridica del privato, atti ad istruttoria complessa) necessitanti di un'adeguata rappresentazione degli esiti dell'istruttoria, al pari degli atti discrezionali, bisognosi dell'esplicitazione delle ragioni della scelta adottata tra tutte le opzioni percorribili.

L'intervento del Legislatore del 1990 ha, dunque, accolto le istanze dottrinali e giurisprudenziali relative alla generalizzazione dell'obbligo di motivazione, sancendo, all'art. 3 della l. n. 241/1990, che «ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, con l'indicazione dei presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria».

In tal modo, il Legislatore ha garantito la trasparenza dell'azione amministrativa, esaltando le risultanze procedimentali, nonché una maggiore effettività del sindacato di legittimità come imposto, peraltro, dagli artt. 24,97 e 113 Cost., trovando il suo riferimento normativo nel generale principio di buona amministrazione, correttezza e trasparenza, cui la p.a. deve uniformare la sua azione e rispetto al quale sorge per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e i motivi del provvedimento riguardante la sua richiesta».

La motivazione rinsalda i rapporti tra procedimento e provvedimento, consentendo la ricostruzione dell'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione ha adottato la determinazione finale (Cons. St. IV, n. 4982/2005).

Gli interessi tutelati.

Ancora oggi si ritiene che la l. n. 241 non abbia fugato tutti i dubbi sulla funzione della motivazione, poiché l'istituto in commento ben si presta a tutelare due interessi diversi e contrapposti, tanto che v'è chi parla di polifunzionalità della motivazione (E. Salvi, 49).

Per un verso, infatti, l'esternazione dell'iter logico-giuridico sotteso alle determinazioni della p.a. tutela il cittadino contro abusi del potere pubblico (essendo un vizio tipico dell'eccesso di potere). La previsione di un siffatto obbligo scaturisce dall'avvenuto mutamento del legame tra procedimento e provvedimento, che vede l'azione amministrativa aperta alla partecipazione procedimentale dei privati. Il provvedimento amministrativo, infatti, non è più considerato alla stregua di un atto unilaterale ed imperscrutabile, ma è divenuto il punto d'incontro tra l'esercizio del potere e l'esercizio dei diritti dei cittadini in un momento di coordinamento e composizione di opposti interessi, pubblici e privati.

Questo legame inscindibile tra «provvedimento» e «procedimento», per cui il primo deve costituire la risultante logica e coerente del secondo, dunque, produce come corollario la connessione tra il «procedimento» e la «motivazione» del provvedimento, cui è affidato il compito di dare adeguata rappresentazione di quanto è avvenuto nel corso dell'iter procedimentale, attraverso l'esibizione delle valutazioni, delle memorie e dei documenti presentati dai privati (art. 10), degli apporti degli organi consultivi (artt. 16 e 17) e dei risultati di eventuali conferenze di servizi (art. 14 e ss.).

A livello legislativo la suddetta connessione si rinviene nell'art. 3 della l. n. 241/1990, nella parte in cui si richiede che la motivazione indichi «i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione in relazione alle risultanze dell'istruttoria».

Dal tenore letterale della norma si desume come la pubblica amministrazione non possa provvedere prescindendo dalle risultanze istruttorie, ma debba necessariamente valutare tutti gli interessi emersi, per poi, eventualmente, disattenderli, assolvendo all'onere di motivazione in funzione diretta della complessità dell'istruttoria e della maggiore o minore articolazione delle tappe del procedimento.

Infatti, la mancata osservanza dei principi di cui all'art. 3, l. n. 241/90 comporta violazione di legge, eccesso di potere per assoluta carenza di motivazione, manifesta genericità ed insufficienza.

La motivazione, così, costituisce il necessario collegamento tra la fase istruttoria e la decisione, in quanto è da essa che deve risultare in modo inequivoco che il provvedimento finale è il frutto dall'ottimale bilanciamento di tutti gli interessi, pubblici e privati, emersi nel corso del procedimento.

Per altro verso, poi, l'istituto motivazionale garantisce il principio di trasparenza e conoscibilità dell'agere della p.a., retto dal principio di presunzione di legittimità della azione amministrativa.

In realtà, ascrivere efficacia preminente all'una o all'altra funzione significa allargare o restringere l'ambito di applicazione della norma, assegnando un ruolo preminente alla motivazione tout court, alla motivazione formalmente intesa, ovvero all'istituto motivazionale considerato in relazione all'intero procedimento amministrativo cui si riferisce.

Ed invero, la motivazione di un provvedimento amministrativo è finalizzata sia a consentire al destinatario del provvedimento la ricostruzione dell'iter logico-giuridico che ha determinato la volontà dell'amministrazione consacrata nella determinazione a suo carico adottata, con la conseguenza che essa costituisce uno strumento di verifica del rispetto dei limiti della discrezionalità, allo scopo di far conoscere agli interessati le ragioni che impongono la restrizione delle rispettive sfere giuridiche o che ne impediscono l'ampliamento, sia a consentire il sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo ed, eventualmente, degli organi di controllo.

Va aggiunto, peraltro, che la prospettiva meramente garantista della posizione del privato deve ritenersi definitivamente superata, dovendosi piuttosto ritenere che il fondamento dell'obbligo di motivazione, più che nella tutela dei singoli cittadini interessati ai singoli procedimenti, sia rinvenibile, in chiave partecipativa ex art. 3 Cost., nella creazione di nuove forme di controllo procedimentale. In tale ottica, pertanto, la motivazione assurge da mero strumento di tutela dei singoli interessi individuali coinvolti nel procedimento, a garanzia della legittimità della azione amministrativa nei confronti della generalità dei consociati.

Il contenuto della motivazione (comma 1)

A mente del comma 1 dell'art. 3, la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che hanno determinato la decisione della p.a., in relazione anche alle acquisizioni istruttorie.

Per presupposti di fatto devono intendersi i supporti fattuali del provvedimento, ossia gli elementi ed i dati di fatto che sono stati acquisiti in sede istruttoria e hanno costituito oggetto di valutazione ai fini dell'adozione dell'atto terminale. La formula legislativa si riferisce ad una nozione di presupposti in senso lato, comprensiva non solo delle circostanze necessarie per l'esercizio del potere ma anche dei motivi del provvedimento e dei dati di fatto valutati all'amministrazione.

Le ragioni giuridiche, invece, sono costituite dalle argomentazioni, sul piano del diritto, poste alla base del provvedimento, ossia le norme ed i principi ritenuti applicabili nel caso di specie. La giurisprudenza è peraltro univoca nel ritenere non indispensabile, ai fini della legittimità dell'atto, la puntuale e specifica indicazione delle norme applicate (T.A.R. Campania, Napoli III, n. 15770/2007).

Tali elementi devono coordinarsi, secondo il dettato normativo, con le risultanze dell'istruttoria: il legislatore del 1990, pertanto, ha richiesto, nell'individuazione dei requisiti della motivazione, non solo che la parte decisoria del provvedimento debba essere coerente con l'istruttoria svolta, ma anche che in motivazione vengano valutati tutti gli elementi acquisiti, sia favorevoli che contrari alle scelte effettuate dall'amministrazione con il provvedimento finale.

La struttura motivazionale del provvedimento, peraltro, può sostanziarsi anche in una pluralità di motivazioni, purché tra di esse non emergano profili di contraddittorietà. Corollario della c.d. motivazione plurima è che «in presenza di un atto c.d. plurimotivato è sufficiente la legittimità di una sola delle giustificazioni per sorreggere l'atto in sede giurisdizionale. In pratica, in caso di atto amministrativo, fondato su una pluralità di ragioni indipendenti ed autonome le una dalla altre, il rigetto delle censure proposte contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento.» (Cons. St. IV, n. 5018/2021).

Ambito di applicazione (comma 2)

L'art. 3 prevede, come già anticipato, un obbligo motivazionale generalizzato per tutte le p.a.; il comma 2 della norma, invece, prevede delle deroghe espresse a tale principio, esonerando dall'obbligo di motivazione gli atti normativi e quelli a contenuto generale.

In realtà, nonostante la chiara formulazione normativa, l'esatta individuazione dell'ambito di applicazione della norma non è a tutt'oggi completamente pacifica, non essendo ancora del tutto chiara la funzione della motivazione.

Come già evidenziato, si ritiene che la motivazione, secondo un'impostazione «polifunzionale», presidi i due interessi, diversi e contrapposti, del cittadino ad essere tutelato contro abusi del potere pubblico e della presunzione di legittimità dell'azione amministrativa, che si basa proprio sulla trasparenza e conoscibilità dell'agere della p.a. Ascrivere efficacia preminente all'una o all'altra funzione, invero, significa allargare o restringere l'ambito di applicazione della norma: valorizzare il primo profilo, infatti, comporta una rigorosissima applicazione dell'obbligo di motivazione, che deve contestualmente indicare tutti gli elementi motivazionali; la preminenza del secondo, invece, «dequota» la motivazione, assegnando un ruolo centrale al procedimento amministrativo nel suo complesso, di guisa che la verificazione giudiziale della motivazione debba essere effettuata sulla base degli atti dell'intero procedimento e non già delle sole ragioni espressamente allegate dalla amministrazione procedente nella propria deliberazione.

Gli atti esclusi: elaborazioni giurisprudenziali.

In ossequio alla dequotazione della motivazione di cui si è detto, dottrina e giurisprudenza hanno eroso ulteriormente il principio sancito dall'art. 3, ampliando il novero degli atti esclusi dall'obbligo di motivazione al di là dei casi espressamente previsti dalla legge.

Sotto un primo profilo, si sottolinea come la norma si riferisca testualmente solo ai provvedimenti amministrativi, sicché sarebbero esclusi dall'obbligo di motivazione gli atti politici, quelli privatistici e più in generale tutti gli atti amministrativi privi di uno qualsiasi dei requisiti qualificanti il provvedimento. In realtà tale orientamento non può essere condiviso, posto che tale obbligo andrebbe esteso anche agli atti infraprocedimentali.

La giurisprudenza, poi, ha escluso che il principio di cui all'art. 3, sia applicabile ai c.d. atti minimi che scandiscono nei dettagli l'attività giornaliera ed elementare della P.A. (T.A.R. Liguria, I, n. 175/1993).

Parte della giurisprudenza, inoltre, ha ritenuto superflua la motivazione in caso di provvedimenti favorevoli ai destinatari. Trattandosi, infatti, di atti ampliativi della sfera giuridica del richiedente, non sussisterebbe uno specifico onere di motivazione, essendo sufficiente il richiamo alle norme che consentono tali effetti favorevoli (T.A.R. Toscana, III, n. 1556/2001). L'emanazione del provvedimento positivo, infatti, indicherebbe presuntivamente la proposizione di un'istanza conforme a legge, e conterrebbe, quindi, una motivazione in re ipsa. L'adempimento espresso degli obblighi motivazionali da parte della P.A. si risolverebbe così in una mera ricognizione delle norme applicate: tutto ciò salvo che i provvedimenti ampliativi non siano stati assunti in deroga alle disposizioni che tutelano gli interessi interferenti o contrapposti. Se, infatti, nell'ambito del procedimento emergesse un interesse antagonista, ovvero soggetti portatori di un interesse contrario che, attraverso l'istituto della partecipazione, evidenziassero ragioni contrastanti al rilascio del provvedimento alla luce di fattori specifici e documentati, tornerebbe ad imporsi la necessità della motivazione quale luogo di composizione del conflitto.

D'altra parte, non è mancato chi ha osservato che «la motivazione del provvedimento amministrativo consiste nella concreta individuazione degli elementi di fatto e di diritto in base ai quali l'autorità amministrativa si è determinata, così da rendere palese l'iter logico-giuridico seguito ai fini dell'emanazione di un determinato provvedimento amministrativo, assicurando, per un verso, le esigenze di trasparenza e di buon andamento dell'azione amministrativa e, per altro verso, consentendo la più efficace tutela a chi dal predetto provvedimento amministrativo sia stato inciso, a ciò provvedendo mediante la predisposizione delle più adeguate difese». Ne conseguirebbe, pertanto, un generale ed indistinto obbligo di motivazione anche per gli atti favorevoli ai richiedenti, tanto più che potrebbero esistere posizioni di controinteresse e comunque il provvedimento potrebbe essere satisfattivo solo in parte dell'originaria istanza (Cons. St. IV, n. 6464/2006; Cons. St. V, n. 1311/1991).

Molte perplessità applicative del principio in questione concernono gli atti vincolati. La dottrina, invero, ha ribadito che l'art. 3 si presta ad una lettura assai ampia e generale, che riserva la motivazione a tutti gli atti amministrativi, poiché essa individua non solo quale norma la p.a. abbia inteso applicare, ma anche quale interpretazione abbia dato ad essa per trarne le conclusioni a cui è pervenuto nell'adozione dell'atto (Rota, 804).

L'elaborazione giurisprudenziale successiva alla l. n. 241/1990 ha tuttavia disatteso tale impostazione, ritenendo che l'obbligo di motivazione in senso stretto si configura solo in relazione alle scelte discrezionali, che impongono di rendere intelligibile l'iter logico seguito, e non anche nell'ambito delle attività vincolate, che esigono la mera giustificazione del potere esercitato, mediante l'indicazione dei suoi presupposti normativi e fattuali (T.A.R. Lombardia, Milano III, n. 342/1994, T.A.R. Lazio, Roma II-bis, n. 3498/2008). In assenza di spazi di discrezionalità della P.A., dunque, il g.a., anche senza un supporto motivazionale, è in grado di verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti. Di qui la conclusione della permanenza in vita della soluzione elaborata in costanza dell'orientamento previgente alla l. n. 241/1990, che escludeva tali atti dal novero di quelli abbisognanti della motivazione (Cons. St. IV, n. 1555/1996).

Non sono mancate, tuttavia, voci contrarie, che hanno ritenuto che gravi sulla P.A. l'onere di motivare il provvedimento e di rispettare la necessità che siano indicati almeno il tipo di potere esercitato e i presupposti di fatto delle determinazioni assunte, al fine di consentire di ricavare con assoluta certezza le ragioni poste a base della decisione e rendere conseguentemente possibile il successivo ed eventuale sindacato di legittimità (c.d. «motivazione minima»: in tal senso v. Cons. St. V, n. 5101/2009; T.A.R. Lombardia, Milano II, n. 1318/2009; T.A.R. Campania, Napoli, III, n. 7483/2007). Di qui la non ravvisabilità di motivi per escludere la necessità della motivazione in questo senso intesa, così come l'utilità della partecipazione per illustrare i presupposti di fatto. In questo caso permarrebbe un obbligo di motivazione, sia pure ridotto sotto il profilo dello spessore qualitativo, in relazione alla sola giustificazione del potere amministrativo e verrebbero, nel contempo, salvaguardati gli obiettivi di trasparenza e democrazia amministrativa. Del resto, la presenza di un nucleo minimo di motivazione è essenziale per comprendere quale sia la tipologia del potere esercitato dall'amministrazione, quale ne siano le contingenze fattuali e quale l'oggetto sul quale il potere è esercitato.

A fronte della cennata contrapposizione giurisprudenziale si ravvisa, invece, univocità nel ritenere che particolari profili dell'esercizio del potere amministrativo non debbano essere motivati in assenza di margini di discrezionalità. Così è ricorrente l'affermazione secondo la quale. «I provvedimenti repressivi di abusi edilizi –in quanto vincolati nel contenuto – non hanno bisogno di alcuna specifica motivazione sulle ragioni di pubblico interesse sottese al ripristino della legalità violata e, in definitiva, alla rimozione della situazione di antigiuridicità e di permanente nocumento arrecato al territorio» (cfr. ex plurimis, T.A.R. Campania, VI, n. 1939/2020).

È invece pacifico che non possano essere esonerati dall'obbligo motivazionale gli atti espressione di discrezionalità tecnica: l'obbligo di motivazione, infatti, riguarda tutte le tipologie provvedimentali, ad esclusione di quelle espressamente eccettuate, indipendentemente dal tasso di tecnicismo necessario ad effettuare le valutazioni operate dall'amministrazione in vista dell'adozione dell'atto. Al contrario, la giurisprudenza ha sottolineato come la natura tecnica delle valutazioni rimesse all'amministrazione impone in capo alla stessa un più intenso dovere motivazionale, in modo da consentire al giudice stesso un più pregnante sindacato sulla legittimità delle scelte compiute (Cons. St. VI, n. 2349/2002), con le dovute precisazioni relative alla questione della sufficienza del voto numerico nelle procedure concorsuali.

Con riferimento agli atti organizzativi, deve ritenersi che, a seguito dell'introduzione dell'art. 3, l'autonomia organizzativa della p.a., prima illimitata, ora risulta limitata dall'esigenza di garantire anche per tali atti il principio di trasparenza e di effettività della tutela giurisdizionale. In passato, infatti, gli atti organizzativi erano ritenuti espressione di un'autonomia organizzatoria così spiccata, da non richiedere alcuna esplicazione dei criteri e delle ragioni di scelta sottesi. L'amministrazione godeva di una vera e propria area riservata in ordine all'organizzazione dei propri uffici e del personale (art. 97 Cost.), in alcun modo penetrabile dall'esterno.

Il comma 1 dell'art. 3, tuttavia, va letto in combinazione con il comma 2, che non richiede la motivazione per gli atti normativi a contenuto generale: dal combinato disposto dei due commi si ricava che sono soggetti a motivazione i provvedimenti organizzativi che non abbiano contenuto generale. Si conclude, quindi, che solo i provvedimenti organizzativi che riguardano una situazione specifica, c.d. «a contenuto singolo», richiedono la motivazione; non altrettanto deve dirsi per i provvedimenti con cui si dettano le regole generali per l'organizzazione dell'amministrazione pubblica, che sono espressione di un potere assimilabile alla fattispecie di cui all'art. 3 comma 2.

Gli atti di alta amministrazione, diversamente dagli atti politici – che, essendo liberi nei fini, non richiedono motivazione – sono atti amministrativi sia dal punto di vista formale che sostanziale e soggiacciono, quindi, alle regole di cui alla l. n. 241/1990, tra cui l'obbligo di motivazione (Cons. St. IV, n. 7189/2003; T.A.R. Marche, n. 145/2004).

In tale ipotesi, pertanto, il problema non concerne l'an della motivazione, quanto piuttosto il suo grado di robustezza. La questione è stata affrontata dalla giurisprudenza con riguardo al caso di nomine di vertice nell'apparato governativo ed amministrativo (come la nomina di un city manager del Comune o del direttore generale della ASL): in tale occasione ci si è interrogati sulla necessità che l'atto di nomina di un dirigente apicale sia corredato da una motivazione comparativa, ovvero se, all'inverso, sia sufficiente una motivazione che abbia riguardo alle sole capacità del singolo.

Il problema si risolve alla luce del tipo di procedimento e di atto che conducono alla scelta del soggetto interessato: se si tratta di una procedura comparativa paraconcorsuale, anche la motivazione del provvedimento con cui si sceglie il soggetto prescelto deve dare conto dell'avvenuto confronto; se invece si tratta di una scelta fiduciaria (vedi la nomina del city manager) le ragioni che la P.A. deve esplicitare devono riguardare le capacità del singolo in un'ottica di investitura fiduciaria.

In questo senso la giurisprudenza prevalente (Cons. St. V, n. 3119/2021) che: «Se anche per gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria non è affatto escluso l'obbligo di motivazione appropriato e coerente alla natura degli atti medesimi, tanto più non può prescindersi da una motivazione, di tipo analitico – comparativo, dalla quale s'evincano le ragioni della maggiore idoneità del designato a rivestire la carica ogni qual volta, come nella specie, si tratti d'effettuare una scelta tra più candidati, ognuno dei quali dotato di specifiche competenze e attitudini a ricoprire l'incarico cui aspira, compreso nell'ambito delle ordinarie attribuzioni dell'ente locale».

Riguardo agli atti di programmazione e pianificazione del territorio, è stata avanzata da alcuni la possibilità di sottrarre tale atto alla regola della motivazione attraverso una lettura congiunta dell'art. 3 con l'art. 13, con l'effetto di omologarne le eccezioni. La giurisprudenza ha, in particolare, scandagliato il problema della valutazione, in sede motivazionale, delle osservazioni e delle opposizioni dei privati nel corso del procedimento finalizzato all'adozione del piano regolatore in tema di pianificazione e programmazione (art. 9 l. n. 1150/1942).

La prevalente elaborazione reputa al riguardo non necessaria un'analitica presa di posizione su tutti gli apporti del privato, considerando sufficiente una sintetica esposizione dei criteri posti a base delle scelte di piano (ex plurimis, Cons. St. IV, n. 4891/2021).

Quanto ai provvedimenti attinenti allo svolgimento di pubblici concorsi, la norma è stata interpretata in senso ampio con riferimento alle pubbliche procedure, cui si riconducono non solo i concorsi nel pubblico impiego, ma anche le gare per la stipulazione dei contratti (in particolare quelli di appalto pubblico). Il carattere generale della norma, inoltre, induce a ritenere che l'obbligo di motivazione sia statuito per tutti i provvedimenti attinenti alla procedura concorsuale, dallo stadio iniziale alla fase conclusiva, e non anche a quelli aventi carattere preparatorio o consequenziale rispetto ai primi.

A diverse conclusioni dovrebbe giungersi, invece, per i provvedimenti relativi ai c.d. concorsi interni, comportanti il passaggio da una qualifica ad un'altra nell'ambito della stessa fascia funzionale, qualora si accedesse all'interpretazione giurisprudenziale che li qualifica alla stregua di procedure privatistiche, come tali, non più assoggettate, secondo questa opzione ermeneutica, alla disciplina pubblicistica di cui alla l. n. 241/1990.

Con riguardo ai provvedimenti relativi al personale, l'ampiezza della formulazione legislativa induce a ritenere che debbano essere sorretti da un adeguato supporto motivazionale anche gli atti che, in costanza dell'ordinamento previgente, non erano motivati per effetto di disposizioni normative o di prassi amministrativa.

In particolare, per quanto concerne le ipotesi di sospensione cautelare facoltativa dal servizio pubblico di un pubblico dipendente, la recente giurisprudenza amministrativa ritiene che il provvedimento relativo, di cui all'art. 91, comma 1, T.U. n. 3 del 1957, che prevede la sospensione fino all'emanazione della sentenza penale definitiva, debba ritenersi sufficientemente motivato con il solo riferimento alla pendenza del procedimento penale nei confronti del dipendente ed al titolo del reato contestato al dipendente medesimo, nel caso in cui tale reato, da un lato, sia di natura particolarmente grave e, dall'altro, sia strettamente attinente al rapporto di lavoro (in tal senso, v. da ultimo T.A.R. Lazio, Roma n. 2830/2006. Contra, T.A.R. Puglia, Lecce II, n. 82/2008; Cons. St. VI, n. 3549/2007; T.A.R. Campania, Napoli VI, n. 948/2007).

La disciplina sul provvedimento, tuttavia, si connette ancora una volta con la normativa in tema di privatizzazione del pubblico impiego, che restringe l'ambito dei provvedimenti organizzativi trasformandone gran parte in atti di gestione del rapporto di lavoro di matrice privatistica. La dottrina ha pertanto rilevato che gli atti di gestione del rapporto, non più qualificabili in termini provvedimentali, sono ormai atti privatistici, che, in quanto tali, sfuggono all'obbligo di motivazione. E tuttavia, deve osservarsi come talvolta la stessa disciplina privatistica impone che taluni atti siano motivati (si pensi ad esempio ai provvedimenti disciplinari).

Tale opzione va tuttavia coordinata con le regole presenti anche nel diritto comune: alcuni tipi di atti, in relazione alle peculiari caratteristiche, necessitano di motivazione. Basti considerare, per un verso, che i contratti collettivi stipulati dopo la privatizzazione hanno introdotto l'obbligo di motivazione per i provvedimenti disciplinari; per altro verso, che la normativa privatistica sul licenziamento nel lavoro privato (v.art. 2 della l. n. 604/1966) attribuisce al dipendente licenziato la facoltà di chiedere al datore l'esplicitazione dei motivi che hanno portato all'adozione della misura del licenziamento.

In relazione alla categoria dei pubblici dipendenti non privatizzati si ritiene che l'obbligo di motivazione sia meno stringente nel caso in cui l'amministrazione eserciti un'amplissima discrezionalità. Ipotesi che si verifica in relazione al personale militare. In ragione di ciò la giurisprudenza (Cons. St. IV, n. 2547/2011) afferma che i provvedimenti “d'autorità” che riguardano i militari sono riconducibili alla categoria degli ordini, rispetto ai quali l'interesse del militare assume una rilevanza di mero fatto, per cui, in conseguenza, non abbisognano di una particolare specifica motivazione ai sensi dell'art. 3 l. 7 agosto 1990, n. 241, né di particolari garanzie di partecipazione preventiva, quale è quella di cui all'art. 7 della medesima l. n. 241.

Particolarmente dibattuto in giurisprudenza è l'obbligo di motivazione dell'ordine militare di trasferimento. Sul punto si rinvia, pertanto, al par. 4.8.

Dalla disciplina sul procedimento, infine, si ricava implicitamente la sottrazione all'obbligo di motivazione delle forme di silenzio assenso, contemplate dall'art. 20 della l. n. 241/1990, salvo verificare se si tratti di ipotesi fisiologiche dell'azione amministrativa o di conseguenza legalmente data della violazione dell'obbligo di definizione del procedimento con determinazione espressa, nonché di tutti «gli atti diversi dai provvedimenti», in considerazione del riferimento dell'obbligo di motivazione ai soli provvedimenti amministrativi (comma 1 dell'art. 3 «ogni provvedimento amministrativo»). Sono così esclusi dall'ambito oggettivo di afferenza gli atti politici, gli atti privatistici e, più in generale, tutti gli atti amministrativi privi di uno qualsiasi dei requisiti qualificanti il provvedimento, quali la modificazione, costituzione o estinzione delle situazioni giuridiche soggettive. Per questi atti la necessità della motivazione potrà altrimenti derivare dalla loro particolare natura, come nel caso dei pareri o di valutazioni aventi rilevanza esclusivamente dal punto di vista infraprocedimentale, ma non dall'applicazione diretta dell'art. 3. Il problema non si pone per i pareri vincolanti che, in quanto deliberazioni provvisorie del contenuto del provvedimento, sono assimilabili ad un atto sostanzialmente provvedimentale.

Previsione normativa.

Sono invece espressamente esonerati dall'obbligo di motivazione, gli atti normativi e gli atti a contenuto generale: i primi in ragione della loro natura di fonti del diritto latu sensu politico, caratterizzati da generalità ed astrattezza, i secondi in quanto espressione di poteri latamente discrezionali. È evidente, invero, come tali provvedimenti non hanno immediata valenza lesiva per i destinatari, la quale può invece venire in essere con l'adozione dell'atto applicativo; di qui l'esonero ex lege dall'obbligo motivazionale.

Tuttavia, se la deroga non pone particolari problemi con riguardo agli atti normativi che, per le loro caratteristiche strutturali e funzionali (generalità, astrattezza, idoneità a creare norme di diritto), risultano indifferenti alle valutazioni operate in sede di formulazione del precetto normativo, rilevanti esclusivamente sul piano ermeneutico, non altrettanto può dirsi con riguardo agli atti generali. Questi ultimi, in quanto formalmente e materialmente amministrativi, dovrebbero essere assoggettati alla disciplina ordinaria di cui alla legge del 1990; si è sostenuto, infatti, che per gli atti generali, la duplice considerazione della rilevanza degli interessi pubblici coinvolti e della possibilità che, nonostante il loro carattere generale, possano avere un immediato contenuto lesivo (altrimenti rinviato all'emanazione dell'atto individuato), depone a favore dell'opportunità di un'adeguata esternazione dei motivi.

Giova comunque ricordare che il diritto comunitario tende a pretendere la motivazione anche per gli atti normativi e ciò soprattutto al fine di consentire la verifica del rispetto del principio di sussidiarietà.

In ogni caso la giurisprudenza ha ribadito come l'esonero dalla motivazione non possa trovare applicazione ove vi siano posizioni consolidate. Non può, quindi, escludersi l'obbligo di motivazione degli atti normativi e di quelli a contenuto generale allorché sussistano particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifica considerazione, come quelle caratterizzate dalla sussistenza di una precedente convenzione di lottizzazione o di accordi di diritto privato intercorsi tra il comune e i proprietari delle aree ovvero dalla situazione del privato che abbia ottenuto un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o di un silenzio-rifiuto su una domanda edilizia, in ordine alla pretesa di variante di nuove previsioni urbanistiche rilevanti in quanto sopravvenute nel corso del giudizio, mentre nel caso del proprietario inciso dalla variante di reiterazione dei vincoli urbanistici a contenuto espropriativo non è ravvisabile alcun affidamento (Cons. St. IV, n. 3864/2021).

Da tale posizione si ricava, pertanto, il principio generale in base al quale ogni atto, ancorché generale o normativo, che incida sulle posizioni dei singoli, merita un particolare sforzo motivazionale.

Il catalogo degli atti esclusi dall'obbligo di motivazione è poi arricchito dalla previsione di cui all'art. 13 l. n. 241/1990, che esenta espressamente dall'obbligo di motivazione gli atti generali.

L'ampiezza della motivazione.

L'individuazione del concreto contenuto della motivazione varia in relazione all'ampiezza dei poteri autoritativi di volta in volta esercitati dalla p.a., con la conseguenza che è la natura dell'atto a determinare l'ampiezza della motivazione a seconda del grado di discrezionalità e del tipo di interessi coinvolti. L'onere della motivazione del provvedimento amministrativo, infatti, non può rispondere ad uno standard fisso e immutabile, dovendo necessariamente variare in ragione degli effetti ampliativi o restrittivi che il provvedimento è destinato a produrre nella sfera giuridica dei destinatari e «della più o meno elevata interferenza degli interessi privati con quello pubblico perseguito» (Cons. St. IV, n. 2281/2002).

Così, ad esempio, in tema di interventi «extra ordinem», le scelte dell'amministrazione straordinaria devono essere concretamente valutate in rapporto ad una situazione di emergenza del tutto eccezionale e straordinaria, nella quale la ponderazione e la comparazione dei diversi interessi in gioco non segue pedissequamente le regole ed i criteri che governano l'azione pubblica in situazioni ordinarie, così che non costituisce motivo di illegittimità dell'atto ogni carenza, insufficienza o contraddittorietà a livello istruttorio o di motivazione (Cons. St. IV, n. 2795/2005).

Ove invece, al di fuori di situazioni di urgenza, il privato abbia partecipato al procedimento amministrativo mediante presentazioni di osservazioni, nella motivazione del relativo provvedimento deve risultare traccia della valutazione effettuate in merito alle osservazioni presentate dal privato, pur non essendo necessaria una puntuale confutazione di tutte le argomentazioni svolte dalla parte privata, posto che in concreto lo spessore della motivazione va commisurato in relazione all'ampiezza dei poteri di volta in volta affidati all'amministrazione (Cons. St. IV, n. 5365/2005).

Deve, inoltre, aversi riguardo al tipo di interessi privati che l'atto è idoneo a comprimere, necessitando di una motivazione più analitica e puntuale ove siano compresse o degradate posizioni soggettive garantite dalla Carta Costituzionale (Cons. St. IV, n. 5782/2004, che ha così statuito in relazione alla compressione del principio di libera iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost.).

Al contrario, l'alta discrezionalità che caratterizza i provvedimenti di nomina degli alti funzionari diplomatici attenua l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione nominante (Cons. St. IV, n. 5178/2004).

A prescindere dall'ampiezza della motivazione, comunque, essa dovrà essere completa, ovvero autosufficiente, sufficiente e coerente, in modo da far emergere l'iter logico-giuridico che ha indotto la p.a. a concludere conformemente al provvedimento emanato.

È inoltre necessario che l'atto contenga l'indicazione delle risultanze istruttorie (come ad esempio pareri), la cui acquisizione non sia imposta dalla legge, ma sia rimessa ad una scelta discrezionale dell'amministrazione (Cons. St. VI, n. 2642/2002; Cons. St. IV, n. 6938/2000).

Allo stesso modo, ove il privato abbia partecipato al procedimento mediante presentazione di deduzioni ed osservazioni, si richiede che la p.a. dia conto, anche in modo sintetico ma sufficiente ed esaustivo, delle ragioni sostanziali della decisione, tenuto presente l'apporto collaborativo dei soggetti coinvolti nel procedimento (T.A.R. Abruzzo, L'Aquila I, n. 285/2007; Cons. St. IV, n. 1123/2004).

In ogni caso, in ossequio al principio di effettività della motivazione, è irrilevante l'erronea indicazione di norme di legge ove risulti chiaramente il potere esercitato dall'amministrazione e la fonte normativa applicata (T.A.R. Lombardia, Milano n. 481/1995). Deve tuttavia segnalarsi il contrario orientamento di una giurisprudenza, per la verità minoritaria, che, in ossequio al tenore letterale dell'art. 3, ritiene che la motivazione debba anche chiarire il potere concretamente svolto: l'erronea indicazione della fonte normativa, pertanto, impedisce di fatto all'interessato di svolgere in pieno il diritto a far valere le proprie ragioni ed al giudice di operare un completo ed efficace sindacato di legittimità sulla decisione assunta (T.A.R. Campania, Salerno, n. 247/1994).

Particolari ipotesi applicative.

La casistica applicativa dell'art. 3 è assai ampia e variegata, posto che la generalità dell'obbligo di motivazione involge qualsiasi tipo di atto e di amministrazione procedente. La produzione giurisprudenziale è tuttavia particolarmente prolifica in alcuni ambiti, posto che talune delle tipologie di atti hanno sollecitato particolari riflessioni pretorie.

La motivazione nelle prove concorsuali.

Un primo, peculiare problema in ordine all'estensione della motivazione si pone in materia di valutazione delle prove di concorso per l'accesso al pubblico impiego o degli esami di abilitazione.

Una tesi minoritaria, reputa necessaria una apposita motivazione per la valutazione negativa delle prove di concorso, attesa la ritenuta insufficienza della mera valutazione numerica; si tratta di un orientamento frequentemente sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa di primo grado, spesso propensa a rimarcare che il punteggio numerico costituisce esternazione del risultato e non già della motivazione del giudizio valutativo, mostrandosi inadeguato a porre il candidato in condizioni di conoscere i motivi sottesi al giudizio di segno negativo. Più di recente, però, anche il Consiglio di Stato ha ritenuto che in alcune ipotesi sia insufficiente la sola votazione numerica. In particolare, Cons. St. V, n. 5145/2009, afferma che: «un obbligo di motivazione integrativa appare inevitabile laddove la valutazione tecnica investa giudizi legati all'espressione di nozioni di particolare complessità».

L'orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza, anche dopo l'entrata in vigore della l. n. 241/1990, reputa in ogni caso che il voto numerico attribuito alle prove scritte sintetizzi il giudizio tecnico discrezionale dell'organo giudicante, contenendo in sé la sua stessa motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, e ciò in quanto la motivazione espressa numericamente, oltre a rispondere ad un evidente principio di economicità dell'attività amministrativa di valutazione e di speditezza della stessa, assicura la necessaria chiarezza sul modus procedendi degli esaminatori. Salvo il caso in cui vi sia un contrasto talmente rilevante fra i punteggi attribuiti dai componenti della commissione da configurare un'eventuale contraddittorietà intrinseca del giudizio complessivo.

Altro orientamento, sostenendo la necessità che la votazione numerica venga accompagnata da un adeguato corredo motivazionale, sposa la prima delle riferite impostazioni, precisando però che la votazione numerica può esprimere adeguatamente il giudizio sull'elaborato concorsuale a patto che sia «leggibile», ossia che si presenti come il precipitato di una congrua e articolata predeterminazione dei criteri stabiliti per la sua attribuzione. Pertanto, un ruolo decisivo assume la fissazione dei suddetti criteri che possono essere esternati già nel bando di gara oppure essere individuati dalla commissione esaminatrice nella prima riunione.

A tale conclusione la giurisprudenza largamente prevalente era pervenuta anche prima dell'entrata in vigore della cit. l. n. 241 del 1990, sul rilievo che il voto non costituisce una sorta di dispositivo di cui occorre fornire la motivazione, ma sintetizza ed esprime in forma numerica il giudizio. Esso reca in sé la sua motivazione, atteso che nel giudizio numericamente espresso è inscindibile la valutazione sui singoli elementi e la valutazione finale, che è un giudizio globale dell'elaborato sotto i vari profili considerati: forma, contenuti, esposizione ed elaborazione delle condizioni tecniche e delle loro applicazioni pratiche, ecc.

Altre considerazioni sono state addotte dalla giurisprudenza a supporto della dichiarata sufficienza a fini motivazionali del linguaggio numerico, e cioè che: a) l'obbligo motivazionale imposto dall'art. 3, l. n. 241/1990, riguarda solo l'attività provvedimentale dell'Amministrazione, e non anche i giudizi e le valutazioni; b) la sindacabilità delle valutazioni espresse dalle competenti sottocommissioni solo sotto il profilo della illogicità manifesta e del travisamento dei fatti, in quanto espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui le stesse dispongono nello stabilire l'idoneità tecnica e culturale dei candidati; c) il diverso rilievo che, rispetto alla procedura concorsuale preordinata alla scelta fra una pluralità di concorrenti, la motivazione assume nella procedura idoneativa, atteso che quest'ultima prescinde dall'esigenza di selezionare i migliori candidati in relazione al numero limitato dei posti messi a concorso, ma mira solo ad accertare la capacità del singolo candidato allo svolgimento di una determinata funzione.

Va rammentato peraltro che un'isolata decisione del Cons. St. VI, n. 2331/2003 ha prospettato una soluzione intermedia al fine di comporre il contrasto giurisprudenziale, allo stato peraltro quasi interamente sopito, in ordine alla idoneità del voto numerico a svolgere compiutamente la funzione motivazionale che la normativa vigente gli assegna. Nell'occasione, è stato affermato che il rispetto dei principi enunciati in tema motivazionale dalla cit. l. n. 241 del 1990 e di quello per il quale deve essere sempre garantita la possibilità di un sindacato in ordine alla ragionevolezza e alla logicità delle determinazioni della P.A., impongono che al voto numerico si accompagnino quanto meno ulteriori elementi sulla scorta dei quali sia possibile ricostruire ab ex terno la motivazione sottesa al giudizio valutativo, e cioè l'apposizione di note a margine dell'elaborato o, comunque, l'uso di segni grafici che consentano di valutare le parti e gli aspetti della prova scritta non valutati positivamente dalla sottocommissione. Accorgimenti, questi ultimi, che consentirebbero di conciliare il rispetto dei suddetti principi con le pure importanti ragioni di ordine pratico, spesso addotte a sostegno dell'orientamento che considera sufficiente il mero voto numerico e relative alla speditezza delle operazioni concorsuali, sovente connotate da un elevato numero di partecipanti, tanto più che la mera sottolineatura dei passi censurati e l'individuazione delle parti contenenti errori non determina un aggravio del procedimento.

Sulla questione è intervenuta a due riprese la Corte Costituzionale.

In un primo momento, con sentenza Corte cost., n. 446/2000, la Consulta ha definito la questione come manifestamente inammissibile, in quanto non sarebbe stata diretta a risolvere un dubbio di costituzionalità, ma solo a ricevere l'avallo della Corte stessa in favore di una determinata interpretazione della norma, attività propria del giudice di merito.

Successivamente, con sentenza Corte cost., n. 20/2009, la Consulta ha invece considerato di poter vagliare la sollevata questione, in considerazione del fatto che la tematica della sufficienza del voto numerico costituisce ormai diritto vivente nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, e non più solo un mero indirizzo interpretativo, sul quale si ritiene inammissibile l'esame di costituzionalità. Nonostante ciò, però, la Consulta ha disatteso le censure avanzate, ritenendo che gli artt. 24,113,111 Cost. e 6CEDU esprimono principi rilevanti sul solo piano processuale, mentre l'obbligo motivazionale attiene al procedimento amministrativo.

Giova da ultimo precisare che la materia è stata oggetto anche di precisi interventi normativi, che riguardano procedure concorsuali settoriali.

Ci si riferisce, in particolare, all'art. 23, comma 5, r.d. 37/1934 (Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull'ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), come modificato dal d.l. 112/2003, dalla cui lettura emergeva una chiara sufficienza del voto numerico ai fini di un corretto esercizio dell'obbligo motivazionale.

Da ultimo, il legislatore è tornato sul tema con l'art. 46 della l. n. 247/2012, precisando che “la commissione annota le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti”.

Dalla lettura della nuova disposizione può dunque agevolmente dedursi come per le procedure concorsuali relative all'abilitazione alla professione forense, sottoposte alla nuova disciplina oggi non sia più sufficiente il mero voto numerico apposto sull'elaborato, ma è necessario che dello stesso sia fornita idonea e sufficiente giustificazione, la quale può essere dedotta anche da mere osservazioni apposte sull'elaborato dai membri della commissione (T.A.R. Campania, Salerno, 20 settembre 2013, n. 503).

L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 7 del 30 settembre 2017, ha, sia pure indirettamente, ribadito la sufficienza del voto numerico. Il massimo consesso di giustizia amministrativa, infatti, chiamato a pronunciarsi sulla portata innovativa della disciplina contenuta nella l. 247/2012, ha affermato che con riferimento alla disciplina previgente, il tradizionale insegnamento secondo il quale i provvedimenti della commissione esaminatrice degli aspiranti avvocati, che rilevano l'inidoneità delle prove scritte e non li ammettono all'esame orale, vanno di per sé considerati adeguatamente motivati anche quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base ai criteri da essa predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione.

Ad avviso dell''Adunanza plenaria numerosi argomenti militano in favore della riaffermazione dell'indirizzo della sufficienza della espressione numerica del voto:

a) la lettera dell'art. 49 – laddove si fa riferimento «all'esame di abilitazione all'esercizio della professione di avvocato» indistintamente inteso, e si richiama espressamente che ciò concerne sia «le prove scritte che le prove orali» – conduce alla univoca conclusione che il Legislatore abbia voluto procrastinare l'entrata in vigore della legge di riforma, complessivamente considerata, con riferimento a tutti gli aspetti che disciplinano lo svolgimento dell'esame suddetto;

b) non è, poi, condivisibile la tesi esposta dal Collegio remittente secondo cui la disciplina ante-vigente e quella attualmente in vigore contenuta nella l. n. 247 del 2012 siano per larghi profili identiche, se non sovrapponibili: invero tale riduttiva considerazione non persuade, in quanto numerose sono le novità introdotte dalla l. n. 247 del 2012 (il numero di materie oggetto dell'esame orale e la modalità della scelta delle medesime da parte dei candidati, la durata della prova scritta, il punteggio minimo necessario per ottenere l'ammissione all'esame orale, e l'obbligo incombente sulle Commissioni di «annotare le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti»);

c) in tale quadro, appare evidente che il Legislatore abbia dettato la norma transitoria con l'intento di procrastinare l'entrata in vigore di tutti gli aspetti innovativi della riforma (e tra essi rientra certamente quello relativo alle modalità di espressione da parte della Commissione della valutazione degli elaborati scritti) proprio in quanto l'art. 49 della legge non introduce in proposito alcuna distinzione, né espressa, né implicita.

Merita conclusivamente precisare che, quanto finora detto, non trova applicazione in tema di concorso notarile e di concorso per l'accesso alla magistratura ordinaria, ove rispettivamente l'art. 11, comma 5, d.lgs. n. 166/2006, prevede che: «Il giudizio di non idoneità è sinteticamente motivato con formulazioni standard, predisposte dalla commissione quando definisce i criteri che regolano la valutazione degli elaborati. Nel giudizio di idoneità il punteggio vale motivazione», e l'art. 1, comma 5, d.lgs. n. 160/2006, che, invece, in caso di esito positivo ritiene il mero voto numerico sufficiente a soddisfare le prescrizioni motivazionali e in caso di esito negativo ritiene sufficiente la formula «non idoneo».

Di recente il Consiglio di Stato (Cons. St., VII, 23 giugno 2023, n. 6216)  ha ribadito il principio secondo cui  ai fini dell’adeguatezza della motivazione, nei giudizi valutativi delle prove dei concorsi pubblici, è sufficiente l'attribuzione del voto numerico, qualora l'elaborato non raggiunga nemmeno la soglia della sufficienza, senza necessità di ulteriori indicazioni e chiarimenti a mezzo di proposizioni esplicative, di glosse, annotazione e segni grafici.

La motivazione del p.r.g. e degli strumenti urbanistici.

L'obbligo di motivazione riguarda anche gli atti di programmazione e pianificazione, che l'art. 13 l. n. 241/1990 distingue da quelli a contenuto generale, riconoscendovi autonomia concettuale e funzionale.

In generale si ritiene che non occorra una particolare motivazione per gli atti di programmazione, comprese le scelte urbanistiche di carattere generale. La p.a., invero, gode di un potere discrezionale assai ampio che le permette il perseguimento dell'interesse pubblico urbanistico: ne consegue, sul crinale motivazionale, che potrà considerarsi sufficiente la motivazione dalla quale appaia l'esistenza accertata di ragioni non arbitrarie ed illogiche che fondino le sue determinazioni. Esse non necessariamente devono corredare l'atto, essendo sufficiente che emergano dalla relazione di accompagnamento al progetto del p.r.g. (Cons. St. IV, n. 4907/2002; Cons. St., Ad. plen., n. 24/199), fatte salve, in ogni caso, le eventuali situazioni di affidamento qualificato del privato.

A tale regola, infatti, si fa eccezione quando tali scelte sono espressione di uno jus variandi che incide negativamente su aspettative qualificate del privato, ingeneratesi per effetto dell'esercizio già intervenuto della medesima potestà, ovvero a seguito di controversia tra il privato e l'amministrazione oggetto di una pronuncia passata in giudicato (Cons. St. IV, n. 5478/2008). Pertanto, una motivazione specifica sulla nuova destinazione conferita a un'area è sempre necessaria, «non solo se la variante incide su aspettative assistite da una speciale tutela o uno speciale affidamento, quali, tra le altre, quelle che derivano da un piano di lottizzazione debitamente approvato e convenzionato, ma anche nel caso in cui la variante è limitata ad un terreno determinato oppure è in contrasto con il p.r.g. già adottato ed in fase di approvazione» (Cons. St. VI, n. 3632/2020; Cons. St. VI, n. 4823/2008; Cons. St. V, n. 501/2007; in termini Cons. St. IV, n. 3695/2002; Cons. St. IV, n. 382/1998. V. anche Cons. St. VI, n. 3557/2009, in materia di rilascio di nulla-osta paesaggistico).

I dubbi più consistenti in ordine all'obbligo di motivazione concernono le varianti del piano regolatore, essendo assai controversa la loro natura. La soluzione varia a seconda che le si consideri atto amministrativo, normativo o a carattere misto, tenendo anche conto che l'attuazione della pregressa disciplina del p.r.g. può ingenerare un affidamento qualificato nel privato in ragione dell'esistenza di convenzioni di lottizzazione, accordi procedimentali o concessioni edilizie. In tali ipotesi, invero, l'obbligo di motivazione si atteggia diversamente a seconda che si tratti di modifiche obbligatorie ovvero facoltative (Cons. St. IV, n. 245/2000; Cons. St. IV, n. 605/1998; Cons. St. IV, n. 343/1997).

In ogni caso non risulta decisiva la circostanza che il privato abbia presentato proprie osservazioni, dal momento che quest'ultime costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all'Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione, oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree. Pertanto, seppure l'Amministrazione sia tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essa essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse (Cons. St. IV, n. 751/2020).

La motivazione della nomina del personale di vertice.

Nel caso di nomina del personale di vertice dell'amministrazione il problema della estensione della motivazione deve coordinarsi con l'elevata discrezionalità che sottende alla individuazione del personale che si colloca in una posizione elevata nel quadro organizzativo della p.a.

Proprio l'amplissima discrezionalità tecnico-politica della amministrazione, invero, aveva indotto la giurisprudenza tradizionale ad escludere che tali delibere dovessero essere corredate da adeguata motivazione comparativa, «inerendo la valutazione alla sintesi complessiva del modo di essere e di rappresentarsi di ciascun candidato» ed in ragione dell'alto tasso di discrezionalità della amministrazione procedente (T.A.R. Lazio, Roma I, n. 1260/1994).

A tale orientamento, tuttavia, si è ben presto contrapposta la tesi di chi ritiene comunque sussistente l'obbligo di motivare gli atti di nomina del personale di vertice, poiché la scelta del dirigente deve rispondere ad esigenze tecnico professionali specifiche di cui la p.a. procedente deve dare conto mediante un'adeguata motivazione (Cons. St. VI, n. 556/1993). Deve tuttavia ritenersi sufficiente che detti elementi emergano dalla documentazione istruttoria, nel caso in cui emerga palesemente dalla documentazione stessa il possesso, da parte del designato, di requisiti personali e professionali tali da costituire, anche se per implicito, una congrua giustificazione. L'onere motivazionale è vieppiù stringente quando si tratti di nominare gli esperti di una commissione tecnica che s'inserisce, sia pur con criteri d'elevata professionalità e competenza, nell'ambito dell'esercizio delle ordinarie funzioni amministrative attribuite all'ente locale nello specifico settore della tutela del paesaggio (T.A.R. Lombardia, Brescia, I, n. 410/2021).

La motivazione della revoca dell'assessore.

Il rapporto tra sindaco e assessori è strettamente fiduciario: il sindaco, pertanto, detiene un potere di revoca ex art. 46, ultimo comma, T.U.E.L. che richiede, per il suo esercizio, solo la «motivata comunicazione al consiglio». Si pone, quindi, il problema della ampiezza della motivazione. Secondo la giurisprudenza, invero, non è necessario che siano allegati specifici inadempimenti dell'assessore, potendo, la revoca, assumere connotazioni squisitamente politiche, essendo il potere in questione rivolto a curare gli interessi della comunità locale secondo il programma politico-amministrativo sulla cui base è intervenuto il voto popolare (Cons. St. V, n. 944/2005).

L'obbligo di motivazione del provvedimento di revoca di un assessore da parte del sindaco o del presidente della provincia è assolto senza che occorra specificare i singoli comportamenti addebitati all'interessato potendo contenere la motivazione valutazioni di opportunità politico-amministrative attinenti ad esigenze di carattere generale quali i rapporti con l'opposizione od i rapporti interni alla maggioranza consiliare (T.A.R. Sicilia, Catania I, 10 dicembre 2018, n. 2336).

La motivazione della revoca del presidente del Consiglio Comunale.

Analoghe considerazioni possono svolgersi in ordine alla revoca del presidente del Consiglio Comunale. L'atto di revoca, invero, involge anche in tal caso, una figura istituzionale che svolge funzioni proprie di un organo di garanzia a salvaguardia delle prerogative dei consigli e dei singoli consiglieri, la sua revoca può dipendere solo dall'accertata violazione delle regole di imparzialità e rappresentanza istituzionale che presiedono all'esercizio del suo ufficio, di cui deve essere data congrua motivazione.

La motivazione degli atti collegiali.

Ancora, profili problematici presentano gli atti collegiali, per i quali la questione non attiene all'esonero dall'obbligo di cui all'art. 3, ma piuttosto ai contenuti della motivazione. Accade, infatti, nella prassi amministrativa, che le deliberazioni degli organi collegiali, non supportate da una motivazione unitaria, siano accompagnate solo dall'elenco degli interventi dei singoli componenti dell'organo. Il dibattito verte allora sulla possibilità di ritenere integrata la motivazione, sulla base dell'enunciazione delle sole dichiarazioni e opinioni dei singoli o, se viceversa, queste debbano intendersi come manifestazioni di volontà individuali, inidonee a spiegare l'intendimento dell'organo collegiale quale momento di sintesi unitaria.

L'elaborazione giurisprudenziale è giunta alla conclusione che l'organo collegiale debba esprimere la propria volontà, da ritenersi distinta dalla sommatoria delle singole posizioni individuali. Non è pertanto sufficientemente motivato l'atto di un organo collegiale laddove dal verbale si ricavi solo la successione degli interventi dei singoli e non sia possibile, salva una perfetta omogeneità delle posizioni individuali, comprendere quale sia la ricostruzione dell'iter logico seguito dall'organo collegiale nel suo complesso (della necessità di una sintesi unificante parla Cons. St. VI, n. 484/1999. Sul tema vedi anche T.A.R. Marche, n. 145/2004). Ciò che risulta necessario è, quindi, che o dalla proposta che abbia ottenuto la maggioranza si evincano le ragioni del provvedere o che le stesse emergano dal verbale della seduta in modo chiaro e univoco dagli interventi di coloro che hanno preso parte alla votazione.

Le ripercussioni sulla motivazione dei provvedimenti a seguito della novella del 2005

L'istituto della motivazione, così come disciplinato dall'art. 3 l. n. 241/1990, è stato ulteriormente potenziato dagli artt. 10-bis e 6 della legge 241/1990, così come riscritti dalla novella del 2005. Rinviando ai rispettivi commenti per la trattazione completa degli istituti, ci si limita in questa sede a ricordare che l'art. 10-bis prevede un onere motivazionale aggravato (c.d. «motivazione anticipata») in caso di mancato accoglimento delle osservazioni formulate dal privato a seguito della regolare comunicazione dell'avviso di rigetto di cui alla stessa norma.

Nello specifico, nel caso di chiusura della fase istruttoria dei procedimenti ad istanza di parte con una proposta di provvedimento negativo, il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione del diniego, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, costoro hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento, che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale.

È evidente il fine di deflazione del contenzioso giurisdizionale dell'istituto in commento: suo tramite, infatti, viene potenziato il contraddittorio procedimentale, garantendo maggiormente agli istanti la possibilità di orientare la scelta dell'amministrazione.

Analoghe considerazioni possono svolgersi per la motivazione di scostamento dalle risultanze istruttorie, ex lett. e) art. 6, anch'essa introdotta dalla novella del 2005.

La l. n. 15/2005, invero, ha aggiunto un nuovo periodo, all'art. 6, comma 1, lett. e) della l. n. 241/1990, con il quale si specifica che l'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento, se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.

In tal modo, la norma esprime un canone di coerenza tendenziale fra istruttoria e provvedimento finale, richiamando il principio di buon andamento e di coerenza dell'azione amministrativa già implicito nel sistema e recependo un orientamento giurisprudenziale costante, secondo cui la contraddittorietà della motivazione non va necessariamente riguardata con riferimento ad atti esterni al procedimento, ma anche con riferimento ad atti interni.

Deve soggiungersi che la l. n. 15/2005 ha introdotto, altresì, nella legge sul procedimento, l'art. 21-septies, che costituisce una disposizione che potrebbe astrattamente incidere sull'istituto motivazionale. L'art. 21-septies, infatti, stabilisce che è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali: occorre pertanto chiedersi se la motivazione di cui all'art. 3 costituisca un elemento essenziale del provvedimento, la cui mancanza determina la nullità dell'atto.

Secondo l'insegnamento classico della dottrina più attenta ai profili classificatori della struttura dell'atto, deve escludersi che la motivazione sia un elemento essenziale dell'atto, necessario per la sua ricognizione sul piano dell'esistenza giuridica. Essa, piuttosto, costituisce un requisito di validità dell'atto, che ne condiziona la legittimità in via generale, quale motivo di annullabilità.

L'argomento è suffragato dall'interpretazione invalsa nel diritto comunitario che, facendo leva sulla distinzione tra forme-formali e forme-sostanziali (art. 230 Trattato), inquadra il vizio motivazionale nel primo ambito, vale a dire in quei vizi che nulla dicono ancora sulla bontà del provvedimento finale.

Secondo un'altra, minoritaria tesi, la motivazione rileva come elemento essenziale nei casi in cui il difetto di motivazione si traduca in un'impossibilità di riconoscere del tutto la volontà espressa nel provvedimento, rendendola del tutto incerta e non individuabile.

Altra disposizione destinata ad incidere indirettamente sulla motivazione è quella contenuta nel comma 2 dell'art. 21-octies, il quale dispone che gli atti non possano essere annullati per violazione di norme sul procedimento o sulla forma, quando, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Si tratta, dunque, di verificare se la motivazione sia da intendere come requisito formale dell'atto, in guisa da consentire la qualificazione del vizio collegato alla sua assenza o insufficienza alla stregua di un vizio parimenti formale non invalidante.

Sul tema vedi, funditus, sub art. 21-octies in materia di vizi non invalidanti.

I complessi rapporti tra motivazione e invalidità

Altro aspetto importante è quello relativo al rapporto tra motivazione ed invalidità del provvedimento. Prima della l. n. 241/1990, tutti i vizi della motivazione erano ricondotti alla figura dell'eccesso di potere, non essendo previsto da una disposizione di legge generale l'obbligo della motivazione.

Con l'avvento dell'art. 3 della l. n. 241/1990, l'obbligo di motivare è stato generalizzato e definito. Ne consegue che oggi costituiscono vizio di violazione di legge: a) il difetto assoluto di motivazione; b) l'insufficienza della motivazione, che si verifica quando non sono indicati tutti i profili di fatto ed i motivi di diritto della decisione; c) la mancata indicazione specifica degli atti ai quali il provvedimento rinvia nel caso di motivazione per relationem; d) la mancata comunicazione del preavviso di diniego nei casi indicati nell'art. 10-bis della l. n. 241/1990.

Gli altri vizi, relativi a profili dell'obbligo motivazionale non espressamente definiti dalla legge, invece, costituiscono indici di eccesso di potere. Tra questi ricordiamo, in particolare, la motivazione perplessa, irrazionale, illogica, contraddittoria od incerta (Bergonzini in Franchini, Lucca, Tessaro, 281).

Il risarcimento del danno a seguito dell'annullamento dell'atto privo di motivazione.

L'assenza di motivazione, di per sé, non si traduce in un danno, non indicando necessariamente un comportamento illegittimo della p.a., elemento indispensabile per accedere alla tutela risarcitoria. Nell'accertamento della ingiustizia del danno, infatti, già le Sezioni Unite della Cassazione con la storica pronuncia n. 500/1999 ebbero a precisare che l'amministrazione citata in giudizio dal danneggiato ben poteva dimostrare con un supplemento motivazionale la sostanziale legittimità del proprio comportamento.

Infatti, il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo, ma richiede la verifica di tutti i requisiti dell'illecito (condotta, colpa, nesso di causalità, evento dannoso) e, nel caso di richiesta di risarcimento del danno conseguente alla lesione di un interesse legittimo pretensivo, è subordinato alla dimostrazione, secondo un giudizio prognostico, che il provvedimento sarebbe stato rilasciato in assenza dell'agire illegittimo della Pubblica amministrazione (cfr. ex plurimis, T.A.R. Veneto, II, n. 1080/2019).

Il vizio in questione, invero, non impedisce la reiterazione dello stesso provvedimento munito questa volta dello schermo motivazionale, senza quindi che vi sia un sostanziale mutamento della situazione giuridica delineata dal provvedimento impugnato: ne consegue che, in tale ipotesi, per accedere alla tutela risarcitoria, l'interessato dovrà proporre un doppio giudizio, provvedendo ad impugnare il nuovo atto corredato da motivazione per vizi sostanziali e, solo dopo averne ottenuto l'annullamento, potrà chiedere la tutela in sede risarcitoria. Se l'atto negativo viene reiterato per ragioni diverse dal precedente, infatti, il sopravvenuto provvedimento negativo esclude la sussistenza di un danno risarcibile derivante dal primo provvedimento, salva la verifica degli estremi del danno in caso di annullamento giurisdizionale anche del secondo provvedimento.

Le indicazioni di cui al comma 4

Deve farsi un cenno, infine, all'ultimo comma della norma in commento, il quale prescrive che ogni cittadino deve essere posto immediatamente in grado, senza alcun ausilio di esperti, di individuare i rimedi amministrativi e giurisdizionali posti a sua tutela, con l'indicazione del termine entro cui il diritto di impugnare può essere fatto valere, mediante l'indicazione dell'autorità alla quale si può ricorrere.

Secondo la giurisprudenza ormai pacifica, l'omissione di tali indicazioni non comporta l'illegittimità dell'atto o la sospensione del termine di impugnazione, dovendosi riconoscere al privato, ai fini impugnatori, la sola rimessione in termini per errore scusabile (Cons. St. II, n. 7103/2019; Cass. n. 26204/2009;Cass. S.U., n. 20602/2008; Cons. St. VI, n. 2763/2006; Cons. St. IV, n. 5316/2004; T.A.R. Lombardia, Milano IV, n. 1779/2009; T.A.R. Valle d'AostaAosta, I, n. 98/2008; T.A.R. Basilicata, Potenza, I, 901/2008). La giurisprudenza ha, in proposito, indicato i presupposti di operatività dell'errore scusabile, affermando che «la mancata apposizione, in calce al provvedimento amministrativo, della formula recante il termine e l'autorità presso cui impugnarlo, sancita dall'art. 3, comma 4, l. 7 agosto 1990 n. 241 può implicare, in caso di eventuale ritardo nell'impugnazione, il riconoscimento dell'errore scusabile, ma solo quando ne sussistano i presupposti, ossia una situazione normativa obiettivamente inconoscibile o confusa, uno stato di obiettiva incertezza per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma, la particolare complessità di una fattispecie concreta, i contrasti giurisprudenziali esistenti o il comportamento dell'Amministrazione idoneo, perché equivoco, ad ingenerare convincimenti non esatti» (T.A.R. Umbria, Perugia, n. 487/2009; conf. T.A.R. Calabria, Catanzaro I, n. 387/2009).

In particolare, con riguardo agli effetti dell'erronea indicazione del termine entro cui ricorrere ex art. 3, comma 4, l. n. 241/1990, la giurisprudenza ha chiarito che «l'erronea indicazione nel provvedimento amministrativo di un termine più lungo rispetto a quello legale fa sorgere nel destinatario dell'atto un ragionevole affidamento in ordine all'applicabilità del termine indicato, con la conseguenza che, ove l'interessato lo abbia rispettato, deve ritenersi che sia incorso in errore scusabile, e può quindi beneficiare della rimessione in termini, dovendosi escludere la decadenza in conformità con il canone costituzionale di buon andamento delle p.a.» (Cass. n. 15813/2019; Cass. n. 1740/2020).

Da ultimo, si deve segnalare l'importante pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. S.U., n. 969/2010), che ha chiarito che «La norma della l. n. 241 del 1990, art. 3, impone un obbligo d'informazione a carico della pubblica amministrazione, ma non modifica in alcun modo la rigorosa disciplina dei termini processuali nei giudizi dinanzi ai giudici amministrativi, ordinari o speciali, cosicché risulta sistematicamente coerente l'interpretazione secondo la quale il mancato o l'erroneo adempimento dell'obbligo suddetto può trovare unicamente rimedio, in tali giudizi, attraverso l'istituto dell'errore scusabile e nei limiti della sua concreta applicabilità alle singole fattispecie. La «ratio» della l. n. 241 del 1990, art. 3 va ravvisata nell'esigenza di dare ai destinatari dei provvedimenti amministrativi la massima effettività al diritto di difesa nei confronti della pubblica amministrazione, in adempimento delle prescrizioni degli artt. 24 e 113 Cost., in correlazione con la complessità, nel nostro ordinamento, del sistema di tutela nei confronti degli atti della pubblica amministrazione, caratterizzato da una pluralità di giurisdizioni, da normative procedurali differenziate, dall'esistenza di brevi termini di decadenza solo in relazione all'accesso a talune giurisdizioni e non ad altre. In relazione a tale «ratio» deve ritenersi che, se la mancata indicazione del termine entro il quale impugnare il provvedimento, ovvero la mancata indicazione del giudice dinanzi al quale impugnarlo, possono integrare errore scusabile solo in relazione alle circostanze concrete, da esaminarsi caso per caso – ancorché da valutarsi negativamente per il destinatario dell'atto solo nel caso di una sua inescusabilmente protratta inerzia – viceversa deve ritenersi la scusabilità dell'errore «in re ipsa» ove l'amministrazione indichi un termine inesatto e/o un giudice privo di giurisdizione e l'interessato, seguendo tale erronea indicazione, impugni l'atto nel termine e davanti al giudice indicato nell'atto.».

La motivazione per relationem (comma 3): in cosa consiste il rinvio ad altro atto?

La legge sul procedimento amministrativo ammette la possibilità della motivazione per relationem, consentendo che la motivazione del provvedimento sia desumibile da altro atto amministrativo. In tale ipotesi, l'art. 3 esige che insieme alla comunicazione sia «indicato e reso disponibile» anche l'atto cui esso si richiama.

Lo sviluppo di detta tecnica motivazionale è complementare al venir meno della centralità del provvedimento amministrativo ed al contestuale accentuarsi del procedimento, quale locus decisivo da cui ricavare le ragioni dell'operato della P.A., di guisa che deve ritenersi legittimo il provvedimento privo di motivazione, per il quale le ragioni che hanno orientato la P.A. possono ricavarsi dagli atti del procedimento secondo un approccio di carattere sostanzialistico (T.A.R. Marche, I, n. 635/2021).

Come sostiene la giurisprudenza, l'obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo è assolto quando questa può essere ricavata dalla lettura degli atti attinenti alale varie fasi in cuoi si articola il procedimento. In particolare, tale obbligo è assolto anche in presenza di una «motivazione per relationem: a) le ragioni dell'atto richiamato siano esaurienti – onde sia possibile desumerete ragioni in base alle quali la volontà dell'amministrazione si è determinata; b) l'atto indicato al quale viene fatto riferimento, sia reso disponibile agli interessati; c) non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all'interno del medesimo procedimento» (Cons. St. IV, n. 944/2010).

È tuttavia discusso, in dottrina e giurisprudenza, il significato di tale rinvio ad altro atto.

Secondo un primo orientamento, assolutamente minoritario, l'espressione in commento va intesa come «allegato», di modo da produrre una contestualità documentale tra atto rinviante e atto rinviato (T.A.R. Campania, Napoli I, n. 1041/1997). Ne consegue che l'obbligo di allegare l'atto al quale si rinvia sarebbe escluso solo ove esso sia stato tempestivamente comunicato al destinatario (Cons. St. VI, n. 3389/2006).

Una seconda tesi restringe le conclusioni sopra rassegnate per gli atti vincolati, escludendo che la mancata allegazione di un atto richiamato da un provvedimento, in violazione del disposto di cui all'art. 3 comma 3, L. n. 241/1990, si traduca in vizio dell'atto, secondo il principio stabilito dall'art. 21-octies, il quale prevede l'irrilevanza dei c.d. vizi non invalidanti, quando risulti palese che il contenuto dello stesso non poteva differenziarsi da quello in concreto adottato (Cons. St. VI, n. 6091/2006).

L'orientamento prevalente (e, peraltro, maggiormente condivisibile), invece, ritiene che il comma 3 dell'art. 3 non imponga la materiale messa a disposizione o la contestuale comunicazione degli atti richiamati, essendo sufficiente l'indicazione degli stessi, la quale concede all'interessato la possibilità di richiederne l'accesso (Cons. St. II, n. 967/2020; T.A.R. Lazio, III-quater, n. 8444/2021; T.A.R. Campania, II, n. 3425/2021). La disponibilità dell'atto richiamato, quindi, sarebbe meramente eventuale, in caso di esplicita sollecitazione da parte del soggetto interessato, essendo la messa a disposizione dell'atto richiamato azionabile solo ad istanza di parte (Cons. St. IV, 22 dicembre 1998, n. 1866). In sostanza, la norma in commento imporrebbe che la motivazione del provvedimento debba essere portata nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, mediante l'espressa indicazione degli estremi dell'atto richiamato (T.A.R. Campania, Napoli V, n. 1386/2007).

In ogni caso deve sottolinearsi come i provvedimenti richiamabili sono anche quelli adottati da altre p.a., quali, ad esempio, pareri di altri organi tecnici (Cons. St. VI, n. 2400/2002); resta inteso, naturalmente, che non può farsi riferimento al mero ed apodittico richiamo alle deduzioni contenute negli scritti di un soggetto estraneo alla amministrazione procedente (T.A.R. Toscana, II, n. 90/1992).

Una particolare forma di motivazione indiretta è la c.d. motivazione per relationem a cascata, che si sostanzia nel motivare un provvedimento mediante il rinvio ad altro atto la cui motivazione è, a sua volta, per relationem. Tale assetto motivazionale, invero, è ritenuto pacificamente violativo del principio di buona amministrazione e di snellimento dell'azione amministrativa (Franchini, Lucca, Tessaro, 223).

La circostanza che l'atto richiamato non sia messo nell'immediata disponibilità del destinatario può però incidere sul decorso dei termini decadenziali, nel senso che il dies a quo per l'impugnazione decorre dalla conoscenza del contenuto dell'atto richiamato, là dove l'effettiva lesività ed illegittimità della statuizione provvedimentale si colga solo attraverso l'esame di quest'ultimo.

Quanto all'ambito di applicazione della motivazione per relationem, se ne ammette l'utilizzo anche con riferimento ai provvedimenti emanati dall'amministrazione tributaria; in tema di accertamento dell'IVA, infatti, è stato ritenuto legittimo l'avviso di rettifica motivato per relationem a un processo verbale di constatazione riferito a documenti rinvenuti presso terzi e resi conoscibili al contribuente, mediante l'allegazione del relativo prospetto riepilogativo (Cass. n. 13486/2009).

È ammissibile la c.d. «motivazione implicita»?

Il medesimo principio che soggiace alla ammissibilità della motivazione per relationem, per il quale l'obbligo di motivazione non impedisce di ricercare le ragioni complessive della decisione in ogni atto del procedimento, presidia, secondo la giurisprudenza, la c.d. «motivazione implicita», ove la motivazione è rinvenibile in via interpretativa dall'indicazione della causa e da tutto il contenuto dell'atto (Cons. St. V, n. 1110/1995; T.A.R. Piemonte, II, n. 102/1995).

Tale impostazione, tuttavia, non può essere condivisa: poiché in tal modo si privano tanto il destinatario dell'atto che la collettività della conoscenza dell'iter logico-giuridico che sottende la decisione, non desumibile neppure da altri atti richiamati, esplicitanti ex pressis verbis la motivazione (cfr. Cons. St. V, n. 3875/2011).

È evidente, pertanto, come viene in tal modo frustrato e di fatto vanificato l'intero spirito dell'art. 3, impedendo sia la piena tutela dei destinatari dell'atto, sia il controllo diffuso della collettività sull'azione amministrativa (Franchini, Lucca, Tessaro, 228).

È ammissibile una motivazione non contestuale?

Un problema assai delicato è poi quello che concerne la possibilità che la p.a. integri ex post la motivazione di un suo provvedimento.

Ammettere tale possibilità tout court significherebbe svilire il significato di trasparenza della norma, ai soli fini strumentali di evitare l'impugnazione del provvedimento, in ossequio al principio di certezza dei rapporti: per tale ragione è opportuno, in linea con quanto affermato da parte della giurisprudenza, limitare la possibilità della p.a. di modificare od integrare la motivazione di un proprio atto, in applicazione della propria attività discrezionale, «solo ove tali modificazioni od integrazioni avvengano entro un congruo e non lungo periodo di tempo, per non pregiudicare la certezza dei rapporti e comunque, non oltre l'eventuale impugnazione degli atti stessi» (T.A.R. Lombardia, n. 272/1994).

È di tutta evidenza come si tratti di una problematica assai delicata, posto che ammettere una incondizionata facoltà delle p.a. di modificare la motivazione ridurrebbe drasticamente la funzione di garanzia della norma, degradando la motivazione a mera clausola di stile (Franchini, Lucca, Tessaro, 229). Cons. St. VI, n. 3385/2021 ha ammesso la convalidabilità amministrativa dei vizi estrinseci della motivazione nel corso del processo, senza tuttavia affrontare di petto il tema dell'integrabilità processuale della motivazione. Vedi infra.

Quali sono i rapporti tra integrazione postuma della motivazione e convalida del provvedimento?

Molto si è discusso, inoltre, in relazione ai rapporti tra integrazione postuma della motivazione e potere della p.a. di convalidare il provvedimento viziato nelle more di un processo impugnatorio dello stesso atto, atteggiandosi come due strumenti concretamente molto simili.

L'art. 6 della l. 18 marzo 1968 n. 249, ha affermato la sussistenza del potere per la p.a. di convalidare un atto amministrativo in pendenza di un giudizio impugnatorio solo con riguardo al vizio di incompetenza. Da ciò si è tratto argomento per affermare che, nel silenzio della legge, non possa riconoscersi all'amministrazione analogo potere nel caso di vizio di difetto di motivazione. Quest'ultima, infatti, deve necessariamente precedere e non seguire il provvedimento amministrativo, posto che, altrimenti, la p.a. finirebbe con l'eludere le garanzie che sono predisposte a tutela del cittadino leso dal provvedimento e frustrerebbe l'interesse del ricorrente ad ottenere una decisione di annullamento del provvedimento viziato (Cons. St. VI, n. 5727/2021; T.A.R. Lombardia, Milano III, n. 5521/2004; Cons. St. IV, n. 5422/2000; Cons. St., Ad. plen., n. 6/1991).

In definitiva, deve conclusivamente osservarsi che l'integrazione del provvedimento in corso di causa non può equipararsi tout court ad un nuovo provvedimento: consentire alla p.a. di giustificare il proprio operato ex post può comportare effetti dirompenti sul crinale della tutela del cittadino, poiché possono mutare nel tempo le situazioni di fatto e di diritto di cui un provvedimento successivo deve necessariamente tener conto. Si protrarrebbe, inoltre una situazione di eterna incertezza ed indeterminatezza, essendo possibile la modifica dopo anni dell'oggetto di un giudizio. Pertanto, l'unico margine per l'integrazione postuma della motivazione appare risiedere nella categoria degli atti vincolati, in ragione vuoi del mutamento di approccio del processo amministrativo, sempre più orientato, in assenza di attività amministrativa discrezionale, ad un giudizio sul rapporto piuttosto che sull'atto, vuoi dell'esistenza di una norma, quale quella contenuta nell'art. 21-octies, comma 2, prima parte, che consente di ritenere il difetto di motivazione quale un vizio di natura formale, che ben può non condurre all'annullamento dell'atto, anche in ragione delle giustificazioni addotte dall'amministrazione in corso di giudizio (Cons. giust. sic., n. 402/2006).

Sul tema di rileva da ultimo che, secondo Cons. St. VI 3385/2021, «ai fini della convalida dell'atto viziato da insufficiente motivazione, va posta la distinzione: a) se l'inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale della funzione (in termini di contraddittorietà, sviamento, travisamento, difetto dei presupposti), il difetto degli elementi giustificativi del potere non può giammai essere emendato, tantomeno con un mero maquillage della motivazione: l'atto dovrà comunque essere annullato; b) se invece la carenza della motivazione equivale unicamente ad una insufficienza del discorso giustificativo-formale, ovvero al non corretto riepilogo della decisione presa, siamo di fronte ad un vizio formale dell'atto e non della funzione: in tale caso, non vi sono ragioni per non riconoscersi all'amministrazione la possibilità di tirare nuovamente le fila delle stesse risultanze procedimentali, munendo l'atto originario di una argomentazione giustificativa sufficiente e lasciandone ferma l'essenza dispositiva, in quanto riflette la corretta sintesi ordinatoria degli interessi appresi nel procedimento.

I Magistrati di palazzo Spada hanno nella specie affrontato la questione della conservazione dell'atto amministrativo operata mediante un nuovo atto integrativo della motivazione insufficiente. La dottrina pubblicistica ha sempre ritenuto ammissibile il fenomeno della «convalescenza» dell'atto amministrativo. La possibilità per l'Amministrazione di concludere il riesame del proprio operato con una decisione di carattere conservativo trova fondamento nel principio generale di economicità e conservazione dei valori giuridici e nella garanzia del buon andamento dell'agire amministrativo.

A seconda della specie di vizio da emendarsi, è stata nel corso del tempo elaborata una articolata tassonomia di atti ad esito confermativo, dei quali fanno parte: la conferma, la ratifica, la convalida, la rettifica, la conversione e la sanatoria.

Sul piano della ricostruzione sistematica, l'insieme di tali istituti è stato ricompreso nella categoria dell'autotutela, ovvero della potestà generale dell'amministrazione di prevenire o risolvere le controversie sulla legittimità dei propri atti, inquadrandoli fra i procedimenti di secondo grado. In particolare, la pubblica amministrazione ha la facoltà di convalidare i propri atti affetti da vizi di legittimità, attraverso una manifestazione di volontà intesa ad eliminare il vizio da cui l'atto stesso è inficiato.

Al pari dell'istituto romanistico della convalida del contratto annullabile, la convalida amministrativa trae anch'essa origine dalla necessità di rimediare alla «rottura» del collegamento funzionale tra fattispecie concreta e fattispecie astratta, ma si distingue dall'omonimo istituto civilistico, in quanto: nel diritto privato, la convalida si attua attraverso atti e comportamenti negoziali della parte che potrebbe avvalersi dell'invalidità a proprio vantaggio; nel diritto amministrativo, invece soggetto legittimato alla convalida è colui (l'apparato amministrativo) che intende prevenire o scongiurare l'azione di annullamento della controparte. La l. 11 febbraio 2005, n. 15, ha tipizzato la figura, pur restando tra gli istituti meno studiati in ragione della sua limitata applicazione pratica e giurisprudenziale.

Il comma 2 dell'art. 21-nonies, l. n. 241/1990 fa espressamente «salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole». Per quanto scarna, la proposizione tratteggia la convalida come un istituto di carattere generale, volto a rendere l'atto stabile a tutti gli effetti per i quali è preordinato, ogniqualvolta il pubblico interesse ne richieda il consolidamento.

Sotto altro profilo, la collocazione della norma nel medesimo articolo dedicato all'annullamento d'ufficio, conferma la comune ambientazione dei due istituti nell'ambito dell'autotutela. Tale correlazione appare altresì espressiva di un principio di preferenza per la scelta amministrativa volta alla correzione e alla conservazione – ove possibile – di quanto precedentemente disposto, rispetto all'opzione eliminatoria.

L'ampiezza della formula utilizzata dal legislatore consente di ricomprendere nella convalida anche altre figure giuridiche, pure espressive del fenomeno della convalescenza, quali: i) la sanatoria, ovvero l'effetto che si verifica allorquando un provvedimento viziato per mancanza nel procedimento di un atto preparatorio viene sanato dalla successiva emanazione dell'atto mancante; ii) la ratifica, consistente nell'appropriazione dell'atto, emesso da un organo incompetente (ovvero fornito di una competenza temporanea e occasionale), da parte della Autorità che sarebbe stata competente.

La convalida continua invece a distinguersi, per struttura e funzione, da altri istituti limitrofi e segnatamente: a ) dall'atto meramente confermativo – enucleato dalla giurisprudenza per impedire l'elusione della perentorietà del termine di ricorso – il quale non modifica forma, motivazione e dispositivo del provvedimento confermato (rimasto generalmente inoppugnato); b ) dalla conferma propria, la quale – sebbene connotata dall'apertura di una nuova istruttoria – non è comunque volta a rimuovere alcun vizio; c ) dalla rettifica, avente ad oggetto le difformità che con comportano l'invalidità del provvedimento originario ma solo la sua irregolarità; d ) dalla conversione che tiene fermo l'atto originario sussumendolo però sotto una diversa fattispecie legale.

Sul piano della dinamica giuridica, la convalida non determina una modificazione strutturale del provvedimento viziato (non configurabile neppure logicamente, essendosi la fattispecie stessa già integralmente conclusa), bensì il sorgere di una fattispecie complessa, derivante dalla «saldatura» con il provvedimento convalidato, fonte di una sintesi effettuale autonoma.

L'efficacia consolidativa degli effetti della convalida opera retroattivamente: il provvedimento di convalida, ricollegandosi all'atto convalidato, ne mantiene fermi gli effetti fin dal momento in cui esso venne emanato (si tratta di una opinione risalente quantomeno a Cons. St. V, 21 luglio 1951, n. 682). La decorrenza ex tunc è connaturale alla funzione della convalida di eliminare gli effetti del vizio con un provvedimento nuovo ed autonomo. È questa la principale differenza rispetto alla rinnovazione dell'atto che invece non retroagisce per conservarne gli effetti fin dall'origine. La retroattività della convalida trova tuttavia un importante limite nelle ipotesi in cui l'esercizio del potere sia sottoposto ad un termine perentorio, scaduto il quale anche il potere di convalida viene necessariamente meno.

Sul piano della struttura, il legislatore conferma che la convalida ha un contenuto positivo e non si sostanzia nella mera rinunzia a far valere la potestà di auto-annullamento (come pure in passato teorizzato da alcuni autori).

Il legislatore non ha voluto tuttavia irrigidire i requisiti di forma-contenuto dell'atto: pare quindi superato quell'orientamento giurisprudenziale che, in analogia con le disposizioni del codice civile, riteneva che la convalida dovesse necessariamente contenere l'espressa menzione dell'atto da convalidare, del vizio che lo inficia, e la chiara manifestazione della volontà di eliminare il vizio. Appare infatti sufficiente che, dal tenore complessivo, si desuma che la «causa» dell'atto è quella di dare stabilità e sicurezza a un atto invalido, in quanto la situazione, che da esso è derivata, ne richiede il consolidamento (e dunque «sussistendone le ragioni di interesse pubblico»). La norma, analogamente a quanto disposto per l'annullamento d'ufficio, richiede che l'esercizio del potere di riesame avvenga entro un termine ragionevole. Peraltro, è interessante notare come lo stesso trascorrere del tempo possa contribuire a corroborare il legittimo affidamento del privato che dal provvedimento invalido abbia ricavato delle utilità (circostanza, come noto, ostativa all'esercizio dei poteri di auto-annullamento ai sensi dell'art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990).

Ciò posto in via generale, e venendo al principale nodo problematico rilevante ai fini del decidere: l'emendabilità tramite l'atto di convalida del vizio di motivazione, in termini generali e nel corso del giudizio già instaurato per il suo annullamento.

Non si vi sono dubbi circa la possibilità di emendare i vizi di tipo formale e procedimentale, ivi compreso quello di incompetenza (relativa). Deve ritenersi possibile per la pubblica amministrazione anche di procedere alla convalida di un provvedimento non annullabile ai sensi del citato comma 2 dell'art. 21-octies (la cui regola si muove sul piano processuale), sebbene in tal caso l'utilità giuridica consista al più soltanto in una maggiore certezza e stabilità del rapporto amministrativo. Non sono invece sanabili i vizi che possono definirsi «sostanziali» – derivanti cioè dall'insussistenza di un presupposto o requisito di legge, ovvero dall'irragionevolezza e non proporzionalità del decisum – rispetto ai quali la semplice dichiarazione dell'Amministrazione di volerli convalidare non può che rimanere priva di effetto.

La convalida, in questi casi, non potrebbe mai assicurare il permanere, senza alterazioni, della parte dispositiva del provvedimento su cui intende operare. Se infatti l'illegittimità attiene al contenuto dell'atto, la stessa può essere eliminata solo attraverso la sua riforma (spunti in tal senso si traggono, sia pure nel diverso contesto della c.d. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, nella decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 del 2020).

Sono così poste le basi per comprendere entro quali limiti è possibile convalidare – ossia sottrarre al rimedio dell'annullamento (e dell'auto annullamento) – il vizio di insufficiente motivazione.

Il Consiglio si è posto anche il problema della convalida in corso di giudizio. Nel vigore del modello processuale amministrativo primigenio – in cui la res litigiosa era tutta incentrata «sull'atto» –, si è sempre ritenuta ineludibile condizione di ammissibilità della convalida la circostanza che non fosse pendente l'impugnativa dell'atto da convalidare. Se infatti – si diceva – la convalida valesse ad impedire l'annullamento dell'atto invalido in pendenza di una impugnativa giurisdizionale, l'Autorità finirebbe con l'eludere le garanzie predisposte a tutela del cittadino leso dal provvedimento, il quale «ha acquisito il diritto a ottenere una decisione di annullamento del provvedimento viziato».

A tale assunto, si faceva eccezione soltanto per il caso del vizio di incompetenza in virtù dell'espressa previsione contenuta nell'art. 6, l. n. 249 del 1968 – secondo cui «Alla convalida in corso di giudizio degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale» – norma ritenuta dai più espressiva di un principio generale, come tale applicabile per analogia anche ad altri casi affini.

Sennonché, le ragioni di tale preclusione sono totalmente venute meno nell'impianto del nuovo processo amministrativo.

n primo luogo, al privato è oramai riconosciuta la possibilità di impugnare, mediante la proposizione di motivi aggiunti, tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti e connessi all'oggetto del ricorso stesso.

L'interessato, quindi, nel corso del medesimo giudizio, ben potrà domandare, sia l'annullamento dell'atto di convalida perché autonomamente viziato – contestandone quindi la stessa «ammissibilità» –, sia l'annullamento dell'atto come convalidato, adducendone la persistente illegittimità. Questa soluzione è inoltre conforme a principi di effettività e concentrazione della tutela (art. 7, comma 7, c.p.a.), i quali postulano il massimo ampliamento del contenuto di accertamento del giudicato amministrativo. Tale canone processuale si realizza facendo confluire all'interno dello stesso rapporto processuale – per quanto possibile – tutti gli aspetti della materia controversa dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita, evitando defatiganti parcellizzazioni della medesima disputa. Quando l'Amministrazione conserva intatto il potere di riemanare un provvedimento con dispositivo identico a quello che risulterebbe annullato per mero difetto di motivazione – in quanto il giudicato non ha potuto accertare la spettanza del provvedimento favorevole –, la combinazione di convalida (la quale può essere spontanea, ovvero occasionata da un ‘remand' o da una richiesta di chiarimenti del giudice) e motivi aggiunti avverso l'atto di ri-esercizio del potere è in grado di accrescere le potenzialità cognitive dell'azione di annullamento, consentendo di focalizzare l'accertamento, per successive approssimazioni, sull'intera vicenda di potere (diversa è l'ipotesi in cui venga contestato un atti non ripetibile, giacché in tal caso, come si è detto sopra, la convalida non avrebbe effetto retroattivo).

Il predetto dispositivo di concentrazione – coniugando l'inesauribilità del potere amministrativo con il diritto di difesa – agevola entrambe le parti del giudizio, in quanto: consente al ricorrente una più rapida ed efficace verifica della sua possibilità di risultato vantaggioso (perseguita attraverso la deduzione di un vizio strumentale come il difetto di motivazione); consente all'amministrazione di evitare annullamenti del tutto «sovradimensionati» rispetto alla reale consistenza dell'interesse materiale del privato, potendo dimostrare che l'insufficiente motivazione non ha alterato la fondatezza sostanziale della decisione.

Nei procedimenti ad istanza di parte, la definizione positiva (e non parentetica) del conflitto sarà peraltro agevolata dalla nuova regola di preclusione procedimentale di cui all'art. 10 -bis , l. n. 241 del 1990 (come novellato dall'art. 12, comma 1, lettera e, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120), secondo cui «In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell'esercitare nuovamente il suo potere l'amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall'istruttoria del provvedimento annullato».

Tale precetto che impone alla pubblica amministrazione di esaminare l'affare nella sua interezza – già nella fase del procedimento (e non solo nel processo, come la giurisprudenza già riteneva in alcune ipotesi: cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1321 del 2019), sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora esaminati – dovrà trovare attuazione, per evidenti ragioni sistematiche (e per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida per difetto di motivazione.

Ha ancora chiarito la Sezione che l'ammissibilità, nei limiti anzidetti, di una motivazione successiva non comporta una ‘dequotazione' dell'obbligo motivazionale, sussistendo adeguati disincentivi alla sua inosservanza: sul piano individuale, perché restano ferme le ricadute negative sulla valutazione della performance del funzionario; sul piano processuale, in quanto il giudice potrà accollare (in tutto o in parte) le spese di lite all'Amministrazione che (pur non soccombente, cionondimeno) abbia con il suo comportamento dato scaturigine alla controversia.

Per la trattazione del tema con specifico riferimento alla convalida del provvedimento si rinvia anche al commento sub art. 21-nonies.

È ammissibile l'integrazione della motivazione in corso di causa?

Il tema dell'integrazione postuma della motivazione costituisce attualmente uno degli argomenti maggiormente discussi in subiecta materia.

Lo studio della questione, tuttavia, richiede una preliminare analisi della problematica relativa ai c.d. «vizi non invalidanti», introdotti nell'ordinamento exart. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990.

Si tratta di una innovazione normativa avutasi per effetto della l. n. 15 del 2005 (introduttiva del citato art. 21-octies), con cui il Legislatore, al fine di alleggerire l'eccessivo formalismo imposto all'Amministrazione, ha scelto di risparmiare dalla censura dell'invalidità quei provvedimenti che, nonostante il mancato rispetto delle norme sul procedimento amministrativo, non avrebbero potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto assunto.

Sono due i casi in cui il pur «viziato» provvedimento amministrativo non è annullabile; tali casi sono appunto indicati in maniera espressa dal secondo comma dell'art. 21-octies, che si articola in due complessi alinea:

- il primo alinea è dedicato alla «non annullabilità del provvedimento vincolato» e stabilisce in particolare che «Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»;

- il secondo alinea, invece, ha portata più ampia, riferendosi sia ai provvedimenti vincolati che a quelli discrezionali, disponendo quindi che «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».

Dal richiamato dato normativo si evince che, ai sensi del primo alinea della suddetta norma, sono necessarie tre condizioni ai fini della non annullabilità del provvedimento amministrativo pur viziato: 1) che siano violate norme sul procedimento o sulla forma degli atti; 2) che il provvedimento abbia carattere vincolato; 3) che sia palese che il contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello adottato.

In base al secondo alinea della norma, invece, la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento (stabilito dall'art. 7 della l. n. 241/1990) può condurre alla non annullabilità del provvedimento solo se l'amministrazione dimostri in giudizio la non incidenza del suddetto vizio sul contenuto del provvedimento.

È evidente l'innovativa portata applicativa della richiamata norma: nel momento in cui positivizza la eccezionale deroga al principio di legalità dell'azione amministrativa, al contempo l'art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990, sancisce per la prima volta il principio della prevalenza della correttezza sostanziale dell'atto sull'illegittimità formale, assegnando al giudice il compito di penetrare il rapporto tra Amministrazione e cittadino per accertare la sussistenza di una effettiva lesione del bene della vita sotteso alla pretesa del privato. Il rischio, però, è quello di trasferire nella sede giudiziale delle dinamiche tipicamente procedimentali, trasformando il processo in una officina di riparazione del procedimento amministrativo.

È proprio questo ciò che potrebbe accadere con riferimento al vizio della motivazione, in relazione al quale ci si deve pertanto interrogare, in prima battuta, circa la possibilità che il vizio della motivazione si traduca sostanzialmente in un «vizio non invalidante».

Tale situazione va diversamente considerata a seconda che sia discrezionale o vincolato il provvedimento viziato.

Con un ragionamento valido per iprovvedimenti vincolati (ed a maggior ragione applicabile anche ai provvedimenti discrezionali), il Consiglio di Stato ha recentemente affermato che il difetto di motivazione del provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del provvedimento il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti (Cons. St. III, n. 1629/2014).

A fronte della decisa presa di posizione da parte dei Giudici di Palazzo Spada, si registra tuttavia un opposto orientamento (pure recentemente sposato dallo stesso Consiglio di Stato: Cons. St. IV, n. 1018/2014) che, almeno con riferimento al difetto di motivazione dei provvedimenti c.d. «vincolati», ritiene ammissibile l'integrazione ex post della motivazione nel corso del giudizio instaurato innanzi al G.A. volto a far valere l'annullamento dell'atto impugnato per violazione di legge.

Il quadro interpretativo diviene ben più articolato allorquando si discorre della carenza di motivazione dei provvedimenti discrezionali.

Secondo un primo orientamento, non è ammissibile una sanatoria giudiziale del provvedimento discrezionale carente di motivazione: si tratta di un indirizzo che si pone in linea con quello recentemente espresso dal Consiglio di Stato con la sopra citata sentenza n. 1629/2014, sviluppando altresì i seguenti argomenti giustificativi. In primo luogo, si valorizza (per vero anacronisticamente) la struttura impugnatoria e demolitoria del giudizio amministrativo, tradizionalmente configurato come giudizio sull'atto. In secondo luogo, si sostiene che, diversamente opinando, risulterebbe violato il principio di parità delle armi tra privato e P.A., dal momento che il ricorrente rischierebbe di apprendere solo nel corso del giudizio le ragioni del provvedimento, non contestate con il ricorso, con conseguente innalzamento del pericolo di soccombenza.

Secondo un'altra tesi, deve viceversa ritenersi ammissibile l'integrazione ex post della motivazione di un provvedimento già oggetto di ricorso, e deve quindi riconoscersi all'amministrazione resistente la possibilità di rappresentare in giudizio ulteriori circostanze ostative all'accoglimento dell'istanza.

Questo indirizzo interpretativo fa leva su due argomenti, uno di carattere esegetico e l'altro di carattere normativo.

Per un verso, infatti, si osserva che l'entrata in vigore dell'art. 21-octies l. n. 241/1990 ha segnato l'evoluzione del processo amministrativo, da processo sull'atto a processo sul rapporto (e quindi a processo sulla fondatezza della pretesa): il descritto processo evolutivo, peraltro, si è ulteriormente consolidato in seguito all'entrata in vigore del Codice del Processo amministrativo. Per questa via si afferma che, stante la citata evoluzione del processo amministrativo, il cittadino che chiede l'annullamento giurisdizionale di un provvedimento per difetto di motivazione non ha interesse alla mera sanatoria della motivazione, dal momento che il provvedimento viene impugnato solo al precipuo fine di ottenere, attraverso l'annullamento dello stesso, il bene della vita cui egli aspira. Sicché, all'amministrazione deve essere riconosciuta la possibilità di produrre in giudizio ogni elemento idoneo a dimostrare l'infondatezza della pretesa privata, e conseguentemente le ragioni di diritto che sostengono la legittimità del provvedimento impugnato.

Per altro verso, si rammenta che già con la l. n. 205 del 2005 il legislatore ha consentito al ricorrente di utilizzare lo strumento dei motivi aggiunti al fine di contestare le ulteriori motivazioni addotte dall'amministrazione in corso di giudizio (T.A.R. Abruzzo, Pescara, n. 155/2007): tale strumento di tutela processuale risulta attualmente confermato dalla disciplina di cui all'art. 43 del c.p.a.

Una volta ricostruito il quadro interpretativo relativo al tema dell'integrazione postuma della motivazione, si deve dare conto della posizione assunta, proprio di recente, dal Consiglio di Stato con la già citata sentenza Cons. St. IV, n. 1018/2014.

Nella specie, richiamando l'orientamento interpretativo prevalente (Cons. St. V, n. 4194/2013), il Consiglio ha rilevato che, nel giudizio amministrativo, il divieto di integrazione della motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all'art. 21-octies l. n. 241 del 1990, nei quali l'Amministrazione può dare anche successivamente l'effettiva dimostrazione in giudizio dell'impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell'atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale.

Per questa via, il Consesso ha sottolineato quindi come sia insegnamento tradizionale e consolidato quello in base al quale, nel processo amministrativo, la motivazione deve precedere e non seguire il provvedimento, a tutela oltre che del buon andamento e dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario, degli stessi principi di parità delle parti e giusto processo (art. 2 c.p.a.) e di pienezza della tutela secondo il diritto Europeo (art. 1 c.p.a.), i quali convergono nella centralità della motivazione quale presidio del diritto costituzionale di difesa: ciò nonostante, non può ritenersi che l'Amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato o si verta in ipotesi di attività vincolata (cfr. Cons. St. V, n. 4610/2012 e IV, n. 3376/2012).

Così opinando, il Consiglio di Stato ha concluso nel senso che, alla luce dell'attuale assetto normativo, devono essere attenuate le conseguenze del principio del divieto di integrazione postuma, dequotando il relativo vizio nei tre seguenti casi: 1) quando l'omissione di motivazione successivamente esternata non abbia leso il diritto di difesa dell'interessato; 2) nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all'emissione del provvedimento gravato; 3) nei casi di atti vincolati.

Sul punto va segnalata altresì pronuncia del T.A.R. Reggio Calabria, I, n. 927/2016 che, in tema di interdittive antimafia, ha ribadito il principio dell'ammissibilità della motivazione per così dire, in progress delle determinazioni prefettizie, mediante gli accertamenti eseguiti dalle Forze dell'Ordine; è, infatti, ammissibile, ed anzi, in un certo senso, fisiologico, che l'emersione dei fatti e degli atti a supporto della informativa stessa avvenga, per così dire, in progress, anche mediante produzioni documentali successive in corso di giudizio. Invero, gli atti su cui si basano le informative negative attengono per lo più a fasi infraprocedimentali non pubbliche ed anzi connotate da ontologici profili di riservatezza se non segretezza. È dunque gioco forza che la stessa Prefettura non abbia la pronta disponibilità dell'atto a supporto ai fini di una subitanea ostensione procedimentale o processuale che sia, ma sia spesso costretta a dare luogo ad una progressiva discovery che non può non svilupparsi anche in un sensibile arco temporale. Né ciò integra il divieto di integrazione postuma della motivazione. Le circostanze a supporto dell'atto già esistono ab origine e su di esse si fonda la determinazione volitiva dell'amministrazione, non ravvisandosi nella successiva emersione alcun momento novativo rispetto al procedimento messo in essere dalla Prefettura ed al suo (già intervenuto) esito finale.

In definitiva, secondo l'orientamento prevalente (Cons. St. IV, n. 5401/2021) nel processo amministrativo l'integrazione in sede giudiziale della motivazione dell'atto amministrativo è ammissibile soltanto se effettuata mediante gli atti del procedimento – nella misura in cui i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della determinazione assunta – oppure attraverso l'emanazione di un autonomo provvedimento di convalida. È invece inammissibile un'integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi.

In forza della stessa ratio si ritiene che al giudice non sia consentita la formulazione di argomentazioni a sostegno del provvedimento impugnato che ne alterino o ne modifichino l'impianto argomentativo atteso che la motivazione di un atto costituisce il contenuto insostituibile della decisione amministrativa (Cons. St. V, n. 2762/2020).

È ammissibile l'intervento di un nuovo provvedimento in corso di giudizio?

Altra ipotesi problematica ricorre nel caso in cui, nel corso di un giudizio sulla legittimità di un provvedimento carente sotto il profilo motivazionale, la P.A. adotti un nuovo provvedimento, supportato da congrua motivazione, inteso a negare nuovamente il bene della vita richiesto dal privato.

Il tradizionale indirizzo giurisprudenziale, contrario alla possibilità di integrare la motivazione del provvedimento impugnato dinanzi al giudice amministrativo, ritiene di estendere, anche in ordine alla possibilità di emanare un successivo provvedimento in autotutela, le argomentazioni critiche sviluppate in precedenza (Cons. St. IV, n. 2261/2021).

In particolare, l'ostacolo che veniva opposto all'ammissibilità di interventi provvedimentali in sanatoria in pendenza di giudizio traeva origine per lo più dalla struttura impugnatoria del processo amministrativo. Difatti, l'emanazione di un nuovo provvedimento amministrativo in sanatoria avrebbe stravolto la posizione di parità delle parti, ponendo autoritativamente fine alla controversia in atto e costringendo il privato ad impugnare il nuovo provvedimento, mettendo così in moto un meccanismo a corto circuito teso a svuotare la garanzia giurisdizionale di ogni contenuto.

Altro orientamento ( T.A.R. Lazio, Roma I, n. 398/2002 ), si è discostato dalla tesi negativa fin qui descritta, ritenendo ammissibile che l'amministrazione resistente possa integrare la motivazione in giudizio per mezzo di un nuovo provvedimento emanato in sede di autotutela. Il giudice di prime cure argomenta facendo sostanzialmente leva sul superamento della concezione impugnatoria del giudizio amministrativo, il quale si svolge non più attorno all'atto amministrativo, bensì sul rapporto (conf. Cons. St. IV, n. 1054/2003; T.A.R. Campania, Napoli VII, n. 6460/2007; T.A.R. Campania, Napoli VII, n. 6054/2007; T.A.R. Campania, Napoli I, n. 4051/2006).

D'altra parte, le conclusioni rassegnate dall'orientamento in parola trovano conferma nel nuovo disposto dell'art. 21-octies. In tal senso, vedi T.A.R. Abruzzo, Pescara, n. 323/2007, che ha osservato che «Dal momento che, in relazione a quanto disposto dall'art. 21-octies, l. 7 agosto 1990 n. 241, così come modificata dalla l. 11 febbraio 2005 n. 15, non può disporsi l'annullamento di un atto tutte le volte in cui sia palese che il suo contenuto dispositivo non sarebbe stato diverso da quello in concreto adottato, in corso di giudizio è oggi possibile per l'amministrazione integrare la motivazione dell'atto impugnato ed il ricorrente, ove ritenga di contestare la legittimità anche di tale integrazione della motivazione, deve proporre motivi aggiunti. Per cui ove l'amministrazione abbia integrato con un nuovo atto nel corso del giudizio la motivazione dell'atto impugnato ed ove l'interessato non abbia contestato con motivi aggiunti tale nuovo atto di integrazione della motivazione, evidenti ragioni di economia processuale impediscono di annullare l'atto per difetto di motivazione, atteso che il provvedimento, per tale mancata impugnativa del nuovo atto, non avrebbe potuto avere un esito diverso».

Si osserva, inoltre, che una volta demolito il dogma della irrisarcibilità degli interessi legittimi anche a fronte di interessi pretensivi, appare naturale che la P.A. debba essere posta in condizioni tali da poter esercitare un ampio ius poenitendi. Diversamente, sarebbe violato il principio della parità tra le parti del processo, posto che la P.A. non sarebbe messa in condizioni di dimostrare che, nonostante l'illegittimità del provvedimento di diniego, il privato non ha titolo al bene della vita a questo sotteso.

Questa tesi che presuppone ovviamente la permanenza in capo all'amministrazione del potere di provvedere trova ulteriore supporto in quella giurisprudenza che distingue tra l'atto meramente confermativo e il nuovo provvedimento, secondo la quale non si può considerare meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco, e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione (cfr. ex plurimis, Cons. St. V, n. 716/2020).

Ulteriore argomento a sostegno dell'opzione giurisprudenziale in questione, si ricava dalla consolidata struttura del processo ammnistrativo (art. 43, comma 1, c.p.a.) che prevede la possibilità di proporre motivi aggiunti con riferimento a tutti i provvedimenti adottati tra le stesse parti in pendenza di giudizio, connessi all'oggetto del ricorso.

Il difetto di motivazione costituisce vizio non invalidante dell'atto ex art. 21-octies?

Il tema in esame, peraltro, deve essere necessariamente rimeditato alla luce del nuovo dettato dell'art. 21-octies l. n. 241/1990, introdotto dalla novella del 2005. L'articolo in questione, invero, prevede la non annullabilità del provvedimento amministrativo ove esso sia inficiato da vizi meramente formali, che di fatto non incidono sul contenuto dell'atto (c.d. «vizi non invalidanti»: vedi commento sub art. 21-octies).

La nuova disciplina sui vizi formali e procedimentali ha ingenerato la convinzione che sia stata in tal modo introdotta nell'ordinamento la possibilità della motivazione postuma, considerando in tali ipotesi il difetto di motivazione un vizio meramente formale, inidoneo a comportare l'illegittimità del provvedimento, anche sulla scorta di quanto già affermato dalla giurisprudenza amministrativa in riferimento agli atti vincolati.

Secondo l'orientamento prevalente, però, la motivazione del provvedimento amministrativo rappresenta il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti, non potendo perciò il suo difetto o la sua inadeguatezza essere in alcun modo assimilati alla mera violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma (Cons. St. VI, n. 4887/2021; Cons. St. VI, n. 2001/2021).

La questione, quindi, si intreccia inevitabilmente con il tema trattato nei paragrafi precedenti, posto che ritenere il difetto di motivazione un vizio non invalidante significa, come già accennato, consentirne una integrazione postuma. Per tale ragione, evidentemente, la soluzione al problema dell'incidenza dell'art. 21-octies sull'art. 3 l. n. 241/1990 non può non uniformarsi a quella relativa all'integrazione postuma della motivazione: deve, quindi, ritenersi che non possa individuarsi una soluzione aprioristica per tutte le ipotesi di difetto di motivazione, dovendosi, invece, valutare di volta in volta l'incidenza della mancanza della motivazione sul contenuto sostanziale dell'atto, verificando, inoltre, se ed in quale misura essa abbia compresso, in chiave di effettività, gli strumenti di tutela azionabili dal privato per l'ottenimento del bene della vita inciso dal provvedimento. Solo ove il difetto di motivazione non si traduca in una illegittimità sostanziale del provvedimento, potrà ritenersi che la mancanza della motivazione costituisca vizio non invalidante ex art. 21-octies.

Il tema, peraltro, non può prescindere dalle peculiarità dell'istituto dei vizi non invalidanti; per tale ragione, il tema viene ulteriormente trattato sub art. 21-octies.

Bibliografia

Chieppa, Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2021; Franchini, Lucca, Tessaro, Il nuovo procedimento amministrativo. Commentario coordinato della legge 241/1990 riformata dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15 e dalla legge 14 maggio 2005n. 80, Padova, 2008; Italia, Bassani, Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti, Milano, 1995; Rota, L'obbligo di motivazione negli atti vincolati, in Cons. Stato, 1993, II, 804; Salvi, Partecipazione della motivazione del provvedimento, in Nuova Rass., 1990, I, 49.

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