Decreto legislativo - 14/03/2013 - n. 33 art. 1 - Principio generale di trasparenza

Luca Biffaro

Principio generale di trasparenza

 

1. La trasparenza è intesa come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche 1.

2. La trasparenza, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d'ufficio, di segreto statistico e di protezione dei dati personali, concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione. Essa è condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino.

3. Le disposizioni del presente decreto, nonché le norme di attuazione adottate ai sensi dell'articolo 48, integrano l'individuazione del livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a fini di trasparenza, prevenzione, contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione, a norma dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione e costituiscono altresì esercizio della funzione di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale, di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione.

Inquadramento

Il legislatore, in sede di riordino della disciplina sul diritto di accesso e sugli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, andando al di là di quanto già previsto dall'art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 – che annovera tra i principi generali dell'attività amministrativa il criterio rettore della trasparenza – ha elevato la trasparenza a principio generale dell'ordinamento giuridico. Secondo l'accezione legislativa contenuta nell'art. 1 del d.lgs. n. 33/2013 (c.d. decreto trasparenza), la trasparenza è ora da intendersi come «accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni» ed è teleologicamente orientata al perseguimento della tutela dei diritti dei cittadini, alla promozione della partecipazione dei soggetti interessati allo svolgimento dell'attività amministrativa, nonché a favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche da parte delle pubbliche amministrazioni.

Dalla accezione del principio di trasparenza emerge una più matura consapevolezza del legislatore in ordine al fatto che la piena affermazione del principio costituzionale di democrazia partecipativa(artt. 1 e 3, comma 2, Cost.) passa non soltanto per il riconoscimento ai consociati di specifiche facoltà partecipative nell'ambito del procedimento amministrativo, ma anche, più in generale, dal grado di conoscibilità delle informazioni inerenti alla organizzazione e alla attività delle pubbliche amministrazioni, a prescindere dal diretto coinvolgimento dei soggetti interessati a conoscere il funzionamento dell'apparato pubblico negli specifici episodi di esercizio dei poteri pubblicistici.

Ciò spiega le ragioni per le quali la nuova accezione del principio di trasparenza sia stata accompagnata dall'introduzione, nel nostro ordinamento, dell'istituto dell'accesso civico generalizzato ad opera delle modifiche apportate al decreto trasparenza dal d.lgs. n. 97/2016. Si è, quindi, determinato un superamento del precedente paradigma – improntato sul sistema della c.d. proactive disclosure (ovvero sull'imposizione, in capo alle pubbliche amministrazioni, del dovere di pubblicare sui propri siti Internet istituzionali una serie di informazioni previamente individuate in maniera specifica dal legislatore) – e l'approdo a un sistema di c.d. reactive disclosure, caratterizzato da una maggiore accessibilità da parte dei consociati alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, che incontra un limite solo nei casi in cui sia necessario salvaguardare alcuni specifici interessi, di natura pubblica e privata, anch'essi prestabiliti dal legislatore.

Il cambio di paradigma si fonda sul riconoscimento della trasparenza quale strumento per dare attuazione ai principi costituzionali di democraticità, uguaglianza e partecipazione, nonché ai principi sull'azione amministrativa quali, in particolare, quelli di imparzialità e buon andamento. In tale ottica, il principio di trasparenza funge da condizione necessaria per garantire il pieno esercizio delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali e, per questo motivo, il legislatore ha espressamente stabilito che le previsioni del d.lgs. n. 33/2013 e le relative norme di attuazione concorrono a individuare il livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a fini di trasparenza, prevenzione, contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. m), della Costituzione.

La normativa sulla trasparenza, infine, rileva anche per quel che concerne il coordinamento statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. r), della Costituzione.

La collocazione sistematica del principio di trasparenza nell'ambito del diritto interno e la sua evoluzione

Il principio di trasparenza, per lungo tempo, non ha svolto un ruolo di primo rilievo nel campo del diritto amministrativo e, anche in ragione dell'assenza di una espressa positivizzazione, si è caratterizzato per una certa mancanza di concretezza in ordine al contenuto, ambito e strumenti di attuazione. Al di fuori della nota metafora elaborata nel 1908 da Filippo Turati, cioè quella della amministrazione come casa di vetro, aperta verso gli amministrati per consentire la massima visibilità dei processi decisionali (Clarich, 1), la trasparenza amministrativa era considerata un'aspirazione ideale dell'attività dei soggetti pubblici (Buonomo, 2012), un «insieme di istituti, di norme e di strumenti che, complessivamente delineano un modo di essere dell'amministrazione che per l'indeterminatezza dei suoi contenuti può essere indicato solo con l'uso di una metafora» (Villata, 528; Arena, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, 29 ss.). Ancora in tempi relativamente recenti, una parte della dottrina (Patroni Griffi, 2) continuava a considerare la trasparenza come un valore finalistico, ancorché espressione di democrazia politica e amministrativa. Tuttavia, anche prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 33/2013, era chiaro che la trasparenza poteva raggiungersi solo consentendo ai consociati di venire a conoscenza delle informazioni detenute dall'Amministrazione.

Sul punto occorre segnalare che la dottrina, ben prima che il legislatore, aveva colto il preminente rilievo che la informazione amministrativa assume a livello ordinamentale, evidenziando che «nel mondo contemporaneo il problema della conoscenza di atti e fatti delle amministrazioni pubbliche ha assunto una dimensione impensata, in quanto ovunque ciò che le amministrazioni decidono, organizzano, o anche semplicemente studiano, è condizionante nei confronti dei componenti le diverse collettività» (Giannini, 369). Invero, il trasferimento di conoscenze tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini ne definisce e condiziona il rapporto, ponendosi come strumento per la ristrutturazione in senso paritario dell'assetto relazionale tra amministratori e amministrati (Cassese, 1015 ss.). Ciò è già evidente dalle prime aperture normative dell'ordinamento al principio di trasparenza, avutesi con riguardo al ruolo dei privati nel procedimento amministrativo, che hanno dato impulso al cambiamento del rapporto che si instaura tra amministrazione e soggetti amministrati in occasione dell'esercizio dei pubblici poteri: il perseguimento degli interessi pubblici da parte della pubblica amministrazione non avviene più attraverso un esercizio unilaterale dei poteri autoritativi, ma tale esercizio, in funzione di garanzia per i privati, assume carattere partecipato grazie alle molteplici facoltà riconosciute dalla legge ai soggetti incisi dal potere, nonché al diritto di accesso ai documenti in possesso dell'amministrazione. In questa fase, che ha trovato nella legge n. 241/1990 uno dei suoi snodi cruciali, il principio di pubblicità ha raggiunto la piena consacrazione giuridica. Invero, l'affermazione di tale principio, che l'art. 1 della l. n. 241/1990 ha dapprima circoscritto al procedimento amministrativo (infra, sub art. 3) e, solo successivamente, altre leggi speciali hanno esteso a una serie più ampia di informazioni amministrative (ancorché previamente individuate dal legislatore), consente di evidenziare come l'apertura del sistema giuridico a una più accentuata trasparenza dell'amministrazione sia stata frutto di una evoluzione normativa progressiva. Anche se una parte della dottrina, già nei primi anni di vigenza della legge generale sul procedimento amministrativo, aveva ritenuto che il legislatore avesse elevato la trasparenza a principio ispiratore dell'intera azione amministrativa (Chieppa, 613 ss.), alla luce degli sviluppi normativi successivi nel campo della trasparenza amministrativa, appare potersi affermare che solo con l'introduzione dell'istituto dell'accesso civico generalizzato, modellato secondo il modello costituzionale o statunitense del Freedom of Information Act (infra), sono stati previsti in favore dei consociati strumenti giuridici idonei a consentire un pieno trasferimento di conoscenze tra pubbliche amministrazioni e cittadini.

Le principali tappe dell'evoluzione del principio di trasparenza sul versante ordinamentale interno vengono fatte coincidere con la l. n. 15/2005 – che ha introdotto la trasparenza tra i principi generali dell'azione amministrativa (art. 1 della l. n. 241/1990) – con l'art. 2 del Decreto del Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca scientifica del 31 ottobre 2007, n. 544 – con cui si prevedono i requisiti di trasparenza che le Università devono rendere disponibili nella loro offerta formativa – con l'art. 10 della l. n. 69/2009 – che ha modificato l'art. 22 della l. n. 241/1990, stabilendo che l'accesso documentale costituisce un principio generale dell'attività amministrativa in quanto favorisce la partecipazione e assicura l'imparzialità e la trasparenza nell'esercizio dei pubblici poteri – nonché con l'art. 21 della l. n. 69/2009 – che ha introdotto l'obbligo, per le pubbliche amministrazioni, di pubblicare sul proprio sito Internet una serie di informazioni, quali: le retribuzioni annuali, i curricula vitarum, gli indirizzi di posta elettronica e i numeri telefonici ad uso professionale dei dirigenti e dei segretari comunali e provinciali, i tassi di assenza e di maggiore presenza del personale distinti per uffici di livello dirigenziale, un indicatore dei propri tempi medi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture, nonché i tempi medi di definizione dei procedimenti e di erogazione dei servizi con riferimento al precedente esercizio finanziario.

La previsione di obblighi di pubblicità inerenti a informazioni non strettamente connesse all'esistenza di un procedimento amministrativo ha condotto a un'apertura dell'amministrazione nei confronti dei consociati non più unicamente preordinata alla tutela di situazioni giuridiche soggettive rispetto al farsi del potere pubblico. Si tratta di un ulteriore passaggio del percorso evolutivo della trasparenza amministrativa, che inizia così ad essere anche funzionalizzata al perseguimento di ulteriori obiettivi, quali la prevenzione della corruzione e il controllo diffuso dei consociati, tanto sull'operato delle pubbliche amministrazioni, quanto sull'utilizzo delle risorse erariali.

Tali finalità, che si inseriscono nella dialettica democratica tra cittadini e Istituzioni pubbliche, appaiono ben lontane dal modo nel quale il legislatore dei primi anni ‘90 del secolo scorso aveva inteso rendere visibile alla collettività l'operato dell'amministrazione.

A tale ultimo riguardo risulta alquanto emblematico il fatto che con riguardo all'istituto dell'accesso documentale, quale strumento di attuazione del principio di pubblicità, il legislatore ha espressamente escluso che ad esso possa ricorrersi con l'intento di operare un controllo generalizzato dell'attività amministrativa. Infatti, l'art. 24, comma 3, della l. n. 241/1990 testualmente afferma che «non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni». Tale aspetto della disciplina normativa dell'accesso documentale è stato più volte posto in evidenza dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St. VI, n.24/2010). Più in particolare, in una pronuncia del giudice di prime cure, che si appoggia al costante orientamento giurisprudenziale affermatosi a metà della prima decade del 2000 (in particolare, Cons. St. IV, n.7412/2004), viene precisato che «il diritto di accesso è fondato sull'interesse sostanziale collegato ad una specifica situazione soggettiva giuridicamente rilevante ed è strumentale ad acquisire la conoscenza necessaria a valutare la portata lesiva di atti o comportamenti, sicché esso non garantisce un astratto potere esplorativo di vigilanza finalizzato ad accertare le modalità di svolgimento dell'attività amministrativa, ovvero tutela solo l'interesse qualificato alla conoscenza e non l'interesse ad effettuare un controllo generalizzato sull'amministrazione per fatti che non hanno diretta e immediata incidenza sulla posizione del privato» (T.A.R. Emilia-Romagna, Parma I, n. 580/2005).

Pertanto, è solo grazie alle modifiche che il legislatore, nel 2016, ha apportato al d.lgs. n. 33/2013, che si è giunti alla piena maturazione giuridica del principio di trasparenza. Invero, è in seguito all'entrata in vigore deld.lgs. n.33/2013 che il principio di trasparenza assume il rango di principio generale dell'ordinamento, pur non avendo una autonoma valenza costituzionale, ancorché parte della dottrina (Donati, 83) sia di contrario avviso, attribuendo ad esso valore di principio costituzionale implicito. In proposito vale ricordare che, storicamente, non sono mancati i tentativi di conferire alla trasparenza rango di principio costituzionale. In particolare, occorre evidenziare che durante i lavori dell'Assemblea Costituente venne proposto un emendamento per introdurre nel testo dell'attuale art. 97 della Costituzione una riserva di legge sulle modalità e le forme di controllo popolare sull'operato della Pubblica Amministrazione: tale emendamento fu respinto perché considerato superfluo alla luce dell'assenza, nel dettato costituzionale, di specifici divieti all'introduzione di tali forme di controllo. Più di recente è stato operato un nuovo tentativo di costituzionalizzare il principio di trasparenza, sia all'interno dell'art. 97, sia nel testo dell'art. 118 della Costituzione, con riferimento all'esercizio delle funzioni amministrative nel contesto del riformato Titolo V della Parte II della Costituzione. Anche tale tentativo non si è concluso in maniera positiva, in quanto il disegno di legge di riforma costituzionale, approvato dalla Camera dei Deputati il 12 aprile 2016, ha subito una definitiva battuta di arresto per effetto dell'esito sfavorevole del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.

In dottrina (Foà, 68 ss.) è stato anche posto in rilievo come la Corte costituzionale, nella prima decade del 2000, ricostruendo le funzioni svolte dal principio di trasparenza, ne ha tratteggiato la relazione con i principi costituzionali relativi alla pubblica amministrazione.

Più in particolare, in alcune pronunce della Corte costituzionale (Corte cost. n. 172/2005 e Corte cost.n. 145/2002) il principio di trasparenza è stato considerato strumento per garantire la fiducia e la credibilità delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei cittadini – esigenze alle quali la Corte costituzionale ha riconosciuto valenza costituzionale (Corte cost. n.404/1997) – con la conseguenza che esso risulta funzionale alla piena attuazione del principio di buon andamento. La Corte costituzionale, in altra pronuncia (Corte cost. n.104/2006) riferita al principio di pubblicità dell'azione amministrativa, ha rimarcato il carattere ancillare del principio di trasparenza non solo con riguardo ai principi costituzionali di buon andamento e imparzialità, ma anche con riferimento al diritto di difesa nei confronti della pubblica amministrazione, principio quest'ultimo che costituisce patrimonio costituzionale comune dei Paesi membri dell'Unione europea, secondo quanto sancito dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE 2 aprile 1998, in causa C-367/95). Infine, in una ulteriore decisione, la Corte costituzionale (Corte cost. n.104/2007) ha posto in evidenza come il principio di trasparenza sia altresì strumentale al principio di efficienza dell'amministrazione, che si esprime sia sul versante interno, con riferimento alla razionale organizzazione degli uffici e all'utilizzo delle risorse pubbliche, sia sul versante esterno, con riguardo alla legittimità e continuità dell'azione pubblicistica.

Alla luce delle letture fornite dalla giurisprudenza costituzionale prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 33/2013, nonché delle successive modifiche al decreto trasparenza che hanno portato all'introduzione dell'istituto dell'accesso civico generalizzato, risultava già evidente come attraverso il principio di trasparenza dovessero coniugarsi le esigenze sottese alla concezione sostanziale del principio di buon andamento, improntato ai canoni di efficacia ed efficienza e cardine della c.d. amministrazione di risultato, con quelle di legalità dell'azione amministrativa; ciò, peraltro, in un contesto ordinamentale sempre più pervaso dall'esigenza di moralizzazione della pubblica amministrazione, considerata imprescindibile per garantire la credibilità dell'operato dei soggetti pubblici nei confronti della collettività (Mattarella, 1 ss.).

Tale impostazione ha trovato esplicito riconoscimento nell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013, in quanto il legislatore ha espressamente previsto che la trasparenza concorre ad attuare i principi costituzionali di buon andamento, imparzialità, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione. In dottrina è stato anche osservato che l'intima finalità della disciplina della trasparenza è quella di ricercare in via prioritaria la legalità (Fracchia, 503).

Sempre a norma dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013, accanto all'attuazione di tali principi, la trasparenza amministrativa concorre anche alla realizzazione dei principi costituzionali di democraticità e uguaglianza. Dunque, il principio generale di trasparenza viene ad essere intrinsecamente ancorato anche al principio partecipativo.

Il principio costituzionale della partecipazione non ha, per lungo tempo, trovato piena attuazione nell'ordinamento in quanto risultava prevalente un'interpretazione restrittiva dell'art. 3, comma 2, della Costituzione. Tale norma, dal punto di vista letterale, invece di riferire tale principio a tutti i cittadini, prevede il diritto dei lavoratori di partecipare all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese (Savignano, 11). Tuttavia, seguendo un'impostazione sistematica, emerge come il principio partecipativo sia correlato al principio democratico, costituendo una delle forme di espressione della sovranità popolare: ciò trova conferma anche nei lavori della Assemblea Costituente e, in particolare, dal fatto che la c.d. Commissione dei settantacinque – che redasse il progetto di Costituzione – aveva proposto di includere tale principio all'interno del testo dell'art. 1 della Costituzione (Chiti, 124). La definitiva collocazione del principio partecipativo nell'ambito dell'art. 3 della Costituzione si deve, dunque, al fatto che il costituente ha inteso coniugare le modalità di esercizio della sovranità popolare con le istanze di promozione dell'eguaglianza in senso sostanziale, al fine di consentire che le stesse trovino riconoscimento in maniera trasversale all'interno dell'ordinamento, vale a dire sia con riguardo al livello politico, sia a quello amministrativo della decisione pubblica.

La piena affermazione del principio partecipativo ha vissuto una parabola evolutiva che, prendendo le mosse da una accezione di partecipazione come mera forma di tutela anticipata degli interessi degli amministrati incisi dal potere pubblico, tipica di un modello procedimentale c.d. adversary, e passando per l'affermazione di una accezione più ampia, di carattere collaborativo (Nigro, 225 ss.), propria di un procedimento amministrativo improntato all' interest representation model (Rabin, 7) funzionale al legittimo esercizio dei poteri discrezionali attribuiti dal legislatore alla pubblica amministrazione per la cura di interessi pubblici (Benvenuti, 103), ha determinato il superamento dell'originario archetipo procedimentale, ponendo le basi per la sostanziale affermazione di un modello condiviso di amministrazione (Arena, Introduzione all'Amministrazione condivisa, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 29 ss.).

In seguito all'entrata in vigore della legge generale sul procedimento amministrativo, anche la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto alla partecipazione dei consociati al procedimento amministrativo il ruolo di principio generale, funzionale alla piena attuazione dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità (Cons. St. V, n.2823/2001;Cons. St. IV, n.569/1998) e cardine per il corretto esercizio dei poteri pubblici (Cons. St. IV, nn.1882/2003 e 6238/2001).

Pertanto, l'esplicito richiamo dei principi costituzionali di democraticità ed eguaglianza operato dal legislatore ordinario nel testo dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013, unitamente all'accezione e al ruolo assunto dal principio partecipativo con riguardo all'organizzazione e al funzionamento della pubblica amministrazione, consentono di affermare che il principio di trasparenza, proprio per consentire la piena realizzazione del principio della democrazia partecipativa, non deve essere limitato al solo riconoscimento, da parte dei consociati, di prerogative di controllo ex post sui risultati dell' agere pubblico, ma deve anche consentire una partecipazione effettiva della collettività amministrata nella fase di formazione delle decisioni pubbliche (Foà, 71), a prescindere dalla sussistenza di interessi privati incisi dal concreto esercizio di specifici poteri pubblici.

Infatti, sulla scorta della nuova accezione legislativa del principio di trasparenza, la tutela dei diritti dei cittadini costituisce solo una delle funzioni che esso è chiamato ad assolvere nell'ordinamento, accanto alla quale si pone anche quella di garantire la realizzazione di una amministrazione aperta e al servizio dei cittadini, ai quali ultimi sono così effettivamente riconosciute forme diffuse di partecipazione e controllo funzionali alla verifica del perseguimento delle funzioni istituzionali e del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.

La trasparenza nel contesto giuridico sovranazionale e il rapporto con il diritto a una buona amministrazione

La piena comprensione del ruolo e delle funzioni svolte dal principio di trasparenza sul piano ordinamentale interno non può prescindere da un breve excursus sulla evoluzione normativa che tale principio ha vissuto a livello sovranazionale, essendo molteplici le implicazioni che ciò ha determinato sul piano interno, anche in ragione dell'appartenenza dell'Italia all'Unione europea e della vincolatività dei Trattati internazionali ratificati dallo Stato italiano.

Nel contesto dell'Unione europea la trasparenza assume una doppia valenza in quanto, da un lato, opera come leva strategica finalizzata a rafforzare la partecipazione democratica dei cittadini all'attività delle istituzioni comunitarie e, dall'altro, funge da strumento di impulso alla crescita economica nel mercato interno. Tale secondo aspetto è stato già da tempo rimarcato dalle medesime istituzioni comunitarie, come si evince dal primo paragrafo del Libro verde del 1998 in materia di informazione del settore pubblico nella società dell'informazione, nel quale si afferma che l'informazione del settore pubblico (cioè, l'informazione amministrativa) «svolge un ruolo fondamentale per il corretto funzionamento del mercato interno e la libera circolazione di merci, servizi e singoli individui». Infatti, in assenza di informazioni amministrative, legislative, finanziarie o comunque pubbliche che siano facilmente accessibili per gli operatori economici, questi ultimi non potrebbero assumere decisioni pienamente informate, con risvolti negativi sul corretto funzionamento del mercato interno, sia con riferimento alle potenziali alterazioni delle dinamiche concorrenziali nei distinti contesti merceologici, sia per ciò che concerne le plausibili ricadute pregiudizievoli sull'esercizio delle quattro libertà fondamentali sancite dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) e sulla salvaguardia degli interessi economici dei consumatori.

L'affermazione giuridica del duplice rilievo assunto dal principio di trasparenza in ambito europeo costituisce l'epilogo di una parabola evolutiva, le cui varie fasi sono state scandite dai cambiamenti che negli ultimi decenni hanno interessato il diritto eurounionale primario.

In passato il principio di trasparenza non era direttamente contemplato dal Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE). Il primo germe della trasparenza è stato innestato dagli Stati membri nell'Atto finale allegato al Trattato di Maastricht, nel quale, pur non essendo contemplato in maniera esplicita il principio di trasparenza, era tuttavia contenuta una «Dichiarazione sul diritto di accesso all'informazione». È stato poi con il Trattato di Amsterdam che la trasparenza ha fatto il suo pieno ingresso sulla scena europea. Più in particolare, con le modifiche apportate al secondo comma dell'art. 1 del Trattato sull'Unione europea (TUE), gli Stati membri hanno inteso proclamare l'inizio di «una nuova tappa nel processo di creazione di un'unione sempre più stretta tra i popoli dell'Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente possibile e il più vicino possibile ai cittadini».

La dottrina (Locchi, 2; Mendillo, 4) ha avuto modo di evidenziare che con il Trattato di Amsterdam si è avuta la costituzionalizzazione del principio di trasparenza in ambito comunitario. In questo modo la trasparenza si afferma come principio generale dell'ordinamento dell'Unione europea, rinvenendo il suo fondamento giuridico all'interno dei Trattati quale portato delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, da cui origina, e per questo gli sono riconosciuti i caratteri della imperatività e inderogabilità (Luzzatto, 61 ss.).

Un maggiore rafforzamento del principio di trasparenza si è avuto con il Trattato di Lisbona. Con tale Trattato, infatti, è stato stabilito che il modus operandi di istituzioni, organi od organismi europei deve essere improntato al canone della trasparenza. Più nello specifico, ciò emerge dalle previsioni dell'art. 255 del TCE (corrispondente all'attuale art. 15 del TFUE) che, al primo comma, stabilisce che «Al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell'Unione operano nel modo più trasparente possibile». Il Trattato di Lisbona ha avuto il merito di ricomprendere in maniera espressa la trasparenza tra i principi democratici dell'Unione europea, assegnando ad esso il ruolo di principio regolatore dell'azione della Commissione europea (art. 11, comma 3, del Trattato sull'Unione europea). Infine, il Trattato di Lisbona ha anche ampliato il diritto di accesso ai documenti dell'Unione, il cui ambito soggettivo di operatività era in precedenza limitato ai soli documenti in possesso del Parlamento europeo, del Consiglio dei ministri e della Commissione europea (art. 255 del TCE). Con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona (artt. 15 e 24 del TFUE) – che in materia di accesso ha di fatto recepito le previsioni contenute nel Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa (art. I-50, paragrafo 1), rispetto al quale non è stato completato l'iter di ratifica a causa dell'esito referendario negativo in Francia e nei Paesi Bassi – il diritto di accesso risulta ad oggi esercitabile anche nei confronti di tutte le istituzioni comunitarie, nonché di degli altri organi e organismi dell'Unione.

La dottrina (Chiti, Le forme di azione dell'amministrazione europea, 43) ha posto in rilievo che, anche in ambito comunitario, le finalità sottese alla trasparenza amministrativa possono essere raggiunte solo assicurando ai cittadini adeguati strumenti di conoscibilità e comprensibilità dell'operato delle istituzioni dell'Unione. Per questo, a partire dagli anni '90 del secolo scorso, sono stati sviluppati distinti canali per veicolare ai cittadini, in maniera capillare su tutto il territorio dell'Unione europea, le informazioni di carattere pubblicistico inerenti all'attività delle istituzioni comunitarie (si pensi, ad esempio, ai Centri di documentazione europea, agli Euro Info Centre, al servizio Europe Direct e al sistema di consultazione online delle fonti del diritto comunitario e delle decisioni della Commissione europea, nelle materie nelle quali ad essa sono attribuiti poteri di natura amministrativa).

Accanto alla predisposizione di strumenti che conferiscono carattere pubblico all'informazione amministrativa comunitaria, rendendola conoscibile all'esterno nei confronti della generalità dei cittadini europei, viene previsto anche il diritto di accesso ai documenti in possesso delle amministrazioni comunitarie che, come già evidenziato, trova il suo fondamento nei Trattati e, segnatamente, nell'art. 15 TFUE.

Come sul piano interno, anche in ambito comunitario il diritto di accesso è stato in passato concepito, in primis dalla giurisprudenza (CGUE, ord. 13 luglio 1990, C- 2/88, Zwartveld e a.c. Commissione), quale istituto strumentale alla partecipazione di cittadini e imprese al procedimento amministrativo e, al contempo, funzionale all'esercizio del diritto di difesa. Solo in tempi più recenti, a fronte di una rinnovata e più matura concezione di trasparenza, la sfera di operatività del diritto di accesso ha subito una espansione, che lo ha proiettato in maniera più decisa all'interno del processo di democratizzazione dell'Unione europea.

Indicativo in tal senso è il fatto che, già con la Dichiarazione n. 17 allegata al Trattato di Maastricht, il diritto di accesso era concepito come istituto funzionale alla piena attuazione di alcuni principi fondamentali dell'ordinamento comunitario (Bifulco, Cartabia, Celotto, 293 ss.). Il nesso di strumentalità che intercorre tra diritto di accesso e principi fondamentali dell'Unione europea viene ad essere ancora più evidente in seguito all'adozione del regolamento (CE) n. 1049/2001, che al Considerando n. 2 afferma che la trasparenza «consente una migliore partecipazione dei cittadini al processo decisionale e garantisce una maggiore legittimità, efficienza e responsabilità dell'amministrazione nei confronti dei cittadini in un sistema democratico. La politica di trasparenza contribuisce a rafforzare i principi di democrazia e di rispetto dei diritti fondamentali sanciti dall'articolo 6 del trattato UE e dalla carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea».

Alla luce del breve quadro di sintesi appena delineato può, dunque, porsi in evidenza che l'affermazione del principio di trasparenza in ambito eurounitario, così come la configurazione del diritto di accesso e degli obblighi in cui si articolano le diverse forme di pubblicità delle informazioni amministrative che devono essere garantite dalle Istituzioni comunitarie, presentano caratteristiche analoghe ai corrispondenti principi e istituti di diritto interno in quanto, tanto gli uni quanto gli altri, mirano a garantire una più intensa partecipazione democratica dei consociati all'attività delle Istituzioni e alla governance interna ed europea, assicurando altresì le condizioni per l'esercizio di un controllo generalizzato nei confronti dei pubblici poteri.

Con specifico riferimento alla governance amministrativa nel contesto dell'Unione europea, da intendersi come coinvolgimento di attori non istituzionali nei processi decisionali pubblici, la trasparenza viene considerata non solo diritto di conoscere le informazioni in possesso degli organi comunitari che svolgono funzioni amministrative (in primis, la Commissione europea), ma anche come diritto di partecipazione della società civile alle scelte decisionali in campo amministrativo (Bignami, 88 ss.) – lo stesso vale anche per la governance politica, rispetto alla quale il tema della trasparenza assume una valenza ancora più pregnante stante il deficit democratico che caratterizzava l'iniziale impianto comunitario, dovuto al fatto che, in principio, gli Stati membri avevano optato per un modello di integrazione essenzialmente incentrato sul metodo intergovernativo, conferendo minore centralità al Parlamento europeo e alla società civile –.

È, quindi, possibile tracciare un parallelo tra la trasparenza amministrativa comunitaria e quella nazionale come sancita dall'art. 1 del d.lgs. n. 33/2013. Infatti, come si è visto, la trasparenza amministrativa, sia a livello domestico sia a livello sovranazionale, concorre ad attuare una serie di principi di rango costituzionale o primario, quali quello democratico, di uguaglianza e i principi correlati all'organizzazione e all'operato delle pubbliche amministrazioni (imparzialità, buon andamento, efficacia, efficienza, ecc.).

Come sul piano interno la trasparenza implica il riconoscimento delle facoltà partecipative dei privati e degli altri attori della società civile (quali ad esempio gli enti esponenziali) all'interno del procedimento amministrativo, il medesimo stretto legame tra trasparenza e partecipazione si rinviene anche nel contesto europeo. Invero, se il coinvolgimento dei cittadini europei nella governance amministrativa comunitaria può avere luogo solo se l'amministrazione si organizza e opera in maniera aperta e trasparente, allo stesso modo una siffatta apertura democratica risulta effettiva solo se l'attuazione della trasparenza non si arresta al livello della mera conoscibilità dell'informazione amministrativa (cioè allo stadio del principio di pubblicità), ma consente anche una piena partecipazione ai processi decisionali pubblici.

Queste riflessioni consentono anche di porre in rilievo il legame tra il principio di trasparenza e il diritto a una buona amministrazione enunciato dall'art. 41 della Carta dei diritti dell'Unione europea, proclamata a Nizza nel 2000 e resa giuridicamente vincolante in ambito comunitario con il Trattato di Lisbona. Il nesso tra trasparenza e buona amministrazione è stato poi riconosciuto anche dal legislatore nazionale che, all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013, ha espressamente sancito che la trasparenza integra il diritto a una buona amministrazione. Da questa prospettiva la trasparenza viene in rilievo non tanto per le sue implicazioni rispetto alla partecipazione democratica, quanto per l'accessibilità all'informazione amministrativa e il diritto alla sua conoscibilità nell'ambito del procedimento amministrativo.

L'art. 41 della Carta dei diritti dell'Unione europea stabilisce il diritto di ogni individuo a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell'Unione, specificando poi che il diritto ad una buona amministrazione comprende il diritto ad essere ascoltati prima dell'adozione di un provvedimento pregiudizievole, il diritto di accedere al fascicolo e che implica, altresì, l'obbligo per l'amministrazione di motivare le sue decisioni.

Per quel che concerne il significato da attribuire al carattere dell'imparzialità dell'azione amministrativa degli organi dell'Unione europea, dalla giurisprudenza comunitaria (CGUE, 21 novembre 1991, in C-269/90, Technische Universität München c. Hauptzollamt München-Mitte) è emerso che si è in presenza di una decisione amministrativa imparziale, secondo i canoni della buona amministrazione, ogniqualvolta l'amministrazione abbia agito in maniera diligente, tenendo conto di tutti gli elementi di fatto e di diritto disponibili e utilizzando quelli ritenuti idonei ad incidere sul concreto esercizio del potere (Trib. UE, 19 marzo 1997, in causa T-73/95, Oliveira c. Commissione).

Il carattere dell'equità dell'azione amministrativa comunitaria, invece, si è affermato a partire dalla prassi del Mediatore europeo (Galetta, Il diritto ad una buona amministrazione nei procedimenti amministrativi oggi (anche alla luce delle discussioni sull'ambito di applicazione dell'art. 41 della Carta dei diritti UE, 4) che, nel valutare i casi di maladministration, ha a più riprese evidenziato come il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini debba svolgersi in maniera equa.

Nella più recente giurisprudenza comunitaria (CGUE, 16 gennaio 2019, in C265/17 P, United Parcel Service) l'equità assume una valenza di carattere eminentemente formale e viene ricondotta alle facoltà partecipative riconosciute ai privati nell'ambito del procedimento amministrativo.

Il diritto a una buona amministrazione implica anche che il procedimento si concluda entro un termine ragionevole. La ragionevole durata del procedimento amministrativo – che, come noto, è altresì funzionale alla tutela di ulteriori interessi, quali la certezza del diritto e la tutela dell'affidamento (CGUE, 21 settembre 2006, in C-113/04 P, Technische Unie c. Commissione) – era già stata riconosciuta dalla giurisprudenza comunitaria quale principio generale del diritto comunitario, che da tempo considerava che un'amministrazione lenta operasse male e che per agire bene dovesse evitare ritardi ingiustificati e garantire che ciascuna fase del procedimento fosse conclusa entro un termine ragionevole dopo la fase precedente (CGUE, 28 marzo 1997, in C-282/95P, Guerin).

L'art. 41 della Carta dei diritti dell'Unione europea indica anche le principali garanzie connesse al diritto a una buona amministrazione. Tra tali garanzie spicca, innanzitutto, il diritto di essere ascoltati, già previsto dal diritto comunitario prima della Carta di Nizza: ad esempio, nel primo regolamento comunitario relativo all'applicazione delle norme di concorrenza del Trattato (regolamento (CEE) n. 17/1962), nel primo regolamento in materia di controllo delle concentrazioni economiche tra imprese (regolamento (CEE) n. 4064/89), nonché nel regolamento in materia di procedimenti antidumping (regolamento (CE) n. 2026/97. La giurisprudenza comunitaria (CGUE, 29 giugno 1994, in C-135/92, Fiskano c. Commissione), già prima dell'intervenuta positivizzazione normativa, aveva affermato che il diritto di essere ascoltati costituisce principio generale del diritto eurounitario e, come tale, risulta suscettibile di applicazione anche in assenza di specifiche previsioni normative. Tale impostazione ha trovato conferma in numerose altre pronunce, rese successivamente alla proclamazione della Carta di Nizza e alla sua intervenuta vincolatività ad opera del Trattato di Lisbona (CGUE, 5 novembre 2014, in C-166/13, Mukarubega; CGUE, 22 novembre 2012, in C277/11, M.).

Un analogo percorso ha riguardato il diritto di accesso al fascicolo del procedimento, anch'esso già previsto in precedenti testi normativi comunitari e riconosciuto dalla giurisprudenza delle Corti dell'Unione europea con il rango di principio generale (Trib. UE, 18 dicembre 1992, in cause riun. 10, 11, 12 e 15/92, Cimenteries CBR SA c. Commissione). La centralità di tale diritto nel quadro di un'amministrazione comunitaria sempre più votata all'apertura verso i cittadini e alla trasparenza dei suoi processi decisionali, è stata chiaramente affermata dal legislatore europeo nel considerando 2 del regolamento (CE) n. 1049/2001, nella parte in cui si prevede che la trasparenza permette di conferire alle Istituzioni dell'Unione europea una maggiore legittimità, efficienza e responsabilità nei confronti dei cittadini europei in un sistema democratico. Analoghe considerazioni sono state svolte dalla giurisprudenza comunitaria che, in alcune pronunce, ha affermato che il diritto di accesso risulta funzionale a consentire la discussione dei diversi punti di vista dei soggetti coinvolti nell'azione amministrativa e, per questa via, contribuisce ad accrescere la fiducia dei cittadini europei nell'operato delle Istituzioni (CGUE, 1 o luglio 2008, in C39/05 P e C52/05 P, Svezia e Turco/Consiglio).

Le due garanzie appena citate, nelle quali si sostanzia il diritto a una buona amministrazione, non sono tuttavia assolute in quanto, come verrà evidenziato nell'analisi dell'art. 5 del d.lgs. n. 33/2013, incontrano alcune specifiche limitazioni, che trovano la loro giustificazione nell'esigenza di salvaguardare altri interessi ritenuti prioritari dall'ordinamento giuridico. Invero, lo stesso art. 41 della Carta dei diritti dell'Unione europea individua nella tutela degli interessi alla riservatezza e al segreto professionale limiti all'esercizio del diritto di accesso, ancorché la giurisprudenza comunitaria abbia chiarito che il rispetto di tali limiti non deve svuotare il diritto di accesso del suo contenuto essenziale, dovendo essere bilanciato con la contrapposta esigenza di salvaguardia del pieno esercizio del diritto di difesa già nel corso della fase procedimentale (Trib. UE, 29 giugno 1995, in T-30/91, Solvay SA c Commissione).

L'ulteriore garanzia posta a presidio del diritto a una buona amministrazione, cioè quella consistente nell'obbligo per l'amministrazione comunitaria di motivare le proprie decisioni, non costituisce una novità assoluta nel quadro normativo europeo, in quanto essa, ad esempio, era già prevista nell'originario Trattato istitutivo sia con riferimento ai provvedimenti legislativi, sia con riguardo alle decisioni amministrative, adottati dalla Commissione europea e dal Consiglio. Numerose sono le pronunce rese dalle Corti europee in ordine al contenuto e all'ampiezza dell'obbligo di motivazione, dalle quali può, essenzialmente, desumersi che le istituzioni europee devono esporre in modo plausibile le ragioni di fatto e di diritto poste alla base dell'adozione dell'atto (Trib. UE, 28 giugno 2016, in T-216/13, Telefónica), motivando in maniera più o meno ampia a seconda delle specificità del singolo caso concreto, da valutare alla luce del contesto fattuale e del quadro normativo che disciplina la materia sulla quale verte la decisione assunta (CGUE, 26 giugno 1986, in 203/85).

Vale, inoltre, evidenziare che il diritto a una buona amministrazione si è definitivamente affermato nell'ordinamento giuridico dell'Unione europea anche grazie agli apporti forniti dal primo Mediatore europeo, Jacob Söderman, durante lo svolgimento dei suoi due mandati. Il Mediatore europeo, infatti, ha giocato un ruolo di rilievo nell'adozione di due testi giuridici fondamentali per la piena attuazione di tale diritto, segnatamente il regolamento (CE) n. 1049/2001 in materia di accesso ai documenti delle istituzioni comunitarie, nonché il Codice di buona condotta amministrativa, approvato dal Parlamento europeo con una risoluzione del 6 settembre 2001.

In particolare, mentre sul diritto di accesso in ambito europeo si tornerà nel prosieguo dell'analisi (infra, sub art. 5), vale in questa sede rilevare che con il Codice di buona condotta amministrativa sono stati delineati alcuni parametri, relativi all'appropriatezza e all'adeguatezza dell'azione amministrativa, che fungono da elementi per valutare il grado di assolvimento, da parte dei funzionari pubblici, degli obblighi di comportamento che essi sono tenuti a rispettare nella gestione delle relazioni che intrattengono con i soggetti privati per ragioni d'ufficio. Si tratta, essenzialmente, di obblighi di puntuale informazione tra i quali, ad esempio, vale richiamare quello di fornire spiegazioni chiare e comprensibili sul proprio ambito di competenza, quello di specificare i motivi per i quali una determinata informazione non può essere diffusa, quello di fornire una risposta in tempi congrui, con modalità adeguate e nella medesima lingua del richiedente. Da questa breve disamina emerge come anche l'adozione di uno specifico Codice di buona condotta amministrativa si inserisca tra gli strumenti e le azioni che mirano a rendere più aperta e trasparente l'amministrazione comunitaria, in modo da consentire una maggiore partecipazione dei cittadini europei e rafforzare in senso democratico l'attività delle istituzioni, degli organi e degli organismi europei, così come richiesto dai Trattati.

Infine, giova osservare che il diritto a una buona amministrazione viene richiamato anche dalla giurisprudenza amministrativa che, da un lato, fa leva sull'esplicito riferimento normativo contenuto nell'art. 1 della legge n. 241/1990, secondo il quale l'attività amministrativa è retta anche dai principi dell'ordinamento comunitario e, dall'altro, prende atto del c.d. effetto spill over (Galetta, 541 ss.) dei principi generali del diritto dell'Unione europea all'interno degli ordinamenti degli Stati membri (Cons. St. V, n.4035/2009). Così, ad esempio, il giudice amministrativo richiama il diritto a una buona amministrazione tanto con riferimento all'obbligo di motivazione di provvedimenti amministrativi adottati in materia urbanistica (T.A.R. Umbria, Perugia, n.105/2013), quanto in materia di accesso agli atti (T.A.R. Lombardia, Brescia, n.987/2017;T.A.R. Lombardia, Brescia, n.1230/2016).

Normativa sulla trasparenza e livelli essenziali delle prestazioni

La prima parte del terzo comma dell'art. 1 del decreto trasparenza stabilisce che le disposizioni contenute in tale corpo normativo, nonché le norme di attuazione degli obblighi di pubblicità e trasparenza adottate dall'ANAC ai sensi del successivo articolo 48 (segnatamente i criteri, i modelli e gli schemi standard per l'organizzazione, la codificazione e la rappresentazione dei documenti, delle informazioni e dei dati oggetto di pubblicazione obbligatoria, ai quali i soggetti pubblici e privati indicati dall'art. 2-bis del d.lgs. n. 33/2013 devono conformarsi nell'adempimento degli obblighi di pubblicità loro imposti dalla legge), integrano l'individuazione del livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a fini di trasparenza, prevenzione, contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. m), della Costituzione.

Tale norma costituisce il naturale portato della nuova accezione normativa della trasparenza amministrativa, considerata dal legislatore quale condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, dei diritti civili, politici e sociali, nonché del diritto a una buona amministrazione. Infatti, posto che l'esercizio dei diritti costituzionali passa per la piena attuazione del principio di trasparenza, ben si comprende come il legislatore abbia ancorato l'effettivo raggiungimento di tale obiettivo alla uniforme individuazione sull'intero territorio nazionale di determinate soglie, qualitative e quantitative, delle prestazioni relazionate con l'esercizio di tali diritti.

Così come le prestazioni che vengono rese in specifici ambiti settoriali – quali, ad esempio, la sanità, l'edilizia residenziale pubblica, l'assistenza e i servizi sociali, ecc. – sono, sin dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, pacificamente interessate dalla individuazione dei livelli essenziali da parte del legislatore nazionale, anche le prestazioni erogate a fini di trasparenza dalle pubbliche amministrazioni non possono essere rese praticando standard inferiori a quelli previsti dald.lgs. n.33/2013, in quanto il rispetto del livello essenziale previsto dalla legge statale si pone a garanzia del raggiungimento delle finalità sottese alla diffusione, conoscibilità ed effettiva comprensione dell'informazione amministrativa.

L'esigenza di garantire i livelli essenziali delle prestazioni, anche con riferimento a quelle erogate a fini di trasparenza, discende dal fatto che la Repubblica, seppur unitaria, si articola in una pluralità di livelli di governo e di centri decisionali, dando luogo a un sistema istituzionale multilivello nel quale le competenze legislative sono ripartite per materie tra Stato e Regioni, come previsto dall'art. 117 della Costituzione.

Nell'ambito di tale quadro istituzionale e ordinamentale, la clausola dei livelli essenziali delle prestazioni mira ad assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione, come stabilito dalla stessa Corte costituzionale (Corte cost., n.10/2010). Per quel che concerne la portata territoriale della clausola dei livelli essenziali, la giurisprudenza costituzionale ha sempre ritenuto che essa dovesse essere estesa a tutte le Regioni, anche quelle a statuto speciale, nonché alle Province autonome (Corte cost., n.467/2005,Cortecost. n. 88/2006,Cortecost. n. 134/2006,Cortecost. n. 162/2007 eCortecost. n. 187/2012).

Anche la dottrina (Balboni, 27 ss.) ha posto in rilievo che la previsione dell'art. 117, comma 2, lett. m), della Costituzione, per far fronte a una esigenza di uguaglianza dei cittadini in un assetto istituzionale multilivello caratterizzato da differenziazioni territoriali fisiologiche, mira a garantire standard uniformi per tutte quelle prestazioni che sono connesse alla soddisfazione di bisogni particolarmente meritevoli di tutela, neutralizzando l'elemento di possibile differenziazione dato dalla localizzazione territoriale dei singoli consociati.

Vale ricordare che la Corte costituzionale (Corte cost. n.282/2002) ha affermato che i livelli essenziali delle prestazioni non costituiscono una materia in senso stretto, ma una competenza trasversale del legislatore statale che, come tale, interessa tutte le altre materie. Grazie alla previsione costituzionale dell'art. 117, comma 2, lett. m), al legislatore ordinario è riconosciuto il potere di emanare norme per assicurare che il godimento delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da parte dei cittadini raggiunga, sull'intero territorio nazionale e a prescindere dal luogo di residenza, sempre e in ogni caso un livello essenziale, che non può essere derogato in pejus dal legislatore regionale con lo scopo di limitare o condizionarne l'esercizio dei diritti dei consociati (Luciani, 1025 ss.).

La dottrina (Pesaresi, 1740) ha evidenziato che il carattere trasversale della competenza legislativa statale di cui all'art. 117, comma 2, lett. m), della Costituzione, rende la stessa riconducibile alle norme di scopo (Bin, 16) o alle materie-scopo (Marini, 2951 ss.) e, pertanto, suscettibile di incidere sulle scelte del legislatore regionale nelle materie di sua competenza, ogniqualvolta la disciplina positiva afferisca ai profili prestazionali relazionati con il godimento dei diritti civili e sociali (Pizzetti, 42). È stato anche osservato (Rossi, 218) che con la diretta previsione costituzionale della materia-scopo dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, non si sia tanto voluto assegnare al legislatore statale il compito di definire i livelli minimi delle prestazioni e individuare i servizi da erogare alla collettività in maniera inderogabile (Trucco, 104 ss.), quanto assicurare una comune cittadinanza di diritti su tutto il territorio nazionale, quale condizione imprescindibile per il pieno sviluppo della persona umana e il perseguimento dell'eguaglianza sostanziale ai sensi degli artt. 2 e 3, comma 2, della Costituzione.

L'applicazione della clausola dei livelli essenziali alle prestazioni erogate a fini di trasparenza in ambito amministrativo consegue al pieno riconoscimento normativo del ruolo svolto dal principio di trasparenza per l'attuazione del principio democratico e gli altri principi costituzionali menzionati dall'art. 1 del d.lgs. n. 33/2013. Invero, il godimento dei diritti costituzionali passa anche per le prestazioni erogate dai soggetti pubblici (Pace, 155 ss.). Da ciò discende che la visibilità esterna dell'operato dell'amministrazione sull'intero territorio nazionale può raggiungersi solo garantendo determinati standard prestazionali in sede di adempimento degli obblighi di trasparenza e pubblicità. Per queste ragioni, in materia di trasparenza, il rispetto dei livelli essenziali risulta propedeutico all'esercizio di forme di controllo generalizzato da parte dei consociati, che fungono da presidio per l'esercizio dei diritti civili e sociali connessi alla conoscibilità e comprensibilità dell'informazione amministrativa.

Per quel che concerne la soglia di essenzialità, una parte della dottrina (Balboni, «Il concetto di livelli essenziali e uniformi» come garanzia in materia di diritti sociali, 1110 ss.) ritiene che essa non vada interpretata in termini di tetto massimo, bensì quale soglia minima. L'adesione a tale impostazione – che ha ricevuto anche l'avallo della giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n.279/2005) – comporta, una volta garantito il livello essenziale delle prestazioni, la possibilità, in capo a ciascuna Regione e nel rispetto dei vincoli di bilancio, di adottare standard più elevati, ampliando anche il novero delle prestazioni che si intende erogare alla collettività. In proposito, parte della dottrina (Belletti, 166 ss.) discorre di eventuale reformatio in melius della disciplina nazionale in forza del principio del decentramento.

In termini generali vale osservare che il riconoscimento alle Regioni della possibilità di innalzare il livello delle prestazioni al di sopra della soglia di essenzialità potrebbe condurre a differenziazioni territoriali, potenzialmente contrastanti con la finalità di uniformazione cui tende la suddetta materia-scopo. Tale rischio, derivante dalle differenze esistenti tra le singole Regioni in termini di capacità economico-finanziaria e gettito fiscale, ancorché risulti foriero di possibili discriminazioni tra i cittadini connesse alla loro localizzazione geografica sul territorio nazionale, può comunque essere neutralizzato mediante il ricorso, da parte dello Stato, agli strumenti di compensazione tra i territori previsti dalla Carta costituzionale (in primis, il meccanismo della perequazione finanziaria previsto dall'art. 119 della Costituzione).

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