Regio decreto - 18/11/1923 - n. 2440 art. 82

Marco Giustiniani

 

L'impiegato che per azione od omissione, anche solo colposa, nell'esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo.

Quando l'azione od omissione è dovuta al fatto di più impiegati, ciascuno risponde per la parte che vi ha presa, tenuto conto delle attribuzioni e dei doveri del suo ufficio, tranne che dimostri di aver agito per ordine superiore che era obbligato ad eseguire.

Inquadramento

Il r.d. n. 2440/1923, pur con le modifiche sopravvenute, costituisce la normativa di base in materia di contabilità pubblica, unitamente al relativo regolamento approvato con r.d. n. 827/1924.

La contabilità pubblica può essere intesa come un complesso normativo finalizzato a regolare tutte le attività poste in essere dal settore pubblico inerenti l'acquisizione, la conservazione e l'utilizzo delle risorse, nonché a disciplinare le procedure di formazione dei bilanci e i criteri di contabilizzazione e controllo delle spese.

L'indagine oggetto della contabilità pubblica si estende anche alle modalità di gestione delle risorse pubbliche e alle forme dell'attività finanziaria e patrimoniale degli enti pubblici (Monorchio, Mottura).

La Corte Costituzionale ha tentato di riconoscere un'autonomia alla materia della contabilità pubblica, intendendola come «comprensiva sia dei giudizi di conto che di responsabilità a carico degli impiegati e degli agenti contabili dello Stato e degli enti pubblici non economici che hanno il maneggio del pubblico denaro; che la materia di contabilità pubblica non è definibile oggettivamente ma occorrono apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all'oggetto ma anche rispetto ai soggetti; che, comunque, essa appare sufficientemente individuata nell'elemento soggettivo che attiene alla natura pubblica dell'ente (Stato, Regioni, altri enti locali e amministrazione pubblica in genere) e nell'elemento oggettivo che riguarda la qualificazione pubblica del denaro, e del bene oggetto della gestione» (Corte cost. n. 641/1987).

Di diverso orientamento la giurisprudenza contabile secondo la quale «la materia della contabilità pubblica costituisce una categoria concettuale estremamente ampia, di cui è difficile delimitare esattamente i confini» (C. conti, sez. autonomie, n.3/2014).

Attività contrattuale dello Stato: onere pubblicità preventiva e pubblico incanto

Prima ancora che nell'attuale Codice dei Contratti pubblici, indicazioni in merito ai contratti attivi e/o passivi della P.A. vanno ricercate nell'art. 3del r.d.2440/1923 il quale prevede che i contratti dai quali derivi un'entrata per lo Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che per particolari ragioni, delle quali dovrà farsi menzione nel decreto di approvazione del contratto, e limitatamente ai casi da determinare con il regolamento, l'amministrazione non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di necessità alla trattativa privata. I contratti dai quali derivi una spesa per lo Stato debbono essere preceduti da gare mediante pubblico incanto o licitazione privata, a giudizio discrezionale dell'amministrazione.

L'articolo chiarisce la distinzione tra contratti attivi e contratti passivi: i contratti cd. ‘attivi' si differenziano dai contratti ‘passivi' in quanto non determinano una spesa da parte della pubblica amministrazione, bensì un'entrata; nonostante tale distinzione, il dettato normativo prevede, quale regola generale, la gara pubblica anche per i contratti attivi.

La scelta del legislatore di imporre all'amministrazione la procedura pubblicistica rispondeva all'esigenza di tutelare l'interesse finanziario dell'amministrazione consentendo alla P.A. di scegliere il contraente alle migliori condizioni economiche; l'istituto dell'evidenza pubblica assumeva, quindi, una chiara matrice contabilistica (Chieppa, Giovagnoli), contrariamente all'attuale significato dell'evidenza pubblica intesa come procedimento volto non più a garantire gli interessi finanziari e amministrativi delle amministrazioni procedenti, ma a tutelare soprattutto la libertà di circolazione e di concorrenza nel mercato europeo. (D'Alberti, 301).

Anche secondo la Corte Costituzionale si assiste al definitivo superamento della cosiddetta concezione contabilistica, che qualificava tale normativa interna come posta esclusivamente nell'interesse dell'amministrazione, anche ai fini della corretta formazione della sua volontà negoziale. (C. Cost. n.401/2007).

Di recente, la giurisprudenza amministrativa ha statuito che «in caso di delibera del Consiglio comunale di sdemanializzazione, declassificazione e contestuale vendita di una porzione di terreno, è illegittima la procedura di vendita dello stesso senza pubblicità e mediante trattativa privata con uno o più proprietari confinanti col terreno in parola: in realtà, tale operazione economica, comportando un'entrata per l'ente pubblico, deve necessariamente essere preceduta da un'adeguata e congrua pubblicità e conseguente gara tra gli eventuali interessati all'acquisto alla stregua delle disposizioni di cui agli artt. 3, comma 1, del r.d. n. 2440/1923 e 37, comma 1, del r.d. n. 827/1924; con la conseguenza che la violazione delle citate regole procedurali comporta il vizio della successiva determinazione comunale, ove da tale atto non si evincano particolari e serie ragioni per derogare i principi sanciti da dette disposizioni» (T.A.R. Campania, Salerno II, n.1490/2019).

Anche nei contratti attivi della pubblica amministrazione, il procedimento di scelta del contraente da parte di un ente pubblico ricade, comunque, nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo. «L'art. 4 del Codice dei contratti pubblici esclude dall'ambito di applicazione delle procedure di evidenza pubblica di cui al medesimo codice i contratti attivi della P.A., ma il loro affidamento deve comunque avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica» (T.A.R. Campania, Salerno I, n.727/2021).

La forma scritta ad substantiam dei contratti pubblici

L'ordinamento civilistico italiano stabilisce un generale principio di libertà della forma del contratto, tuttavia, i contratti della P.A. devono essere stipulati in forma scritta, a pena di nullità ex art. 1418 c.c., salvo i casi in cui la legislazione ammetta una deroga a tale forma.

In tema di stipulazione dei contratti pubblici le coordinate ermeneutiche sono rappresentate dagli artt. 16 e 17 del r.g. n. 2440/1923.

La regola generale è quella della forma scritta ad substantiam ex art. 16; il successivo art. 17 stabilisce che i contratti a trattativa privata, oltre che in forma pubblica amministrativa nel modo indicato al precedente art. 16, possono anche stipularsi per mezzo di scrittura privata firmata dall'offerente e dal funzionario rappresentante l'amministrazione.

Deroga alla forma scritta e alla riproduzione dell'accordo in un unico documento viene però dettata dall'ultima previsione dell'art. 17 il quale consente, limitatamente ai contratti a trattativa privata, che il contratto possa essere concluso a distanza, a mezzo di corrispondenza, quando esso intercorra con ditte commerciali.

La necessità della forma scritta è espressione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione e garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa, visto che solo tale forma consente di identificare con precisione l'obbligazione assunta e l'effettivo contenuto negoziale dell'atto; da tale principio consegue l'irrilevanza di ogni manifestazione di volontà implicita o desumibile da comportamenti meramente attuativi. Tutti i contratti degli enti pubblici, nei casi in cui ne è ad essi consentita la stipulazione, devono farsi per iscritto a pena di nullità assoluta; per cui, da un lato, la volontà di obbligarsi della Pubblica Amministrazione non può desumersi da fatti o atti più o meno indicativi di una sua aspirazione o inclinazione intenzionale, ma deve essere manifestata nelle forme richieste dalla legge, tra le quali l'atto scritto ad substantiam.

Anche la giurisprudenza si è pronunciata in ordine alla forma scritta dei contratti pubblici. Al riguardo, per i contratti in cui sia parte un ente locale (ad eccezione di quelli conclusi con ditte commerciali), anche quando esso agisca “iure privatorum”, è richiesta, in ottemperanza al disposto degli artt. 16 e 17, r.d. n. 2440/1923, la forma scritta “ad substantiam”, che è strumento di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa nell'interesse sia del cittadino, costituendo remora ad arbitri, sia della collettività, agevolando l'espletamento della funzione di controllo, e, per tale via, espressione dei principi di imparzialità e buon andamento della P.A. posti dall'art. 97 Cost. (Cass. II,n. 19934/2012).

Da tale ordine di considerazioni ne consegue l'irrilevanza di manifestazioni di volontà implicite o desumibili da comportamenti meramente attuativi (Cfr. ex multis Cass. n. 22994/2015; Cass., ord. n. 11231/2017), e l'inammissibilità, salvi i casi previsti da speciali disposizioni, di rinnovi taciti (Cass. n. 12769/2003) e di subentri per facta concludentia (Cass. n.21477/2013).

In ordine alla modalità di realizzazione dell'accordo si sono distinti due orientamenti: il primo orientamento ritiene sufficiente la forma scritta della proposta e dell'accettazione, ancorché redatte su due documenti separati (Cass., ord. n.25631/2017); il secondo orientamento ritiene indispensabile la scrittura privata unica ovvero la contestualità delle manifestazioni di volontà relative alla formazione del contratto (Cass. n. 7478/2020).

Questo secondo orientamento ha incontrato il seguito della giurisprudenza civile e amministrativa in quanto più funzionale all'attuazione del principio costituzionale di buona amministrazione, agevolando l'esercizio dei controlli e rispondendo all'esigenza di tutela delle risorse degli enti pubblici contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza l'adeguata copertura e senza la valutazione dell'entità delle obbligazioni da adempiere.

I contratti con la P.A. devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta e – salva la deroga prevista dall'art. 17, r.d. n. 2440/1923 per i contratti con le ditte commerciali, che possono essere conclusi a distanza, a mezzo di corrispondenza “secondo l'uso del commercio” – con la sottoscrizione, ad opera dell'organo dell'ente, munito dei poteri necessari per vincolare l'amministrazione, e della controparte contrattuale, di un unico documento, in cui siano specificamente indicate le clausole disciplinanti il rapporto (Cons. St. n.5138/2018).

La contestualità delle firme deve essere solo documentale, non necessariamente spazio-temporale, dunque le parti possono apporre la propria firma in momenti e luoghi distinti, purché sul medesimo documento (T.A.R. Puglia, Lecce, n.1842/2017).

Tuttavia, è sempre necessario accertare in sostanza la natura amministrativa del soggetto contraente, invero, in dipendenza della natura imprenditoriale dell'attività svolta dall'azienda speciale di ente territoriale e della sua autonomia organizzativa e gestionale rispetto all'ente di riferimento, l'azienda stessa, pur appartenendo – se non altro a diversi ed ulteriori fini e rimanendo soggetta ai controlli ed alle altre forme di funzionalizzazione agli scopi istituzionali dell'ente di riferimento espressamente previsti – al sistema con il quale la pubblica amministrazione locale gestisce i servizi pubblici che abbiano per oggetto produzioni di beni ed attività rivolte a soddisfare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, non può qualificarsi, ai fini della normativa sulla forma dei contratti di cui al r.d. n. 2440/1923, artt. 16 e 17 P.A. in senso stretto; con la conseguenza che per i suoi contratti, salva l'applicazione di speciali discipline per particolari categorie, non è imposta la forma scritta ad substantiam, né sono vietate la stipula per facta concludentia o mediante esecuzione della prestazione ex art. 1327 c.c., ma vige, al contrario, il principio generale della libertà delle forme di manifestazione della volontà negoziale (Cass. n.20684/2018).

Le norme sulla contabilità generale dello Stato in esame non sono invece ritenute applicabili agli enti pubblici economici, per i cui contratti non è prevista, di regola e salvo pure cospicue eccezioni (come nel caso dell'affidamento di pubblici appalti), la forma scritta od altra forma solenne – ad substantiam: privilegiandosi in questo caso la considerazione che l'ente pubblico si pone sullo stesso piano, anche concorrenziale, dei comuni imprenditori e quindi equiparati ad essi anche nell'espletamento della comune attività negoziale e, pertanto, nella libertà dalle forme speciali imposte invece alle pubbliche amministrazioni quando non agiscano iure privatorum (Cass. n.24640/2016).

Efficacia contrattuale subordinata all'approvazione ministeriale

Ai sensi dell'art. 19 del r.d., gli atti di aggiudicazione definitiva ed i contratti non sono obbligatori per l'amministrazione, finché non sono approvati dal ministro o dall'ufficiale all'uopo delegato e sono eseguibili solo dopo l'approvazione; l'approvazione dei contratti per i quali sia richiesto il parere del Consiglio di Stato deve essere data con decreto ministeriale.

Con riferimento ai contratti conclusi con la pubblica amministrazione, «il dispiegamento degli effetti vincolanti per le parti (...) è subordinato all'approvazione ministeriale (...) sicché, ai fini del perfezionamento effettivo del vincolo contrattuale, pur se formalmente esistente, non è sufficiente la mera aggiudicazione pronunciata in favore del contraente, come pure la formale stipula del contratto ad evidenza pubblica nelle forme prescritte dalla legge». Per quanto riguarda la (eventuale) responsabilità dell'amministrazione, questa «deve essere, di conseguenza, configurata come responsabilità precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale da ‘contatto sociale qualificato', inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ai sensi dell'art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione ex art. 2946» (Cass. n.14188/2016).

L'istituto del fermo amministrativo

L'art. 69, comma quinto, del r.d. in commento dispone che «Qualora un'amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi titolo ragione di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, richieda la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo».

Il fermo amministrativo è una misura cautelare offerta alla P.A. a tutela delle proprie ragioni di credito, la quale «può» e non «deve» adottarla, valutando, secondo il proprio prudente apprezzamento, quale procedura cautelativa possa meglio raggiungere lo scopo che l'amministrazione stessa si è prefissato.

La cautela offerta sta nel legittimare la P.A. a sospendere i propri pagamenti diretti a un terzo privato, a tutela di un credito dalla stessa o da altra branca dell'amministrazione vantato nei confronti del medesimo soggetto: lo scopo è quello di salvaguardare un'eventuale compensazione legale del debito con il credito. Tuttavia, per una parte della dottrina non sarebbe corretto parlare di compensazione legale exartt. 1241 e ss. c.c. in quanto, in materia contabile ciò si porrebbe in contrasto con il principio dell'integrità del bilancio; pertanto, parrebbe più corretto usare il termine «conguaglio» da effettuarsi mediante emissione di mandato di pagamento e corrispondente reversale d'incasso (Montel, 303).

Il fermo amministrativo disciplinato dall'art. 69 della legge di contabilità di Stato è un provvedimento discrezionale di autotutela amministrativa ad evidente funzione cautelare diretto alla tutela delle ragioni del credito delle Amministrazioni statali verso terzi ed ha carattere provvisorio (Molinari).

Non può negarsi che, comunque denominato o qualsivoglia sia la forma adottata, qualsiasi provvedimento amministrativo che tenda a tutelare l'interesse primario statale, ingerendosi negativamente nel soddisfacimento del credito di qualsiasi cittadino, rientra nella norma citata ed è assimilabile, per genus e species, all'istituto del “fermo amministrativo” (Cutrano).

Con l'espressione « a qualsiasi titolo, ragione di credito », la norma indicherebbe una pretesa creditoria dotata di ragionevole apparenza e fondatezza; il fermo amministrativo, proprio per la sua natura cautelare ed intrinsecamente provvisoria, può essere adottato anche nei casi in cui il credito sia stato semplicemente contestato, purché sia ragionevole sostenerne l'esistenza e la non manifesta infondatezza, ovvero se ne prospetti non agevole l'immediata realizzazione; pertanto deve trattarsi di una posizione caratterizzata dal fumus boni iuris, non necessariamente di un credito definitivamente accertato né di una mera pretesa creditoria sfociante in arbitrio (Garri).

Il fermo amministrativo può essere adottato, stante la sua natura cautelare e intrinsecamente provvisoria, collegata per definizione a motivi di urgenza, anche qualora il credito dell'amministrazione sia contestato, ma sia ragionevole ritenerne l'esistenza, posto che suo presupposto normativo è non già la provata esistenza del credito, bensì la mera ragione di credito (Cons. St. n.7858/2019).

La dottrina meno recente riteneva sufficiente una semplice affermazione o contestazione da parte dell'Amministrazione di una pretesa creditoria o anche di una semplice aspettativa (Molinari).

L'allora Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, nella Circ. min., 29 marzo 1999, n. 21/RGS, riprende il parere dell'Avvocatura Generale dello Stato. Quest'ultima aveva sottolineato che: «Il concetto di ragione di credito è insuscettibile di una definizione rigorosa, collocato come è nella zona grigia che va dalla pretesa creditoria pura e semplice (pertanto anche arbitraria e temeraria) al credito certo, liquido ed esigibile. L'una, come è ovvio, insufficiente in sé e per sé a radicare il potere di fermo (ché altrimenti ne conseguirebbe un inammissibile arbitrio), l'altro, eccedente in requisiti richiesti dalla legge, perché di per sé idoneo a far realizzare i fini cui l'istituto del fermo è preordinato – c.d. compensazione – senza bisogno della tappa intermedia di natura cautelare. L'unico termine idoneo a qualificare la pretesa come atta a radicare il potere di fermo, sembra potersi mutuare dal processo civile, ed è il c.d. fumus boni juris, cioè la ragionevole apparenza di fondatezza».

Si osserva altresì che l'art. 69, r.d. n. 2440/1923 non richiede alcuna proporzione tra la somma azionata dal privato e il controcredito vantato dall'Amministrazione. Una tale lettura condurrebbe, anzi, ad esiti paradossali, perché favorirebbe coloro che sono debitori di somme più elevate verso l'Erario, atteso che tali soggetti potrebbero, per ciò solo, ottenere il pagamento di importi di non elevata entità in rapporto al proprio debito. A ciò si aggiunge, in una prospettiva di inquadramento più generale dell'istituto, che la proporzionalità del fermo amministrativo non va apprezzata in base al rapporto tra le contrapposte pretese delle parti, poiché ciò che deve essere preso in considerazione non è la proporzione economica tra tali pretese, ma la complessiva proporzionalità del provvedimento, la quale va verificata, piuttosto, valutando la proporzionalità della somma di cui si dispone il fermo in relazione all'apparenza del credito vantato e al pericolo di sottrazione del creditore agli obblighi cui è tenuto (T.A.R. Lazio, Roma, n. 8619/2018).

Con ordinanza n. 160 emessa il 6 febbraio 1970 la Corte d'appello di Trieste nel procedimento civile tra un privato imprenditore e l'Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato sollevava questione di legittimità costituzionale avverso l'art. 69, comma 6.

Secondo la Corte rimettente, la norma porrebbe la P.A. in una situazione di assoluta preminenza nei confronti del privato, seppur con riguardo ad un rapporto di natura privatistica non attinente a funzioni e finalità pubbliche. Inoltre, il provvedimento viene emanato inaudita altera parte a carico del privato il quale è destinato a subirne gli effetti; tale ingiustificata posizione di prevalenza contrasterebbe, ad avviso della Corte, con l'art. 3 Cost.

La norma in esame, poi, inciderebbe su diritti soggettivi; e poiché per la tutela di questi la legge stabilisce la competenza del giudice ordinario, la norma stessa, attribuendo all'Amministrazione dello Stato il potere di incidere, sia pure in via cautelare, sui diritti medesimi, sottrarrebbe la relativa pretesa alla competenza del giudice precostituito dalla legge, con conseguente contrasto anche con gli artt. 25, comma 1, e 102, comma 1, Cost.

La Corte cost. con sentenza n. 67/1972 non ha rilevato alcun contrasto tra la norma e il dettato costituzionale. Al riguardo «va ricordato che il fermo costituisce misura di autotutela della Amministrazione statale, avente lo scopo di assicurare la realizzazione dei fini cui è rivolto l'iter amministrativo procedimentale, necessariamente complesso e disciplinato da norme inderogabili e preordinate ad assicurare la regolarità contabile e la realizzazione delle entrate dello Stato, quali vengono definite nell'art. 219 r.d. n. 827/1924 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato).

È evidente, quindi, che la norma in esame non configura un irrazionale privilegio, ma uno strumento necessario alla protezione del pubblico interesse connesso alle esigenze finanziarie dello Stato.

E se è vero che l'autotutela, nella generalità delle sue applicazioni, è connaturata all'attività della pubblica Amministrazione nei rapporti di diritto pubblico, non deve escludersi, in considerazione di quanto testé accennato, che speciali norme di legge ne consentano l'esercizio anche in rapporti di diritto privato, cui la pubblica Amministrazione partecipi per i fini che le sono propri.

Né vale obiettare, con riferimento a questi ultimi rapporti e in ispecie a quelli derivanti da contratti di appalto di opere pubbliche, che misure di autotutela, quale il fermo amministrativo, sarebbero incompatibili con il principio, che erroneamente, invece, è stato richiamato nell'ordinanza, della parità delle posizioni delle parti nei contratti di diritto privato, anche se conclusi dalla pubblica Amministrazione.

(...) Da quanto sopra emerge che il principio di uguaglianza non può riguardare situazioni fra loro differenti, quali sono quelle, ricorrenti nella fattispecie, dell'Amministrazione e del privato, e cade, quindi, la censura svolta in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

Non può ravvisarsi, infine, alcuna violazione dei precetti di cui agli artt. 25, comma 1, e 102, primo comma, della Costituzione, giacché la determinazione del giudice competente risulta, come sopra rilevato, precostituita dalla legge con specifico riguardo alle diverse situazioni, di diritto soggettivo perfetto od affievolito, quali si realizzano nel corso delle vicende dei contratti della pubblica Amministrazione».

L'istituto del fermo amministrativo trova applicazione anche ai rimborsi Iva; in presenza di «carichi tributari pendenti» il rimborso dei crediti Iva viene negato sino alla definizione del relativo contenzioso.

Occorre precisare che l'applicazione di tale istituto ai rimborsi IVA è stato oggetto di plurime pronunce giurisprudenziali.

Al riguardo, si sono costituiti due orientamenti: il primo, in via di consolidamento, sostiene l'inapplicabilità del fermo amministrativo ai rimborsi IVA in quanto in tema di rimborsi IVA, l'art. 38-bis del d.P.R. 633/1972 – prevedendo, accanto alla sospensione dell'esecuzione dei rimborsi in presenza di contestazioni penali, un articolato sistema di garanzie teso a tutelare l'interesse dell'Erario all'eventuale recupero di quanto dovesse risultare indebitamente percepito dal contribuente – introduce una specifica garanzia a favore dell'Amministrazione e preclude, pertanto, l'applicazione a detti rimborsi dell'istituto del fermo amministrativo, previsto dall'art. 69 r.d. 2440/1923 (Cfr. ex multisCass. n.15424/2009).

Di recente si è pronunciata la Commissione Tributaria Provinciale di Lucca con sentenza n. 4/20 con la quale ha sancito che è «nullo il provvedimento di fermo amministrativo del rimborso IVA ex art. 69, comma 6, r.d. 2440/23» emesso dall'Agenzia delle Entrate, in quanto in materia di sospensione dei rimborsi sono applicabili le disposizioni previste dall'art. 23, comma 1, d.lgs. n. 472/97 ed art. 38-bis, comma 8, d.P.R. n. 633/72.

Con la sentenzaCass. n. 2320 del 31 gennaio 2020 le SezioniUnite ritengono che l'Amministrazione non possa cautelarsi due volte, pur se con finalità diverse, in riferimento allo stesso credito del contribuente e cioè che essa possa emettere il provvedimento di fermo durante il periodo di vigenza della garanzia (cauzione, o fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa, che sia) prestata dal contribuente ai sensi dell'art. 38-bis, del decreto IVA: tale duplice cautela risulta, da una parte, ingiustificata per l'Erario, che può rivalersi sulla garanzia già prestata e a sua disposizione, ed implica, dall'altra, un carico eccessivo per il contribuente, che, oltre all'onere della prestazione della garanzia, vede il medesimo suo credito sottoposto a fermo.

Se ne inferisce che in costanza di garanzia il fermo cautelare non può essere opposto, mentre potrebbe essere opposto nei casi di assenza di garanzia.

Il secondo orientamento ritiene compatibile il fermo amministrativo con i rimborsi IVA sull'assunto che il provvedimento di sospensione del pagamento previsto dal r.d. n. 2440/1923, art. 69 è espressione del potere di autotutela della P.A. a salvaguardia dell'eventuale compensazione legale dell'altrui credito con quello, anche se attualmente illiquido, che l'amministrazione abbia o pretenda di avere nei confronti del suo creditore, ed ha portata generale in quanto mira a garantire la certezza dei rapporti patrimoniali con lo Stato, mediante la concorrente estinzione delle poste reciproche (attive e passive). Ne consegue l'applicabilità della norma anche ai rimborsi dell'iva, fino al sopraggiungere dell'eventuale giudicato negativo circa la concorrente ragione di credito vantata dall'erario (Cass., ord. n.25893/2017).

La responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti

La responsabilità amministrativa può essere definita come la responsabilità nella quale incorre colui che, legato all'amministrazione pubblica da un ‘rapporto di servizio', con un'azione dolosa o gravemente colposa, arreca un danno all'erario (Cimini).

Tale forma di responsabilità trae diretto fondamento dall'art. 28 della Costituzione ai sensi del quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici» e, altresì, dall'art. 103, comma 2, della Costituzione il quale affida alla Corte dei Conti la «giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.

Con specifico riferimento alla disciplina contenuta nel r.d. n. 2440/1923, l'art. 82, comma 1, stabilisce che «L'impiegato che per azione od omissione, anche solo colposa, nell'esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo». Il successivo art. 83, inoltre, assoggetta i dipendenti di cui sopra alla giurisdizione della Corte dei Conti.

Trattasi di una forma di responsabilità ‘interna', in quanto il danno preso in considerazione è quello subìto dal soggetto pubblico. Diversamente, nel caso in cui il danno venga subìto da un soggetto terzo si configura la responsabilità civile dell'amministrazione e del dipendente quale forma di responsabilità ‘esterna' (Cimini).

Ai fini della configurazione della responsabilità amministrativa è richiesta la presenza di specifici elementi costitutivi, quali: a) un comportamento, commissivo o omissivo, contra jus; b) un evento dannoso per l'erario; c) un rapporto di causalità fra condotta antigiuridica ed evento dannoso; d) l'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave. A tali requisiti si aggiunge la necessaria sussistenza del cd. ‘rapporto di servizio', in assenza del quale la giurisdizione per i danni arrecati all'erario appartiene al giudice ordinario anziché alla Corte dei Conti (Cimini).

Con riferimento al presupposto primario della responsabilità amministrativa, ossia il ‘rapporto di servizio', la giurisprudenza ha interpretato in senso ampio l'espressione “nell'esercizio delle sue funzioni” contenuta nell'art. 82 del r.d. n. 2440/1923, nel senso, cioè, di ritenere tale rapporto configurabile tutte le volte in cui il soggetto, persona fisica o giuridica, benché estraneo all'ente, si trovi investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della stessa amministrazione, venendo conseguentemente a inserirsi nella sua organizzazione e ad assumere particolari vincoli ed obblighi funzionali ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali, cui l'attività medesima, nel suo complesso, è preordinata (ex multisCass. S.U. , nn.10062/2011 eCass. S.U. , nn. 10137/2012).

Nell'ambito di questa relazione rientrano anche i fatti commessi da amministratori (anche in via di fatto) o rappresentanti legali dell'ente privato destinatario dei contributi pubblici, considerato che anche nei loro confronti si instaura una relazione funzionale tale da collocare il soggetto esterno nell'iter procedimentale dell'Ente pubblico (C. conti, n.105/2021).

L'altro elemento, di marcata caratterizzazione di tale forma di responsabilità, è costituito dalla peculiare natura della lesione che scaturisce dalla condotta del soggetto avente un rapporto di servizio con la P.A.

Premesso che il danno erariale per essere risarcibile deve possedere i connotati della certezza, dell'attualità e della concretezza (C. conti, n.102/2007), lo stesso può rilevare sia come diminuzione patrimoniale (danno emergente) sia come mancato guadagno (lucro cessante) oppure come perdita non patrimoniale economicamente valutabile, prodotta a danno della propria o di altra amministrazione. Il danno, inoltre, può essere diretto o indiretto a seconda che il pregiudizio sia causato direttamente all'amministrazione dalla condotta del dipendente ovvero l'amministrazione abbia dovuto rispondere del danno subìto da un terzo per fatto del dipendente.

Al riguardo, si rappresenta che la nozione di ‘danno' ha subìto una continua evoluzione nel corso del tempo in quanto, in origine, il danno cagionato all'erario era concepito come diminuzione stricto sensu di elementi finanziari e patrimoniali, quale concezione tipica di un momento storico in cui lo Stato, concepito come ente erogatore, accentrava a sé la quasi totalità dell'attività amministrativa e finanziaria (Landolfi, 3).

Nel tempo, tale nozione ha assunto una nuova e più lata dimensione nel significato di compromissione del buon andamento o degli interessi generali della collettività, riassumibili nel concetto di ‘danno pubblico', in modo tale da abbracciare non solo il danno ai beni e valori patrimoniali ma anche il danno ad interessi pubblici generali economicamente valutabili (Santoro, 727).

Tra le più recenti e discusse ipotesi di danno erariale individuate dalla magistratura contabile vanno segnalate le pronunce concernenti il danno da tangente, il danno all'immagine ed il danno da disservizio (Landolfi, 4).

Per quanto concerne il danno da tangente, la Corte dei Conti ha ritenuto che l'esistenza di tangenti negli appalti pubblici si traduca in una maggiorazione dei costi che l'opera pubblica comporterà, prima per l'impresa con un aumento del prezzo finale e in definitiva in un maggior costo conclusivo per l'ente e per la comunità, rispetto al caso di normali gare in concorrenza tra le ditte interessate, non falsate dal versamento di tangenti. Di conseguenza, laddove appaiano essersi accertate le tangenti, si è considerato presuntivamente un danno da tangente da liquidare dai responsabili all'ente pubblico in via equitativa ex art. 1226 c.c., con una cifra non al di sotto dell'importo oggetto di illecita retribuzione tangentizia (C. conti, n. 377/A/2005).

Quanto, invece, al danno all'immagine, la risarcibilità dello stesso costituisce un principio consolidato nella giurisprudenza sia della Corte dei Conti (si veda, per tutte, C. conti, n.114/94 e, più di recente, n. 140/2020) sia della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 5568/97). Il danno all'immagine – tradizionalmente inquadrato in termini di danno evento da ascrivere alla categoria del c.d. danno esistenziale (specificamente, sul punto, C. conti, n. 10/2003/QM) – costituisce un ‘danno pubblico' in quanto lesione del buon andamento della P.A., la quale perde, con la condotta illecita dei soggetti ad essa vincolati da un rapporto di servizio, credibilità ed affidabilità all'interno ed all'esterno della propria organizzazione, ingenerando la convinzione che i comportamenti patologici posti in essere da chi opera per suo conto, siano un connotato usuale dell'azione dell'amministrazione (tra le tante, C. conti, nn.284/2008 e n. 540/2008). Ai fini della configurabilità di tale voce di danno, non è necessario dimostrare in concreto di aver sostenuto spese per il ripristino dell'immagine lesa, risultando sufficiente la dimostrazione delle condotte lesive (C. conti, n. 16/2002).

Di notevole interesse anche il danno da disservizio, il quale si differenzia dal danno all'immagine in quanto mentre in quest'ultimo il danno erariale si rinviene nelle spese sostenute dall'amministrazione per ricostruire la propria credibilità nell'opinione pubblica, diversamente, nel danno da disservizio il danno erariale è costituito dai costi inutilmente sostenuti per un servizio non reso in parte o anche in toto (De Paolis, 1057).

Il danno da disservizio, in relazione al quale si è formata un'ampia casistica giurisprudenziale, si caratterizza per la disutilità della spesa sostenuta dall'Amministrazione, a cagione dell'inosservanza dei propri doveri da parte del pubblico dipendente. Lo stesso può, quindi, tradursi in una minore efficienza dell'azione amministrativa, con il mancato conseguimento delle attese utilità ordinariamente ritraibili dall'impiego di determinate risorse, così da determinare uno spreco delle stesse o, sotto altro aspetto, quale danno-conseguenza, negli ulteriori costi sopportati dalla pubblica amministrazione per il ripristino della legalità, ovvero per ripristinare l'efficienza perduta; sicché la pretesa risarcitoria può comprendere, così come nel caso di specie, anche due delle tipologie di «danno da disservizio». Si tratta, in buona sostanza, di un pregiudizio intrinsecamente connesso ad un pubblico servizio cui sono riconducibili più tipologie di condotte illecite, accumunate dall'essere causative di uno svilimento (ovvero desostanziamento) dell'attività amministrativa e dei suoi risultati; nei casi di ‘disservizio', l'azione pubblica non raggiunge, sotto il profilo qualitativo, le utilità ordinariamente ritraibili dall'impiego di determinate risorse, così da determinare uno spreco delle stesse (C. conti, n. 313/2020).

In tempi recenti si è tentato di accreditare altresì la configurabilità di un danno alla concorrenza, il quale, nella giurisprudenza contabile (C. conti, n. 431/2019) sta ad indicare quella peculiare diminuzione patrimoniale che un'amministrazione aggiudicatrice subisce quando un contratto venga stipulato in violazione delle regole di evidenza pubblica, che impongono il previo esperimento di una gara al fine di garantire la possibilità di scegliere, nell'ambito di un adeguato numero di imprese partecipanti, la migliore offerta conseguibile per la acquisizione di beni e servizi oggetto della gara. Si precisa che la giurisprudenza contabile ha, tuttavia, utilizzato il termine in un'accezione anfibologica, ritenendo che con l'espressione «danno alla concorrenza» si possa rinviare tanto al nocumento subìto dall'amministrazione per non aver conseguito il risparmio di spesa che sarebbe stato possibile ottenere mediante il confronto in gara tra più offerte («danno alla concorrenza in senso stretto»), quanto a quello corrispondente all'esborso dell'intero corrispettivo pagato all'impresa, al netto dell'utiliter datum, in esecuzione di un contratto nullo per violazione delle norme imperative («danno alla concorrenza in senso ampio» o «atecnico»).

Inoltre, in tema di responsabilità amministrativa, e più nel dettaglio con riferimento all'imputazione di siffatta responsabilità, appare fondamentale il c.d. « potere riduttivo » sancito dall'art. 83del r.d.2440/1923 in base al quale il giudice contabile «valutate le singole responsabilità può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato».

La ratio di tale potere, secondo la dottrina, poggia sulla estrema complessità dell'organizzazione amministrativa pubblica, la quale, salve rarissime eccezioni, esclude che l'intera responsabilità di un fatto dannoso si possa addebitare al solo convenuto (Nassis, 52).

Nella prassi, il potere riduttivo viene ancorato a elementi soggettivi (esperienza, lodevole carriera, comportamento etc.) e, in modo più convincente, a circostanze oggettive (disorganizzazione, difficoltà, urgenza etc.), tali da far ipotizzare un trasferimento del rischio operativo a carico dell'apparato dell'amministrazione. Tale potere, inoltre, deve basarsi sulla valutazione di circostanze esterne che non alterino gli elementi costitutivi della responsabilità e, a prescindere dai parametri di commisurazione, ha un fondamento fortemente equitativo ( Santoro, 746).

Come precisato dalla giurisprudenza il Collegio non ritiene che esso, come è stato suggerito in dottrina, abbia attinenza alla c.d. graduazione della colpa, la quale va apprezzata separatamente, e prioritariamente, in sede di esame dell'elemento soggettivo, ed anzi eventuali interferenze fra la valutazione della colpa e l'uso del potere riduttivo porterebbero a una inammissibile duplicazione delle medesime considerazioni; ritiene piuttosto che il potere riduttivo sia dato al giudice della Corte dei Conti, perché, nel giudizio dei comportamenti di amministratori e funzionari, egli possa tener conto di svariati fattori inerenti alla complessità dei fatti amministrativi. Si tratta di un campo nel quale è assai arduo limitare il giudizio ai canoni della causalità lineare, essendo l'azione amministrativa spesso legata a condizionamenti e a incrostazioni che non mancano di influenzarla in diversa misura. Non è escluso che il potere riduttivo risponda anche all'esigenza di ripartire in qualche modo il rischio dell'azione amministrativa fra la stessa amministrazione e gli autori della censurata condotta, la quale può assumere dimensioni incalcolabili: insieme alla limitazione della responsabilità ai casi di dolo e colpa grave, esso può concorrere a scoraggiare nei pubblici amministratori e funzionari atteggiamenti di inerzia e di inefficienza dovuti al timore della responsabilità (C. conti, n.136/2002).

Differenze con la responsabilità contabile: attenuazione e reductio ad unum

La responsabilità contabile, diversamente dalla responsabilità amministrativa, può configurarsi solo in capo ad alcuni soggetti, denominati « agenti contabili » (art. 74,comma 1, r.d.2440/1923), ossia coloro che hanno il maneggio di beni e valori pubblici e, per questo, sono tenuti all'obbligo di rendere il conto (Cimini).

Per gli agenti contabili in senso stretto, ossia per i dipendenti pubblici incaricati del «maneggio del pubblico danaro» o di «tenere in custodia valori e materie», il sistema prevede addirittura una speciale forma di giudizio: il «giudizio di conto» (exartt. 73 e ss. del r.d. n. 2440/1923).

Peraltro, la crisi del rapporto di pubblico impiego, legato anche alla ‘privatizzazione' della P.A. ed all'esercizio diffuso delle pubbliche funzioni, ha comportato l'emergere di nuove figure di agenti contabili, non legati da alcun rapporto di lavoro con la P.A. stessa e, quindi, ad essa del tutto estranei (Longavita, 17).

In tale ottica, la Corte dei Conti ha precisato che «la qualità di agente contabile è assolutamente indipendente dal titolo giuridico in forza del quale il soggetto pubblico o privato ha maneggio di pubblico denaro. Tale titolo può, infatti, consistere in un atto amministrativo, in un contratto, o addirittura mancare del tutto» (...) «Essenziale è, invece, che in relazione al maneggio di denaro sia costituita una relazione tra ente di pertinenza ed altro soggetto. Tale nozione allargata di agente contabile, la quale ricomprende anche i soggetti che abbiano di fatto maneggio di denaro pubblico è in perfetta armonia con l'art. 103 Cost., la cui forza espansiva deve considerarsi vero e proprio principio regolatore della materia.» (C. conti, n. 22/2016). Nel caso di specie, secondo i giudici, anche i titolari delle strutture ricettive «ove incaricati – sulla base dei regolamenti comunali previsti dall'art. 4, comma 3, del d.lgs n. 23/2011 – della riscossione e poi del riversamento nelle casse comunali dell'imposta di soggiorno corrisposta da coloro che alloggiano in dette strutture, assumono la funzione di agenti contabili, tenuti conseguentemente alla resa del conto giudiziale della gestione svolta».

Un'ulteriore differenza consiste nel fatto che, diversamente dalla responsabilità amministrativa che può sorgere dall'inosservanza di doveri molto ampi nascenti dal rapporto di servizio, ossia da qualunque tipo di comportamento gravemente colposo che produca un danno all'erario, la responsabilità contabile può essere connessa soltanto al comportamento proprio del contabile consistente nell'inadempimento dell'obbligazione principale di restituire i valori avuti in consegna. Inoltre, la responsabilità contabile riguarda il compimento di atti reali su beni pubblici ovvero il momento esecutivo della gestione finanziaria (Cimini).

Nonostante tali differenze, in dottrina è stato rilevato che gli elementi costitutivi che caratterizzano ambedue le forme di responsabilità sono identici e, a ragione di ciò, si è pervenuti nel tempo ad una reductio ad unum delle due forme di responsabilità, sottoposte alla cognizione della Corte dei Conti (Cimini).

Inoltre, in tempi recenti, è stata elaborata la tesi dottrinale che individua un rapporto di genus a species tra le due responsabilità, configurandosi la responsabilità amministrativa quale forma di responsabilità ‘comune' e quella contabile quale forma di responsabilità ‘propria' (D'Agnese).

Natura e funzione della responsabilità amministrativa-contabile

La dottrina si è divisa tra chi sostiene la natura civilistica-risarcitoria e chi invece afferma la natura pubblicistica-sanzionatoria di questa forma di responsabilità.

Nell'ambito della tesi civilistica, l'oscillazione tra natura contrattuale ed extracontrattuale ha visto prevalere nella giurisprudenza la prima, per ragioni eminentemente pratiche in quanto la disciplina della responsabilità contrattuale è più favorevole al danneggiato rispetto alla disciplina della responsabilità extracontrattuale, sul piano della maggiore durata del termine di prescrizione (dieci anni anziché cinque) e del regime probatorio (inversione dell'onere della prova in relazione alla presunzione di colpa) (Raeli, 2).

L'orientamento civilistico si fonda sulla natura risarcitoria della responsabilità amministrativa, prevalendo la finalità di reintegrazione delle risorse finanziarie e patrimoniali della pubblica amministrazione in conseguenza del danno all'erario.

Di recente, inoltre, è stata avanzata l'opzione dogmatica secondo la quale la responsabilità amministrativa avrebbe una propria tipicità e disciplina tale da poterla definire sui generis. Si sostiene che la responsabilità amministrativa non risponde né esclusivamente né prioritariamente a finalità meramente compensative o risarcitorie, e che assommi, come la comune responsabilità civile per colpa, funzioni sanzionatorie (del comportamento colpevole del danneggiante) e preventive (inducendo la generalità dei soggetti a comportamenti diligenti). La differenza rispetto all'archetipo civilistico della responsabilità per colpa viene individuata nel rapporto (inverso) tra le medesime funzioni: fondamentale appare la funzione di prevenzione; strumentali le funzioni compensativa e sanzionatoria (Raeli, 4).

Altra parte della dottrina, invece, assegna alla responsabilità amministrativa una funzione pubblicistica-sanzionatoria.

Nella concezione pubblicistica-sanzionatoria rivestono un ruolo fondamentale l'elemento della colpevolezza, intesa come atteggiamento anti doveroso della volontà, e il potere riduttivo di cui all'art. 83 del r.d. 2440/1923, non più considerato come facoltà di ridurre secondo equità la misura del risarcimento del danno, bensì come potere di determinare in concreto la sanzione pecuniaria rappresentata dal risarcimento del danno, in relazione alla gravità della colpa del danneggiante. In una ulteriore formulazione, a sostegno della tesi sanzionatoria, si fa leva soprattutto sulla esistenza del potere riduttivo, sulla attribuzione della giurisdizione ad un giudice speciale (Corte dei conti) e sulla officialità dell'azione, nonché inoltre sulle novità introdotte dalle riforme degli anni '90 (personalità, intrasmissibilità, parziarietà, accentuazione del grado di colpa, irresponsabilità delle scelte politiche), affermandosi che il profilo sanzionatorio e la finalità di prevenzione sono prevalenti e caratterizzanti nella responsabilità amministrativa e meramente accessori e secondari in quella civile, in cui prevale il profilo della restaurazione del patrimonio (Raeli, 6).

La giurisdizione della Corte dei Conti

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale la giurisdizione attribuita, in sede di responsabilità amministrativa, alla Corte dei conti ai sensi degli artt. 81 del r.d. 18 novembre 1923 n. 2440 e 52 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, presuppone che il soggetto sia legato all'amministrazione da un rapporto di impiego o servizio e/o che, se soggetto privato, estraneo all'organizzazione della pubblica amministrazione, sia compartecipe dell'attività amministrativa, svolgendo un'attività anche solo strumentale all'esercizio di una funzione pubblica (Cass. S.U., n. 32929/2018).

La giurisdizione della Corte dei conti sussiste, quindi, con riguardo ai giudizi di responsabilità instaurati dallo Stato nei confronti dei propri impiegati e funzionari per danni da costoro causatigli, nell'esercizio delle loro funzioni, sia direttamente, sia per lesioni arrecate a diritti dei terzi verso i quali abbia dovuto rispondere ma non si estende ai procedimenti promossi da terzi danneggiati che abbiano convenuto in giudizio sia l'amministrazione pubblica sia il dipendente per ottenere il ristoro del pregiudizio sofferto (Cass. S.U. , n.7454/1997).

Nel corso degli anni, si è consolidato un orientamento della Cassazione secondo il quale il criterio per fondare la giurisdizione « si è spostato dalla qualità del soggetto alla natura del danno e degli scopi perseguiti » (Cass. S.U., n. 4511/2006). In tempi recentissimi, la giurisprudenza contabile ha ribadito che «Al fine del radicamento della giurisdizione contabile assume valenza dirimente non già la natura giuridica del soggetto responsabile del detrimento, bensì quella pubblicistica del patrimonio danneggiato e delle finalità perseguite; conseguentemente, ove un privato, che abbia percepito contributi pubblici, incida negativamente sul modo d'essere del programma affidato dalla amministrazione e l'influenza sia tale da poter determinare uno sviamento delle finalità perseguite, si realizza un danno erariale» (C. conti, n. 105/2021).

Per radicare la giurisdizione della Corte dei Conti è quindi necessaria anche l'esistenza di vincoli di destinazione delle somme pubbliche percepite. La Suprema Corte ha stabilito che «secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di queste Sezioni Unite, al quale va data continuità in questa sede, ai fini della sussistenza della giurisdizione contabile, tra la P.A. che eroga un contributo e il privato che lo riceve si instaura un rapporto di servizio, sicché il percettore del contributo o del finanziamento (anche di provenienza comunitaria) risponde per danno erariale innanzi alla Corte dei Conti, qualora, disponendo della somma in modo diverso da quello programmato, frustri lo scopo perseguito dall'ente pubblico» (Cass. S.U. , n.1410/2018).

La giurisprudenza ha altresì precisato che non sussiste violazione del principio del “ ne bis in idem , stante la diversità di oggetto e di funzione, tra il giudizio civile introdotto dalla P.A. mediante l'esercizio dell'azione civile in sede penale e quello promosso dal procuratore contabile innanzi alla Corte dei conti per danno erariale, poiché, il primo ha ad oggetto l'accertamento del danno derivante dal reato (nella specie, di corruzione in atti giudiziari), con funzione essenzialmente riparatoria e integralmente compensativa finalizzata al conseguimento del pieno ristoro a protezione dell'interesse particolare facente capo alle amministrazioni costituitesi parte civile, mentre il secondo ha ad oggetto l'accertamento dell'inosservanza dei doveri inerenti al rapporto di servizio, con funzione essenzialmente o prevalentemente sanzionatoria volta a tutelare l'interesse generale al buon andamento della P.A. ed al corretto impiego delle risorse pubbliche (Cass. n. 32929/2018).

Questioni applicative

1) Il verbale di aggiudicazione equivale a stipulazione del contratto per i contratti sottoposti alla disciplina della contabilità di Stato?

Relativamente alla loro formazione e alla scelta del contraente privato i contratti attivi dello Stato e degli altri enti pubblici funzionali sono soggetti alla disciplina dettata dalla legge di contabilità pubblica, approvata con r.g. n. 2440/1923 seguito dal relativo regolamento attuativo n. 827/1924. I testi normativi appena citati richiedono infatti l'esperimento di un particolare iter procedimentale volto ad evidenziare le ragioni di pubblico interesse che giustificano il ricorso allo strumento contrattuale.

L'art. 16 del r.d. n. 2440/1923 stabilisce che i processi verbali di aggiudicazione definitiva, in seguito ad incanti pubblici o a private licitazioni, equivalgono per ogni legale effetto al contratto.

La disposizione citata muove dalla implicita considerazione che, una volta effettuata la scelta del contraente attraverso mezzi puramente automatici, le dichiarazioni delle due parti sono ormai complete di tutti gli elementi propri delle manifestazioni di volontà negoziale, salvo apposite eccezioni stabilite di volta in volta.

Secondo l'opinione tradizionale l'aggiudicazione contiene perciò la dichiarazione negoziale della pubblica Amministrazione alla quale si ricollega l'effetto della formazione del consenso e il sorgere del vincolo giuridico di appalto. L'aggiudicazione, quindi, sarebbe atto conclusivo del procedimento di scelta del contraente, e come tale perfezionerebbe l'incontro della volontà della P.A. e del privato di stipulare un contratto. La successiva stipula nulla aggiunge alla precedente manifestazione di volontà negoziale, rimanendo una mera formalità. La natura solitamente meccanica dell'aggiudicazione determina che il contratto è concluso senza che vi sia alcuna ulteriore dichiarazione. Secondo questa prospettiva già il bando di gara si esprime, nei rapporti esterni, come una vera e propria proposta al pubblico. Il partecipante alla gara, con il solo fatto di partecipare, accetta lo schema di contratto. La dichiarazione di offerta è diretta a riempire l'elemento in bianco della proposta contrattuale riguardante il prezzo. In sintesi, secondo questo filone ricostruttivo, le sequenze degli atti di formazione dei contratti ad evidenza pubblica possono essere spiegate in termini di diritto privato, sia pure connotato da alcuni elementi di specialità. In tale modo, il contratto eventualmente stipulato verrebbe ad assumere carattere meramente riproduttivo di una volontà negoziale già manifestata. Tra l'altro, come detto, le norme codicistiche in precedenza richiamate sembrano avvallare una costruzione argomentativa di questo tipo. Non si spiega però il contenuto dell'art. 88 del r.d. n. 827/24 (regolamento attuativo della normativa sulla contabilità di Stato) il quale stabilisce che, avvenuta la definitiva aggiudicazione, si procede nel più breve termine alla stipula del contratto. Il contrasto appare evidente.

La giurisprudenza ha, tuttavia, consolidato l'orientamento per cui l'effetto della instaurazione del vincolo contrattuale può essere rinviato ad un momento successivo a quello della aggiudicazione definitiva, come stabilisce espressamente la sentenza della Corte di Cassazione n.5807/98. Quest'orientamento supera quella giurisprudenza della Cassazione Civile secondo cui nei contratti d'appalto stipulati dalla Pubblica Amministrazione con il sistema dell'asta pubblica o della licitazione privata, il processo verbale di aggiudicazione definitiva non costituisce un atto preparatorio, ma equivale di regola, ad ogni effetto legale, al contratto con forza immediatamente vincolante per la stessa Amministrazione. Esso non è un mero atto formale, ma costituisce l'unica fonte del rapporto obbligatorio fra le parti, a meno che non risulti espressamente il comune intento delle stesse di rinviare la costituzione del vincolo alla stipula del contratto. Più recentemente, l'attuale orientamento della giurisprudenza si è arricchito di ulteriori pronunce. Il T.A.R. Lazio, ad esempio, ha ribadito il fatto che il verbale di gara non equivale a contratto nel caso in cui rechi espressa riserva di «regolamentazione del rapporto contrattuale [...] con successivo atto formale). Nela stessa prospettiva Cons Stato, n. 2585/03, che ha annullato T.A.R. Lombardia n.1295/02, che aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in relazione ad un ricorso con cui era stato chiesto l'annullamento della determinazione dirigenziale di decadenza dell'aggiudicazione provvisoria.

Vedi anche, in termini, Cons. St. n.1902/01, secondo cui la prevalente dottrina (conformemente alla più diffusa prassi amministrativa ed agli indirizzi della giurisprudenza) ritiene che, in tali eventualità, l'efficacia negoziale della aggiudicazione è subordinata alla espressa previsione contenuta nel bando di gara e ribadita nel verbale. In altri termini, mentre, normalmente, nel silenzio dell'amministrazione, l'aggiudicazione assume valore di impegno contrattuale, nelle procedure seguite dagli enti locali, questo effetto giuridico è collegato ad una puntuale prescrizione della lex specialis di gara, accompagnata da una specifica indicazione contenuta nello stesso atto conclusivo della procedura selettiva. Conf.Cons. St. n.2823/2003: nei contratti della Pubblica amministrazione, l'aggiudicazione, in quanto atto conclusivo del procedimento di individuazione del contraente, segna solo di norma il momento dell'incontro della volontà della P.A. di concludere il contratto e della volontà del privato manifestata con l'offerta accertata come migliore e da tale momento sorge il diritto soggettivo dell'aggiudicatario nei confronti della stessa Pubblica amministrazione. T.A.R. Lazio, sez. I-bis, n. 2246/02: Ai sensi dell'art. 16, comma quarto, del r.d. n. 2440/1923, deve escludersi che il verbale di aggiudicazione equivalga a contratto e che, mediante esso, sorga il vincolo contrattuale fra l'impresa migliore offerente e l'Amministrazione. Cons. St. n.2585/03: [...] è da escludersi, poi, che, nella specie, si versasse in una situazione di risoluzione contrattuale per fatti sopravvenuti, se si considera che il contratto non era stato ancora stipulato e che l'aggiudicazione, sebbene vincoli l'impresa, non vincola l'Amministrazione fino alla stipula del contratto stesso. T.A.R. Lazio I-bis, n. 5991/03: il perfezionamento del vincolo negoziale è accessivo all'intervenuta aggiudicazione della gara e la condotta posta in essere dalla p.a. che ricusi la stipula del contratto conseguente alla disposta aggiudicazione va inquadrata nella fattispecie della responsabilità precontrattuale, e non comporta invece una responsabilità contrattuale dell'Amministrazione intimata (atteso che tale ipotesi si realizza solo dopo l'intervenuto perfezionamento del vincolo negoziale).

Di diverso segno è, invece, la disciplina dettata dall'art. 32 del Codice dei contratti di cui al d.lgs. n. 50/2016 (vedi il relativo commento), avente ad oggetto I contratti pubblici attivi e le concessioni di servizi e lavori, secondo cui il rapporto contrattuale sorge esclusivamente con la sottoscrizione del contratto e non già con la mera aggiudicazione, che pertanto non può essere ritenuta equipollente rispetto al perfezionamento dell'accordo negoziale di diritto privato.

Ciò in quanto tale disposizione stabilisce inequivocabilmente che l'aggiudicazione del contratto « non equivale ad accettazione dell'offerta », rinviando quindi la formazione del vincolo negoziale al successivo momento della stipula, pur precisando che l'offerta dell'aggiudicatario deve ritenersi irrevocabile per un periodo di sessanta giorni, salvo che il bando o l'invito ad offrire indichino un termine diverso, ovvero che la stazione appaltante e l'aggiudicatario medesimo abbiano concordato un differimento.

2) Quali sono le regole sostanziali e i problemi di giurisdizione per i cd. «contratti attivi»?

Secondo T.A.R. Salerno, n.7277/2021, va confermata l'interpretazione giurisprudenziale era stata affermata l'inerenza dei principi e delle regole di evidenza pubblica anche ai contratti attivi stipulati dalle pubbliche amministrazioni in quanto derivante direttamente dal Trattato sul funzionamento dell'U.E. le cui disposizioni “trovano attuazione non solo nelle ipotesi in cui una puntuale prescrizione del diritto comunitario derivato ne renda obbligatorio l'utilizzo ma, più in generale, in tutti i casi in cui un soggetto pubblico decida di individuare un contraente per l'attribuzione di un'utilitas di rilievo economico comunque contendibile fra più operatori del mercato” (Cons. St. VI, n. 2280/1998). Tali conclusioni trovano ora pieno riconoscimento nell'art. 4 del d.lgs. n. 50/2016, a mente del quale «L'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica».

Per l'affidamento dei contratti attivi, espressamente inclusi nel citato art. 4 in virtù dell'art. 5 del decreto correttivo al codice dei contratti pubblici (art. 5, comma 1, d.lgs n. 56/2017), non è previsto il ricorso alla procedura di evidenza pubblica, ed è dunque sufficiente – ma al contempo necessario in base alle norme di contabilità di Stato e ai principi di estrazione europea – lo svolgimento di una procedura di valutazione idonea a rispettare i richiamati principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità e tutela dell'ambiente ed efficienza energetica (Cons. St., comm. spec., parere m. 1241/2018). Anche per tale tipologia di contratti, dunque, si richiede il rispetto di regole minimali di evidenza pubblica, di matrice eurounitaria, a tutela della concorrenza e del mercato in corrispondenza della cessione di beni che appartengono alla collettività.

I principi esposti trovano applicazione al caso in esame in cui la Comunità Montana ha disatteso tali regole minimali di pubblicità e trasparenza, procedendo in via diretta all'individuazione del contraente per la stipula del contratto di locazione, nonostante la presenza di formali manifestazioni di interesse da parte di altri operatori. Se si può infatti convenire che «la trattativa privata non si pone in contrasto neppure con i principi di imparzialità e di parità di trattamento, in quanto il confronto concorrenziale risultava già assicurato dall'indizione della gara andata deserta» (T.A.R. Lombardia, Milano I,2595/2020), occorre tuttavia rilevare come, nel caso di specie, il confronto concorrenziale non ha avuto modo di esplicarsi atteso che, come ammesso dalla stessa Comunità Montana, la gara aveva un oggetto (affidamento diretto della gestione) nettamente diverso dalla modalità di utilizzazione del bene poi prescelta (locazione).

Quanto alla giurisdizione, il Tribunale di Salerno non ritiene o di poter dare ingresso alla collegata domanda di «revoca/annullamento» del contratto di locazione, pervenendo alla declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Si richiama, al riguardo, l'autorevole insegnamento dell'Adunanza Plenaria (sent. Cos. St. n. 10/2011) la quale ha statuito che «al di fuori dei casi in cui l'ordinamento attribuisce espressamente al giudice amministrativo la giurisdizione sulla “sorte del contratto” che si pone a valle di un procedimento amministrativo viziato (v. art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, c.p.a., in tema di contratti pubblici relativi a lavori, servizi, e forniture), secondo l'ordinario criterio di riparto di giurisdizione spetta al giudice amministrativo conoscere dei vizi del procedimento amministrativo, e al giudice ordinario dei vizi del contratto, anche quando si tratti di invalidità derivata dal procedimento amministrativo presupposto dal contratto», precisando peraltro, per quanto di interesse, che «tale riparto di giurisdizione non fa però venire meno l'interesse a impugnare davanti al giudice amministrativo gli atti amministrativi prodromici di un negozio societario, atteso che il loro annullamento produce un effetto viziante del negozio societario a valle, con la conseguente possibilità di: – azionare rimedi risarcitori; – impugnare il negozio societario davanti al giudice ordinario; – chiedere all'Amministrazione l'ottemperanza al giudicato amministrativo, e, in caso di perdurante inottemperanza, adire il giudice amministrativo che in sede di ottemperanza può intervenire sulla sorte del contratto (Cons. St., Ad. plen., 30 luglio 2008 n. 9)».

Lo stesso Tar Salerno ha in precedenza osservato che «gli atti della fase pubblicistica rappresentano un “presupposto” legale del contratto, incidente come tale ab externo sulla struttura negoziale in termini che (non potendo configurarsi in termini di invalidità della fattispecie) incidono, sotto il profilo effettuale, in termini di inefficacia» (T.A.R. Campania, Salerno I,1604/2014) nonché dalla Adunanza Plenaria, secondo cui «la separazione imposta dall'art. 103, comma 1, cost. tra il piano negoziale e quello procedimentale, se preclude ogni pronunzia da parte del giudice amministrativo sul regolamento dei rapporti con l'aggiudicatario connessi all'annullamento dell'atto illegittimo (Cass. S.U., n. 27169/2007), non incide in alcun modo sulla realizzazione in concreto dell'effetto conformativo sia da parte dell'amministrazione, nell'esecuzione spontanea del giudicato, sia da parte del giudice dell'ottemperanza, nell'eventuale fase dell'esecuzione» (Cons. St., Ad. plen., n. 9/2008).

Bibliografia

Chieppa, Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2020; Cimini, La responsabilità amministrativa e contabile, in Ferrari, Madeo (a cura di), Manuale di contabilità pubblica, Milano, 2019; Cutrano, L'Istituto del fermo amministrativo ed i suoi riflessi tributari, in diritto.it, 2001; D'Alberti, Interesse pubblico e concorrenza nelcodice dei contrattipubblici, in Dir. amm., 2008; D'Agnese, La responsabilità amministrativo-contabile del dipendente pubblico, in Giurisprudenza Amministrativa, a cura di Ruscica, Milano, 2018; De Paolis, Giurisprudenza della Corte dei Conti sul danno da disservizio, in Azienditalia n. 7/2018; Garri, Fermo amministrativo, in Enc. giur., Roma, 1989; Landolfi, Il danno erariale nel giudizio di responsabilità amministrativa davanti alla corte dei conti. Nuove ipotesi, con particolare riferimento alla giurisprudenza in tema di danno all'immagine, in contabilità-pubblica.it, 25 novembre 2019; Longavita, Gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa e le specificità rispetto a quella penale. In particolare, il danno erariale, in in contabilità-pubblica.it, 14 settembre 2018; Molinari, Il Fermo Amministrativo, in Foro amm., 1969; Monorchio, Mottura, Compendio di contabilità di Stato, Bari, 2021; Montel, Fermo Amministrativo, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, 1991; Santoro, Manuale di contabilità e finanza pubblica, Santarcangelo di Romagna, 2015; Nassis, Evoluzione sostanziale e processuale del danno erariale, in contabilità-pubblica.it, 20 settembre 2010; Raeli, La natura della responsabilità amministrativa tra modello risarcitorio e sanzionatorio, in federalismi.it, 13 gennaio 2010.

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