Legge - 7/08/1990 - n. 241 art. 21 septies - Nullità del provvedimento 1

Maurizio Francola

Nullità del provvedimento  1

 

1. È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge.

[2. Le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.]  2

[2] Comma abrogato, a decorrere dal 16 settembre 2010, dall'articolo 4, comma 1, numero 14, dell'Allegato 4 al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104.

Inquadramento

L'art. 21-septies, tacitando la pregressa querelle che aveva animato il dibattito pretorio tradizionale, positivizza la fattispecie della nullità del provvedimento amministrativo, all'uopo prevedendo che la mancanza degli elementi essenziali del provvedimento (c.d. nullità strutturale), il difetto assoluto di attribuzione, l'adozione in violazione o elusione del giudicato, nonché gli altri casi espressamente previsti dalla legge, determinino, alternativamente, la nullità del provvedimento.

Si tratta di quattro ipotesi distinte, tutte incidenti sulla validità del provvedimento, cui consegue la qualificazione giuridica della nullità quale forma speciale di invalidità, diversa dall'annullabilità, la quale, invece, si configura quale regola generale di invalidità.

In altre parole, nel diritto amministrativo, «la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi, oggi meglio definiti dal legislatore, in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l'annullabilità del provvedimento costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale in caso di violazione di norme imperative è quella della nullità. [...] Le cause di nullità del provvedimento amministrativo devono quindi oggi intendersi quale numero chiuso» (Cons. St. VI, n. 3173/2007). Al riguardo, peraltro, è doveroso evidenziare come, stante l'enucleazione tassativa delle cause di nullità, la violazione delle norme sul procedimento amministrativo non possa dar luogo a nullità dello stesso procedimento, ma, a seconda dei casi, esclusivamente all'annullabilità del provvedimento conclusivo, ovvero, alla mera irregolarità dello stesso.

Con specifico riferimento alla prima ipotesi di nullità individuata dalla norma (mancanza degli elementi essenziali), in assenza di una specifica disposizione che indichi gli elementi essenziali del provvedimento – sulla scorta di quello che avviene nel diritto privato con l'articolo 1325 del codice civile sugli elementi del contratto – per la loro identificazione è «necessario fare riferimento alle nozioni di derivazione civilistica» (Cons. St. V, n. 4522/2008). Ne deriva che è nulla per mancanza degli elementi essenziali, ad esempio, l'espropriazione di un bene immobile già acquisito dalla Pubblica Amministrazione per mancanza dell'oggetto; ovvero, ancora, è nullo il provvedimento amministrativo carente di sottoscrizione (cfr. Cons. St. VI, n. 2337/2017; Cons. St. VI, n. 105/2017).

Quanto al difetto assoluto di attribuzione, esso viene sostanzialmente a coincidere con «i casi di incompetenza assoluta o di c.d. carenza di potere in astratto, ossia al caso in cui manchi del tutto una norma che attribuisca all'Amministrazione il potere in fatto esercitato» (Cons. St. V, n. 2713/2014; Cons. St. V, n. 45/2017). Difatti, l'istituto della carenza di potere in concreto non può trovare più riconoscimento dopo la generale codificazione dei vizi di nullità dell'atto amministrativo ad opera dell'articolo in commento, tra i quali è stato compreso esclusivamente il difetto assoluto di attribuzione, al punto da doversi «ricondurre nell'alveo dei vizi di annullabilità tutte le ipotesi tradizionalmente ascritte alla carenza di potere in concreto, confinando in quella testualmente prevista di difetto assoluto di attribuzione i casi di mancanza della norma fondante il potere esercitato» (Cons. St. V, n. 5786/2013).

Inoltre, il vizio di violazione o elusione del giudicato, come espressamente sanzionato dal citato articolo 21-septies, è ravvisabile non solo laddove dal giudicato siano ricavabili statuizioni analitiche e puntuali, tali da escludere o ridurre significativamente la discrezionalità dell'Amministrazione nella rinnovazione della propria attività, ma anche nell'ipotesi in cui la P.A. stessa, pur disponendo di un ampio margine di discrezionalità in sede di esecuzione del giudicato, ne faccia uso in modo da riprodurre invariati i medesimi vizi di legittimità già definitivamente accertati nel pregresso giudizio, risultando ininfluente agli effetti della riscontrata elusione del giudicato che, attesa la natura oggettiva del vizio de quo, tale pedissequa riproposizione dei vizi già denunciati sia dovuta a consapevole volontà di violare o eludere il giudicato ovvero a mero fraintendimento dei suoi contenuti (Cons. St. IV, n. 9296/2009).

Infine, la disposizione in commento contiene una specifica clausola di salvaguardia che commina la nullità in tutti gli altri casi «espressamente previsti dalla legge»: è quanto accade, a mero titolo esemplificativo, nel caso di accordi procedimentali non stipulati in forma scritta (art. 11, comma 2, l. n. 241/1990).

La nullità amministrativa prima della riforma del 2005

Sino all'entrata in vigore della l. n. 15/2005, mancava nel nostro ordinamento una previsione normativa che definisse e disciplinasse l'istituto della nullità dell'atto amministrativo; motivo per cui il dibattito dottrinale sull'introduzione, in campo amministrativo, della figura della nullità era piuttosto acceso.

In particolare, l'orientamento dottrinale maggioritario era contrario al riconoscimento di una forma d'invalidità assimilabile alla nullità civilistica, in quanto riteneva che il regime giuridico previsto nel codice civile non riuscisse a conciliarsi con le esigenze proprie del provvedimento amministrativo. Le conseguenze della nullità civile, come l'improduttività di effetti ab origine, la legittimazione assoluta e l'imprescrittibilità dell'azione oltre che la sua rilevabilità d'ufficio, apparivano infatti incompatibili con la necessità di immediata eseguibilità riconosciuta al provvedimento amministrativo, anche illegittimo, con la pretesa natura strumentale o processuale attribuita all'interesse legittimo e, più in generale, con l'esigenza di stabilità dell'atto amministrativo e di continuità dell'azione amministrativa. Secondo tale indirizzo di pensiero, l'unica conseguenza possibile a fronte dell'illegittimità del provvedimento amministrativo era l'annullabilità, peraltro già disciplinata da norme amministrative per determinati vizi ovvero l'inesistenza per le ipotesi abnormi o più gravi di invalidità.

Successivamente emerse la necessità di fornire una tutela maggiore per tutte quelle situazioni in cui il provvedimento amministrativo risultava essere colpito da vizi più gravi. Si trattava delle ipotesi quindi in cui vi era solo l'apparenza di un provvedimento amministrativo ma di questo mancava l'intima essenza, data dal suo collegamento strumentale all'esercizio del potere pubblico.

Venne, pertanto, presa in considerazione l'ipotesi di introdurre in ambito amministrativo la categoria civilistica della nullità.

Tale orientamento ha poi aperto la strada a due correnti dottrinarie, l'una favorevole alla completa sovrapposizione della nullità civilistica a quella introdotta nel diritto amministrativo, l'altra incline a riconoscere alla nullità amministrativa caratteri suoi propri.

Secondo una prima tesi (c.d. teoria negoziale o pandettistica), sorta tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento sulla scorta delle elaborazioni della dottrina tedesca, il regime della nullità amministrativa, in mancanza di una disciplina o formazione specifica, doveva tout court mutuarsi da quella prevista dal Codice civile in materia di negozio giuridico. Pertanto nel diritto amministrativo trovavano spazio le medesime tipologie di nullità contemplate dall'art. 1418 del codice civile: le nullità testuali, che discendono dalla violazione di norme specificamente assistite da un'espressa sanzione di nullità; le nullità strutturali, che derivano dalla mancanza, dall'impossibilità o dall'illiceità di uno dei requisiti essenziali del provvedimento; le nullità virtuali, scaturenti dalla violazione di norme imperative non assistite da diversa sanzione (Susca,12).

Ne derivava che la nullità amministrativa, al pari di quella civilistica, era rilevabile nelle ipotesi in cui l'atto mancasse degli elementi essenziali – quali la forma, la volontà, l'oggetto, il destinatario, l'autorità emanante, la data, il dispositivo (Cons. St. V, n. 1275/2003; Cons. St. V, n. 1992/2003) – ovvero fosse emanato in carenza di potere (Cons. St. VI, n. 948/1999). In ogni caso, la nullità era rilevabile nelle ipotesi in cui fosse prevista da un'espressa disposizione normativa (Cons. St. V, n. 166/1998).

L'applicabilità della disciplina civilistica, comportava, inoltre, l'imprescrittibilità dell'azione di accertamento della nullità, la sua rilevabilità d'ufficio, la legittimazione attiva da parte di chiunque vi abbia interesse, nonché l'estensione della nullità parziale (Cerulli Irelli, 10); Cons. St. V, n. 166/1998; Cons. St., Ad. plen., n. 5/1992).

Al contrario, l'opposta tesi (c.d. autonomistica o panpubblicistica), invero maggioritaria, rivendicava l'autonomia del diritto amministrativo rispetto alla disciplina civilistica, con la conseguenza che, in mancanza di un'espressa previsione che istituisse e disciplinasse la nullità amministrativa, doveva negarsi in radice l'esistenza stessa dell'istituto, posto che l'unica forma d'invalidità dell'atto amministrativo espressamente prevista dall'ordinamento doveva individuarsi nell'annullabilità. Per le patologie più gravi inficianti l'atto, poteva farsi ricorso all'istituto dell'inesistenza (Piras, 16).

Tale orientamento dottrinale, inoltre, pur ammettendo di poter estendere le disposizioni contenute nel codice civile al provvedimento amministrativo, individuava un limite nell'impossibilità di includere la disciplina concernente le nullità strutturali e virtuali.

A tale conclusione la tesi in parola giungeva in considerazione della natura necessariamente cogente ed indisponibile delle norme che disciplinano l'azione amministrativa, in ossequio ai principi costituzionali di buon andamento e di efficienza di cui all'art. 97 Cost.. D'altra parte, affermare l'applicabilità tout court della disciplina civilistica, comportava di fatto la trasformazione delle fattispecie di annullabilità per violazione di legge in ipotesi di nullità, in aperto contrasto con il disposto degli artt. 26 T.U. Cons. St. e 2 l. Tar.

I sostenitori della tesi autonomistica ponevano alla base del loro ragionamento la divergenza di disciplina tra i vizi dell'atto amministrativo e i vizi del negozio: nel diritto amministrativo l'esigenza prioritaria è quella di assicurare la stabilità dell'azione amministrativa che altrimenti resterebbe perennemente precaria ed incerta e potrebbe in ogni tempo essere rimessa in discussione.

Questa tesi, alla quale pure deve riconoscersi il merito di aver sottolineato l'autonomia concettuale e dogmatica del diritto amministrativo rispetto a quello civile, tuttavia, è stata oggetto di un progressivo ripensamento.

La giurisprudenza, invero, facendo leva sul sempre maggior numero di nullità testuali introdotte dal legislatore, ha iniziato (a partire dalle pronunce della Cassazione in tema di nullità degli atti di spesa dell'amministrazione comunale privi dell'indicazione della copertura finanziaria fino alla storica pronuncia dell'Adunanza Plenaria del 19 marzo 1984, n. 6, che ha dichiarato nullo per carenza di potere in concreto il provvedimento elusivo del giudicato) ad accettare l'istituto della nullità quale possibile patologia a danno dell'atto amministrativo, sino a ritenere che le specifiche norme settoriali che disciplinavano la nullità si riferissero a tale istituto in via «tecnica» (Cons. St., Ad. plen., 29 febbraio 1992, nn. 1 e 2). Al riconoscimento di autonoma dignità all'istituto si è pervenuti anche sulla base della considerazione che la lesione portata all'interesse pubblico non sarebbe adeguatamente contrastata dalla disciplina sull'annullabilità degli atti, per mancanza di soggetti legittimi e per la presenza di un interesse particolare dell'amministrazione a trarre vantaggio dallo stesso atto nullo.

Questo iter interpretativo è stato poi definitivamente consacrato nell'introduzione nella legge sul procedimento di una norma ad hoc che ha espressamente riconosciuto e disciplinato la nullità amministrativa, quale istituto concettualmente autonomo rispetto alla tradizionale annullabilità per illegittimità del provvedimento amministrativo.

La carenza di potere per colmare la lacuna normativa

Sino all'entrata in vigore della l. n. 15/2005 la lacuna normativa in materia di nullità viene colmata dall'elaborazione dottrinale e pretoria, la quale, tuttavia, non può non confrontarsi con la tematica della carenza di potere, sulla quale si sono registrate nel tempo notevoli incertezze, in ordine sia ai suoi esatti confini sia al tipo di patologia che ne deriva.

Il concetto di carenza di potere risale alla pronuncia con la quale la Cassazione, al fine di ampliare l'area di giurisdizione spettante al g.o., statuì che il provvedimento adottato in carenza di potere è inidoneo ad affievolire l'originaria consistenza del diritto, in quanto l'autorità emanante è sfornita della relativa potestà (Cass. S.U., n. 1657/1949). Il potere è carente quando l'atto è emanato da un'amministrazione totalmente priva del potere di adottarlo, o perché il potere di provvedere appartiene ad un'amministrazione radicalmente diversa, oppure perché si tratta di un potere precluso ad ogni amministrazione e riservato ad un altro potere dello Stato. In questi casi si verte in un'ipotesi di carenza in astratto, per distinguerla da quella, successivamente ideata dalla stessa Corte di Cassazione, della c.d. carenza in concreto, che ricorre quando il potere amministrativo, pur essendo in astratto attribuito alla P.A., non può in concreto essere esercitato a causa di una preclusione legislativa.

La figura della carenza in concreto, in realtà, non ha mai incontrato il favore unanime della dottrina e della giurisprudenza amministrativa, ed è stata aspramente criticata soprattutto per la confusione che essa ingenera fra condizioni di esistenza e condizioni di esercizio del potere amministrativo (Mazzarolli, 245; Nicosia, 177; Villata, 383).

Anteriormente alla legge di riforma n. 15/2005, sono emerse opinioni contrastanti in merito alla tipologia di invalidità che avrebbe dovuto colpire l'atto viziato da carenza di potere.

Secondo la teoria autonomistica, che disconosce in toto la nullità nel diritto amministrativo, la carenza di potere non poteva non integrare un'ipotesi di inesistenza dell'atto amministrativo. Infatti un provvedimento, per essere qualificato tale, deve essere adottato da una p.a. dotata del relativo potere, con la conseguenza che un provvedimento emanato in assenza del potere è un non-provvedimento, e pertanto deve considerarsi giuridicamente irrilevante, ergo inesistente. Criticabile appare, nella suddetta ricostruzione dogmatica, la sovrapposizione fra inesistenza del potere ed irrilevanza giuridica del provvedimento.

La tesi negoziale identifica, invece, nella carenza di potere un caso di nullità virtuale, facendo riferimento al disposto dell'art. 1418 comma 1 c.c., per violazione di norme imperative (T.A.R. Abruzzo, L'Aquila I, n. 484/2007). Si afferma, infatti, che la mancanza del potere in capo alla P.A. procedente si tradurrebbe nella violazione della norma imperativa che vieta all'amministrazione di curare interessi pubblici diversi da quelli espressamente attribuiti dalla legge e che impone di esercitare esclusivamente le funzioni conferite dalla legge stessa. La qualificazione del provvedimento adottato in carenza di potere come affetto da nullità è stata frequente anche in giurisprudenza, soprattutto a partire dagli anni novanta, pur se non si riscontra l'inquadramento di tale nullità nell'ambito della nullità virtuale, ritenuta una categoria di stampo prettamente civilistico. Dalle pronunce dei giudici amministrativi emerge piuttosto la tendenza ad incasellare la carenza di potere fra le nullità strutturali, ravvisandosi nel potere della P.A. emanante uno degli elementi essenziali ai fini della validità del provvedimento.

La nullità amministrativa nella l. n. 15/2005

L'art. 21-septies stabilisce che sono cause di nullità del provvedimento la mancanza degli elementi essenziali, il difetto assoluto di attribuzione, la violazione o elusione del giudicato, nonché le altre cause di nullità previste dalla legge.

La giurisprudenza ha affermato che le cause di nullità del provvedimento amministrativo, previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990 (mancanza degli elementi essenziali, difetto assoluto di attribuzione, violazione o elusione di giudicato, casi espressamente previsti dalla legge) devono intendersi quale numero chiuso. Infatti, la nullità costituisce una forma speciale di invalidità che si ha nei soli casi in cui sia specificamente sancita dalla legge (Cons. St. V, n. 1498/2010; T.A.R. Lazio, Roma II, n. 1337/2009; Cons. St. VI, n. 3059/2008; Cons. St. VI, n. 2623/2008; Cons. St. VI, n. 891/2006).

Il valore primario della disposizione risiede nell'aver definitivamente sancito a livello positivo che la nullità è un'autonoma figura di invalidità degli atti amministrativi, avente la medesima dignità e lo stesso rango dell'omologo istituto civilistico.

Può dirsi, pertanto, che la recente riforma della l. n. 241/1990 abbia accolto le risultanze dell'ultima evoluzione giurisprudenziale, mantenendo l'annullabilità come rimedio generale per i tradizionali tre vizi di legittimità ed accostando a questa le ipotesi di nullità espressamente previste dall'art. 21- septies.

L'assetto così delineato si differenzia rispetto all'impostazione civilistica.

Infatti, mentre nel diritto privato la nullità costituisce rimedio generale di invalidità e l'annullabilità soltanto uno strumento residuale applicabile nei casi espressamente previsti dalla legge a favore della parte contrattuale da tutelare, nel diritto amministrativo il rapporto tra le due forme di invalidità è invertito, costituendo l'annullabilità, anche storicamente, il rimedio generale previsto per i vizi di legittimità del provvedimento amministrativo.

È evidente, comunque, che la legge n. 15/2005 ha sostanzialmente aderito ad un modello analogo a quello di derivazione civilistica: «L'art. 21-septies, l. n. 241/1990, nell'individuare le diverse ipotesi di nullità tra cui la violazione di giudicato, ha anche valore ricognitivo della dottrina preesistente con conseguente applicabilità ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore» (T.A.R. Liguria, Genova I, n. 790/2007; T.A.R. Sardegna, Cagliari II, n. 1384/2005), «secondo le coordinate ermeneutiche ritraibili dagli artt. 1418,1325 e 1346 c.c.» (T.A.R. Puglia, Lecce I, n. 372/2008), con una unica ma significativa differenza rispetto a quello di derivazione civilistica, costituita dall'assenza delle nullità virtuali (Cons. St. V, n. 1498/2010).

Proprio questa differenza, unitamente alla impossibile sovrapponibilità tra negozio giuridico espressione di autonomia contrattuale e provvedimento amministrativo espressione di potestà pubblicistica per la cura di un interesse pubblico determinato, induce a ritenere che il legislatore del 2005 abbia scelto di accogliere la tesi intermedia della nullità.

Peraltro, la formulazione dell'art. 21-septies, comma 1 è tale che la concreta individuazione delle ipotesi di nullità del provvedimento è sostanzialmente rimessa all'attività esegetica dell'interprete, il cui compito sarà comunque grandemente agevolato dalla possibilità di recuperare i risultati della pregressa speculazione dottrinaria e giurisprudenziale, sia pure con una sostanziale soluzione di continuità rispetto ai principi di presunzione di legittimità, di preclusione da decadenza, di continuità e di affidamento che in passato comportavano la generale annullabilità.

Quanto all'ambito di applicazione, nonostante il tenore letterale della norma, la giurisprudenza ritiene che l'art. 21- septies deve ritenersi estesa a tutti gli atti amministrativi, anche se privi di valenza provvedimentale, «essendo del tutto illogico che le due specie di atti possano subire conseguenze sanzionatorie differenziate in presenza di vizi identici ed identicamente idonei a ledere gli stessi valori giuridici protetti» (T.A.R. Liguria, Genova II, n. 169/2007).

Infine, occorre chiedersi se la patologia pubblicistica della nullità concerna anche le forme consensuali di esercizio del potere ex art. 11 della l. n. 241/1990.

Se si configurano gli accordi di cui all'art. 11 della l. n. 241/1990 come dei veri e propri contratti, ancorché ad oggetto pubblico, quindi come atti di autonomia privata, pur se aventi un contenuto pubblicistico, allora occorrerà applicare, come ricorda lo stesso art. 11, le norme civilistiche sulla patologia.

Se invece, in ossequio alla tesi prevalente, si valorizza l'essenza pubblicistica degli accordi, intesi come forme consensuali per l'esercizio del potere pubblicistico, finalizzato o alla determinazione del contenuto o alla integrale sostituzione di un provvedimento all'esito del procedimento, occorrerà applicare le norme sul provvedimento.

La nullità strutturale.

La prima ipotesi di nullità prevista dalla norma in commento riguarda l'ipotesi di carenza degli elementi essenziali del provvedimento (c.d. nullità strutturale).

La struttura del primo comma dell'art. 21-septies riprende quella dell'art. 1418 c.c., il quale commina la nullità dei contratti (e degli atti unilaterali a contenuto patrimoniale tra vivi in forza dell'estensione operata dall'art. 1324 c.c.) mancanti di uno dei requisiti previsti dall'art. 1325 c.c. (accordo delle parti, causa, oggetto e forma, quando risulta che è prescritta dalla legge ad substantiam).

Il diritto amministrativo, però, non contempla una norma generale che stabilisca quali siano gli elementi essenziali del provvedimento amministrativo, nel senso che non esiste una previsione analoga all'art. 1325 c.c.: pertanto, all'interprete spetta il non facile compito di conferire pregnanza ermeneutica ad un concetto giuridico indeterminato come quello di «elementi essenziali». Questo compito, però, risulta agevolato dai risultati della pregressa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che ritiene applicabile la nozione di elementi essenziali dell'atto di derivazione civilistica (Cons. St. V, n. 4522/2008; Cons. St. VI, n. 948/1999).

Al riguardo si registra una contrapposizione dottrinale.

I fautori della tesi civilistica sostengono che le lacune del diritto amministrativo devono essere colmate mutuando la disciplina del diritto privato.

In tal modo si è ravvisata la nullità per indeterminatezza, impossibilità ed illiceità del contenuto (inteso come regolamento degli interessi recato dall'atto); per difetto o illiceità della causa, intesa come funzione tipica del provvedimento in relazione all'interesse pubblico primario perseguito; per inesistenza dell'oggetto, inteso come la persona o la res materialmente destinataria degli effetti dell'atto; per mancanza di volontà (il caso classico è quello della violenza fisica esercitata sul funzionario) o per vizio relativo alla sua formazione; per difetto della forma richiesta ad substantiam ed, infine, per mancanza della sottoscrizione o assenza della verbalizzazione nel caso di atti promananti da organi collegiali.

Rientrerebbero nel genus della nullità strutturale pure le patologie relative al soggetto, quali l'inesistenza o il vizio relativo all'investitura; la mancanza di volontà della P.A. o il vizio attinente alla sua formazione; il difetto della forma essenziale del provvedimento. Tale impostazione è stata seguita anche in alcune pronunce pretorie, invero minoritarie, che individuano gli elementi essenziali del provvedimento nel soggetto, nella forma, nella volontà, nel contenuto, nel fine tipico, nel destinatario e nell'oggetto (T.A.R. Puglia, Bari III, n. 3740/2006), ovvero nella p.a. emanante, nella data, nel dispositivo e nell'effetto lesivo (Cons. St. V, n. 1992/2003), oltre che nella forma, nell'oggetto, nella volontà e nel destinatario (Cons. St. VI, n. 948/1999).

Si osserva, però, pur senza ricadere nell'opposta tesi pubblicistica, che non tutte le suddette ipotesi possono effettivamente rientrare nell'alveo della nullità strutturale: la mancanza o l'illiceità della causa, ad esempio, che nel diritto civile provoca la nullità del negozio, è in realtà una classica figura sintomatica dell'eccesso di potere, in quanto rivelatrice della deviazione finalistica e funzionale del provvedimento, e come tale determina la mera annullabilità dello stesso (Carlotti, 443; Villata, 383).

L'impossibilità di effettuare un trapianto automatico della teoria dei requisiti essenziali del negozio giuridico privato dipende dalla prevalenza dell'aspetto funzionale che caratterizza il provvedimento, e comporta la «marginalizzazione» dell'analisi strutturale della fattispecie. In altri termini, poiché appare di maggiore importanza la prospettiva di studio che privilegia il provvedimento nel suo porsi come espressione della funzione amministrativa, interessa assai meno scomporlo negli elementi che lo costituiscono come fatto produttivo di effetti.

In definitiva, elementi veramente indefettibili, ricompresi perciò nella previsione dell'art. 21-septies, sembrerebbero essere il contenuto (T.A.R. Puglia, Lecce I, n. 372/2008; T.A.R. Puglia, Bari III, n. 3740/2006; Cons. St. V, n. 4694/2006) e la forma del provvedimento.

Con specifico riguardo a tale ultimo elemento, però, non ogni deficit formale dell'atto conduce alla nullità. Infatti, si verifica la nullità del provvedimento soltanto in mancanza della forma essenziale, per tale intendendosi l'insieme delle caratteristiche esteriori necessarie e sufficienti ad identificare un atto come proveniente da una P.A., nonché a renderne intelligibile il dispositivo.

Viceversa, la causa dell'atto amministrativo costituisce un elemento funzionale, e non già strutturale del provvedimento. I casi di illiceità o di impossibilità, ovvero di difetto della causa attengono, pertanto, al principale motivo d'illegittimità-annullabilità dell'atto amministrativo, ovvero l'eccesso di potere.

In definitiva, la disposizione di cui all'art. 21- septies, nel positivizzare la figura della nullità strutturale, appare avere un valore meramente ricognitivo.

Anzi, dall'analisi che precede, emerge l'opportunità di condividere una interpretazione restrittiva della categoria, sia in relazione agli elementi essenziali da intendersi, appunto, strutturali, sia in ordine alla verifica della relativa esistenza o inesistenza: di nullità deve parlarsi allorquando il difetto dell'elemento per inesistenza dello stesso comporti, a sua volta, il totale difetto strutturale dell'atto. Queste considerazioni trovano conferma anche nella superiore esigenza di garantire la certezza e stabilità dell'azione amministrativa, in quanto volta al perseguimento di interessi pubblici.

Il difetto assoluto di attribuzione.

Dottrina e giurisprudenza discutono sull'esatta portata del «difetto assoluto» di attribuzione L'indirizzo maggioritario ritiene che l'espressione «difetto assoluto di attribuzione» sia in chiara contrapposizione rispetto al «difetto relativo di attribuzione», e che quindi il legislatore abbia voluto distinguere i casi in cui manca assolutamente la norma attributiva del potere (ovvero il presupposto stesso dal quale deriva il potere), ed i casi in cui vi sia un «difetto relativo del potere», ove esista la norma attributiva dello stesso ma siano violate le regole e le condizioni ivi stabilite per il suo concreto esercizio.

Pertanto, il «difetto assoluto» di attribuzione comprende le due distinte ipotesi di incompetenza assoluta e di carenza in astratto del potere, dovendosi escludere dal dettato normativo la sola «carenza in concreto», la quale costituirebbe motivo di annullabilità dell'atto, in quanto espressione di cattivo uso del potere (C. conti, n. 1/2008; T.A.R. Puglia, Bari III, n. 4581/2005; T.A.R. Campania, Napoli V, n. 5025/2005).

La carenza in concreto di potere, pertanto, rientrerebbe nell'ambito dell'annullabilità per violazione di legge (T.A.R. Sicilia, Palermo II, n. 1414/2007; T.A.R. Sicilia, Palermo III, n. 994/2006; T.A.R. Campania, Napoli V, n. 2137/2006; Cons. St. VI, n. 891/2006; T.A.R. Sicilia, Palermo I, n. 363/2006; Cons. St. IV, n. 6023/2005; T.A.R. Campania, Napoli V, n. 5025/2005).

Ciò sembra avere conferma, in ultima istanza, dallo stesso tenore del successivo art. 21-octies che, nel chiarire quali sono le cause di annullabilità del provvedimento fa riferimento alle ipotesi di eccesso di potere, di incompetenza, ma prima ancora di violazione di legge. La generica espressione «violazione di legge», usata senza distinguere tra regole che la legge pone ai fini della modalità e ai fini dell'esistenza del potere, vuole evidentemente chiarire che, una volta assodata l'esistenza di una norma attributiva del potere, e quindi la non ricorrenza di un difetto assoluto di attribuzione, tutte le ulteriori violazioni delle regole relative ai limiti, ai presupposti, ai modi che la norma pone per regolare l'esercizio del potere, ineriscono al mero cattivo uso del potere e, quindi ad una mera causa di annullabilità e non di nullità.

In questo modo, la l. n. 15/2005 avrebbe «espulso dal sistema la (spuria e piuttosto confusa) nozione di carenza di potere in concreto che aveva condotto la tradizionale giurisprudenza civile ad attrarre a sé controversie in materia espropriativa caratterizzate da atti ablatori non più sorretti dalla perdurante efficacia di atti presupposti dichiarativi della pubblica utilità dell'opera, oppure assunti oltre i termini all'uopo stabiliti per la conclusione delle procedure espropriative e dei lavori. La nullità dell'atto amministrativo si verifica, infatti, in base al nuovo articolo 21-septies aggiunto nella l. n. 241/1990, solo in caso di carenza assoluta di potere e non è dunque ipotizzabile una improduttività di effetti degradatori del diritto di proprietà per gli atti ablatori viziati non già per un siffatto, radicale difetto di potere (in astratto), ma per essere stati assunti in circostanze spazio-temporali difformi rispetto alla fisiologica e legittima sequenza procedurale» (T.A.R. Sicilia, Catania III, n. 819/2006).

Se è così, tutta l'elaborazione relativa alla carenza di potere in concreto dovrebbe essere revocata in dubbio con dirompenti conseguenze in punto di giurisdizione, poiché risulterebbero travolti i criteri di riparto della giurisdizione costruiti dalla Suprema Corte su tale concetto. Una rilevante porzione di giurisdizione, infatti, sarebbe sottratta al giudice ordinario e ricadrebbe nella giurisdizione amministrativa.

In senso opposto, si manifesta l'indirizzo estensivo della Cassazione che considera causa di nullità, inclusa nella nozione di difetto assoluto di attribuzione, anche la carenza in concreto di potere in concreto (T.A.R. Molise, n. 616/2007; Cass. S.U., n. 2688/2007 ; T.A.R. Sicilia, Palermo III, n. 994/2006).

Si segnala, poi, un orientamento restrittivo, in realtà minoritario, secondo cui il difetto assoluto di attribuzione ricomprenderebbe i soli «conflitti di attribuzione», secondo un'interpretazione maggiormente aderente al dettato dell'art. 134 Cost., che definisce i conflitti di attribuzione quali contrapposizioni tra i poteri dello Stato (Montedoro; T.A.R. Liguria, Genova I, n. 790/2007; T.A.R. Lazio, Roma III, n. 984/2006; T.A.R. Lazio, Roma II, n. 4863/2005; T.A.R. Lazio, Latina, n. 592/2003).

Tale rilievo si salda alla considerazione, mutuata dalla sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale, secondo cui l'elemento discretivo necessario per qualificare un provvedimento amministrativo è costituito dal potere: se non c'è il potere non c'è l'autorità e se non c'è l'autorità il provvedimento automaticamente è inesistente.

Ne consegue, pertanto, che costituirebbe nullità dell'atto solo l'ipotesi di violazione delle norme che ripartiscono il potere e che disciplinano la competenza (ovvero i soli casi di incompetenza assoluta). La carenza in astratto del potere, invece, sarebbe rimasta fuori dalla previsione legislativa, posto che la mancanza in radice del potere farebbe venir meno la stessa esistenza del provvedimento, ponendo quindi il diverso problema di inesistenza dell'atto.

Evidenti sono i riflessi di questa seconda costruzione sul piano del riparto di giurisdizione ove l'atto nullo incida su preesistenti diritti soggettivi o su interessi legittimi oppositivi.

L'incompetenza assoluta.

Il vizio di incompetenza assoluta si distingue da quello di incompetenza relativa. Quest'ultimo ricorre quando l'organo che ha emanato l'atto appartiene al medesimo plesso amministrativo cui appartiene l'organo competente. Invece, si ha incompetenza assoluta quando il provvedimento è adottato da un organo che opera nell'ambito di un plesso amministrativo radicalmente diverso da quello cui appartiene l'organo competente.

L'evoluzione giurisprudenziale ha però solo parzialmente accettato il criterio discretivo tradizionale, precisando che l'incompetenza assoluta ricorre qualora il provvedimento sia stato posto in essere da parte di una P.A. che non soltanto non è competente all'adozione di quel provvedimento, ma che non ha alcuna competenza nel settore di riferimento interessato dall'adozione del provvedimento stesso.

In sostanza, vengono degradati da vizi di incompetenza assoluta a vizi di incompetenza relativa, id est da cause di nullità a mere cause di annullabilità del provvedimento amministrativo, quei casi in cui il provvedimento sia stato adottato da parte di un organo non legittimato ad adottarlo ma che pur tuttavia operi in un settore ordinato unitariamente, nell'ambito del quale gli sono attribuite competenze che, ancorché diverse, riguardino comunque specificamente il settore di attività interessata dal provvedimento viziato.

L'attenzione si sposta, dunque, dall'atto singolarmente considerato al settore di attività. In altri termini, sussiste il vizio ordinario d'illegittimità quando l'atto, proveniente da ente diverso da quello competente, sia stato emanato nell'esercizio di un'attività riferita ad un settore amministrativo omogeneo, in seno al quale i due organi svolgono compiti ripartiti secondo il sistema proprio della divisione delle competenze.

Tale interpretazione evolutiva della giurisprudenza si rivela quanto mai opportuna alla luce della nuova ripartizione di competenza fra Stato, Regioni ed enti locali realizzata con la riforma del Titolo V della parte II della Costituzione.

Infatti, escludere l'incompetenza assoluta quando l'organo che ha adottato l'atto svolga comunque alcune funzioni nel settore interessato, significa ammettere che l'intervento di un diverso livello territoriale di governo costituisce un vizio di incompetenza relativa, implicante la semplice annullabilità del provvedimento. Questo perché, nel nuovo assetto, in ciascun ramo di attività è previsto l'intervento congiunto, a vari livelli, dei diversi enti territoriali. Verrà così evitato che i numerosi problemi interpretativi, conseguenti alla riforma in senso federalista dell'ordinamento, possano ampliare a dismisura la categoria della nullità del provvedimento amministrativo, con conseguente dilatazione del termine decadenziale previsto per l'impugnazione.

Si considerino le varie ipotesi nelle quali la Regione deleghi il potere di adottare autorizzazioni paesaggistiche al Comune o alla Provincia, e successivamente si riappropri di fatto del relativo potere, rilasciando o negando l'autorizzazione paesaggistica. Se si accoglie l'idea della competenza come nozione riferita all'atto, si dovrebbe affermare, a rigor di logica, che una volta intervenuta la delega solo il delegato è competente, almeno finché la delega non sia revocata e dovrebbe, dunque, trattarsi di incompetenza assoluta.

Se invece la competenza viene riferita all'attività, piuttosto che al singolo atto, la conclusione è un'altra. Infatti, nell'ipotesi della delega, non si può dire che la Regione non abbia alcuna competenza in quel settore di riferimento, con la conseguenza che l'incompetenza sarà relativa, e non assoluta, e che pertanto l'atto dovrà essere impugnato nel termine di decadenza previsto per l'azione di annullamento. Medesimo discorso vale con riferimento alle competenze dei Ministeri trasferite, nella prospettiva del decentramento, alle Regioni, e poi subdelegate alle Province ed ai Comuni.

Il problema dell'incompetenza si è posto, ad esempio, con riferimento ai poteri dell'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici sui certificati rilasciati dagli Organismi di Attestazione (S.O.A.).

Il d.P.R. n. 34/2000 prescrive alle imprese che intendano partecipare agli appalti di lavori pubblici di munirsi di una certificazione rilasciata da una Società Organismo di Attestazione, la quale attesti il possesso di determinati requisiti di capacità operativa e finanziaria. Si ritiene generalmente che l'Autorità di vigilanza per i lavori pubblici non abbia il potere di annullare tali attestazioni, ma soltanto il potere di controllarne la correttezza e di emanare prescrizioni che le società devono osservare nel rilascio dei certificati.

Orbene, ci si è chiesti quali conseguenze si verifichino nel caso in cui l'Autorità, pur non avendone il potere, annulli le attestazioni della S.O.A. Stando alle premesse, si deve optare per l'incompetenza relativa, perché sussiste pur sempre una competenza dell'Autorità nel settore del controllo, in senso ampio, sulle attestazioni, anche se tale competenza venga esercitata attraverso l'adozione di una misura (l'annullamento dell'attestazione) che non rientra nelle sfere di attribuzione della stessa Autorità.

All'opposto, sono state considerate fattispecie di incompetenza assoluta, sempre alla luce delle considerazioni di cui sopra, le ipotesi di incompetenza territoriale degli enti territoriali: non v'è chi non veda come, essendo il territorio elemento costitutivo di tali enti, vi sia una radicale deficienza di legittimazione ad adottare misure amministrative che eccedano l'ambito territoriale di riferimento.

Si ritiene pure incompetenza assoluta quella che inficia l'ordine di sospensione dei lavori per le violazioni delle norme relative alle distanze che venga impartito dall'ANAS piuttosto che dal Comune, perché solo il Comune, e non certamente l'ANAS, ha il potere di vigilare sulle attività edilizie e di trasformazione del territorio.

La nullità per violazione od elusione del giudicato.

Cosa si intende per giudicato?

Affinché possa ritenersi integrata l'ipotesi di nullità provvedimentale, l'atto amministrativo deve essere adottato in violazione di un provvedimento giudiziale con efficacia di giudicato. Ne consegue che l'atto amministrativo adottato in violazione di un'ordinanza cautelare del giudice amministrativo deve reputarsi annullabile e non nullo, in quanto la nullità di cui all'art. 21-septies, l. n. 241/1990 presuppone un contrasto con sentenze formalmente passate in giudicato e non semplicemente con decisioni cautelari prive dell'efficacia di cosa giudicata (T.A.R. Lombardia, Milano IV, n. 1937/2008; T.A.R. Puglia, Bari III, n. 3740/2006), ancorché non più soggetta a gravame (T.A.R. Liguria, Genova II, n. 158/2007).

Un'opzione estensiva è tuttavia abbracciata da una parte della giurisprudenza secondo la quale la nullità in parola deve essere estesa anche al caso di violazione/elusione di una misura cautelare, sull'assunto che pure in questi casi viene in rilievo «un'ipotesi paradigmatica di carenza di potere sanzionata con la nullità» (Cons. St. VI, 8 marzo n. 93/2007).

La tesi della nullità è stata ulteriormente sostenuta dal Consiglio di Stato, avendo il Supremo Consesso della Giustizia Amministrativa affermato che a norma dell'art. 21-septies l. n. 241/1990, è da ritenersi nullo, e non già solo annullabile, il provvedimento amministrativo adottato in contrasto con pronunce cautelari ovvero con sentenze, non sospese, del g.a. di primo grado, vale a dire con ogni pronuncia esecutiva del g.a., pur non coperta, in senso stretto, da giudicato. Difatti, il concetto di «giudicato», al quale fa riferimento la norma in questione, va inteso in senso più ampio, come comprensivo di tutte le pronunce immediatamente esecutive. Peraltro, il provvedimento adottato in antitesi ad una pronuncia giurisdizionale può ritenersi comunque nullo, per esplicita previsione legislativa, attesa la sua assimilabilità a quello emanato in difetto assoluto di attribuzione, tenuto conto della attitudine della pronuncia del giudice a delimitare i confini delle attribuzioni concrete della p.a. (Cons. St. V, n. 4136/2007).

Tuttavia, il dibattito in giurisprudenza è tutt'altro che sopito. Il T.A.R. Catania, infatti, sostiene, in una recente pronuncia, che la «nozione di giudicato, nella sua accezione classica e tradizionale, è riferibile soltanto alla decisione che definisce il giudizio di merito, poiché presuppone quell'intangibilità del verdetto che consegue all'impossibilità di rimettere in discussione la pronuncia con gli ordinari mezzi di impugnazione (art. 324 c.p.c.), derivando dall'inoppugnabilità della sentenza (c.d. giudicato in senso formale) il passaggio in giudicato (c.d. sostanziale) della decisione e la conseguente assunzione dell'accertamento ivi contenuto quale regola di diritto facente stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (l'art. 2909 c.c.).

Il giudicato, dunque, non ammette rivisitazioni della decisione assunta, salvo nelle eccezionali e tassativamente previste dalla legge ipotesi in cui è ammissibile il ricorso ai c.d. mezzi straordinari di impugnazione.

La nullità di cui all'art. 21-septies l. n. 241/1990 per contrasto con il giudicato si riferisce proprio al caso in cui l'Amministrazione disattenda la regola di diritto affermata dal Giudice in una sentenza definitiva, tentando così di rendere vana l'iniziativa processuale precedentemente intrapresa dall'interessato. Per tutelare, infatti, adeguatamente proprio le ragioni di quest'ultimo, il legislatore ha ritenuto necessario rendere (invece) vana l'attività dell'Amministrazione posta in essere in spregio alla statuizione con la quale è stato definito il precedente giudizio, sanzionando i provvedimenti così adottati con la più grave forma di invalidità disciplinata dal diritto positivo, ed ossia, la nullità.

Le medesime considerazioni non possono valere per il c.d. giudicato cautelare, in quanto, per sua natura, destinato a produrre effetti soltanto provvisori, a differenza di quello di merito poc'anzi esaminato.

Il provvedimento cautelare, infatti, quand'anche non più suscettibile di impugnazione non è idoneo a definire il giudizio, in quanto decisione assunta rebus sic stantibus, come tale suscettibile di revoca o modifica ai sensi dell'art. 58 c.p.a. in caso di sopravvenuto mutamento delle circostanze o di sopravvenuta conoscenza di fatti anteriori prima ignorati.

Inoltre, nel processo amministrativo il provvedimento cautelare non è autonomo, presupponendo sempre l'instaurazione e la definizione del giudizio di merito a pena di decadenza degli effetti, anche quando anticipatorio, a differenza di quanto previsto nel processo civile dall'art. 669-octies comm 6 c.p.c. Al riguardo, basti considerare che, secondo quanto stabilito dall'art. 61 co. 5 c.p.a., il provvedimento cautelare ante causam perde efficacia, anzitutto, se non seguito, entro i 15 giorni successivi dalla sua emanazione, dalla notifica del ricorso con la domanda cautelare ed, in ogni caso, decorsi 60 giorni dalla sua emissione. Lo stesso dicasi per le misure cautelari adottate in corso di causa, considerato che l'accoglimento della domanda cautelare implica, ai sensi dell'art. 55 co. 11 c.p.a., la fissazione automatica (e non, dunque, su istanza di parte) dell'udienza di discussione del ricorso nel merito.

Il giudicato cautelare, inoltre, non vincola in modo alcuno il Giudice Amministrativo che può sempre in sede di decisione del ricorso nel merito ribaltare il precedente verdetto pronunciato in sede cautelare.

Considerate, dunque, le diversità strutturali caratterizzanti il c.d. giudicato cautelare dal giudicato propriamente inteso, non sembra condivisibile una lettura estensiva dell'art. 21 septies l. n. 3241/1990 al punto da ammettere la nullità del provvedimento amministrativo in contrasto con un'ordinanza cautelare non più suscettibile di impugnazione, soprattutto se si considera che nel diritto amministrativo la nullità costituisce una tipologia di invalidità eccezionale rispetto a quella generale dell'annullabilità, ed in quanto tale ammissibile soltanto nei casi tassativamente previsti dalla legge, senza possibilità alcuna di estensione analogica, onde non incorrere nel divieto di cui all'art. 14 disp. prel. c.c.

Né, peraltro, può ritenersi che dal c.d. giudicato cautelare scaturiscano effetti tali da privare l'Amministrazione del potere di provvedere in modo difforme da quanto ivi statuito al punto da considerare il provvedimento con esso in contrasto nullo per carenza di potere, considerato, infatti, che soltanto il giudicato propriamente inteso può costituire fonte di effetti conformativi tali da vincolare l'Amministrazione in sede di riedizione del potere a pena di nullità.

Di conseguenza, la violazione del c.d. giudicato cautelare non può implicare la nullità del provvedimento, ma soltanto la sua illegittimità per eccesso di potere, presupponendo la nullità una carenza assoluta di potere, in questo caso, non sussistente.

Al riguardo va precisato che conferme in tal senso si desumono anche dalla disciplina del giudizio di ottemperanza.

L'art. 114 comma 4 lett. c) c.p.a., infatti, prevede che, nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti (come ad esempio quelli cautelari), il Giudice determina le modalità esecutive, “considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione”, senza, però, dichiararne espressamente la nullità. Il legislatore, cioè, non afferma che i provvedimenti in contrasto con sentenze non definitive od ordinanze cautelari sono nulli, limitandosi soltanto a considerarli inefficaci, proprio in ragione sia della provvisorietà degli effetti che contraddistingue la pronuncia giurisdizionale da eseguire ed attuare (trattandosi in questi casi dell'ottemperanza di un giudicato che non c'è), sia dei limiti caratterizzanti la cognizione ed i poteri del Giudice in sede di ottemperanza, non potendo quest'ultimo annullare provvedimenti che sebbene illegittimi sono pur sempre efficaci in quanto emessi non in violazione né in elusione di un giudicato propriamente inteso, essendo l'annullamento un potere riservato al Giudice della cognizione.

In tal senso depone anche un'argomentazione di carattere intertemporale, poiché qualora i provvedimenti in contrasto con un c.d. giudicato cautelare fossero stati nulli ai sensi dell'art. 21-septies l. n. 241/1990 (introdotto dall'art. 14 l. 11 febbraio 2005, n. 15), il legislatore del 2010 non avrebbe avuto ragione alcuna di prevedere nell'ambito del giudizio di ottemperanza disciplinato dal codice del processo amministrativo (di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) un'apposita precisazione volta a considerare processualmente inefficaci atti che dovrebbero di per sé già esserlo, sul piano del diritto sostanziale, per nullità, estendendo la cognizione ed i poteri del Giudice dell'ottemperanza oltre i limiti tradizionali, al punto da consentirgli di considerare non efficaci provvedimenti che, in realtà, lo sono, perché non in contrasto con un giudicato e, quindi, non nulli ma soltanto illegittimi.

Dall'art. 114 comma 4 lett. c) c.p.a. si desume, pertanto, l'illegittimità e, dunque, l'annullabilità per eccesso di potere, del provvedimento in contrasto con il c.d. giudicato cautelare, poiché l'inefficacia ivi affermata costituisce, non conseguenza di una nullità originaria inficiante l'atto amministrativo, ma un espediente processuale, espressamente previsto soltanto ed esclusivamente per il giudizio di ottemperanza, implicante una vera e propria disapplicazione dell'atto illegittimo che, in quanto tale, esiste e continua ad essere efficace fintantoché non sarà annullato o in sede giurisdizionale o in autotutela dall'Amministrazione. L'art. 114 comma4 lett. c) c.p.a., dunque, non esonera l'interessato dall'onere di impugnazione del provvedimento in contrasto con il c.d. giudicato cautelare, essendo l'inefficacia ivi prevista soltanto propedeutica ad assicurare l'attuazione dell'ordinanza cautelare nelle more della definizione del giudizio di merito sul quale potrebbero riverberarsi gli effetti del predetto provvedimento e della sua omessa impugnazione con il ricorso per motivi aggiunti.

Qualora, infatti, nel corso del giudizio l'interessato ottenga un'ordinanza cautelare favorevole seguita da un nuovo provvedimento dell'Amministrazione con essa in contrasto, si configurerebbe, comunque, un onere di impugnazione con ricorso per motivi aggiunti del nuovo provvedimento, poiché, diversamente, gli effetti prodotti da quest'ultimo potrebbero influire sul ricorso principale, originariamente proposto, al punto da decretarne l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse. Al fine, dunque, di garantire adeguata tutela all'aspirazione del ricorrente a conseguire l'attuazione dell'ordinanza cautelare favorevole, il legislatore autorizza il Giudice dell'ottemperanza a considerare inefficace il sopravvenuto provvedimento eventualmente in contrasto, onde eludere l'attesa dei tempi necessari per l'impugnazione del nuovo atto dinanzi al Giudice della cognizione e per il suo definitivo annullamento. In questi casi, dunque, l'attuazione di un'ordinanza cautelare presuppone l'impugnazione del sopravvenuto provvedimento contrastante dinanzi al Giudice della cognizione, potendo rilevare l'inerzia dell'interessato nell'ambito sia del giudizio di merito pendente o da intraprendere, sia del giudizio di ottemperanza già intrapreso, non essendo, infatti, possibile l'esecuzione di un'ordinanza cautelare concernente un processo destinato ad essere definito in rito con la declaratoria di improcedibilità del ricorso principale per sopravvenuta carenza di interesse, essendo le sorti del giudizio di merito inevitabilmente incidenti su quelle dell'ottemperanza di cui all'art. 114 comma 4 lett. c) c.p.a.

Il provvedimento in contrasto con un c.d. giudicato cautelare, dunque, se può essere disapplicato o considerato inefficace in sede di ottemperanza, deve essere impugnato dinanzi al Giudice della cognizione perché illegittimo per eccesso di potere ai sensi dell'art. 21-octies l. n. 241/1990 e non nullo ai sensi dell'art. 21-septies l. n. 241/1990» (T.A.R. Sicilia, Catania, I, n. 2216/2019).

Le tipologie rilevanti di giudicato.

Bisogna rilevare che l'art. 21-septies non distingue tra le varie tipologie di giudicato. Si potrebbe, dunque, desumere che il giudice amministrativo debba conoscere delle questioni attinenti alla violazione od all'elusione di qualsiasi tipo di giudicato (amministrativo, civile, dei giudici speciali ecc.).

In sede di primo commento (Aiello) si è però affermato, anche alla luce dei lavori preparatori della l. n. 15/2005, che della norma in questione occorrerà dare un'interpretazione restrittiva, ritenendola applicabile alle sole questioni inerenti alla violazione od all'elusione del giudicato amministrativo. Detta ricostruzione non pare, invero, l'unica possibile, essendo ugualmente probabile che il legislatore intendesse semplicemente ribadire che le questioni attinenti al giudicato (sia del giudice amministrativo sia di quello ordinario) debbano essere trattate in sede di ottemperanza o, comunque, implichino la nullità degli atti violativi/elusivi.

La violazione e l'elusione del giudicato.

L'art. 21-septies nel sancire la nullità del provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato, supera la distinzione tra le due figure.

Nella prima ipotesi, infatti, se il provvedimento non era conforme al giudicato (violazione del giudicato), il privato doveva proporre un nuovo ricorso di legittimità entro il termine di decadenza di sessanta giorni per ottenerne l'annullamento.

Al contrario, il secondo caso (elusione del giudicato) veniva considerato inadempimento ed apriva la strada del processo di ottemperanza. Si riteneva, in particolare, che il provvedimento fosse nullo, perché emanato dall'Amministrazione in una situazione di carenza di potere in concreto e che contro di esso il privato potesse esperire non l'ordinaria azione di annullamento ma l'actio iudicati.

Rispetto ai provvedimenti elusivi del giudicato si poneva poi l'ulteriore problema di stabilire entro quale termine fosse consentita l'actio iudicati.

Secondo una prima tesi, l'azione volta alla contestazione del provvedimento elusivo del giudicato era imprescrittibile, perché sostanzialmente si trattava di un'azione di nullità, diretta a stigmatizzare la deficienza radicale del potere amministrativo.

Un altro indirizzo, invece, mosso dall'esigenza di evitare che l'esecuzione del giudicato restasse incerta per un tempo indeterminato di fronte ad una sentenza non eseguita o eseguita con atti nulli per carenza di potere, riteneva che l'actio iudicati, dovesse essere proposta nel termine decennale di prescrizione.

Ciò posto in linea generale, non era, tuttavia, agevole distinguere, in concreto, tra violazione ed elusione del giudicato.

Sintomo di tali difficoltà, e del tentativo di razionalizzare la questione, è rappresentato dalla storica decisione dell' Adunanza Plenaria, n. 6 del 1984, secondo cui la questione della dicotomia tra violazione ed elusione del giudicato deve essere risolta alla luce del criterio del contenuto dell'atto emanato dall'amministrazione: alla discrezionalità del potere nell'ottemperare corrisponde l'illegittimità dell'atto, impugnabile con il ricorso ordinario, mentre alla vincolatività del potere nell'ottemperare corrisponde l'inadempimento al giudicato, impugnabile dinnanzi al giudice dell'ottemperanza.

La tesi in esame è stata oggetto di critiche in dottrina ed in giurisprudenza (Cons. St. V, n. 5934/2001).

Si è evidenziato, in particolare, che l'obbligo dell'amministrazione di conformarsi al giudicato non ammette dicotomie tra difformità dai vincoli del giudicato e illegittimità degli atti emessi in violazione e dopo il giudicato. Il giudizio di ottemperanza è invero ammissibile non solo nell'ipotesi di elusione del giudicato, in quanto ogni comportamento che non costituisce attuazione puntuale della decisione è inadempimento sanzionabile con il rimedio dell'ottemperanza (Cons. St. IV, n. 694/1999; Cons. St. VI, rile n. 626/1999; Cons. St., Ad. plen., n. 1/1997; Cons. St. V, n. 328/1996).

Tale impostazione trova oggi accoglimento nella legge di riforma della l. n. 241/1990, in quanto l'art. 21-septies include espressamente tra le cause di nullità del provvedimento amministrativo sia la violazione, sia l'elusione del giudicato. A questo proposito, la giurisprudenza afferma che «nel caso in cui l'amministrazione abbia reiterato ed esteso temporaneamente un atto già oggetto di annullamento con sentenza definitiva, sussiste la nullità del provvedimento impugnato ai sensi dell'art. 21-septies l. n. 241/1990 in specie in relazione alla categoria degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato» (T.A.R. Calabria, Reggio Calabria II, n. 1120/2008; T.A.R. Liguria II, n. 1528/2006).

L'atto adottato senza tener conto del giudicato, infatti, è adottato in carenza di potere, con possibilità di dedurne in ogni tempo l'invalidità, anche nel giudizio di ottemperanza (T.A.R. Liguria, Genova I, n. 790/2007; Cons. St. IV, 20 marzo n. 304/1992).

La ratio della previsione in parola è chiaramente ispirata all'esigenza di sottrarre chi sia risultato vittorioso in un precedente giudizio nei confronti della p.a., dall'onere di riattivare il giudizio di cognizione ogni qualvolta che l'amministrazione abbia adottato nuovi provvedimenti nell'intento di violare o eludere il giudicato (T.A.R. Campania, Salerno I, n. 185/2008; T.A.R. Liguria, Genova II, n. 411/2006; T.A.R. Lazio, Roma III, 9 febbraio n. 984/2006).

La nullità testuale.

L'art. 21-septies, con una previsione «di chiusura», fa riferimento alle nullità testuali, estendendo le ipotesi di nullità agli «altri casi espressamente previsti dalla legge», con un perfetto parallelismo all'art. 1418 comma 3 c.c.

Al riguardo, si deve rammentare che negli ultimi anni il legislatore ha fatto ricorso con frequenza sempre maggiore alla comminatoria espressa di nullità, con ciò contribuendo al ripensamento della tradizionale impostazione pubblicistica, che riteneva inconcepibile la nullità in relazione al provvedimento amministrativo. A partire dagli anni ‘90, la giurisprudenza ha riconosciuto che le nullità testuali costituiscono una deroga positiva al principio che all'illegittimità collega soltanto l'annullabilità. Alla base del ripensamento v'è l'esigenza di assicurare l'effettività del principio costituzionale di buon andamento: per alcune delle violazioni di legge qualificate come cause di nullità, infatti, l'improduttività originaria di effetti e la rilevabilità ex officio valgono ad evitare un significativo aggravio per i bilanci pubblici.

Tra i casi di nullità virtuale rientrano gli artt. 3 e 6 della l. n. 444/1994 in materia di prorogatio degli organi amministrativi che contengono due comminatorie di nullità: la prima, sancita dall'art. 3, colpisce gli atti adottati durante il periodo di prorogatio che non rientrano tra gli atti di ordinaria amministrazione, né siano caratterizzati da indifferibilità e urgenza; la seconda, prevista dall'art. 6, colpisce tutti gli atti (compresi quelli di ordinaria amministrazione, oppure urgenti o indifferibili) adottati dagli organi decaduti quando sia decorso il termine massimo di quarantacinque giorni.

Inoltre, l'art. 52 comma 5 del d.lgs. 165/2001 prevede la nullità dell'assegnazione del dipendente a mansioni proprie di una qualifica superiore, effettuata al di fuori delle ipotesi consentite dal disposto del comma 2 dello stesso articolo; l'art. 53 comma 8 del d.lgs. 165/2001 prevede la nullità degli incarichi conferiti dalla p.a. ad un dipendente di altra p.a. in assenza di autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico.

Finalità del tutto affini a quelle che presiedono le nullità in materia di pubblico impiego sono perseguite dalle norme relative alla nullità degli atti di spesa privi di copertura finanziaria (Cass. S.U., 10 giugno 2005, n. 12195). In entrambi i casi la nullità assolve alla funzione di contenimento del deficit pubblico. All'identità di funzione, tra le norme in oggetto, corrisponde pure un'analogia dal punto di vista strutturale, in particolare con riferimento all'imputazione della responsabilità dell'atto privo di copertura al funzionario.

Tra le ipotesi di nullità testuale si devono rammentare pure l'art. 11, comma 2, della l. n. 241/1990, il quale commina espressamente la nullità per l'inosservanza del requisito della forma scritta nella stipulazione di accordi (integrativi o sostitutivi) tra privati e p.a.

Altra comminatoria espressa di nullità si rinviene nell'art. 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente», che attribuisce ai contribuenti il diritto di sottoporre all'amministrazione finanziaria specifiche e circostanziate istanze di interpello relative l'applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni d'incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse.

L'amministrazione finanziaria è obbligata a rispondere per iscritto entro centoventi giorni (decorsi i quali il silenzio ha valore di assenso) e la risposta deve essere motivata.

Il terzo comma sancisce che «Gli atti, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio difformi dalla risposta, espressa o tacita, sono nulli».

L'art. 37 del CCNL del 5 dicembre 2006 contempla, infine, le ipotesi di nullità dei provvedimenti di recesso adottati nei confronti dei dipendenti delle Aziende USL. Esse richiamano la casistica prevista dal codice civile, nonché da altre vigenti disposizioni di legge.

La nullità virtuale.

La nullità amministrativa presenta un'unica (ma significativa) differenza rispetto al modello di derivazione civilistica, ossia l'assenza delle nullità virtuali.

Sul punto, si deve segnalare che, secondo il Consiglio di Stato, l'art. 21-septies della l. n. 241/1990, «tra le varie opzioni possibili – ossia tra quella di inserire nel sistema della patologia dell'atto amministrativo tutte le ipotesi di nullità (testuale, strutturale e virtuale) previste dall'articolo 1418 del codice civile e quella di ritenere sufficiente la categoria dell'annullabilità per quanto riguarda i rapporti amministrativi – ha scelto la soluzione di compromesso, ossia quella di escludere la nullità per contrasto con norme imperative di legge, giudicando tale categoria particolarmente pericolosa rispetto alle esigenze di certezza e di stabilità dell'azione amministrativa (Cons. St. VI, n. 3173/2007; Cons. St. V, n. 5845/2008)» (Cons. St. V, n. 1498/2010).

Così opinando, il Consiglio di Stato ha concluso che «le ipotesi astrattamente riconducibili alla nullità c.d. virtuale vanno ricondotte al vizio di violazione di legge, atteso che le norme riguardanti l'azione amministrativa, dato il loro carattere pubblicistico, sono sempre norme imperative e quindi non disponibili da parte dell'amministrazione. Quindi esse si convertono in cause di annullabilità del provvedimento, da farsi valere entro il breve termine di decadenza, a tutela della stabilità del provvedimento amministrativo.» (Cons. St. V, n. 1498/2010).

La giurisdizione in materia di nullità amministrativa.

L'art. 21-septies, pur individuando i casi di nullità del provvedimento amministrativo, non indica se sulla nullità abbia giurisdizione il giudice ordinario o quello amministrativo, salvo quanto alla nullità per violazione o elusione del giudicato, che viene espressamente intestata al giudice amministrativo (comma2, poi abrogato dall'art. 4 d.lgs. n. 104/2010; vedi oggi art. 133 comma 1, lett. a) n. 5, c.p.a.).

Si applicano, pertanto, gli ordinari criteri di riparto di giurisdizione, per cui:

- in caso di giurisdizione generale di legittimità, il giudice amministrativo conosce solo dell'illegittimità del provvedimento, mentre la nullità è attribuita al giudice ordinario secondo il consueto criterio carenza di potere – nullità – giudice ordinario, cattivo uso del potere – annullabilità – giudice amministrativo;

- in caso di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, questo conosce sia dell'illegittimità che della nullità del provvedimento (Cons. St. VI, n. 1247/2010).

Di contrario avviso è l'orientamento secondo cui il riparto di giurisdizione avviene sulla base della natura delle posizioni soggettive fatte valere, e non sul tipo di patologia; e dall'altra, che non sempre a fronte di un provvedimento nullo si configura una posizione di diritto soggettivo. E infatti, se da un lato è vero che la nullità di un provvedimento volto ad incidere su di un preesistente diritto soggettivo del privato rende l'atto inidoneo a degradare il diritto ad interesse legittimo, è pur vero che, a fronte di interessi pretesivi, la nullità di un diniego di un provvedimento ampliativo lascia del tutto immutata la posizione soggettiva sottostante, che resta di interesse legittimo, tanto se il diniego sia illegittimo quanto ove sia addirittura nullo.

Da quanto detto risulta chiaro che non sempre la nullità del provvedimento incide sul riparto di giurisdizione.

Sicuramente sono rilevanti le nullità che incidono sugli interessi legittimi oppositivi, in quanto in tal caso la nullità dell'atto impedisce l'affievolimento del diritto a mero interesse legittimo, con la conseguenza che la giurisdizione è attribuita al giudice ordinario il quale sarà chiamato a pronunciarsi su una classica azione per la declaratoria di nullità di un atto con gli strumenti e le forme previste dal codice di rito.

Stesso discorso vale, mutatis mutandis, per tutti gli interessi oppositivi legati a preesistenti diritti soggettivi.

Indubbiamente rilevante e connessa al riparto di giurisdizione per gli interessi oppositivi è la questione relativa all'esatta portata dell'espressione contenuta nell'art. 21-septies «difetto assoluto di attribuzione»; in particolare se la stessa ricomprenda la carenza di potere in astratto ovvero quella in concreto poiché risulterebbero travolti i criteri di riparto della giurisdizione costruiti dalla Suprema Corte su tale concetto.

Viceversa se la nullità afferisce ad un provvedimento che incide su un interesse legittimo pretensivo, o, più in generale, nei casi in cui il provvedimento nullo riguarda un settore nel quale il privato non è titolare di alcun preesistente diritto soggettivo, non v'è ragione di affermare che la giurisdizione spetti al giudice ordinario. Sarebbe come dire, altrimenti, che la gravità dell'errore dell'amministrazione faccia sorgere ex novo un diritto soggettivo laddove non c'era.

Ciò posto, è indubbio che di fronte ad un provvedimento nullo possa ben sussistere una posizione di interesse legittimo e, di conseguenza, la giurisdizione del giudice amministrativo (T.A.R. Lombardia, Milano III, n. 5456/2008; Cons. St. V, n. 6388/2007).

Il tutto sempre che non si acceda alla tesi secondo cui, addirittura, sarebbe configurabile in linea generale un diritto soggettivo alla non nullità, per così dire, dei provvedimenti amministrativi, ossia un diritto soggettivo ad un minimum di correttezza dell'azione amministrativa, che consisterebbe nell'evitare l'adozione di provvedimenti radicalmente nulli.

Giurisdizione ed ottemperanza in tema di nullità per violazione ed elusione del giudicato

Sui concetti di «violazione» ed «elusione del giudicato», si veda Cons. St., Ad. plen., 6 aprile 2017, n. 1 .

Secondo la tesi prevalente, l'atto amministrativo difforme dal giudicato sarebbe adottato in carenza di potere e quindi nullo per tale ragione. In particolare, il rimedio consiste nel ricorso per ottemperanza e la preesistente titolarità del potere è erosa per effetto del giudicato di annullamento, in virtù del quale la P.A., nell'adottare nuovamente il provvedimento medesimo, è tenuta a non reiterare il vizio rilevato dal giudice. Sul punto, si veda Cons. St. V, n. 3705/2017, secondo cui per consentire l'unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall'interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato amministrativo, le relative doglianze devono essere dedotte dinanzi al giudice dell'ottemperanza, sia perché questi è il giudice naturale dell'esecuzione della sentenza, sia in quanto è il giudice competente per l'esame della forma patologica più grave dell'atto, quale è la nullità. Pertanto, in presenza di una tale opzione processuale, il giudice dell'ottemperanza è chiamato in primo luogo a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all'ottemperanza da quelle che, invece, hanno a che fare con il prosieguo dell'azione amministrativa, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito e ai poteri decisori. In particolare, nel caso in cui il giudice dell'ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall'Amministrazione configuri una violazione o elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda; invece, nel caso di rigetto della domanda di nullità, il giudice disporrà la conversione dell'azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.

Siffatto orietamento è stato confermato dall'Ad. plen. n. 2/2013, avendo, infatti, il Consiglio di Stato affermato che nei confronti di atti amministrativi adottati in seguito a una sentenza di annullamento, è consentito proporre in un unico ricorso, diretto al giudice dell'ottemperanza, domande tipologicamente distinte, le une proprie di un giudizio di cognizione e le altre di un giudizio di ottemperanza. In questi casi, infatti, il giudice dell'ottemperanza deve, in primo luogo, qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all'ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell'azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori. Nel caso, infatti, in cui il giudice dell'ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall'amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, e pertanto lo dichiari nullo, la domanda di annullamento dovrà essere dichiarata improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse. Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità, il giudice, sempre che il ricorso sia stato proposto nel rispetto dei termini per l'azione di annullamento, disporrà la conversione della domanda per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione in sede di giurisdizione generale di legittimità.

Con riguardo alla nullità per violazione o elusione del giudicato, il Consiglio di Stato, in Ad. plen., 11 marzo 1984, n. 6, ha chiarito che, per gli aspetti incisi dalle sentenze passate in giudicato, l'Amministrazione non ha più alcun potere amministrativo e che, pertanto, l'atto contrastante con il vincolo derivante dal giudicato è affetto da un vizio più grave dell'annullabilità, ovvero dalla carenza del potere.

Tuttavia, successivamente all'indirizzo seguito dalla Plenaria del 1984, la giurisprudenza amministrativa, preoccupata di assicurare una maggiore tutela agli interessati, si orientò verso la progressiva assimilazione dell'elusione alla violazione del giudicato, con l'obiettivo di contenere la discrezionalità dell'Amministrazione chiamata alla nuova attivazione del medesimo potere esercitato in occasione del provvedimento annullato dal giudice.

Pertanto, alla fine di tale percorso, il rimedio dell'ottemperanza è stato esteso anche al caso della elusione del giudicato, con conseguente superamento della distinzione tra i due tipi di difformità tra la sentenza ed il successivo provvedimento.

Tale impostazione trova oggi conferma nell'art. 21-septies, che include espressamente tra le cause di nullità del provvedimento amministrativo sia la violazione, sia l'elusione del giudicato.

L'art. 133, comma 1 lett. a, n. 5, c.p.a. (già art. 21-septies, comma 2, l. n. 241/1990), attribuisce alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie inerenti alla nullità dei provvedimenti adottati in violazione o elusione del giudicato.

La portata della prescrizione normativa, invero, porta con sé un acceso dibattito concernente la rilevanza giuridica di una disposizione che attribuisce la giurisdizione esclusiva al G.A. in una materia già rientrante nella giurisdizione di merito del giudice dell'ottemperanza: ci si chiede, pertanto, quale sia stata la necessità di inserire nell'ordinamento una norma priva, perlomeno prima facie, di innovatività.

Secondo una prima corrente interpretativa, la nuova disposizione è inutile e pericolosa:

– è inutile perché ribadisce una giurisdizione già spettante al G.A. in sede di ottemperanza exartt. 112 e ss. c.p.a.;

– è pericolosa perché la norma in concreto ha ridotto i poteri cognitori del giudice chiamato a risolvere le controversie concernenti la specifica ipotesi di nullità in oggetto. Più nel dettaglio, si è precisato che, attribuendo la materia alla giurisdizione esclusiva del G.A., si è eliminato il controllo di merito che qualifica la sola giurisdizione del giudice dell'ottemperanza.

Diversa impostazione, in senso diametralmente opposto, afferma che le argomentazioni addotte dalla tesi contraria non possono considerarsi valide.

Occorre premettere che il giudizio di ottemperanza presenta differenze procedurali e sostanziali rispetto a quello di nullità. In particolare, il primo è un giudizio di condanna esteso al merito, soggetto a una procedura accelerata, ha ad oggetto anche comportamenti e inerzie e consente la nomina di un commissario ad acta; il giudizio di nullità, viceversa, è un giudizio di accertamento che concerne i soli atti amministrativi, segue il rito ordinario, non consente una cognizione di merito e non prevede la nomina di alcun commissario ad acta.

Tali diversificazioni permettono di affermare che se è vero che il più delle volte la questione della nullità di un atto per violazione o elusione del giudicato si inserisce nel giudizio di ottemperanza, ciò non esclude aprioristicamente la possibilità, ad esempio in caso di prescrizione dell'actio iudicati o di ineseguibilità del giudicato, che la parte possa formulare una domanda di nullità ai soli fini risarcitori, autonoma rispetto al giudizio di ottemperanza. In questi casi la legge fissa una giurisdizione esclusiva relativa a un'azione di cognizione (non di esecuzione), onde evitare il dubbio della devoluzione al giudice ordinario di una controversia che attiene alla violazione del diritto soggettivo nascente dal giudicato.

La disciplina della nullità amministrativa.

L'art. 21-septies si limita ad evidenziare le diverse ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, senza tuttavia individuare la disciplina applicabile a tali fattispecie.

La disciplina del termine nell'azione di nullità

Nel silenzio della legge si è posta la questione relativa alla disciplina del termine di notifica del ricorso preordinato a far valere la nullità di un provvedimento amministrativo.

In particolare, si trattava di stabilire se la declaratoria di nullità dovesse domandarsi entro il medesimo termine di decadenza prescritto per l'annullamento, oppure se la relativa azione fosse imprescrittibile, in conformità alle regole del diritto civile, oppure, ancora, se fosse soggetta ad un termine di prescrizione.

Quel che occorreva comprendere, in linea di principio, era se il provvedimento amministrativo non esigesse, anche ove affetto da nullità, di un certo grado di stabilità, tale per cui, decorso un determinato arco di tempo, non fosse più possibile rimetterne in discussione la legittimità.

Secondo un certo orientamento, di ispirazione civilistica, nel silenzio legislativo, la nullità dell'atto, in quanto causa dell'improduttività originaria di effetti, poteva essere fatta valere in ogni tempo ed era rilevabile d'ufficio, sia dal giudice ordinario che dal giudice amministrativo (T.A.R. Puglia, Bari I, n. 1043/2008; T.A.R. Abruzzo, L'Aquila I, n. 484/2007).

Viceversa, secondo un altro orientamento, il problema doveva essere affrontato in modo diverso a seconda della posizione soggettiva lesa, poiché: in caso di diritti soggettivi la nullità poteva essere fatta valere in ogni momento; qualora, invece, il provvedimento asseritamente nullo avesse leso interessi legittimi, l'azione di nullità avrebbe seguito la regola generale per cui gli atti amministrativi vanno impugnati nel termine di decadenza previsto per la domanda di annullamento.

Tale soluzione è stata oggetto di critiche.

Appariva, infatti, una forzatura l'estensione del termine decadenziale ad un provvedimento che ab origine è improduttivo di effetti. In realtà, la ratio della previsione del termine di decadenza è costituita dalla necessità di stabilizzare gli effetti che l'atto illegittimo ha prodotto, evitandone la caducazione retroattiva.

La disparità di ratio escludeva, dunque, qualsiasi applicazione analogica del termine di decadenza, senza dire, peraltro, che non era ammessa analogia per un termine di carattere eccezionale, che, come tale, è di stretta interpretazione.

Alla luce dei suddetti rilievi, era chiaro che se da un lato non era applicabile la regola della decadenza, dall'altro lato non poteva nemmeno farsi capo alla regola civilistica, perché incompatibile con la specialità dell'atto amministrativo e con le ragioni di tutela dell'interesse pubblico.

Per tale motivo, una parte della dottrina propendeva per la terza soluzione, secondo cui la nullità del provvedimento poteva essere dedotta entro il termine di prescrizione ordinario decennale.

Tanto ha affermato anche la giurisprudenza amministrativa nell'unico caso in cui ha affrontato l'argomento, quello relativo alla declaratoria di nullità del provvedimento adottato in violazione del giudicato, e più in generale, in tema di actio iudicati (Cons. St. VI, n. 59/1992).

La soluzione al problema oggi è rinvenibile nel Codice del processo amministrativo. A questo proposito, l'art. 31, comma 4, accogliendo un'osservazione formulata dalla Commissione Affari costituzionali della Camera, aggiunge, alla disciplina dell'azione avverso il silenzio, quella volta all'accertamento della nullità, che si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. Resta ferma, tuttavia, la perpetuità della corrispondente eccezione, nonché la rilevabilità d'ufficio (Relazione gov. al Codice del processo amministrativo).

Legittimazione e la rilevabilità d'ufficio della nullità

Altra questione relativa al regime della nullità riguarda il profilo della legittimazione.

Si tratta, infatti, di comprendere se nel processo amministrativo o in quello civile in cui si discuta della nullità di atti trovi applicazione il principio generale posto dal codice civile, secondo cui la legittimazione a far valere la nullità del contratto compete a chiunque vi abbia interesse. Anzitutto va sottolineato che, di fronte ad un provvedimento nullo e perciò improduttivo di effetti, l'unico parametro di legittimazione che, in mancanza di una disciplina espressa, può essere ricavato è quello che discende della lesività del provvedimento nullo rispetto ad un interesse del ricorrente.

Giova ricordare che, già secondo le regole valevoli per l'impugnazione del provvedimento annullabile, non esistono dei soggetti che per definizione sono legittimati ad agire, ma la verifica della legittimazione va effettuata in concreto, con riferimento alla capacità del provvedimento di ledere la sfera giuridica di un soggetto anche diverso dal destinatario del provvedimento. In altri termini, possono chiedere l'annullamento dell'atto amministrativo tutti i soggetti che vi abbiano un interesse pratico in relazione agli effetti pregiudizievoli del medesimo, indipendentemente dalla qualifica formale di destinatari del provvedimento. È evidente allora che, se tanto vale per il provvedimento annullabile, vale a maggior ragione per il provvedimento nullo, e che pertanto la regola del codice civile è perfettamente coniugabile con le caratteristiche del processo amministrativo e con le problematiche relative ai provvedimenti amministrativi in generale.

Naturalmente con riguardo al provvedimento nullo la lesione va intesa non nel senso giuridico astrattamente inteso, data l'improduttività di effetti, ma piuttosto con riferimento agli effetti concreti derivanti, in ipotesi, dall'esecuzione erronea dell'atto nullo.

Orbene, tutti coloro che, per evitare le conseguenze negative attuali e potenziali, abbiano interesse all'accertamento della nullità da un punto di vista pratico, sono legittimati ad agire davanti alla giurisdizione competente, sia che si tratti di destinatari, sia che si tratti di terzi titolari di interessi individuali o collettivi.

Il fatto che l'azione di nullità sia proponibile «da chiunque vi abbia interesse» non significa che essa giunga a configurarsi come un'azione di tipo popolare, attribuita al quisque de populo.

Si tratta, invece, del conferimento della legittimazione attiva ad una categoria più ampia rispetto a quella costituita da coloro che hanno partecipato all'atto che si assume nullo, ma pur sempre limitata dall'interesse ad agire, consistente nella necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale di una propria posizione soggettiva e il conseguente danno alla propria sfera, derivante come effetto dell'atto di cui si deduce la nullità (Ramajoli).

Più problematica, invece, la questione relativa alla rilevabilità d'ufficio della nullità del provvedimento.

Nell'ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, il tema, secondo alcuni, era strettamente collegato alla soluzione che si intendeva accogliere in ordine all'operatività o meno di un termine di decadenza per l'impugnazione del provvedimento nullo. Infatti, se si fosse seguita la tradizionale tesi secondo cui, in caso di interessi legittimi, la rilevabilità della nullità sarebbe condizionata ad una reazione tempestiva nel termine decadenziale, il giudice, si sosteneva, non avrebbe potuto rilevare alcunché d'ufficio, spettando soltanto all'interessato dedurre la nullità entro il termine decadenziale.

Viceversa, qualora si fosse ritenuto non operante alcun termine decadenziale, non vi sarebbero stati ostacoli alla rilevabilità d'ufficio della nullità, purché nel rispetto della domanda di parte (T.A.R. Sicilia, Catania I, n. 14/2006). L'accertamento ex officio si riteneva, però, possibile soltanto ove desumibile dagli atti di causa, non potendosi disporre apposite attività istruttorie in merito.

La soluzione al problema è oggi offerta dal Codice del processo amministrativo che all'art. 31, comma 4 prevede che la nullità può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice (art. 31, comma 4).

ll potere di autotutela nei confronti di un atto nullo.

Ancora, in dottrina si discute se e in che misura sia possibile l'esercizio del potere di autotutela nei confronti di un atto nullo.

I dubbi concernono naturalmente I dubbi concernono naturalmente solo l'autotutela decisoria, essendo pacifico che non è di certo praticabile l'autotutela esecutiva, in quanto un provvedimento nullo non può essere portato coattivamente a esecuzione perché assolutamente improduttivo di effetti ab origine.

Taluni ammettono che la P.A. possa adottare un atto ricognitivo di contenuto dichiarativo, volto esclusivamente all'accertamento dell'invalidità, e cioè dell'improduttività di effetti del provvedimento nullo.

Altri riconoscono addirittura natura costitutiva all'autotutela esercitata verso un atto nullo, giacché la nullità impedisce la produzione di effetti giuridici, ma non anche degli effetti materiali, sui quali appunto inciderebbe il potere di autotutela.

Sul punto, una posizione mediana è stata assunta da Cass. S.U., 23 aprile 2013, n. 12110 che afferma che l'autotutela esercitata su un atto nullo ha natura costitutiva, almeno quando la rimozione dell'atto incide non sugli effetti giuridici ma su quelli materiali. Ne deriva che la disciplina applicabile è quella prevista dall'art. 21-nonies atteso che un atto nullo, pur non producendo effetti giuridici, produce effetti materiali (conf. Cons. St. V, n. 791/2014).

Il problema, in realtà, è strettamente connesso a quello della tutela dei terzi che hanno fatto affidamento sugli effetti dell'atto, di cui successivamente sia stata accertata la nullità. Tanto che si acceda alla tesi dell'autotutela costitutiva, quanto a quella dell'autotutela dichiarativa, infatti, deve ammettersi la necessità che la P.A. dia atto della comparazione dell'interesse pubblico all'eliminazione del provvedimento con gli interessi dei soggetti privati, poiché non può escludersi che anche un provvedimento nullo abbia medio tempore modificato la realtà materiale, ingenerando legittimi affidamenti nei suoi destinatari. Pertanto, almeno sotto il profilo della disciplina, l'autotutela verso i provvedimenti nulli non si discosterebbe da quella avente a oggetto i provvedimenti semplicemente annullabili, identica essendo la necessità di assicurare la tutela dell'affidamento dei terzi, che abbiano incolpevolmente confidato sulla stabilità del vantaggio. A tal proposito, occorre rilevare che la legge Madia, n. 124/2015, ha introdotto al comma 1 dell'art. 21-nonies un nuovo periodo, da ultimo modificato dal d.l. n. 77/2021, in base al quale si prevede che la P.A. debba esercitare il potere di autotutela entro un termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici. Appare, quindi, opportuno chiedersi se tale sbarramento temporale operi anche in presenza di vizi di nullità talmente eclatanti da essere conosciuti o conoscibili e da impedire conseguentemente il consolidarsi di un affidamento incolpevole.

La convalida e la conversione

Nel sistema delineato dal Codice civile la convalida del contratto nullo è considerata ipotesi del tutto eccezionale (v. art. 1423 c.c. «il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente»): si pone, pertanto, il problema di verificare se la stessa regola valga anche per il provvedimento amministrativo nullo. Ci si chiede, cioè, se un provvedimento nullo sia sanabile, oppure se si applichi la disciplina civilistica, che impedisce la sanatoria del contratto nullo, salvi casi eccezionali.

Una parte della dottrina propende per la seconda prospettiva, desumendo l'inammissibilità della convalida non solo dall'art. 1423 c.c., ma anche, a contrario, dal secondo comma dell'art. 21-nonies l. n. 241/1990, che prevede esclusivamente la convalidabilità del provvedimento annullabile, escludendola per quello nullo. La ratio riposerebbe sul principio generale della radicale improduttività di effetti giuridici di un atto nullo, e sarebbe giustificata dalla rilevanza superindividuale degli interessi presidiati dalla sanzione della nullità nonché dall'assoluta gravità del vizio, tale da non consentire alcuna sanatoria.

Alcuni, però, hanno eccepito che quello stesso principio di conservazione e di stabilità degli effetti dell'atto amministrativo, richiamato a proposito della disciplina della nullità parziale, dovrebbe in tal caso far ritenere inapplicabile la norma civilistica. Di qui la preferenza per un'opzione che consente, in via generale, alla P.A. di sanare, almeno ex nunc, la nullità.

L'Amministrazione in virtù del principio di continuità dell'azione e di permanenza del potere, sarebbe così legittimata a rimuovere in via postuma i vizi dell'atto, con valenza non retroattiva.

Con riguardo all'applicabilità nel diritto amministrativo della norma di cui all'art. 1424 c.c., che prevede la conversione del contratto nullo, alcuni autori l'ammettono senza riserve anche per il provvedimento; ma v'è pure chi, in senso contrario, osserva che la non convertibilità dell'atto amministrativo rappresenterebbe il corollario del principio di tipicità e nominatività dei provvedimenti, presupponente l'ineludibile corrispondenza, funzionale e biunivoca, tra la causa del potere esercitato e la determinazione di volta in volta adottata. Ne conseguirebbe che potrebbe correttamente parlarsi di conversione dell'atto amministrativo solo in quelle rare fattispecie di mera conversione formale, allorquando cioè un provvedimento invalido presenti nondimeno tutti i requisiti di un diverso atto costituente espressione della medesima funzione in concreto svolta.

Occorre chiedersi, poi, se la patologia pubblicistica della nullità (ma anche, anticipandone la relativa trattazione, della annullabilità) riguardi solo i provvedimenti o concerna anche le forme consensuali di esercizio del potere.

Se si configurano gli accordi di cui all'art. 11 della l. 241 come dei veri e propri contratti, ancorché ad oggetto pubblico, quindi come atti di autonomia privata, pur se aventi un contenuto pubblicistico, allora occorrerà applicare, come ricorda lo stesso art. 11, le norme civilistiche sulla patologia. Se invece, in ossequio alla tesi prevalente, si valorizza l'essenza pubblicistica degli accordi, intesi come forme consensuali per l'esercizio del potere pubblicistico, finalizzato o alla determinazione del contenuto o alla integrale sostituzione di un provvedimento all'esito del procedimento, occorrerà applicare le norme sul provvedimento.

Questioni applicative.

1) L'art. 21-septies ha eliminato la categoria concettuale dell'inesistenza?

Il limite esterno della categoria concettuale della nullità è costituito dall'inesistenza dell'atto amministrativo, che qualifica il provvedimento privo dei requisiti minimi per assumere la veste attizia. In tal caso l'atto presenta una tale incompletezza o anomalia da non poter acquistare rilevanza giuridica per l'ordinamento, essendo invece considerato tamquam non esset e come tale insuscettibile di qualificazione da parte dell'ordinamento (Bellomo, 333; Caringella, 1083).

In dottrina è sorto un acceso dibattito concernente la possibilità di riconoscere autonomia concettuale all'istituto dell'inesistenza nell'ambito del diritto amministrativo. Tale querelle ha visto contrapporsi due indirizzi di segno opposto: da un lato, chi ha negato ogni rilievo alla distinzione tra la categoria giuridica dell'inesistenza e quella della nullità e dall'altro chi ha sostenuto la radicale e necessaria diversità dei due concetti (D'Allura; Carnelutti, 28; Ascarelli, 227).

L'approccio tradizionale, che non ha riconosciuto rilevanza alla distinzione fra inesistenza e nullità, fa capo alla c.d. teoria funzionale o causalistica della fattispecie, elaborata dalla pandettistica tedesca del secolo scorso.

Presupposto di tale teoria è la concezione effettuale dell'atto o della fattispecie: una fattispecie può dirsi giuridicamente esistente laddove l'ordinamento vi ricolleghi determinati effetti. Qualora, invece, essa non sia idonea a produrre alcun effetto giuridico perché l'ordinamento la ritiene inficiata da una patologia talmente grave da impedirne l'efficacia sin dall'inizio, si deve affermare che la fattispecie sia sempre e comunque giuridicamente inesistente. La conclusione che si rassegna deriva dall'idea di fondo che l'inidoneità dell'atto nullo alla produzione di effetti giuridici conduce lo stesso nell'area dell'inesistenza (Santoro Passarelli, 241; T.A.R. Sicilia, Catania II, n. 1133/2007; T.A.R. Campania, Salerno I, n. 708/2007; T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, n. 1384/2005; Cons. St. IV, n. 579/2005).

Tale impostazione viene rivista criticamente dalla dottrina ormai prevalente. La contestazione principale mossa all'orientamento precedente consta nel rilievo che essa finisce per operare un'inversione logica delle proposizioni, laddove affronta prima il problema dell'effetto e soltanto dopo, sulla base di questo, verifica se una fattispecie esista o meno: una fattispecie è giuridicamente rilevante quando viene qualificata come tale dall'ordinamento, indipendentemente dalla produzione degli effetti, che potrebbe restare preclusa per le ragioni più varie. In altri termini, la giuridicità dell'atto non dipende dalla sua idoneità alla produzione di effetti, bensì dal giudizio di rilevanza espresso dall'ordinamento, sicché la qualificazione di nullità dell'atto non coincide affatto con quella di irrilevanza ed inesistenza (Falzea).

L'intervento legislativo del 2005 ha certamente deposto a favore di tale orientamento ormai prevalente. Il fatto stesso che il legislatore si sia preoccupato di disciplinare la nullità dell'atto dimostra che la fattispecie è giuridicamente rilevante per il diritto: l'ordinamento la prende in considerazione proprio al fine di precluderne, in determinate circostanze, gli effetti. È evidente, invece, che ove il provvedimento nullo non esistesse, non si porrebbe nemmeno la questione di disciplinarne l'inefficacia.

La positivizzazione della categoria della nullità di conseguenza ha ridotto le ipotesi tradizionalmente ritenute cause di inesistenza del provvedimento.

Permangono tuttavia una serie di casi particolarmente discussi sia in dottrina che in giurisprudenza.

La distinzione non è priva di conseguenze pratiche, posto che rileva soprattutto ai fini delle ricadute pratiche in tema di responsabilità, autotutela e sanatoria, concepibili nei confronti di un atto nullo ma non certamente di quello inesistente.

Infatti, l'atto inesistente non può essere oggetto di sanatoria, poiché l'eventuale atto «sanante» emanato dalla P.A. si configurerebbe come un provvedimento radicalmente nuovo. Al contrario, si ritiene generalmente che un atto nullo possa essere ritirato o sanato dalla P.A., pur nell'esercizio di un potere che presenta delle anomalie rispetto a quello avente ad oggetto gli atti semplicemente annullabili.

Inoltre, nei confronti di un provvedimento inesistente la P.A. non può esercitare l'autotutela, per l'ovvia considerazione che se il provvedimento non esiste non è concepibile che esso formi oggetto di ritiro.

Quanto all'eventuale responsabilità dell'amministrazione, appare evidente che l'inesistenza, se impedisce di qualificare il provvedimento come tale, a maggior ragione non consente di imputarlo all'amministrazione. Sul punto vi è chi ritiene che il rapporto di immedesimazione organica fra il dipendente e la P.A. venga rescisso in ogni caso, qualora si discorra di un provvedimento inesistente, eppure portato ad esecuzione; viceversa, il danno derivante dall'esecuzione di un provvedimento nullo sarebbe comunque un danno da provvedimento esistente, dunque riferibile alla P.A. (Caringella).

Infine, a fronte di un atto inesistente sembra improbabile che possa sorgere un interesse ad agire per ottenere una pronuncia dichiarativa della improduttività di effetti che di per sé l'atto è inidoneo a produrre, in quanto inesistente.

Al contrario sussiste, secondo taluni, il diritto di resistenza dei destinatari dell'atto inesistente, stante l'impossibilità di portare ad esecuzione lo stesso.

2) Quando ricorre nullità per difetto o mancanza di sottoscrizione?

Una delle ipotesi più discusse è rappresentata dalla mancanza di sottoscrizione ritenuta da taluni un caso di inesistenza giuridica del provvedimento, da altri tipico esempio di inesistenza materiale, da altri ancora un esempio paradigmatico di nullità.

In senso opposto si distingue il caso in cui la sottoscrizione, pur essendo mancante o illeggibile, risulta essere ininfluente ai fini dell'identificazione del soggetto a cui l'atto è riferibile in quanto desumibile aliunde da circostanze di fatto o da elementi presenti nel provvedimento.

A questo scenario differenziato, dal quale emerge il carattere non necessariamente invalidante del difetto de quo, si è adeguata la giurisprudenza antecedente alla riforma.

Un primo indirizzo, molto rigoroso, riteneva che la mancanza assoluta della sottoscrizione determinasse, in ogni caso, anche laddove risulti evidente l'autore, l'inesistenza del provvedimento T.A.R. Lazio, Roma, I-bis, n. 2054/2004).

Un'applicazione di questa prima posizione, criticata dalla dottrina (Bartolini), si è avuta in tema di dichiarazione sostitutiva di notorietà, per la quale, in difetto della necessaria allegazione della copia fotostatica del documento d'identità del sottoscrittore, si è sostenuta l'inesistenza sul piano giuridico dell'atto dichiarativo per mancanza di un suo elemento essenziale (T.A.R. Umbria, n. 212/2004).

Altra parte della giurisprudenza equiparava, invece, l'ipotesi della sottoscrizione mancante a quella della sottoscrizione illeggibile e pertanto reputava irrilevante che la mancanza della firma, purché sia in altro modo possibile individuare l'autorità che ha emanato l'atto (T.A.R. Campania, Salerno I, n. 708/2007; Cons. St. V, n. 5853/2004; T.A.R. Campania, Napoli II, n. 8235/2004; T.A.R. Campania, Napoli II, n. 3353/2002; T.A.R. Valle d'Aosta, n. 89/2000; T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, n. 423/1998, T.A.R. Calabria, Catanzaro n. 703/1996; Cons. St. VI, n. 885/1991).

La giurisprudenza amministrativa, anche dopo la riforma, sembra ancorata a ritenere causa di inesistenza la mancanza totale della sottoscrizione (T.A.R. Campania, Salerno II, n. 1987/2005).

In realtà, la riforma della l. n. 241 ha smentito l'orientamento più rigoroso, attraverso l'introduzione della figura della nullità per mancanza degli elementi essenziali.

Tale soluzione è in linea con quanto statuito in precedenza dalla Consulta, secondo la quale l'autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell'atto amministrativo nei soli casi in cui sia espressamente prevista per legge; altrimenti è sufficiente che si possa individuare con certezza per tabulas l'autorità da cui l'atto proviene o la struttura amministrativa alla quale il relativo autore è preposto (Corte cost., ordinanza 21 aprile 2000, n. 117).

Pertanto, a seguito della riforma del 2005, si deve ritenere che le ipotesi di inesistenza, in cui la sottoscrizione mancante sia richiesta come elemento di forma ad substantiam , siano rifluite nella categoria della nullità, rimanendo mere irregolarità non rilevanti sul piano della validità tutte le altre ipotesi (T.A.R. Liguria, Genova II, 7 febbraio 2007, n. 169).

In tal senso si è pronunciato anche il Consiglio di Stato, affermando che «Sebbene la firma apposta in calce ad un provvedimento o ad un atto amministrativo costituisce lo strumento per la sua concreta attribuibilità, psichica e giuridica, all'agente amministrativo che risulta averlo formalmente adottato, è pur vero che la giurisprudenza ha recentemente (e condivisibilmente) osservato, anche in omaggio al più generale principio di correttezza e buona fede cui debbono essere improntati i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino, che non solo la “non leggibilità” della firma, ma anche la stessa autografia della sottoscrizione non possono costituire requisiti di validità dell'atto amministrativo, ove concorrano elementi testuali (indicazione dell'ente competente, qualifica, ufficio di appartenenza del funzionario che ha adottato la determinazione, emergenti anche dal complesso dei documenti che lo accompagnano), che permettono di individuare la sua sicura provenienza (C.d.S., IV, n. 4356/2000; Cons. St. VI, n. 4712/2009); è stato anche rilevato (Cass. sez. lav., n. 13375/2009) che l'atto amministrativo esiste come tale allorché i dati emergenti dal procedimento amministrativo consentano comunque di ritenerne la sicura provenienza dall'amministrazione e la sua attribuibilità a chi deve esserne l'autore secondo le norme positive, salva la facoltà dell'interessato di chiedere al giudice l'accertamento dell'effettiva provenienza dell'atto stesso dal soggetto autorizzato a firmarlo» (Cons. St. V, n. 3119/2012). Pertanto, qualora non si revocabile in dubbio la paternità dell'atto amministrativo, la mancanza di firma costituite una mera irregolarità.

3) Quali problemi si pongono per la sottoscrizione degli atti collegiali?

Un caso particolare di mancanza di sottoscrizione ricorre quando nel verbale di una seduta di un organo collegiale difetti la firma di uno dei componenti dell'organo stesso.

In tal caso, la giurisprudenza ha escluso l'invalidità della delibera sulla base della considerazione secondo la quale il verbale non è un atto collegiale, ma solo il documento che attesta il contenuto della volontà collegiale (Cons. St. V, n. 135/1999).

Successivamente, il Consiglio di Stato si è pronunciato in ordine alla mancata sottoscrizione dei verbali di concorso da parte di un componente della commissione ed ha considerato che l'apprezzamento, nella sua esatta valenza, della prescrizione di obbligatoria sottoscrizione (v. anche art. 8 del d.P.R. n. 686/1957 e art. 15 del d.P.R. n. 487/1994), da parte di tutti i commissari e del segretario, del processo verbale riportante le operazioni di esame e di valutazione e le decisioni prese dalla commissione esaminatrice, anche nel giudicare i singoli elaborati, non può prescindere dalla considerazione che il verbale stesso (unico documento probatorio dello svolgimento delle operazioni e del contenuto degli atti concorsuali), anche se preordinato a riprodurre l'attività di un organo collegiale (quale è la commissione giudicatrice), «non è per sua natura un atto collegiale, ma solo il documento materiale che attesta, con le garanzie di legge, il contenuto di una volontà collegiale, la cui invalidità, stante il carattere insostituibile della prova, si risolve, tuttavia, nella concreta impossibilità di dimostrare la formazione di detta volontà» (Cons. St. V, n. 344/2003; Cons. St. VI, n. 6058/2001).

È corretto, pertanto, affermare che l'espressa previsione della sottoscrizione del processo verbale da parte di tutti i componenti della commissione esaminatrice, non essendo volta ad integrare né l'esistenza, né l'efficacia probatoria del documento, è preordinata a tutelare il diritto di ciascuno di detti componenti di verificare la conformità del verbale alle operazioni svolte ed alle valutazioni espresse, così da consentire a ciascuno di loro di far constare il proprio dissenso. Corollario di tale impostazione è che la mancanza della firma di uno dei commissari di esame, ove non sia determinata dalla mancata partecipazione di questi alla seduta ovvero da un atto volontario di astensione esplicitamente fatto constare, concreta una irregolarità del verbale, ascrivibile a mero errore materiale (Caringella, 1083).

Orientata in tal senso è anche una pronuncia della Corte di Cassazione in tema di invalidità degli atti collegiali, rispetto alla mancanza della sottoscrizione del consigliere comunale più anziano, richiesta accanto a quella del segretario, dall'art. 4 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia del 21 luglio 1976, n. 33, per la deliberazione comunale di individuazione delle aree da destinare ad interventi edilizi urgenti nei comuni colpiti dal sisma del maggio 1976.

La Suprema Corte ha, infatti, ritenuto che il difetto di sottoscrizione non comporta l'inesistenza giuridica del verbale, potendo derivarne la mera illegittimità del medesimo e della deliberazione collegiale, peraltro solo a condizione che l'omessa sottoscrizione sia espressione del dissenso in ordine all'effettiva corrispondenza tra quanto verbalizzato e quanto in realtà accaduto nella seduta collegiale (Cass. 12 giugno 2009, n. 13756).

4) ...e per l'atto ioci o docendi causa?

Sicuramente irrilevante giuridicamente, ergo inesistente, è l'atto emanato ioci causa, o docendi causa, destinato a non produrre alcun effetto (T.A.R. Puglia, Lecce III, n. 461/2005). L'atto adottato con la volontà da parte dei destinatari di non produrre alcun effetto giuridico è, infatti, un atto giuridicamente irrilevante.

5) Quando ricorre l'usurpazione di potere?

Problematica risulta essere la qualificazione dell'atto amministrativo adottato da un soggetto privato del tutto estraneo all'amministrazione che, arrogandosi un potere pubblicistico che assolutamente non gli compete, emana un provvedimento.

Secondo la tesi maggioritaria, l'atto emanato dall'usurpatore deve considerarsi inesistente, perché inesistente è il soggetto.

Secondo altra tesi, invece, l'usurpazione di potere darebbe luogo ad un'ipotesi di nullità per carenza di potere.

Una tesi mediana propone di distinguere a seconda della percezione dell'assenza di legittimazione da parte dei destinatari. Più precisamente, se, in base alla situazione apparente, il provvedimento sia palesemente inidoneo a produrre effetto alcuno, perché il suo autore è riconosciuto come usurpatore, esso non può non ritenersi assolutamente inesistente. Viceversa, qualora i destinatari vengano in dotti in errore dall'apparenza, e l'atto venga portato ad esecuzione, cioè ha comunque prodotto degli effetti materiali, per ciò stesso esso non può essere relegato nell'area del giuridicamente irrilevante, id est dell'inesistenza.

A seguito della novella del 2005 gli orientamenti illustrati debbono essere rivisitati. La soluzione del contrasto è strettamente connessa all'interpretazione che si vuole dare alla dicitura «difetto assoluto di attribuzione» contenuta nell'art. 21-septies.

Se si accoglie la tesi maggioritaria – che ritiene comprese nella nozione sia l'incompetenza assoluta che la carenza di potere in astratto – l'usurpazione di potere è un'ipotesi di nullità; viceversa se si riporta nel difetto assoluto di potere la sola incompetenza assoluta, l'usurpazione di potere rimarrebbe un caso di carenza di potere in astratto e come tale qualificabile come inesistenza perché inidonea a determinare un'attività provvedimentale apprezzabile nel mondo giuridico (Montedoro).

6) Il provvedimento antieuropeo (o anticomunitario) è nullo o annullabile?

La prevalente giurisprudenza nazionale, prendendo le mosse dalla tesi che definisce i rapporti tra diritto interno e diritto comunitario in termini di integrazione fra i due ordinamenti, ha ricondotto il vizio generato dall'inosservanza delle norme comunitarie alla categoria dell'illegittimità per violazione di legge con conseguente annullabilità del provvedimento (Cons. St. V, n. 35/2003).

Solo in isolate pronunce, invero, si è giunti alla conclusione di configurare il vizio dell'atto anticomunitario in termini di nullità inesistenza (T.A.R. Piemonte, n°34/1989). Ma tale tesi è stata smentita dal Consiglio di Stato, il quale, nel confermare il tradizionale orientamento, ha ulteriormente rilevato che «l'entrata in vigore dell'art. 21-septies della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 15/2005, ha codificato le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, che costituiscono quindi un numero chiuso e all'interno delle quali non rientra il vizio consistente nella violazione del diritto comunitario» (Cons. St. VI, n. 2623/2008; Cons. St. VI, n. 6831/2006, Cons. St. VI, n. 1023/2006).

Sul piano processuale, i riflessi della richiamata impostazione sostanziale hanno indotto la giurisprudenza nazionale ad escludere che il giudice possa disapplicare (salva l'ipotesi degli atti di normazione secondaria) l'atto contrario al diritto comunitario, e a ritenere che tale conclusione non risulti incompatibile con il principio della “primautè” del diritto (prima comunitario, oggi) eurounitario e con il suo carattere vincolante, oltre che per i giudici, per il legislatore e le amministrazioni.

Il provvedimento, ancorché viziato perché emanato in violazione del diritto eurounitario, è idoneo, secondo principi noti, a produrre tutti i suoi effetti, con conseguente onere per l'interessato di proporre avverso il medesimo tempestiva impugnazione, (Cons. St. IV, n. 579/2005, Cons. St. V, n. 35/2003).

7) Nullità parziale del bando di gara ex art. 83 co. 8 d.lgs. n. 50/2016 e conseguenze sui provvedimenti applitivi.

L'art. 83, comma 9, del vigente codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) prevede il principio di tassatività delle cause di esclusione e ha ribadito che ‘sono comunque nulle' le clausole escludenti in contrasto con tale principio.

Il Consiglio di Stato (Ad. plen. 22/2020) ritiene che la nullità della clausola escludente contra legem, prevista dall'art. 83, comma 9, del codice, vada intesa come nullità in senso tecnico (con la conseguente improduttività dei suoi effetti), similmente a quanto è stato deciso per la corrispondente disposizione del novellato art. 46 del d.lgs. n. 163/2006. In altri termini, la clausola è nulla, ma tale nullità, se da un lato non si estende al provvedimento nel suo complesso (vitiatur sed non vitiat), d'altro canto impedisce all'amministrazione di porre in essere atti ulteriori che si fondino su quella clausola, rendendoli altrimenti illegittimi e quindi, attesa l'autoritatività di tali atti applicativi, annullabili secondo le regole ordinarie.

Ritenere che la nullità sancita dal comma 8, ultima parte, dell'articolo 83 vada intesa come annullabilità si porrebbe in contrasto con la scelta del legislatore di qualificare come nulla la clausola escludente contra legem, e dunque non solo con il tenore testuale della legge, cui occorre attribuire primario rilievo in sede ermeneutica, ma anche con la sua composita ratio, volta a individuare un equilibrio tra radicale invalidità della clausola per contrasto con norma imperativa, ordinaria autoritatività dei provvedimenti amministrativi e interesse del ricorrente a far valere l'invalidità, in termini di nullità, quando essa si traduca in un provvedimento applicativo (esclusione o aggiudicazione) lesivo in concreto della sua situazione soggettiva tutelata.

Ritiene, dunque, l'Adunanza Plenaria che – al cospetto della nullità della clausola escludente contra legem del bando di gara – non vi sia l'onere per l'impresa di proporre alcun ricorso: tale clausola – in quanto inefficace e improduttiva di effetti – si deve intendere come ‘non apposta', a tutti gli effetti di legge.

Inoltre, non si possono considerare applicabili l'art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 e l'art. 31 del codice del processo amministrativo, i quali si riferiscono ai casi in cui un provvedimento sia nullo ed ‘integralmente' improduttivo di effetti: la clausola escludente affetta da nullità, in base al principio vitiatur sed non vitiat già affermato dalla sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 9 del 2014, non incide sulla natura autoritativa del bando di gara, quanto alle sue ulteriori determinazioni.

Il legislatore, nel prevedere la nullità della clausola in questione, ha disposto la sua inefficacia, tanto che – se anche il procedimento dura ben più dei sei mesi previsti dall'art. 31 del c.p.a. per l'esercizio della azione di nullità – la stazione appaltante comunque non può attribuire ad essa rilievo perché ritenuta “inoppugnabile”.

I successivi atti del procedimento, inclusi quelli di esclusione e di aggiudicazione, pur basati sulla clausola nulla, conservano il loro carattere autoritativo e sono soggetti al termine di impugnazione previsto dall'art. 120 del codice del processo amministrativo, entro il quale si può chiedere l'annullamento dell'atto di esclusione (e degli atti successivi) per aver fatto illegittima applicazione della clausola escludente nulla.

L'art. 120 non prevede alcuna deroga al termine di decadenza di trenta giorni, che sussiste qualsiasi sia il vizio – più o meno grave – dell'atto impugnato. Né può farsi discendere, quanto meno nell'ordinamento amministrativo, la nullità di un atto applicativo di un precedente provvedimento solo parzialmente affetto da una nullità riferita a una sua specifica clausola inidonea a inficiare la validità di quel provvedimento nel suo complesso.

Non vi è dunque alcun onere, in conclusione, per le imprese partecipanti alla gara di impugnare (entro l'ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege, ma vi è uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell'atto precedente.

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