Legge - 7/08/1990 - n. 241 art. 28 - Modifica dell'articolo 15 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, in materia di segreto di ufficio 1Modifica dell'articolo 15 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, in materia di segreto di ufficio 1
1. L'art. 15 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, è sostituito dal seguente: "Art. 15 ( Segreto d'ufficio ). - 1. L'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio. Non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dall'ordinamento". [1] Rubrica inserita dall'articolo 21, comma 1, lett. gg), della legge 11 febbraio 2005, n. 15. InquadramentoL'articolo 28 della legge generale sul procedimento amministrativo reca una modifica al testo unico di cui al d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, in materia di segreto di ufficio. In particolare, si prevede che l'impiegato debba mantenere il segreto d'ufficio, non potendo trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Si tratta, come evidente, di una norma di chiusura che pone un preciso obbligo al dipendente pubblico nell'ambito di operatività del diritto di accesso. La norma deve coordinarsi con l'art. 326 c.p., il quale prevede tre distinte figure di reato riconducibili ai casi di abuso d'ufficio; commette il primo reato il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio che devono rimanere segrete, o ne agevola, in qualsiasi modo, la conoscenza; commette il secondo reato il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, che per colpa agevola la conoscenza; infine, commette il terzo reato il pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio le quali devono rimanere segrete. La fonte principale del dovere di segretezza per i pubblici impiegati era l'art. 15 d.P.R. 15 gennaio 1957 n. 3, che nel testo modificato dall'art. 28 l. n. 241/90, così statuisce: «L'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio. Non può trasmettere a chi non ne abbia diritto di informazione riguardanti provvedimenti o operazioni amministrative, in corso o conclusione, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato preposto ad un ufficio rilascia copie e estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dall'ordinamento». Oggi la portata della norma sopra citata risulta notevolmente ridimensionata dall'articolo in commento, il quale ancora il segreto d'ufficio a criteri oggettivi e normativamente definiti. Il segreto d'ufficio: un istituto dalle antiche origini.Il legislatore, in occasione della riforma della legge sul procedimento amministrativo del 2005, non ha apportato modifiche alla formulazione dell'art. 15 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che era invece stato innovato dalla norma in commento nel 1990. L'art. 28 identifica il mantenimento del segreto d'ufficio come obbligo di carattere generale nella sfera del sistema dei doveri dell'impiegato civile dello Stato, nella vecchia come nell'attuale formulazione (Saponara, 1103). Inoltre, vi è una proliferazione di norme speciali che estendono tale obbligo previsto per diversi settori dell'amministrazione ad altre categorie di dipendenti. Il segreto d'ufficio è però un istituto d'antichissima origine e dotato di autonoma rilevanza. Attenta dottrina ha dimostrato tramite un'approfondita indagine storico-giuridica la grande indeterminatezza dei contorni di tale categoria concettuale voluta così dal legislatore di ogni tempo, tanto da poterlo definire un istituto «senza storia» (Arena, 215). Sul punto, già nella sensibilità letteraria dell'illuminismo, la pubblicità degli atti del potere costituisce uno dei criteri essenziali per contraddistinguere lo Stato costituzionale dallo Stato assoluto (Bobbio, 78). In particolare, la legge costituzionale svedese sulla stampa del 2 dicembre 1776 stabilisce, all'art. 11, il diritto di chiunque di consultare i dossier in mano pubblica mentre la legge comunale e provinciale di Venezia del 1781 contiene un preciso riferimento al dovere di «mostrare le Carte a chiunque del Comune le ricerchi, e darne copie, sempre con le convenienti Mercedi» (Scarciglia, 19). Tuttavia, nella legislazione dell'ottocento, con l'avvento del codice napoleonico, si registra un'affermazione prepotente della cultura del segreto: il segreto d'ufficio viene sostanzialmente considerato come un rigoroso divieto di comunicazione all'esterno da parte di un pubblico impiegato di notizie, in assenza di una specifica disposizione autorizzatoria. Il divieto ricomprende tutte quelle informazioni di cui in qualunque modo ne sia stata vietata la divulgazione e che rientrano nella cognizione di un determinato ufficio. Di qui le previsioni di cui agli articoli 59, lett. f) e 62, lett. a) del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2960 (Disposizioni sullo stato giuridico degli impiegati civili dell'amministrazione dello stato) che prevedono, per l'inosservanza del segreto d'ufficio, l'applicazione di rigorose sanzioni anche in assenza di conseguenze dannose per l'amministrazione. Con l'avvento della Costituzione repubblicana il varco in favore della pubblicizzazione di norme, procedure ed informazioni si infrange nel sottosistema amministrativo. Sulla scorta di tanto, prima del 1990, sono state tracciate timide aperture da leggi di settore, come tali incapaci di determinare un capovolgimento sul piano generale dei valori (Caringella, Garofoli, Sempreviva, 2). Emblematica è la disposizione dell'art. 15 T.U. imp. civ. Stato di cui al d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 antecedente alla riforma apportata dal legislatore con l'art. 28 della l. n. 241/1990, in cui traspare un contesto socio-normativo connotato dal principio di segretezza che giustifica nel contempo una posizione di sostanziale arbitrio dell'amministrazione nel giudizio delle notizie passibili di pubblicità (Caringella, 2046). In particolare, la disposizione testualmente recita «1. L'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio e non può dare a chi non ne abbia diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a provvedimenti od operazioni amministrative di qualsiasi natura ed a notizie delle quali sia venuto a conoscenza a causa del suo ufficio, quando possa derivarne danno per l'amministrazione o per i terzi. 2. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato preposto ad un ufficio rilascia, a chi ne abbia interesse, copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dalle leggi, dai regolamenti o dal capo del servizio». Invero, la disciplina prevista dallo Statuto degli impiegati civili dello Stato resta fortemente datata e non conforme con i principi contenuti nella Costituzione, quali il buon andamento e l'imparzialità della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97, la partecipazione alla vita pubblica desumibile dall'art. 2, il decentramento amministrativo di cui all'art. 5 (Cogliani, 964). L'art. 15 del d.P.R. n. 3/1957 non individua gli atti coperti da segreto, in quanto il segreto costituisce la regola generale per tutti gli atti provenienti dall'amministrazione. Come è stato osservato in dottrina, ciò si fonda sul carattere dell'amministrazione quale fortemente autoritativa, organizzata mediante moduli di gerarchia, ove i momenti di partecipazione degli interessati e dei cittadini sono limitati (Giannone). Peraltro, gran parte della dottrina con riferimento all'inciso «non segreti» dettato dalla disciplina preesistente è solita distinguere tra atti «segreti» e atti «riservati», caratterizzati i primi da un assoluto ed incondizionato divieto di divulgazione, i secondi da un divieto riferito invece ai soli soggetti non legittimati alla conoscenza, sempre che da tale conoscenza possa provenire un danno per l'amministrazione o per i terzi (Acquarone, 114). Il segreto d'ufficio: un'eccezione al principio della trasparenza.Soltanto con il varo della legge sul procedimento amministrativo, il legislatore nel percepire l'indispensabilità dell'accesso come strumento di democratizzazione della trasparenza dell'agire pubblico, riformula l'art. 15 cit., eliminando il divieto penalmente sanzionato di rilascio di informazioni per atti che non siano definiti formalmente come segreti e il richiamo alla discrezionalità del capo del servizio di impedire il rilascio di atti non segreti. In altri termini, il segreto d'ufficio, che rappresenta il limite negativo al diritto di accesso, costituisce ora l'eccezione rispetto alla regola attuata dalla Pubblica Amministrazione nel vigore dell'art. 15 citato, grazie ad un'apertura sostanziale al pubblico delle pratiche gestite dagli uffici. Sul punto si esprime la giurisprudenza amministrativa secondo la quale con la legge sul procedimento, è stata fortemente ridimensionata la portata sistematica del segreto di Stato e del segreto amministrativo – quest'ultimo oramai non costituendo un principio generale dell'azione dei pubblici poteri, ma essendo solo un'eccezione al canone della trasparenza, rigorosamente circoscritto ai soli casi in cui sia necessario obiettivamente tutelare particolari e delicati settori della p.a. (Cons. St. V, n. 5195/2000). Con l'art. 28 della l. n. 241/1990, che modifica l'art. 15 del d.P.R. n. 3/1957, il segreto d'ufficio assume sempre più il carattere di strumento di protezione specialmente di quei singoli interessi pubblici che solo con tale istituto si possono adeguatamente tutelare. Così come rinnovato, il segreto d'ufficio degrada da «canone fondamentale dell'organizzazione» a mero «strumento di protezione di interessi» (Villata, 538). Va sul punto segnalato che sempre di più si avverte l'esigenza in dottrina e poi nella legislazione positiva di ancorare il segreto d'ufficio ad interessi che devono essere collegati a valori che trovano il proprio fondamento nella Carta costituzionale (Zagrebelsky, 28). A questo proposito, la giurisprudenza costituzionale chiarisce che il criterio della ragionevolezza, oltre a quello ratione materiae, meglio consente, nella comparazione dei diversi interessi in gioco, la valutazione del danno e dunque del ragionevole sacrificio imposto, per il tramite del segreto, ad altri interessi costituzionalmente tutelati e protetti. Il nuovo quadro di valori introdotto dalla l. n. 241/1990 è efficacemente tracciato da una storica pronuncia dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che si è occupata del delicato problema dei rapporti tra accesso e riservatezza: «la segretezza permane non come predicato soggettivo ma come requisito oggettivo del documento» (Cons. St., Ad. plen., n. 5/1997). In altri termini, un documento è opportunamente segreto non perché proveniente dalla Pubblica Amministrazione, ma per il tipo di notizie racchiuse nello stesso. In sostanza, il segreto da personale, ovvero legato alla particolare qualità di dipendente pubblico del soggetto che detiene le informazioni, diventa reale, ossia legato alla consistenza sostanziale delle informazioni e degli interessi ad essi correlati (Arena, 286). Pertanto, ai fini dell'esatta individuazione dei limiti al diritto di accesso occorre fare riferimento, a prescindere dai profili soggettivi, alla natura dell'interesse che potrebbe essere leso al rilascio delle informazioni ad esso ostative. L'art. 15 T.U. imp. civ. Stato e l'art. 28 l. n. 241/1990 a confronto.Resta certamente indubbio che sia nella vecchia disciplina quanto nella nuova formulazione il rispetto del segreto rappresenti espressione anche del più generale dovere di fedeltà. Autorevole dottrina ha evidenziato che tale dovere trova il suo nucleo essenziale nel dovere di curare, nel disimpegno delle mansioni, l'interesse dell'amministrazione per il pubblico bene, avendo di mira di servire esclusivamente lo Stato (Sandulli, 304). Le modifiche apportate alla norma con l'art. 28 della l. n. 241/1990 emergono chiaramente dal confronto dei due testi. In primo luogo, resta confermato che l'impiegato civile dello Stato ha l'obbligo di mantenere il segreto d'ufficio, risultato che deve essere realizzato in ogni caso astenendosi dal riferire e trasmettere conoscenze ad altri che non avrebbero titolo a riceverle. Inoltre, all'impiegato stesso si impongono cautele e doveri di comportamento che assicurino in positivo la permanenza dello stato di non conoscibilità dei terzi in merito agli atti coperti dal segreto. In secondo luogo, esaminando l'originario disposto dell'art. 15 prima della modifica, si deduce che le informazioni o le comunicazioni delle quali l'impiegato sarebbe venuto a conoscenza a causa del suo ufficio, non possono essere diffuse, anche se si tratta di atti non segreti, quando potrebbe derivarne danno per le amministrazioni e per i terzi. Tale circostanza aumenta a dismisura la discrezionalità in capo all'amministrazione nel mantenere riservate o meglio segrete la maggior parte delle notizie ed informazioni in suo possesso. Contrariamente, nel testo riformulato dalla l. n. 241/1990, non viene fatto alcun riferimento alla circostanza dell'esistenza di atti non segreti sui quali l'impiegato non possa dare informazioni o comunicazioni: il limite potrebbe nascere qualora sussista una valutazione negativa circa la fondatezza della situazione soggettiva del richiedente per l'esercizio positivo del diritto di accesso. Inoltre, manca nel testo novellato dell'art. 15 qualsiasi riferimento al danno quale elemento costitutivo della fattispecie. In sintesi, l'impiegato non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie acquisite in virtù delle sue funzioni, «al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso». In questo senso, ai fini dell'applicazione dell'art. 326 c.p., che sanziona penalmente la violazione dell'obbligo di rispettare il segreto d'ufficio, la nozione di «notizie d'ufficio, le quali debbano rimanere segrete» assume il significato non soltanto di informazioni in ogni tempo e nei confronti di chiunque sottratte alla divulgazione, ma anche il significato di informazioni per le quali la diffusione, pur prevista in un momento successivo, sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, nel momento in cui vengono diffuse, perché svelate a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso (Cass. pen. VI, n. 11001/2009). Infine, il terzo periodo dell'art. 28, conferma il dovere dell'impiegato al rilascio di copie ed estratti di atti e documenti di ufficio «nei casi non vietati dall'ordinamento», innovando rispetto all'originario art. 15 del d.P.R. n. 3/1957 in cui era prevista la formula «nei casi non vietati dalle leggi, dai regolamenti o dal capo del servizio». Sul punto, la dottrina ritiene che la formula riassuntiva adottata dal legislatore del 1990 abbia voluto eliminare ogni possibile esercizio di discrezionalità da parte del capo dell'amministrazione in merito al potere di secretazione, a maggiore garanzia del rispetto del principio di legalità (Saponara, 1116). Va peraltro ricordato che le sanzioni previste per la violazione del segreto restano quelle sancite dal d.P.R. n. 3/1957, ovvero, in ordine di gravità: la riduzione dello stipendio per «violazione del segreto d'ufficio»; la sospensione dalla qualifica «per violazione del segreto d'ufficio che abbia prodotto grave danno»; la destituzione per «dolosa violazione dei doveri di ufficio che abbia portato grave pregiudizio allo Stato, ad enti pubblici, od a privati». A questo riguardo, è necessario sottolineare come parte della dottrina ritenga incongruente il richiamo al criterio del danno rispetto alla nuova formulazione dell'art. 15 citato, sull'assunto che si verrebbe a ricollegare una sanzione alla valutazione di un elemento che in sede prescrittiva è stato eliminato (Saponara, 1117). Infatti, l'impiegato sarebbe punito sulla base di un elemento che non gli è consentito di valutare. Secondo altri, il riferimento se pure implicito al danno sarebbe contenuto ancora nell'art. 15, come anello di congiunzione tra la normativa sul segreto d'ufficio e la responsabilità amministrativa (Mazzarolli, 239). Di recente, si è espressa la Corte di Cassazione (Cass. pen. VI, n. 26228/2019), affermando che «L'ambito di tutela garantito dalla generale disposizione di cui alla l. n. 241/1990, art. 28 recante nuove norme in tema di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, presuppone che il divieto di divulgazione (e di utilizzo) comprende non soltanto informazioni sottratte all'accesso, ma anche, nell'ambito delle notizie accessibili, quelle informazioni che non possono essere date alle persone che non hanno il diritto di riceverle, in quanto non titolari dei prescritti requisiti. Pertanto, in tale contesto normativo, la nozione di “notizie d'ufficio, le quali debbono rimanere segrete” assume non soltanto il significato di informazione sottratta alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma anche quello di informazione per la quale la diffusione (pur prevista in un momento successivo) sia vietata dalle norme sui diritto di accesso, nel momento in cui viene indebitamente diffusa ovvero utilizzata, perché svelata a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalità previste» (Cass. pen. VI, n. 9726/2013; Cass. pen. VI, n. 11001/2009). Questioni applicative.1) Segreto d'ufficio ed esclusione del diritto d'accesso: norme complementari? Si è affermata nel tempo, in via interpretativa, l'assoluta indeterminatezza sia riguardo ai contenuti della norma che sancisce l'obbligo per l'impiegato di tenere il segreto, sia riguardo all'oggetto o agli interessi su cui lo stesso segreto debba essere mantenuto. Ciò nonostante, tale interpretazione non pare corrispondere alla realtà odierna, dopo l'entrata in vigore della l. n. 241/1990. Una simile considerazione sembra essere giustificata dalla semplice osservazione che l'ulteriore norma dell'art. 24, comma 2 della legge in commento impone alle singole amministrazioni l'onere di determinare i casi nei quali l'accesso non è consentito. Al riguardo, per stabilire la reale portata del segreto d'ufficio non può prescindersi da una interpretazione che tenga conto anche delle disposizioni previste dall'art. 24 cit. Invero, la disciplina prevista per i casi di esclusione del diritto di accesso ai documenti pare ridimensionare complessivamente la portata e l'ambito di applicazione del segreto amministrativo, il quale appunto non esprime più un principio generale dell'agire dei pubblici poteri, ma rappresenta un'eccezione al canone della trasparenza, posto che risulta rigorosamente circoscritta ai soli casi in cui si evidenzia la necessità obiettiva di tutelare particolari e delicati settori dell'amministrazione (Romagnosi, 30). Tuttavia, il diritto di accesso non può riguardare tutte le ipotesi di segreti, stabiliti dall'ordinamento, tesi a garantire interessi specifici, diversi da quello riconducibile alla mera protezione dell'esercizio della funzione amministrativa, e quindi, in tali casi, i documenti non sono passibili di divulgazione perché il principio della trasparenza viene meno a fronte dell'esigenza di tutelare l'interesse protetto dalla normativa speciale sul segreto (Loricchio, 828). Pertanto, in tema di documenti sottratti all'accesso per ragioni di segreto, la relativa disciplina, dopo l'entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo, è da interpretare nel senso che, da un lato, il segreto non deve costituire la mera riaffermazione del tramontato principio di assoluta riservatezza dell'azione amministrativa e dall'altro, il segreto fatto salvo dalla legge deve riferirsi esclusivamente ad ipotesi in cui esso mira a salvaguardare interessi di natura e consistenza diversi da quelli genericamente amministrativi (Cons. St. V, n. 1893/2001). 2) Esiste un obbligo del segreto d'ufficio valido anche per i soggetti titolari di un interesse qualificato? In materia di segreto d'ufficio, connesso al regime di protezione da parte di disposizioni penali, si è affermato che dall'imposizione dell'obbligo del segreto d'ufficio non deriva solo il divieto (peraltro esente da sanzione) per i funzionari pubblici di divulgare informalmente a soggetti estranei notizie attinenti alle funzioni dell'ufficio cui appartengono, ma anche la conseguenza che gli atti concernenti sono sottratti all'accesso pure per i soggetti titolari di un interesse qualificato (ai sensi degli artt. 22 ss., l. n. 241/1990). Trova altresì applicazione la normativa contenuta nell'art. 326 c.p. (rivelazione di segreti d'ufficio) e degli artt. 201,256,329 del codice di procedura penale (C. conti contr. st., n. 91/1999). La Corte di Cassazione, in tema di rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio da parte degli impiegati dello Stato, ha già opportunamente precisato che il contenuto dell'obbligo la cui violazione è sanzionata dall'art. 326 c.p., deve essere tratto dal nuovo testo dell'art. 15 del d.P.R. n. 3/1957, come sostituito dall'art. 28 della l. n. 241/1990, stante l'assenza di definizione nella norma penale richiamata. In definitiva, da tale disposizione emerge che il divieto di diffusione include non soltanto informazioni sottratte all'accesso, ma anche, nella sfera delle notizie accessibili, quelle informazioni che non possono essere date alle persone che non hanno il diritto di riceverle, in quanto non titolari dei prescritti requisiti (Cass. VI, n. 7483/1998). 3) I regolamenti emanati dalle singole amministrazioni possono contenere disposizioni inerenti l'obbligo del segreto d'ufficio? La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, di cui all'art. 27 della l. n. 241/1990, in sede di attività consultiva ha inteso chiarire che i regolamenti emanati dalle singole amministrazioni, quale disciplina di dettaglio, con i quali le stesse amministrazioni individuano gli atti esclusi dall'accesso, non possono contenere disposizioni relative al vincolo del segreto d'ufficio essendo questa materia coperta da riserva di legge (Parere 99907R-32). BibliografiaAcquarone, Il segreto d'ufficio, Milano, 1964; Arena, Il segreto amministrativo, II. Profili teorici, Padova, 1984; Arena, Il segreto amministrativo, Padova, I, 1983; Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, in Il futuro della democrazia, Nuovo politecnico, 1984; Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2005; Caringella, Garofoli, Sempreviva, L'accesso ai documenti amministrativi, Milano, 2007; Cogliani, Commentario alla legge sul procedimento amministrativo: l. n. 241 del 1990 e successive modificazioni, Padova, 2007; Giannone, Il punto sul diritto di accesso, in diritto.it, 2002; Loricchio, La nuova disciplina dell'azione amministrativa, a cura di Tomei, Verona, 2005; Mazzarolli, L'accesso ai documenti della Pubblica Amministrazione. Profili sostanziali, Padova, 1998; Romagnosi, La scienza delle costituzioni, Torino, 1849; Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984; Saponara, L'azione amministrativa, a cura di Italia, Milano, 2005; Scarciglia, L'accesso ai documenti amministrativi, Rimini, 1994; Villata, La trasparenza dell'azione amministrativa, in Dir. proc. amm., 1987, 538; Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1977. |