Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 124 - Tutela in forma specifica e per equivalente 1

Carlo Cipriani

Tutela in forma specifica e per equivalente 1

 

1. L'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione e di stipulare il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se non dichiara l'inefficacia del contratto, il giudice dispone il risarcimento per equivalente del danno subito e provato. Il giudice conosce anche delle azioni risarcitorie e di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell'operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo.

2. La condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1, o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell'articolo 1227 del codice civile.

3. Ai sensi dell'articolo 34, comma 4, il giudice individua i criteri di liquidazione del danno e assegna un termine entro il quale la parte danneggiante deve formulare una proposta risarcitoria. La mancata formulazione della proposta nel termine assegnato o la significativa differenza tra l'importo indicato nella proposta e quello liquidato nella sentenza resa sull'eventuale giudizio di ottemperanza costituiscono elementi valutativi ai fini della regolamentazione delle spese di lite in tale giudizio, fatto salvo quanto disposto dall'articolo 91, primo comma, del codice di procedura civile.

[1]  Articolo sostituito dall'articolo 209, comma 1, lettera d) del D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, con efficacia a decorrere dal 1° luglio 2023, come stabilito dall'articolo 229, comma 2. Per le disposizioni transitorie vedi l'articolo 225 D.Lgs. 36/2023 medesimo.

Inquadramento

L'art. 124 c.p.a., sotto la rubrica «Tutela in forma specifica e per equivalente», così dispone:

«1. L'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto, ai sensi degli artt. 121, comma 1, e 122. Se il giudice non dichiara l'inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato.

2. La condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1, o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell'art. 1227 c.c.».

L'articolo in parola riproduce, con limitate modifiche, l'art. 245-quinquies dell'abrogato codice dei contratti (approvato con d.lgs. n. 163/2006), introdotto con l'art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 53/2010, di recepimento della «direttiva ricorsi» 2007/ 66/ CE, che ha disciplinato il processo in materia di contratti pubblici.

Il predetto art. 245-quinquies, trasfuso con modifiche nell'art. 124 c.p.a., così stabiliva:

«1. L'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto, ai sensi degli artt. 245-bis e 245-ter. Se il giudice non dichiara l'inefficacia del contratto, dispone, su domanda ed a favore del solo ricorrente avente titolo all'aggiudicazione, il risarcimento per equivalente del danno da questi subito e provato.

2. La condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1 o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell'art. 1227 c.c..

L'odierno art. 124 del c.p.a. ed il previgente art. 245-quinquies dell'abrogato codice dei contratti prevedono entrambi, al primo comma, due forme di tutela, alternative tra loro, a favore del ricorrente vittorioso in giudizio, che abbia conseguito l'annullamento dell'impugnato provvedimento di aggiudicazione:

– la tutela in forma specifica, che consente al ricorrente di ottenere l'aggiudicazione dell'appalto e di subentrare nel rapporto negoziale in luogo dell'illegittimo aggiudicatario e, quindi, di ottenere il bene della vita, cui egli aspirava con la partecipazione alla gara ad evidenza pubblica. Questa forma di tutela è condizionata espressamente alla dichiarazione di inefficacia del contratto stipulato dalla stazione appaltante in conseguenza del provvedimento di aggiudicazione risultato illegittimo ed annullato dal giudice;

– la tutela per equivalente, limitata al risarcimento del danno «subito e provato», che ha luogo quando, non essendo stata dichiarata dal giudice l'inefficacia del contratto in precedenza concluso, ai sensi degli artt. 121 e 122 del c.p.a, non è avvenuto il subentro del ricorrente vittorioso nel contratto. Questa forma di tutela è un «rimedio residuale e sussidiario», esistendo tra la tutela in forma specifica e la tutela per equivalente un rapporto inquadrabile in una «pregiudizialità sostanziale» (Caringella, Giustiniani, 707; Del Gatto, 995; Lubrano, p.33).

L'impostazione dell'art. 124 c.p.a. riecheggia quella dell'art. 2058 c.c., ai sensi del quale il risarcimento del danno può essere richiesto in forma specifica («qualora sia in tutto o in parte possibile») oppure per equivalente («se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore»).

L'art. 124 c.p.a. ed il previgente art. 245-quinquies dell'abrogato codice dei contratti mentre prevedono entrambi, al primo comma, che l'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione ed il contratto è condizionato alla dichiarazione giudiziale di inefficacia del contratto già eventualmente concluso, divergono relativamente ai presupposti perché possa pronunciarsi il risarcimento del danno per equivalente. Infatti, mentre il citato art. 245-quinquies prevedeva che il risarcimento del danno per equivalente fosse disposto dal giudice «su domanda e a favore del solo ricorrente avente titolo all'aggiudicazione» e, perciò, era limitato alla sola mancata aggiudicazione del contratto e non anche alla perdita di chance, in quanto «il ricorrente avente titolo all'aggiudicazione era solo chi dimostrava in giudizio tale diritto, e non anche chi ricorreva facendo valere l'interesse strumentale alla rinnovazione della gara» (Chieppa, Giovagnoli, 2021, p. 986), non così prevede ora l'art. 124, comma 1, c.p.a., che, ai fini del risarcimento per equivalente, non richiede la domanda di parte, né individua nell'avente titolo all'aggiudicazione l'unico destinatario della tutela.

Benché l'art. 124 c.p.a. non preveda espressamente la necessità della «domanda» di parte per il conseguimento del risarcimento per equivalente, la domanda deve ritenersi necessaria, perché il risarcimento per equivalente «deve essere provato e la prova è a carico della parte» (De Nictolis, Il processo amministrativo, 1033; Caringella, 2022, 1771). È stato, altresì, detto che in applicazione di noti principi che regolano il processo amministrativo, che è ad impulso di parte (T.A.R. Puglia, Bari, n. 70/1982), il risarcimento non possa essere liquidato di ufficio (Ferrari, 667).

L'art. 124 c.p.a., inoltre, non prevede, come il previgente art. 245-quinquies dell'abrogato codice dei contratti, che il risarcimento per equivalente possa disporsi soltanto a favore del ricorrente avente titolo all'aggiudicazione, cioè di colui che abbia dato prova della sicura spettanza dell'aggiudicazione a suo favore. Perciò, non vi sono ostacoli perché la tutela per equivalente possa essere riconosciuta anche a chi lamenti in giudizio la mera perdita di chance, cioè la mera probabilità di vittoria.

Infine, il secondo comma dell'art. 124 c.p.a. prevede che il giudice, in sede di liquidazione del danno per equivalente, debba valutare, ai sensi dell'art. 1227 c.c. (concorso del fatto colposo del creditore), la condotta processuale della parte, che, senza giustificato motivo, non abbia proposto la domanda di conseguire l'aggiudicazione ed il contratto o non si sia resa disponibile a subentrare nel contratto. La previsione è in sintonia con l'art. 30,3 comma, c.p.a., a mente del quale il giudice, nel determinare il risarcimento per lesione di interessi legittimi, «valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti».

La tutela in forma specifica.

La prima forma di tutela, c.d. in forma specifica, dell'interesse a conseguire l'aggiudicazione del contratto consente al ricorrente vittorioso di subentrare nel contratto, previa dichiarazione di inefficacia di quello concluso dalla stazione appaltante con l'illegittimo aggiudicatario, e, quindi, di conseguire il bene della vita cui egli aspirava partecipando alla gara.

Trattasi della tutela più ampia accordabile al ricorrente in caso di acclarata illegittimità dell'aggiudicazione, in quanto essa determina, per un verso, la sterilizzazione ope judicis degli effetti del contratto già concluso e, per altro verso, gli consente di subentrare nel contratto.

La tutela in forma specifica avviene integralmente, con la sostituzione del ricorrente nel contratto, se la dichiarazione di inefficacia è pronunciata quando l'esecuzione dell'originario contratto non è iniziata; viceversa, non può aver luogo, se la dichiarazione di inefficacia sia pronunciata quando il contratto sia stato già integralmente eseguito, residuando, in tal caso, a favore del ricorrente illegittimamente pretermesso il solo risarcimento per equivalente. Se, infine, la dichiarazione giudiziale di inefficacia interviene quando l'originario contratto è in fase di esecuzione, è compito del giudice di valutare se disporre o meno il subentro nel contratto del ricorrente vittorioso per la parte non eseguita, salvo risarcimento per equivalente, integrale o parziale, a favore dello stesso (Lubrano, 36; Garofoli-Auletta, 366).

Sul punto, cfr. Cons. St. V, n. 3230/2013, secondo cui, laddove venga accertata la illegittimità del provvedimento di aggiudicazione della gara d'appalto, “non può essere accordato il risarcimento in forma specifica dovendosi, ai sensi dell'art. 121, comma 2, c.p.a. mantenere l'efficacia del contratto con l'aggiudicataria, avuto riguardo al fatto che lo stesso si trova in stato di avanzata esecuzione, tale per cui i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall'esecutore attuale. Deve, invece, essere riconosciuto il risarcimento per equivalente, atteso che il danno subito dall'appellante è collegato eziologicamente all'illegittimità dell'azione amministrativa, senza che debba indagarsi il carattere colpevole o meno di tale azione” (cfr. per tutte. Cons. St. V, n. 996/2012).

La priorità accordata alla tutela in forma specifica rispetto a quella per equivalente, che è meramente sussidiaria, si giustifica per l'assoluta esigenza di evitare che la stazione appaltante si trovi esposta a pagare più volte lo stesso appalto, sia a favore dell'esecutore del contratto sia a favore dei concorrenti che, con l'impugnazione del provvedimento di aggiudicazione, non abbiano chiesto di subentrare nel contratto e si siano limitati a pretendere il risarcimento per equivalente (Del Gatto, 995).

La tutela in forma specifica è condizionata, per espresso dettato dell'art. 124, comma 1, c.p.a., alla dichiarazione giudiziale di inefficacia del contratto eventualmente concluso dalla stazione appaltante a valle dell'annullato provvedimento di aggiudicazione nonché alla previa istanza dello stesso ricorrente di voler conseguire l'aggiudicazione ed il contratto.

a ) La natura.

È controverso se, in materia di appalti, la richiesta di subentro nel contratto, previa dichiarazione di inefficacia del contratto già stipulato con l'aggiudicatario, sia un'azione risarcitoria di reintegrazione in forma specifica, tesa ad eliminare il danno patito con una prestazione diversa e succedanea rispetto a quella contenuta nell'obbligazione, oppure un'azione di adempimento, tesa a conseguire lo stesso bene della vita oggetto dell'obbligazione non adempiuta.

La diversa natura rileverebbe ai fini della prova dei presupposti per conseguire la tutela. Infatti, se la richiesta di subentro fosse un'azione risarcitoria in forma specifica, l'interessato, che volesse realizzare la tutela, dovrebbe dimostrare tutti gli elementi costitutivi del suo diritto (condotta, danno ingiusto, nesso causale e colpa della p.a.). Non così, invece, se l'azione fosse di esatto adempimento, la quale non postula la dimostrazione di una responsabilità dell'amministrazione su base soggettiva, ma impone all'interessato che voglia subentrare nel contratto di dimostrare soltanto di aver titolo all'aggiudicazione.

È stato sostenuto che l'azione in questione non è propriamente un'azione di risarcimento, ma, mirando essa alla reintegrazione del patrimonio leso attraverso il conseguimento del bene della vita cui il soggetto ricorrente aspirava, «sancisce l'innesto di un'azione di esatto adempimento (la rubrica parla di tutela specifica), praticabile nei casi di procedure vincolate, sottoposte ad una pregiudiziale composta, data dall'annullamento dell'aggiudicazione definitiva e dalla pronuncia di inefficacia del contratto» (Caringella, 2021, 1223 ss.). Sul punto, v. anche Paolantonio, 2017, 536, a giudizio del quale l'azione in parola è «un'azione di condanna ad un facere specifico dell'amministrazione, la cui peculiarità si ravvisa nella circostanza che il giudice dispone del potere non solo di ordinare all'amministrazione di adottare un provvedimento amministrativo (quale appunto l'aggiudicazione), ma anche di imporre alla stazione appaltante di stipulare il contratto, previa declaratoria di inefficacia del negozio già stipulato»

In giurisprudenza si segnala T.A.R. Lombardia, Milano III, n. 2681/2013, secondo cui la pretesa all'aggiudicazione e alla stipulazione del contratto, previa dichiarazione di inefficacia del contratto già stipulato con l'aggiudicataria, non integra una domanda di risarcimento in forma specifica, perché si tratta di una pretesa priva di portata risarcitoria in senso stretto.

Il contrasto sulla natura giuridica dell'azione volta al subentro nel contratto, allo stato, non ha rilevanza pratica, perché anche la giurisprudenza che ritiene che detta azione rappresenti un'azione di reintegrazione in forma specifica e non di esatto adempimento considera irrilevante l'elemento soggettivo della colpa dell'Amministrazione perché il subentro sia dichiarato. E ciò in conformità alla nota sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, sez. III, 30 settembre 2010 (proc. C-314-09) (Lubrano, 17).

b ) La dichiarazione di inefficacia.

La dichiarazione di inefficacia del contratto già concluso dalla stazione appaltante con l'illegittimo aggiudicatario è il presupposto applicativo della tutela in forma specifica. In mancanza di essa, il contratto è valido ed efficace, pur in presenza dell'annullamento dell'aggiudicazione ed il pregiudizio patito può ristorarsi col solo risarcimento per equivalente (Del Gatto , 996).

L'inefficacia può essere dichiarata, sempre che l'aggiudicazione sia annullata.

È stato rilevato che laddove venga accertata la legittimità del provvedimento di aggiudicazione di una gara di appalto, va dichiarata l'inammissibilità – ai sensi dell'art. 121 e ss. c.p.a. – della domanda di caducazione del contratto e di accertamento del diritto al subentro, rivestendo carattere pregiudiziale il previo annullamento, da parte del giudice, del provvedimento di aggiudicazione (T.A.R. Puglia, Bari, n. 2062/2012).

Inoltre, è stato statuito che deve essere escluso l'accoglimento della domanda volta a conseguire il ristoro del danno in forma specifica attraverso il subentro nell'esecuzione dell'appalto, previa declaratoria di inefficacia del contratto già stipulato, nel caso in cui non risulta proposta la domanda di annullamento dell'aggiudicazione. Tanto, alla luce del comma 1 dell'art. 124 c.p.a., secondo cui l'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione ed il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli artt. 121, comma 1, e 122 c.p.a. (Cons. St. V, n. 3910/2016).

Cosicché la tutela in forma specifica, col subentro nel contratto dell'operatore economico vittorioso in giudizio, presuppone, per un verso, l'annullamento dell'aggiudicazione a favore dell'originario contraente, per altro verso, la dichiarazione di inefficacia del contratto (c.d. doppia pregiudiziale: v. Caringella, 2022, 1770). La dichiarazione di inefficacia, nel sistema normativo delineato dal c.p.a. (artt. 121,122 e 124 c.p.a.), non è una conseguenza diretta ed automatica della pronuncia di annullamento dell'aggiudicazione, ma «una delle possibili conseguenze» (Cerulli Irelli, 557). Essa, infatti, consegue, anche nei casi di gravi violazioni (art. 121 c.p.a.), ad una specifica valutazione, operata dal giudice che ha disposto l'annullamento dell'aggiudicazione sulla base degli elementi di valutazione indicati dagli artt. 121 e 122 del c.p.a.

Sul punto, la giurisprudenza amministrativa è concorde: v. Cons. St. III, n. 1570/2011, secondo cui a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, l'inefficacia del contratto non costituisce più una conseguenza automatica dell'annullamento dell'aggiudicazione, ma rappresenta l'esito, meramente eventuale, di un complesso giudizio, incentrato sull'apprezzamento di una pluralità di elementi di fatto, come stabilito, ora, dagli artt. 121 e 122 c.p.a.»; analogamente, v. Cons. St. V, n. 4067/2012, secondo cui «solo nei giudizi introdotti dopo l'entrata in vigore del predetto d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, può ravvisarsi sussistente un onere per l'impresa ricorrente di chiedere in sede di impugnazione dell'atto di aggiudicazione anche la pronuncia di inefficacia del contratto e di subentro nello stesso, laddove in tutti gli altri casi in cui l'azione di annullamento è stata introdotta precedentemente, resta fermo il potere del giudice di accertare in sede di ottemperanza la inefficacia del contratto, tenendo conto della effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione e di subentrare nel contratto».

Se, però, il giudice non dichiara l'inefficacia del contratto, perché egli, sulla base degli elementi di valutazione indicati negli artt. 121 e 122 del c.p.a., ritiene prevalenti le ragioni della sua conservazione, il rapporto negoziale, nonostante l'annullamento dell'aggiudicazione, continua a svolgersi tra la stazione appaltante e l'originario aggiudicatario, mentre il ricorrente illegittimamente pretermesso potrà aver diritto al risarcimento per equivalente, come previsto dall'art. 124 c.p.a. (Travi, 379; Paolantonio, 2010, 932; Del Gatto, 996).

Circa la forma della pronuncia di inefficacia del contratto, se cioè essa debba essere espressa o meno, Cons. St. V, n. 3437/2013 ha affermato che la privazione egli effetti del contratto, per effetto dell'annullamento dell'aggiudicazione, deve formare oggetto di una espressa pronuncia giurisdizionale»; viceversa Cons. St. V, n. 1032/2018 ha precisato che «la dichiarazione di inefficacia del contratto può considerarsi implicita in quella con cui il giudice di prime cure dispone il subentro nel rapporto, costituendo la prima necessario presupposto del secondo, come si ricava dall'art. 124 c.p.a..

È controverso se per ottenere la dichiarazione giudiziale di inefficacia del contratto sia necessaria una apposita richiesta di parte, secondo le regole del processo amministrativo che è ad impulso di parte (in tal senso, ex multis, Follieri, 1067, Caringella, 2021, 1231) oppure se essa possa essere pronunciata di ufficio dal giudice (così, almeno per le pronunce di inefficacia ex art. 121 c.p.a.). Quest'ultima soluzione appare aderente alla lettera degli artt. 121 e 122 del c.p.a. Invero, l'art. 121 c.p.a. (inefficacia del contratto nei casi di gravi violazioni) prevedendo che «il Giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva dichiara l'inefficacia del contratto nei seguenti casi,» non fa parola della necessità della domanda di parte, la quale non è prevista neppure dall'art. 122 c.p.a. (inefficacia del contratto negli altri casi), secondo cui «fuori dei casi indicati dall'articolo 121, comma 1, e dall'art. 123, comma 3, il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto».

Parte della giurisprudenza, perciò, seguendo la lettera dei citati articoli, si è espressa nel senso che la dichiarazione di inefficacia del contratto si configuri come «conseguenza dell'esercizio di un potere officioso riconosciuto al giudice che pronunci l'annullamento dell'aggiudicazione definitiva. In tal caso, infatti, il giudice è chiamato a valutare, sulla base dei parametri specificati nella norma, se privare o meno di effetti il contratto stipulato; perciò, «ai fini della procedibilità del ricorso, è del tutto indifferente che l'odierno appellante non abbia formulato la domanda finalizzata a sollecitare la dichiarazione di inefficacia del contratto» (Cons. St. V., n. 2445/2017; nello stesso senso, v. Cons. St., Ad. plen., n. 4/2015, che, pur ribadendo ripetutamente che la giurisdizione amministrativa è di tipo soggettivo, cioè regolata dal principio dispositivo espresso dall'art. 34 c.p.a., afferma, tuttavia, che essa contiene «aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo, come nelle regole speciali contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a., che, riguardo alle controversie in materia di contratti pubblici, consentono al giudice di modulare gli effetti dell'inefficacia del contratto».

In senso contrario, la necessità di una apposita domanda di parte, volta non solo all'annullamento del provvedimento di aggiudicazione, ma anche alla dichiarazione di inefficacia del contratto, è affermata da Cons. St. V, n. 5500/2019; Cons. St. V, n. 4812/2017; Cons. St. V, n. 4272/2016; Cons. St. V, n. 4067/2012.

Ciò che rileva, in ogni caso, è che il ricorrente, nell'ambito del giudizio di annullamento del provvedimento di aggiudicazione, chieda «di conseguire l'aggiudicazione ed il contratto (art. 124, comma 1, c.p.a.). In tal caso, infatti, anche se manca la domanda di inefficacia del contratto, si sostiene che in base al principio di continenza delle istanze giudiziali, la domanda di subentro del ricorrente presuppone ed implica, sul piano logico, quella di inefficacia del contratto già stipulato, con la conseguenza che può dirsi in essa contenuta (Caringella, 2022, 1770; Travi, 379).

Anche la giurisprudenza ritiene che la domanda di dichiarazione di inefficacia del contratto sia implicita nella richiesta di subentro (Cons. St. V, n. 5591/2012).

c ) La domanda di subentro nel contratto.

Mentre è controverso se la domanda di parte sia necessaria ai fini della dichiarazione giudiziale dell'inefficacia del contratto già concluso, nessun dubbio esiste sulla necessità della domanda di parte per conseguire, oltre l'annullamento dell'aggiudicazione, la pronuncia di subentro nel contratto (Caringella, 2022, 1770; Del Gatto, 996).

La domanda di parte, quale presupposto della tutela in forma specifica, è prevista espressamente dall'art. 124, comma 1, c.p.a.. Se la domanda non vien fatta, al ricorrente, che col suo comportamento dimostra di non voler subentrare nel contratto, non può accordarsi la tutela in forma specifica, ma soltanto quella per equivalente; per di più, in sede di liquidazione del relativo danno, il suo comportamento di non essersi dichiarato disponibile al subentro, così come l'intera sua condotta processuale, è valutato dal giudice ai sensi dell'art. 1227 c.c. (art. 124, comma 2, c.p.a.).

Secondo la giurisprudenza, l'attribuzione dell'aggiudicazione e del contratto presuppongono indispensabilmente la domanda di parte (Cons. St. V, n. 5591/2012); ancora, «soltanto ai fini dell'eventuale subentro nel rapporto è richiesta una specifica domanda di parte, come si ricava anche dal successivo articolo 124 c.p.a.» (Cons. St. V, n. 2455/2017). Inoltre, Cons. St. V, n. 1803/2021, seguito da C.G.A.S., n. 841/2021, sostiene che la domanda di parte (cfr. artt. 30,40, comma 1, lett. b) ed f), 41 e 64 c.p.a., in relazione all'art. 99 c.p.c. e 2907 c.c.) rileva nell'«articolata struttura remediale» volta a far valere l'illegittimità dell'azione amministrativa nella materia dei contratti pubblici. In particolare, evidenzia che contestualmente alla impugnazione, a mezzo di «azione di annullamento» (art. 29 c.p.a.), ad esito prospetticamente demolitorio, dei «provvedimenti concernenti le procedure di affidamento» (art. 119, comma 1, lett. a) e 120 c.p.a.) è rimessa all'impresa pregiudicata l'opzione: a) per una tutela in forma specifica, a carattere integralmente satisfattorio, affidata alla domanda di conseguire l'aggiudicazione ed il contatto (art. 124, comma 1, prima parte), il cui accoglimento: a1) postula, in negativo, la sterilizzazione ope judicis di dichiarazione di inefficacia del contratto eventualmente già stipulato inter alios; a2) richiede, in positivo, un apprezzamento di spettanza in termini di diritto al contratto, con la certezza che, in assenza del comportamento illegittimo serbato dalla stazione appaltante, il ricorrente si sarebbe senz'altro aggiudicato la commessa; b) per un «risarcimento del danno per equivalente» (art. 124,comma 1, seconda parte) e ciò: b1) sia nel caso in cui il giudice abbia riscontrato l'assenza dei presupposti per la tutela specifica; b2) sia nel caso in cui la parte abbia ritenuto di non formalizzare la domanda di aggiudicazione (né si sia resa comunque «disponibile a subentrare nel contratto», anche in corso di esecuzione), nel qual caso la «condotta processuale» va anche apprezzata in termini concausali (cfr. art. 124, comma 2, in relazione al richiamato art. 1227 c.c.).

Quid iuris se il ricorrente, impugnando il provvedimento di aggiudicazione, abbia formulato in primo grado la domanda di subentro nel contratto e poi, nel successivo grado di appello, non l'abbia confermata?

Al riguardo, il Giudice di appello dovrebbe esimersi, in ragione del carattere soggettivo del processo di appello, dal dichiarare di ufficio l'inefficacia del contratto, ai sensi dell'art. 122 c.p.a., senza l'espressa domanda dell'interessato di subentro nel contratto.

In siffatta ipotesi Cons. St. V, n. 4812/2017 ha affermato che la scelta processuale di non riproporre espressamente in sede di appello le domande di subentro nel contratto ovvero di risarcimento del danno per equivalente sia, per la sua inequivoca oggettività, da interpretare come l'espressione di una sopravvenuta perdita, o rinuncia, di interesse diretto dell'appellante alla sorte del contratto.

d ) Le modalità di subentro.

Sulle modalità del subentro nel contratto di appalto, a seguito della dichiarazione giudiziale di inefficacia dell'originario contratto, si prospetta l'alternativa se il subentro debba avvenire alle medesime condizioni, tecniche ed economiche, contenute nell'originario contratto dichiarato inefficace oppure alle condizioni originariamente offerte dal subentrante, le quali soltanto permetterebbero a quest'ultimo, vittorioso in giudizio, di conseguire piena ed effettiva tutela giurisdizionale. Sul punto si registra un difforme orientamento della giurisprudenza amministrativa.

Un primo orientamento è nel senso che il subentro nel contratto, come in tutte le ipotesi di successione a titolo particolare nel rapporto negoziale, deve operare in relazione alle condizioni del contratto originario dichiarato inefficace, perché è quel rapporto negoziale che la norma comunitaria e nazionale intende preservare, in alternativa alla conservazione dell'efficacia del contratto con contestuale risarcimento dei danni dell'impresa illegittimamente pretermessa (Cons. St. V, n. 5591/2012; T.A.R. Lombardia, Milano, n. 2546/2018).

Altro orientamento, invece, è nel senso che a mente dell'art. 122 c.p.a., il subentro nel contratto va inteso in senso atecnico, ovvero non come successione nel medesimo rapporto contrattuale intercorso con l'originario aggiudicatario – che anzi viene meno all'esito del giudicato amministrativo – bensì come necessità di stipulare un nuovo contratto che consenta di completare le prestazioni residue; d'altra parte, per ineludibili esigenze di rispetto della par condicio, il subentrante non può conseguire un beneficio maggiore rispetto a quello che avrebbe avuto se fosse risultato aggiudicatario ab initio, sicché la sostituzione deve avvenire secondo le condizioni della gara originaria e l'offerta fatta dal subentrante in quella originaria gara (Cons. St. V, n. 5404/2015). Di recente, Cons. St. V, n. 2476/2021 ha riesaminato funditus la questione evidenziando che la fonte del subentro non è costituita dall'art. 140 d.lgs. n. 163/2006, bensì dall'art. 124 del c.p.a., che riguarda la domanda di conseguire l'aggiudicazione, condizionatamente alla dichiarazione di inefficacia del contratto. In tale prospettiva – ha chiarito il Consiglio di Stato – il subentro configura non già una distinta procedura di affidamento (v. rubrica art. 140 d.lgs. 163/2006), bensì uno strumento di tutela in forma specifica (art. 124 c.p.a.) volto ad assicurare il medesimo bene che sarebbe originariamente spettato al ricorrente in assenza dell'errore commesso dall'amministrazione: per questo l'aggiudicazione domandata dal ricorrente e accordata dal giudice (i.e., il c.d. subentro) non può che avvenire alle condizioni di offerta dello stesso ricorrente, ripristinando così in natura la situazione del corretto affidamento, con emendatio dell'errore verificatosi nell'esercizio dell'azione amministrativa.

e ) La contestualità delle domande di annullamento dell'aggiudicazione e di inefficacia e subentro nel contratto.

È stato sottolineato che la domanda di parte di inefficacia e subentro nel contratto debba essere proposta nell'ambito del giudizio di annullamento (Caringella, 2016, 710). L'autore evidenzia che oltre al dato testuale dell'art. 121 c.p.a., che mette l'accento sulla simultaneità delle due pronunce incidenti sull'aggiudicazione e sul contratto rileva il profilo teleologico, che consente di ritenere incompatibile con la logica concentrazionista e acceleratoria che permea il nuovo rito, un'opzione ermeneutica che ammetta un'autonoma domanda volta a conseguire una pronuncia che sancisca l'inefficacia del contratto; domanda esperibile nel termine decennale di prescrizione.

In senso contrario, v. Cons. St. V, n. 5500/2019 (cui adde Cons. St. V, n. 407/2015, Cons. St. III, n. 6638/2011; C.G.A.S. n. 276/2013), che – dopo aver premesso che «gli art. 121 e seguenti c.p.a. non possono essere letti come istitutivi di una sorta di riserva di cognizione, per la quale solo il giudice investito della cognizione sugli atti di gara (id est della domanda di annullamento dell'aggiudicazione) è competente a dichiarare l'inefficacia del contratto, con implicita esclusione della competenza in caso di proposizione di altra tipologia di azione» si è espresso nel senso che sia «possibile disporre la caducazione del contratto di appalto, in sede di ottemperanza, su ricorso proposto dalla parte vincitrice contenente domanda di subentro in ragione dell'inerzia dell'amministrazione», conseguente all'annullamento degli atti di gara. Tanto in omaggio al «principio di effettività della tutela giurisdizionale, per cui il giudice dell'ottemperanza è il giudice naturale della conformazione dell'attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto (così quasi testualmente, Adunanza Plenaria 15 gennaio 2013, n. 2 e, da ultimo, Cons. St., Ad. plen., n. 7/2019). Pertanto le «modalità» (art. 112, comma 4, lett. a) del c.p.a.) che il giudice dell'ottemperanza può disporre per dare esecuzione alla sentenza passata in giudicato «possono consistere anche nella declaratoria di inefficacia del contratto per avviare ogni attività successiva, ivi compresa, come nell'odierna vicenda, la riedizione della gara».

La tutela per equivalente.

La tutela per equivalente, ai sensi dell'art. 124 c.p.a., viene riconosciuta al ricorrente vittorioso in giudizio, cui non sia stata accordata la tutela in forma specifica per non essere stata dichiarata dal giudice l'inefficacia del contratto già concluso (per esempio, perché il contratto, illegittimamente aggiudicato, è stato interamente eseguito o è in stato di avanzata esecuzione (Cons. St. V, n. 3892/2021) oppure perché sono state ritenute prevalenti dal giudice le ragioni per la sua conservazione). La tutela si sostanzia nel diritto al risarcimento del danno subito e provato.

Essa, dunque, si configura allorquando è preclusa la tutela in forma specifica, che, ai sensi dell'art. 124 c.p.a., è la tutela primaria per l'operatore economico vittorioso in giudizio, perché gli permette di conseguire il bene della vita cui egli aspirava, vuoi partecipando alla gara dalla quale era stato escluso mediante la riedizione della gara vuoi con l'aggiudicazione della stessa a suo favore. La tutela per equivalente è residuale e sussidiaria rispetto a quella in forma specifica, nel senso che tra questa e la prima esiste un rapporto inquadrabile in una «pregiudizialità sostanziale» (Caringella, Giustiniani, 707; Lubrano, 33; Del Gatto,997).

In alcuni casi, però, la tutela per equivalente può aggiungersi e sostituirsi alla tutela in forma specifica, come quando, ad esempio, sia disposto il subentro nel contratto del ricorrente vittorioso non ab initio, ma per le residue prestazioni contrattuali che restano da eseguire (Caringella-Tarantino, 124; De Nictolis, 2019, 41; Lubrano, 37, Del Gatto, 997)

Ed invero, «in riferimento alla parte del contratto che ha già avuto esecuzione, può disporsi il risarcimento del danno per equivalente ex art. 2043 c.c.» (Cons. St. V. n. 3220/2014).

a ) La domanda di parte e l'onere della prova.

Ai fini del risarcimento del danno per equivalente è necessaria la domanda di parte. Per la verità, l'art. 124, comma 1, del c.p.a., diversamente dall'art. 245-quinquies dell'abrogato codice dei contratti (d.lgs. n. 163/2006), che espressamente la prevedeva, «non contiene alcun richiamo alla necessità di una specifica domanda di parte per l'ottenimento della misura risarcitoria» (Corradino, 274), ma si limita a dire che il giudice, se non dichiara l'inefficacia del contratto, dispone il risarcimento. La lettera dell'articolo, perciò, sembra poter legittimare la tesi che la richiesta di risarcimento del danno per equivalente non sia necessaria.

La tesi, però, non è sostenibile, atteso che il citato art. 124 c.p.a. espressamente prevede che il risarcimento per equivalente spetta se «dovuto e provato» e la prova non può che implicare la necessaria istanza del danneggiato, anche nell'ipotesi che questi abbia fatto richiesta di tutela in forma specifica. Tanto, anche ai sensi dell'art. 112 c.p.c. e del rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.

Per di più, la parte interessata, se intende conseguire il risarcimento per equivalente, deve fornire la prova dell'an e del quantum del pregiudizio economico patito, senza possibilità che questo gli sia riconosciuto e liquidato equitativamente nella misura del 10% dell'importo a base d'asta, come avveniva prima dell'entrata in vigore dell'art. 124,1 comma, c.p.a., che ora, invece, onera l'impresa di provare l'utile effettivo che avrebbe conseguito, se fosse risultata aggiudicataria.

Perciò, «occorre la domanda di parte e occorre che la parte provi il danno subito (art. 124 c.p.a.)» (De Nictolis, 2010, 1033, Del Gatto, 997, Gallo, 321).

Secondo Cons. St. V, n. 2184/2017, «in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara di appalto ai sensi degli artt. 30,40, e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di avere sofferto». Nello stesso senso, ex multis, Cons. St., Ad. plen. n. 2/2003 e Cons. St., Ad. plen. n. 2/2017).

b ) L'irrilevanza dell'elemento colposo ai fini della responsabilità della stazione appaltante.

La tutela, benché ancorata all'art. 2043 c.c., ai sensi del quale, in generale, la responsabilità del danneggiante può prospettarsi soltanto se viene dimostrata la sua colpa, nello specifico settore degli appalti pubblici è stata incisa profondamente dalla sentenza della C.G.U.E., sez. III, 30 settembre 2010 (proc. C-314/09), che ha così stabilito: «La direttiva 89/665 deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di una amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale valutazione, anche nel caso in cui l'applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all'amministrazione suddetta, nonché sull'impossibilità per quest'ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali, e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata».

La sentenza afferma, in breve, che la normativa europea che disciplina le procedure in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi non consente che il diritto al risarcimento del danno a favore dell'operatore economico nei confronti della pubblica amministrazione che abbia violato detta disciplina sia condizionato al carattere colpevole della violazione. Pertanto, «non grava sul ricorrente danneggiato l'onere di provare che il danno derivante dal provvedimento amministrativo illegittimo sia conseguenza di una colpa dell'amministrazione, sicché questa non può sottrarsi all'obbligo di risarcire i danni cagionati da un proprio provvedimento illegittimo adducendo l'inesistenza a proprio carico di elementi di dolo o di colpa (Scoca, 553; v. anche Cons. St. V, n. 5686/2012).

Perciò, quando si fa luogo alla tutela per equivalente, si è in presenza di una fattispecie di responsabilità a carattere oggettivo. E ciò, «in considerazione della natura compensativa della tutela per equivalente e del suo carattere subordinato» (Caringella, Giustiniani, 707). Questi autori osservano che se la tutela per equivalente è alternativa e subordinata a quella in forma specifica, essa non deve essere sottoposta a condizioni più gravose, come al previo accertamento della colpa della stazione appaltante, che nella tutela in forma specifica non va dimostrata.

La giurisprudenza amministrativa non si è adeguata subito ai principi affermati dalla Corte di giustizia e nei primi tempi successivi alla pronuncia ha continuato a sostenere che la colpa è presupposto per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno e che «la mancanza dell'elemento psicologico non può dar luogo ad ipotesi di responsabilità, altrimenti si darebbe ingresso ad una fattispecie di responsabilità oggettiva, che il nostro ordinamento non conosce» (cfr. Cons. St. V, n. 1184/2011, richiamata da Ferrari, 669). Successivamente, ha costantemente ribadito l'incompatibilità della disciplina comunitaria con la normativa nazionale che, nella materia degli appalti pubblici, subordina il risarcimento a favore del danneggiato pregiudicato dall'illegittima aggiudicazione della gara al carattere colpevole della violazione della disciplina degli appalti pubblici da parte della pubblica amministrazione ed ora pacificamente afferma che, in base ai principi enunciati dalla giurisprudenza comunitaria, è da escludere che il risarcimento del danno sia subordinato al riconoscimento di una colpa nell'emanazione di atti illegittimi da parte della pubblica amministrazione.

Al riguardo, si segnalano, ex multis, v. Cons. St., V, n. 1833/2013, secondo cui, «l'ordinamento comunitario dimostra che ciò che rileva è l'ingiustizia del danno e non l'elemento della colpevolezza; ciò determina ipso facto la creazione di un diritto amministrativo comune a tutti gli stati membri nel quale i principi che si elaborano a livello comunitario, in applicazione dei Trattati, trovano humus negli ordinamenti interni, e costituiscono una sorta di sussunzione unificante di regole riscontrabili in tali ordinamenti. In questo processo di astrazione è inevitabile che i principi di diritto interno vengano sostituiti da principi caratterizzati da più larga acquisizione, poiché il ravvicinamento e l'armonizzazione normativa premia il principio maggiormente condiviso, che è quello della responsabilità piena della p.a. senza aree di franchigia»; Cons. St., V, n. 6450/2014, secondo cui «in materia di risarcimento da mancato affidamento di gare pubbliche di appalto e concessioni, non è necessario provare la colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria; le garanzie di trasparenza e di non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione dei pubblici appalti fanno sì che una qualsiasi violazione degli obblighi di matrice sovranazionale consente all'impresa pregiudicata di ottenere un risarcimento dei danni, a prescindere da un accertamento in ordine alla colpevolezza dell'ente aggiudicatore e dunque dell'imputabilità soggettiva della lamentata violazione»; questo arresto è ripreso da Cons. St. II, n. 4102/2021, che afferma che esso esprime un «principio di carattere generale»); infine, Cons. St. V, n. 1257/2019, che ribadisce che «nel caso del risarcimento dei danni derivanti dalla mancata aggiudicazione di una gara di appalto, quel che conta è la lesione stessa della posizione sostanziale, senza che assuma alcuna rilevanza l'elemento soggettivo della condotta, colposa o meno, dell'amministrazione nella vicenda, in applicazione dei principi comunitari (ed in particolare in base alla regola espressa dalla C.G.U.E. con sentenza 5 marzo 1996, riaffermata da ultimo dalla sentenza C-n.314-2009); è da escludere che il risarcimento dei danni sia subordinato al riconoscimento di una colpa, comprovata o presunta, nell'emanazione di atti illegittimi da parte della stazione appaltante, ovvero al difetto di alcuna causa di esonero di responsabilità».

La giurisprudenza amministrativa, pur adeguandosi ai principi affermati dalla Corte di Giustizia – secondo i quali una qualsiasi violazione degli obblighi sovranazionali in materia di appalti genera danni, a prescindere dalla colpevolezza dell'amministrazione e dalla imputabilità soggettiva della lamentata violazione – ritiene, comunque, che non debba prescindersi dalla valutazione del profilo soggettivo della colpa o del dolo allorquando il danno lamentato derivi dall'applicazione da parte della stazione appaltante di provvedimenti informativi ed interdittivi dell'autorità di pubblica sicurezza.

Ed infatti, secondo Cons. St. V, n. 7751/2019, questi «si collocano al di fuori della procedura ad evidenza pubblica e attengono a profili di prevenzione del tutto tipici del nostro sistema nazionale». Peraltro, Cons. St. V, n. 3774/2014 evidenzia che «l'Amministrazione non ha il potere di sindacare il contenuto dell'informativa prefettizia, perché è al Prefetto che la legge demanda in via esclusiva la raccolta degli elementi e la valutazione circa la sussistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa» (cfr. anche Cons. St. V, n. 4467/2013; Cons. St. V, n. 5247/2005).

I principi sull'assenza dell'elemento colposo, previsti soltanto per gli appalti pubblici sopra la soglia comunitaria, sono stati estesi – per ragioni di equità di trattamento – anche ai contratti sotto la suddetta soglia. Invero, è stata rilevata l'irragionevolezza di una disparità di trattamento fondata sull'elemento estrinseco della soglia di rilievo comunitario.

Secondo Cons. St. V, n. 5686/2012, tale regola (della responsabilità oggettiva dell'Amministrazione, sottratta ad ogni possibile esimente) non può essere circoscritta ai soli appalti comunitari, ma deve estendersi, in quanto principio generale di diritto comunitario in materia di effettività della tutela, a tutto il campo degli appalti pubblici, nei quali i principi di diritto comunitario hanno diretta rilevanza ed incidenza»). In senso conforme v. Cons. St. IV, 1833/2013. T.A.R. Basilicata, n. 14/2020).

c ) Il danno risarcibile in caso di certezza dell'esito positivo della gara.

Ai fini della liquidazione del danno risarcibile va tenuta distinta l'ipotesi che l'impresa ricorrente, nel corso del giudizio, riesca a dimostrare che essa sarebbe stata la sicura aggiudicataria della gara, qualora l'amministrazione non avesse illegittimamente operato, da quella in cui essa non riesca a dare tale dimostrazione. I danni risarcibili nelle due diverse ipotesi si configurano diversamente.

Nella prima ipotesi (si pensi, al caso in cui la seconda classificata della gara riesca a dimostrare che la prima classificata non era in possesso dei requisiti di partecipazione e quindi andava esclusa, cosicché essa sarebbe stata la sicura aggiudicataria) possono prospettarsi i profili risarcitori del danno emergente e del lucro cessante.

Il danno emergente consiste nelle spese sostenute per la partecipazione alla gara pubblica. Sulla loro risarcibilità la giurisprudenza non ha un univoco orientamento.

Per la giurisprudenza civile, «in caso di accoglimento della domanda risarcitoria proposta dal partecipante alla pubblica gara illegittimamente pretermesso, questi ha diritto all'integrale risarcimento dei danni subiti. Nella quantificazione del danno il giudice dovrà tener conto di tutte le circostanze del caso concreto e liquidare sia il danno emergente che il lucro cessante, quali le spese sostenute per partecipare alla gara, il mancato guadagno per non aver eseguito l'opera, il mancato incremento del curriculum professionale» (cfr. Cass. III, n. 11794/2015).

Per la giurisprudenza amministrativa, invece, le spese sostenute per la partecipazione alla gara non vanno riconosciute. Ex multis, si segnalano Cons. St. V, n. 3220/2014, Cons. St. VI, n. 4392/2013; Cons. St. III, n. 1381/2013 e Cons. St. VI, n. 2384/2010, secondo cui, «non risultando che tali costi siano rimborsabili in caso di aggiudicazione dell'appalto, deve ritenersi che essi costituiscano un investimento, ma anche un rischio di impresa funzionale alla previsione di guadagno» (In dottrina, in senso conforme, Caringella, Tarantino, 1696; i quali evidenziano che le spese di partecipazione alla gara sono un onere per ogni concorrente; Ferrari, 678).

Le spese per la partecipazione alla gara, non risarcibili in linea di principio, possono, però, rilevare e allora «si colorano come danno emergente, solo se l'impresa illegittimamente esclusa lamenti questi profili dell'illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene in rilievo solo la pretesa risarcitoria del contraente che si duole di essere stato coinvolto in trattative inutili» (Cons. St. VI, n. 731/2017).

In questo caso, però, esse comunque non possono riconoscersi se all'impresa ricorrente venga riconosciuto l'interesse positivo, cioè il risarcimento del danno per mancata aggiudicazione, in quanto il riconoscimento della responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione esclude il diverso titolo della responsabilità precontrattuale.

Ed invero, secondo C.G.A.S. n. 153/2006 «non spetta alcun risarcimento per le spese sopportate per partecipare alla gara...perché il concesso risarcimento dell'interesse positivo...esclude in radice la risarcibilità dell'interesse negativo (cioè delle spese sopportate per la partecipazione alla gara), che è invece tipico della diversa ipotesi della responsabilità contrattuale». Nel danno emergente non possono farsi rientrare i costi di ammortamento e deprezzamento dei beni da utilizzarsi nell'esecuzione dell'appalto.

Si ritiene (Cons. St. V, n. 5283/2019) che trattasi di voci di costo che «l'impresa comunque sostiene a prescindere dall'esecuzione di commesse pubbliche e che vanno a ridurre il risultato di esercizio annuo, secondo i principi e le regole di contabilità aziendale comunemente applicabili. Rispetto ad esse difetta il rapporto di causalità con l'illegittima aggiudicazione del servizio».

Analogamente, non possono farsi rientrare nel danno emergente le spese di giudizio sostenute per l'impugnazione del provvedimento amministrativo illegittimo, che sono danni successivi all'aggiudicazione, la cui regolamentazione è rimessa al giudice secondo gli artt. 90 e ss. c.p.c. (Garofoli, Ferrari, 1677; Cons. St. V, n. 541/2012).

Il lucro cessante – nel caso di certezza dell'esito positivo della gara, qualora la stazione appaltante non avesse illegittimamente operato – è rappresentato dall'utile che l'operatore ricorrente avrebbe conseguito in caso di esecuzione dell'appalto.

Sul danno risarcibile a titolo di lucro cessante e sull'onere della prova il Consiglio di Stato (Cons. St.,Ad. plen. n. 2/2017) ha elaborato un vero e proprio «decalogo» (l'espressione è di De Nictolis, Il risarcimento, 43), che contiene i seguenti principi:

1. il danneggiato deve offrire la prova dell' an e del quantum del danno che assume di aver sofferto, ai sensi degli artt. 30,40 e 124, comma 1, del c.p.a.;

2. il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse c.d. positivo, che comprende sia il mancato profitto, che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto, sia il danno c.d. curriculare (ovvero il pregiudizio subito dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto);

3. spetta all'impresa danneggiata offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, perché nell'azione di responsabilità il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento;

4. la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c. è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull'ammontare del danno;

5. le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico di ufficio, neppure nel caso di consulenza cosiddetta «percipiente»;

6. la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni, con la precisazione che il fatto ignoto è desumibile da quello noto secondo un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerunmque accidit;

7. va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata;

8. in merito al c.d. danno curriculare, il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somma liquidata a titolo di lucro cessante;

9. il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione impugnata e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questi dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l'impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori ovvero che avrebbe potuto riutilizzare, secondo l'ordinaria diligenza dovuta al fine di non dover concorrere all'aggravamento del danno, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum.

I suddetti criteri di determinazione del danno risarcibile, ribaditi da Cons. St. V, n. 5803/2019, non sono stati elaborati per dirimere contrasti giurisprudenziali insorti tra le Sezioni, ma sono statuizioni della Plenaria, che si è pronunciata autonomamente sulle singole questioni aderendo ad una tesi piuttosto che ad un'altra.

La decisione dell'Adunanza Plenaria è significativa, perché essa – dopo aver stabilito il principio che, nel caso di mancata aggiudicazione, il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato utile che l'impresa avrebbe conseguito con l'esecuzione dell'appalto, sia il danno curriculare, comprensivo del pregiudizio subito a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto – afferma chiaramente, in linea con l'art. 124,1 comma, c.p.a., che detto interesse positivo può riconoscersi soltanto se dal danneggiato venga rigorosamente provato, atteso che la valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. può ammettersi soltanto in presenza di una situazione di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno.

La decisione, nel subordinare espressamente il risarcimento per equivalente alla prova del danno (Scoca, 353; De Nictolis, Il risarcimento, 46) esclude che il mancato profitto possa riconoscersi facendo applicazione del criterio forfettario del 10% dell'importo a base d'asta (ex art. 134, comma 1, del previgente codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. n. 163/2006), che è criterio residuale di una logica equitativa, che spesso conduce al risultato non accettabile che il risarcimento che l'impresa danneggiata consegue in base a detto criterio è più consistente dell'utile che essa conseguirebbe nell'ipotesi di impiego del capitale, con la naturale conseguenza che la stessa non ha interesse a provare in giudizio il danno effettivamente sofferto, perché «otterrebbe di meno» (Cons. St. V, n. 2143/2009). Perciò, dovendo l'impresa illegittimamente danneggiata dimostrare l'effettivo utile che avrebbe conseguito se l'Amministrazione avesse legittimamente operato, si sostiene (Lubrano, 55) che il dato più importante che essa, allo scopo, possa offrire al Giudice sia costituito dall'offerta economica da essa stessa formulata.

Ed infatti, Cons. St. III, n. 3437/2013 ha dichiarato che nelle pubbliche gare, ai sensi dell'art. 124, comma 1, c.p.a., il risarcimento del c.d. lucro cessante è subordinato alla prova a carico dell'impresa ricorrente, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, prova desumibile in via principale dall'esibizione dell'offerta economica presentata al seggio di gara».

Inoltre, la sentenza della Plenaria n. 2/2017 rileva là dove conferma il principio che l'aliunde perceptum e l'aliunde percipiendum sono fattori di abbattimento del risarcimento dovuto all'impresa danneggiata. Il principio era stato già sancito dalla giurisprudenza.

Infatti, secondo Cons. St. V, n. 3135/2013: «Nel caso di annullamento dell'aggiudicazione di appalto pubblico e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, il mancato utile spetta a costui nella misura integrale solo se dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione; di conseguenza, in difetto di tale dimostrazione, che compete comunque al concorrente fornire, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e da qui la decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum, considerato anche che, ai sensi dell'art. 1227 c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno».

Dunque, un primo fattore di abbattimento del danno, quantificato quale mancato utile, è rappresentato dall' aliunde perceptum, cioè da quanto ricavato dall'impresa danneggiata sul presumibile riutilizzo aliunde di mezzi e manodopera (Del Gatto, 1000). L'aliunde perceptum è frutto di una presunzione in danno dell'impresa, che, però, può superarla, conseguendo così l'utile nella sua integrità, se dimostra la sua assenza nel periodo in cui essa è rimasta nell'attesa dell'aggiudicazione a proprio favore (Caringella , 2022, 1772; Garofoli, Ferrari, 1674). Per dimostrare l'assenza dell'aliunde perceptum, l'impresa può produrre efficacemente in giudizio i libri contabili, dai quali risulti l'inesistenza di lavori svolti in detto periodo e dei relativi introiti (Lubrano, 61).

Secondo il T.A.R. Sicilia, Catania, n. 880/2013, l'onere di provare l'assenza dell' aliunde perceptum grava non sulla p.a., ma sull'impresa. In sede di quantificazione del danno, quindi, spetterà all'impresa dimostrare, anche mediante l'esibizione alla p.a. di libri contabili, di non aver eseguito, nel periodo che sarebbe stata impegnata dall'appalto in questione, altre attività lucrative incompatibili con quella per la cui mancata esecuzione chiede il risarcimento del danno. L'opzione della prova a carico della p.a. circa l'utilizzo di mezzi e persone in altre attività dell'impresa, infatti, finirebbe con il determinare una vera e propria probatio diabolica di impossibile applicazione.

Sull'operatività della presunzione dell'aliunde perceptum v. Cons. St. V, n. 3220/2014; T.A.R. Sicilia, Catania I, n. 2853/2017; T.A.R. Campania, Salerno I, n. 782/2017.

L' aliunde percipiendum opera sul presupposto che l'impresa danneggiata sia rimasta inerte mentre era in attesa dell'aggiudicazione a suo favore e, quindi, non si sia attivata per cercare altre occasioni di lavoro, così aggravando il danno ex art. 1227, comma 2, c.c., che, pertanto, va opportunamente ridotto.

Perciò, la dimostrazione da parte dell'impresa danneggiata di non aver impiegato aliunde maestranze e mezzi e, quindi, dell'assenza dell'aliunde perceptum non basta a scongiurare l'abbattimento dell'utile dovuto a suo favore, perché essa, proprio perché non ha svolto altri lavori, subisce l'abbattimento dell'utile in virtù della presunzione dell'utile percipiendum per essere rimasta inerte nel periodo in cui essa era in attesa dell'aggiudicazione.

In giurisprudenza v. inoltre Cons. St. VI, n. 2427/2011 secondo cui non costituisce, normalmente e salvi casi particolari, condotta ragionevole immobilizzare tutti i mezzi di impresa nelle more del giudizio, nell'attesa dell'aggiudicazione in proprio favore, essendo invece ragionevole che l'impresa si attivi per svolgere altre attività. Di qui la piena ragionevolezza della detrazione dal risarcimento del mancato utile, nella misura del 50%, sia dell'aliunde perceptum sia dell'aliunde percipiendum con l'ordinaria diligenza». Il regime probatorio sull'aliunde perceptum vel percipiendum desta perplessità perché, costituendo questo un fatto impeditivo, in tutto o in parte, del risarcimento, la prova della sua esistenza ex art. 2697 c.c. dovrebbe gravare non sul danneggiato, ma sull'Amministrazione (così come, in sede civile, secondo Cass. lav. n. 11706/2020, spetta al datore di lavoro, che contesta la pretesa risarcitoria del lavoratore licenziato, dimostrare l'aliunde perceptum vel percipiendum del lavoratore).

In ordine al danno c.d. curriculare (cioè, al «pregiudizio subito dall'impresa in dipendenza del mancato arricchimento del proprio curriculum professionale, ossia per la circostanza di non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto sfumato a causa del comportamento illegittimo dell'amministrazione» – v. Cons. St. IV, n. 2955/2011), configurabile a prescindere dal corrispettivo dell'appalto pagato dalla stazione appaltante, la Plenaria (sent. n. 2/2017) ha ribadito il principio che il ricorrente deve offrire la prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito quantificandolo in una misura percentuale specifica, applicata sulla somma liquidata a titolo di lucro cessante (nello stesso senso, da ultimo, Cons. St. V, n. 1814/2022; Cons. St. V, n. 5283/2019; Cons. St. V, n. 14/2019; Cons. St. V, n. 2527/2018).

La giurisprudenza ha sempre ritenuto risarcibile, in linea di principio, il c.d. danno curriculare, sul presupposto che l'esecuzione di un appalto pubblico consente all'impresa non solo di ottenere un corrispettivo per l'esecuzione dell'opera, ma anche di accrescere la sua capacità di competere sul mercato e, quindi, la sua chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti (Cons. St. VI, n. 2751/2008).

Trattandosi di un danno non agevolmente quantificabile, prima dell'entrata in vigore dell'art. 124, comma 1, c.p.a., la sua quantificazione era fatta normalmente in via equitativa (ex multis, v. Cons. St. VI, n. 6607/2006; Cons. St. VI, n. 1114/2007; Cons. St. VI, n. 1514/2007).

Senonché, anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 124 c.p.a., che ha stabilito il principio che il danno da risarcire va provato, si è continuato sovente a quantificare in via equitativa il danno curriculare. Per esempio, Cons. St. IV, n. 2955/2011 ha affermato che il danno curriculare è intrinsecamente e necessariamente valutabile da questo giudice in termini meramente equitativi ai sensi dell'art. 1226 c.c., analogamente, Cons. St. V, n. 5846/2012, dopo aver affermato che la dimostrazione del danno curriculare «non richiede l'assolvimento di un particolare onere probatorio», l'ha quantificato nella misura del 2% del valore dell'appalto.

La decisione dell'Adunanza Plenaria n. 2/2017, dunque, rileva perché opportunamente ricorda che, ai sensi dell'art. 124, comma 1, c.p.a., l'impresa, se intende conseguire il risarcimento del danno curriculare, deve dimostrare puntualmente, nell'an e nel quantum, il nocumento sofferto, cioè il mancato arricchimento del suo curriculum professionale, e quantificarlo in una misura percentuale specifica, applicata sulla somma liquidata a titolo di lucro cessante (De Nictolis, Il risarcimento, 44).

Dopo la decisione della Plenaria, si sono susseguite numerose pronunce, che hanno affermato la necessità che il danno curriculare sia puntualmente provato.

Ex multis, si richiamano Cons. St. V, n. 5375/2018, Cons. St. V, n. 3954/2018; Cons. St. V, n. 2527/2018; Cons. St. III, 1828/2018 e, di recente, Cons. St. V, n. 1803/2021, che ha ribadito che il danno curriculare deve essere oggetto di puntuale dimostrazione, ancorata: 1) alla perdita di un livello di qualificazione già posseduta ovvero alla mancata acquisizione di un livello superiore, quali conseguenze immediate e dirette della mancata aggiudicazione; 2) alla mancata acquisizione di un elemento costitutivo della specifica idoneità tecnica richiesta dal bando oltre la qualificazione SOA sicché solo all'esito di tale dimostrazione, relativamente all'an, è possibile procedere alla relativa quantificazione del quantum (anche a mezzo di forfetizzazione percentuale applicata sulla somma riconosciuta a titolo di lucro cessante). Quest'ultima sentenza si è spinta a precisare che, nell'ipotesi di illegittima mancata aggiudicazione, il danno c.d. curriculare non può riconoscersi a favore di un'impresa leader di settore, perché questa difficilmente subisce pregiudizi al suo curriculum professionale per la mancata esecuzione dell'appalto.

Comunque, non tutta la giurisprudenza pretende la prova rigorosa, nell'an e nel quantum, del danno curriculare. Per esempio, Cons. St., V, n. 1257/2019 sostiene che la sussistenza del danno è «in re ipsa», cioè, è nel fatto stesso di non poter utilizzare le referenze derivanti dall'esecuzione dell'appalto in altre gare, alle quali l'impresa pregiudicata potrebbe in futuro partecipare; perciò esso, «non potendo essere giammai provato nel suo preciso ammontare», può essere valutato dal giudice con equo apprezzamento delle specifiche circostanze del caso e «liquidato in via equitativa exartt. 2056 e 1226 c.c.». Il Giudice può liquidare il danno in una «percentuale del valore dell'appalto», come è comune nella giurisprudenza amministrativa, oppure in una «percentuale dell'offerta presentata in gara dall'impresa che invoca il ristoro».

In breve, anche dopo la Plenaria n. 2/2017, non v'è un orientamento univoco della giurisprudenza amministrativa per quanto riguarda la dimostrazione dell'an e del quantum del danno c.d. curriculare sofferto da parte del danneggiato per la mancata illegittima aggiudicazione dell'appalto.

In ordine al danno all'immagine professionale, sofferto dall'impresa per l'ipotesi di illegittima esclusione dalla gara, la Plenaria si limita a considerarlo come un aspetto del danno curriculare, rappresentato dal fatto che l'avvenuta esecuzione dell'appalto non può essere indicata nel curriculum. In aderenza alla Plenaria v., ora, Cons. St. V, n. 1803/2021.

In realtà, sul danno all'immagine professionale si registrano due diversi orientamenti della giurisprudenza; il primo, ripreso dalla Plenaria, è quello maggioritario già espresso da Cons.St. V. n. 478/2007, il quale sostiene che, nel caso di illegittima esclusione da appalto, il danno all'immagine professionale è risarcibile se vi sia «la prova specifica che l'esclusione ha recato un nocumento all'immagine, alla professionalità, all'esperienza dell'impresa, ad esempio precludendo ulteriori appalti in cui occorre dimostrare una specifica esperienza nell'ambito della quale non si può sfoggiare l'appalto non aggiudicato, e senza tralasciare che l'annullamento giurisdizionale dell'esclusione è già di per sé una forma di ristoro in forma specifica di tale danno all'immagine»; il secondo orientamento è espresso da Cons. St. V, n. 2143/2009, il quale, dando una autonoma configurazione al danno all'immagine professionale, ritiene che questo sia configurabile in astratto solo a fronte dell'annullamento di un provvedimento di esclusione dalla gara reso per «carenza dei requisiti incidenti sull'onorabilità dell'impresa». Questo secondo orientamento giurisprudenziale, più rigoroso, è minoritario e non è stato seguito dall'Adunanza Plenaria.

Sull'importo riconosciuto a titolo di lucro cessante vanno liquidati gli interessi e la rivalutazione monetaria (Lubrano, 59; Garofoli, Ferrari, 1676).

Secondo Cons. St. III, n. 6444/2012, trattandosi di debito di valore, l'importo capitale così calcolato andrà rivalutato a far data dal giorno della stipulazione del contratto... sino alla pubblicazione della presente sentenza, applicando l'indice Istat. Dopo la pubblicazione della sentenza il debito si trasformerà in debito di valuta e saranno dovuti gli interessi legali dalla data del deposito sino all'effettivo pagamento.

d ) Il danno risarcibile in caso di mancata dimostrazione della certezza dell'esito positivo della gara. La perdita di chance.

Nel caso in cui l'impresa ricorrente non riesca a dimostrare la certezza dell'esito a sé favorevole della gara, ma solo una elevata probabilità di conseguire l'aggiudicazione dell'appalto, ove l'Amministrazione non avesse illegittimamente operato, essa non potrà pretendere il risarcimento del danno da mancata aggiudicazione, ma un risarcimento minore, determinato in percentuale secondo la tecnica della chance, che implica una liquidazione essenzialmente in via equitativa.

La possibilità della risarcibilità del danno da perdita di chance ha riacquistato rilievo con l'art. 124, comma 1, c.p.c., posto che l'art. 245-quinquies dell'abrogato codice dei contratti, in esso confluito con modifiche, prevedeva che il giudice, che non avesse dichiarato l'inefficacia del contratto, avrebbe potuto disporre il risarcimento per equivalente soltanto a favore del «ricorrente avente titolo all'aggiudicazione». In tal modo, la norma lasciava senza tutela, ingiustificatamente, la perdita di chance dell'aggiudicazione, che presuppone l'impossibilità di dimostrare con certezza l'esito favorevole della gara.

L'art. 124, comma 1, c.p.a., nel quale è confluito il previgente citato art. 245-quinquies, non contiene più il riferimento «al ricorrente avente titolo all'aggiudicazione», sicché il risarcimento per equivalente può riconoscersi anche all'operatore economico che lamenti la perdita di chance.

La differenza tra il danno derivante dalla mancata aggiudicazione e quello derivante da perdita di chance rileva sul terreno probatorio. Infatti, l'operatore economico ricorrente, mentre nel primo caso deve fornire la prova che egli avrebbe conseguito con certezza l'aggiudicazione, se l'Amministrazione avesse operato legittimamente, nel secondo caso, deve dimostrare che avrebbe avuto una probabilità seria e concreta ovvero un elevato grado di probabilità di aggiudicazione, almeno pari al 50%. Al di sotto di questa percentuale il danno prospettato sarebbe solo ipotetico, neppure distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa (Caringella, 2022, 1772) e, perciò, non sarebbe meritevole di essere risarcito.

L'operatore, perciò, deve provare gli elementi utili a dimostrare, anche in modo presuntivo e basato sul calcolo delle probabilità, la possibilità seria e concreta che avrebbe avuto di conseguire il risultato sperato, atteso che la liquidazione del danno, da farsi essenzialmente in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., presuppone sempre che risulti comprovata l'esistenza di un danno risarcibile (Chindemi, 186, Garofoli, Ferrari, 1682).

La perdita di chance dell'operatore economico, non messo nelle condizioni di partecipare alla gara e di conseguire l'aggiudicazione, può essere risarcita anche in forma specifica. Ciò accade se il giudice, dopo aver annullato l'aggiudicazione, ordini all'Amministrazione la riedizione della gara, così mettendo l'operatore pregiudicato nelle condizioni di partecipare alla nuova gara. In tal caso, il giudice può disporre a suo favore non il risarcimento per equivalente della perdita di chance, ma il solo risarcimento per le spese sopportate inutilmente per aver egli partecipato ad una procedura annullata.

È stato efficacemente sostenuto (Cons . St. V, n. 2527/2018, Cons. St. V, n. 4225/2018) che il risarcimento del danno da perdita di chance esprime uno schema di reintegrazione patrimoniale riguardo un bene della vita connesso a una situazione soggettiva che, quando è sostitutiva di una reintegrazione in forma specifica come nei contratti pubblici, poggia sul fatto che un operatore economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, per ciò solo, è stimabile come portatore di un'astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il contratto (così, come chiunque, in generale, partecipi ad una procedura comparativa per la possibilità di conseguire il bene o l'utilità messi a concorso). La chance iniziale e virtuale, che muove dall'essere in potenza la medesima per tutti concorrenti, varia poi nel concretizzarsi e diviene misurabile in termini: non trattandosi di competizione di azzardo ma di contesa professionale in cui occorre mostrare titoli e capacità, diviene effettiva e aumenta o diminuisce nel corso della procedura fino a concentrarsi nella dimensione più elevata in capo all'operatore primo classificato al momento della formulazione della graduatoria finale, sfumando progressivamente in capo agli altri.

Perciò se, nel corso della procedura condotte illegittime dell'amministrazione contrastano la normale affermazione della chance di aggiudicazione, viene leso l'interesse legittimo dell'operatore economico e – se è precluso anche il bene della vita cui l'interesse è orientato – è lui dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile della sua chance perduta.

La tecnica risarcitoria della chance impone un ulteriore necessario passaggio: posto che l'illegittima condotta dell'amministrazione ha qui determinato un danno risarcibile nei termini indicati, per la sua quantificazione occorre definire la misura percentuale che nella situazione data presentava per l'interessato la probabilità di aggiudicazione – la chance appunto – tenendo conto della fase della procedura in cui è stato adottato l'atto illegittimo e come poi si sarebbe evoluta.

Si tratta di un passaggio necessario: per la giurisprudenza l'operatore può beneficiare del risarcimento per equivalente solo se la sua chance di aggiudicazione ha effettivamente raggiunto un'apprezzabile consistenza, di solito indicata dalle formule «probabilità seria e concreta» o anche «elevata probabilità» di aggiudicazione del contratto. Al di sotto di tale livello, dove c'è la «mera possibilità» di aggiudicazione, vi è solo una ipotetica danno comunque non meritevole di reintegrazione poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto.

In questa direzione, la quantificazione percentuale della figurata lesione della chance identifica la dimensione effettiva di un lucro cessante; del resto l'operatore che partecipa alla gara non è titolare attuale di un elemento patrimoniale che viene leso dall'attività amministrativa, ma di una situazione soggettiva strumentale al conseguimento di un'utilità futura.

L'utilità futura – l'essere parte del contratto e il trarne il legittimo lucro – è il bene della vita che gli è negato dall'azione illegittima dell'amministrazione. La chance vi rapporta in termini probabilistici le circostanze concrete, allegate e provate, che rilevano per definire, nei limiti del presumibile, la reale probabilità che aveva l'operatore economico di essere prescelto e così di conseguire quell'utilità: in una ricostruzione «dinamica» dell'evolversi della vicenda e non statica (cfr. Cons. St. V, n. 5008/2014; Cons. St. V, n. 3774/2014).

La risarcibilità del danno da perdita di chance è stata riconosciuta nelle sole ipotesi in cui l'illegittimità dell'atto ha provocato, in via diretta, una lesione della concreta occasione di conseguire un determinato bene e quest'ultima presenti un rilevante grado di probabilità (se non di certezza) di ottenere l'utilità sperata (Cons. St. V, n. 4592/2015).

È stato, inoltre, chiarito, che, nelle pubbliche gare, il predetto diritto risarcitorio spetta solo se l'impresa illegittimamente pretermessa dall'aggiudicazione illegittima riesca a dimostrare, con il dovuto rigore, che la sua offerta sarebbe stata selezionata come la migliore e che, quindi, l'appalto sarebbe stato ad essa aggiudicato, con un elevato grado di probabilità (Cons. St. V, n. 4431/2015).

Il danneggiato risulta, perciò, gravato dell'onere di provare l'esistenza di un nesso causale tra l'adozione o l'esecuzione del provvedimento amministrativo illegittimo e la perdita dell'occasione concreta di conseguire un determinato bene della vita (Cons. St. VI, n. 4115/2015), con la conseguenza che il danno in questione può essere risarcito solo quando sia collegato alla dimostrazione della probabilità del conseguimento del vantaggio sperato, e non anche quando le chance di ottenere l'utilità perduta restano nel novero della mera possibilità (Cons. St. IV, n. 3147/2015).

Il ricorrente ha l'onere di provare gli elementi utili a dimostrare, pur se solo in modo presuntivo e basato sul calcolo delle probabilità, la possibilità concreta che egli avrebbe avuto di conseguire il risultato sperato, atteso che la valutazione equitativa del danno, ai sensi dell'art. 1226 c.c., presuppone che risulti comprovata l'esistenza di un danno risarcibile; in particolare la lesione della possibilità concreta di successo almeno pari al 50%, poiché, diversamente, diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo, statisticamente non significative (Cons. St. V, n. 762/2016).

Il concorso del fatto colposo del creditore.

La disposizione contenuta nell'art. 124,2 comma, c.p.a. lascia intendere che il ricorrente ha il potere di scelta tra la tutela in forma specifica e quella per equivalente (Corradino, 273), ma, sul presupposto che la tutela per equivalente sia sussidiaria rispetto a quella in forma specifica, stabilisce che «la condotta processuale della parte, che, senza giustificato motivo, non abbia proposto la domanda di cui al comma 1 (domanda di conseguire l'aggiudicazione) o non si sia resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata da giudice ai sensi dell'art. 1227 c.c.».

La disposizione esplicita, nel settore del danno da aggiudicazione illegittima, il principio di cui all'art. 30, comma 3, c.p.a., a mente del quale il giudice, nel determinare il risarcimento, «valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti» (Cons. St. II, n. 1293/2020).

In base all'art. 124, comma 1, c.p.a., è espressamente valutabile dal giudiceex art. 1227 c.c., la condotta del ricorrente che, senza adeguata giustificazione in relazione all'esecuzione del contratto, non formuli la domanda di aggiudicazione e subentro o ritiri la domanda in precedenza formulata.

Sui motivi che possano giustificare l'opzione del ricorrente di non formulare la domanda di subentro o di ritirare la domanda in precedenza formulata v. Cons. St. V, 1597/2012, secondo cui se è vero, infatti, che la stipula del contratto non è di ostacolo al subentro del ricorrente in caso di annullamento dell'aggiudicazione, spetta, tuttavia, al ricorrente scegliere se procedere al subentro, ove questo non sia stato ancora interamente eseguito, o se optare per il risarcimento del danno anche in relazione alla parte del contratto non eseguita. Infatti, mentre l'interesse originario dell'impresa è indirizzato all'esecuzione dell'appalto per il suo complessivo valore quale identificato nel bando di gara, la prestazione del servizio per un periodo di limitata durata introduce, invece, condizioni nuove negli aspetti economici ed organizzativi, che l'impresa può valutare con la più ampia sfera di autonomia con riguardo sia al diverso impegno di mezzi ed attrezzature, sia al mutato livello di remunerazione che ne può conseguire in relazione all'offerta presentata in sede di gara.

La pronuncia sopra riportata fa credere che i motivi che possano giustificare la scelta dell'operatore di ritirare la domanda di subentro possono concretarsi in serie valutazioni di convenienza (Chieppa, 591) e non necessariamente in circostanze di carattere oggettivo (in quest'ultimo senso, v. Del Gatto, 1003).

Altro comportamento del ricorrente, valutabile dal giudice ex art. 1227 c.c. come «fattore di abbattimento» (Lubrano, 62) del risarcimento dei danni a lui dovuti, è costituito dalla mancata presentazione della domanda di annullamento dell'aggiudicazione.

Il codice del processo amministrativo non prescrive la pregiudiziale impugnazione del provvedimento amministrativo ai fini della tutela risarcitoria. Ciò nondimeno, prevede all'art. 30 che il comportamento del ricorrente che non abbia esercitato l'azione di impugnazione rilevi, ai fini dell'esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza. Perciò, il giudice deve valutare se, fra la mancata impugnazione e l'insorgenza del danno, vi sia un nesso di consequenzialità diretta, perché il secondo non si sarebbe verificato se l'interessato avesse svolto l'azione di annullamento (Ferrari, 672).

Secondo Cons. St., Ad. plen., n. 3/2011 «l'omessa impugnazione del provvedimento amministrativo costituisce un fatto alla stregua del quale valutare, con un giudizio di causalità ipotetica, se la tempestiva reazione del soggetto leso avrebbe evitato o mitigato il danno. Nei rapporti risarcitori regolati dal regime pubblicistico, il ricorso per annullamento, pur non essendo l'unica tutela esperibile, è il mezzo di cui l'ordinamento processuale dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo per evitare il prodursi di conseguenze dannose». Invece, secondo Cons. St. VI, n. 1983/2011, «deve ritenersi, ai sensi dell'art. 1227. c.c., che il risarcimento del danno non sia dovuto dall'amministrazione in caso di mancata impugnazione dell'atto illegittimo foriero di danno».

Analogamente, Cons. St. II, n. 1293/2020, ha statuito nel senso che «la mancata proposizione della domanda di annullamento dell'aggiudicazione preclude anche in radice il riconoscimento del danno per equivalente pecuniario...Ai sensi dell'art. 124, comma 2, c.p.a., la condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda volta a conseguire l'aggiudicazione (nonché la domanda volta ancor più a monte a contestare l'aggiudicazione disposta in favore di altri all'evidente fine di coltivare la sola opzione del ristoro per equivalente pecuniario) è valutata dal giudice ai sensi dell'art. 1227 c.c.».

Quindi, anche alla luce dell'art. 30 c.p.a., vale la regola, secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa, secondo il criterio del più probabile che non, recide, in tutto o in parte, il nesso causale che deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili (Del Gatto, richiamando la citata Cons. St., Ad. plen., n. 3/2011).

Un ulteriore comportamento del ricorrente valutabile ex art. 1227 c.c. come fattore di esclusione o abbattimento del risarcimento dei danni a lui dovuto è rappresentato dal «mancato esperimento degli strumenti di tutela previsti» (art. 30, comma 3, c.p.a.), tra i quali, in primis, la richiesta di sospensione dell'impugnato provvedimento di aggiudicazione, che determina ope legis (d.lgs. n. 50/2016, art. 32, comma 11) il c.d. stand still processuale, nel senso che impedisce alle parti di stipulare ed eseguire il contratto nei venti giorni successivi, a condizione che nello stesso termine intervenga almeno la pronuncia cautelare. Cosicché, nell'ipotesi in cui la domanda cautelare non sia stata presentata unitamente al ricorso avverso l'aggiudicazione, il ricorrente non potrà proporre fondatamente l'azione risarcitoria per i danni a lui derivati dall'esecuzione del contratto, avendo egli stesso, col suo inerte comportamento processuale, provocato i danni.

La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nei procedimenti ad evidenza pubblica.

Nei confronti della P.A. trova applicazione la norma sulla responsabilità precontrattuale di cui all'art. 1337 c.c., secondo cui «le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede».

La responsabilità precontrattuale della p.a., nel passato era ammessa nei soli contratti a trattativa privata. Poi, dopo la fondamentale Cass. S.U. , n. 500/1999, che ha individuato l'interesse legittimo come situazione giuridica tutelabile e risarcibile, la responsabilità in parola è stata ammessa anche nei procedimenti di gara diversi dalla trattativa privata (Cerulli Irelli, 560).

Secondo i principi civilistici, i danni risarcibili a titolo di responsabilità precontrattuale sono limitati alle spese inutilmente sopportate nel corso della trattativa (danno emergente) nonché alla perdita, se provata, di ulteriori occasioni di stipulazione con altri soggetti di un contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso (lucro cessante), con esclusione dei vantaggi che si sarebbero conseguiti con l'esecuzione del contratto.

In merito alla responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, si è sostenuto in giurisprudenza che essa non possa configurarsi nella fase precedente l'aggiudicazione, quando i partecipanti alla gara non sono ancora contraenti, ma titolari del mero interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri da parte della pubblica amministrazione. La responsabilità precontrattuale potrebbe configurarsi solo dopo l'aggiudicazione, perché solo da questo momento potrebbe dirsi instaurata una trattativa e sussistente un affidamento del privato in ordine alla conclusione del contratto (Caringella, 2021, 1240).

La responsabilità precontrattuale della p.a. presuppone che tra le parti siano intercorse trattative per la sua conclusione (Cass. I, n. 13164/2005). Secondo un consolidato orientamento (Cass. I, n. 13164/2005; Cons. St., Ad. plen., n.6/2005; Cons. St. IV, n. 5633/2008), essa non è configurabile anteriormente alla scelta del contraente, nella fase, cioè, in cui gli interessati non hanno ancora la qualità di futuri contraenti, ma soltanto quella di partecipanti alla gara e vantano esclusivamente una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione, mentre non sussiste una specifica relazione di svolgimento delle trattative (Cass. S.U., n. 4673/1997). Pertanto, la violazione delle regole di correttezza che presiedono alla formazione del contratto può assumere rilevanza solo dopo che la fase pubblicistica abbia attribuito al ricorrente effetti vantaggiosi, come quello dell'aggiudicazione, e solo dopo che tali effetti siano venuti meno, nonostante l'affidamento ormai conseguito dalla parte interessata (Cons. St. V, n. 6489/2010)» – così Cons. St. III, n. 3748/2015.

Questo orientamento, che muove dalla premessa che il dovere di correttezza e di buona fede trovi il suo presupposto nelle «trattative» già in stato avanzato, in aderenza alla lettera dell'art. 1337 c.c., è stato riconsiderato da Cons. St., Ad. plen., n. 5/2018, che ha sancito che «a) il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla loro violazione) (è) configurabile in capo all'Amministrazione anche prima e a prescindere dall'adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva; b) tale responsabilità (è) configurabile, senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura i gara».

Tanto, considerando che «il dovere di correttezza è strumentale alla tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire interferenze illecite derivanti da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza.

Il nuovo legame che così si instaura tra dovere di correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale impedisce allora di restringere lo spazio applicativo alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto. Al contrario, la valenza costituzionale del dovere di correttezza impone di ritenerlo operante in un più vasto ambito di casi, in cui, pur eventualmente mancando una trattativa in senso tecnico-giuridico, venga, comunque, in rilievo una situazione «relazionale» qualificata, capace di generare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative» (Cons. St., Ad. plen., n. 5/2018).

La responsabilità precontrattuale dell'Amministrazione richiede, secondo la Plenaria n. 5/2018: a) che il privato dimostri che il suo affidamento sia stato leso da una condotta della p.a. che, a prescindere dalla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti contraria ai doveri di correttezza e lealtà; b) che la condotta sia ad essa imputabile; c) che il privato provi la lesione della sua libertà di autodeterminazione negoziale, le perdite subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate, nonché il rapporto di causalità tra tali danni e la condotta scorretta dell'Amministrazione. Secondo Cons. St., Ad. plen., n. 21/2021 l'affidamento del privato sul legittimo esercizio del potere e dell'operato dell'amministrazione conforme ai principi di corretta e buona fede può maturare, nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici, «anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi».

Sulla responsabilità precontrattuale della p.a. è, di recente, tornata ad occuparsi l'Adunanza Plenaria con la sentenza Cons. St., Ad. plen., n. 21/2021 la quale ha sancito che «nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa».

Ha chiarito l'Alto consesso che con riguardo alla questione, concernente i limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell'affidamento, con particolare riguardo all'ipotesi di aggiudicazione definitiva di appalto di lavori, servizi o forniture, successivamente revocata a seguito di una pronuncia giudiziale, deve in primo luogo essere precisato che questo settore dell'attività della pubblica amministrazione è quello in cui tradizionalmente e più volte è stata riconosciuta la responsabilità di quest'ultima. Le ragioni alla base dell'orientamento di giurisprudenza favorevole al privato venutosi a creare in questo settore si spiega sulla base del fatto che, sebbene svolta secondo i moduli autoritativi ed impersonali dell'evidenza pubblica, l'attività contrattuale dell'amministrazione è nello stesso tempo inquadrabile nello schema delle trattative prenegoziali, da cui deriva quindi l'assoggettamento al generale dovere di «comportarsi secondo buona fede» enunciato dall'art. 1337 c.c. (come chiarito dall'Adunanza plenaria nelle sopra citate pronunce Cons. St., Ad. plen., n. 6/2005 e Cons. St., Ad. plen., n. 5/2018).

La tutela risarcitoria per responsabilità precontrattuale è posta a presidio dell'interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, e dunque del più generale interesse di ordine economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo negoziale. La reintegrazione per equivalente è pertanto ammessa non già in relazione all'interesse positivo, corrispondente all'utile che si sarebbe ottenuto dall'esecuzione del contratto, riconosciuto invece nella responsabilità da inadempimento, ma dell'interesse negativo, con il quale sono ristorate le spese sostenute per le trattative contrattuali e la perdita di occasioni contrattuali alternative, secondo la dicotomia ex art. 1223 c.c. danno emergente – lucro cessante.

Applicata all'evidenza pubblica, la responsabilità precontrattuale sottopone l'amministrazione alla duplice soggezione alla legittimità amministrativa e agli obblighi di comportamento secondo correttezza e buona fede, i quali costituiscono, come in precedenza esposto, profili tra loro autonomi, e da cui può rispettivamente derivare l'annullamento degli atti adottati nella procedura di gara e le responsabilità per la sua conduzione (da ultimo in questo senso: Cons. St. V, n. 5274/2021; Cons. St. V, n. 2938/2021; Cons. St. V, n. 680/2018).

In senso parzialmente diverso si è espressa la Cassazione civile. Con sentenza Cass. I, n. 15260/2014, la Suprema Corte ha affermato che l'affidamento del concorrente ad una procedura di affidamento di un contratto pubblico è tutelabile «indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto»; la stazione appaltante è quindi responsabile sul piano precontrattuale «a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante». L'apparente contrasto rispetto agli approdi della giurisprudenza amministrativa deve tuttavia essere ridimensionato, avuto riguardo al fatto che il caso deciso dalla Cassazione riguardava il concorrente primo classificato in una procedura di gara poi annullata in sede giurisdizionale amministrativa su ricorso di un altro concorrente. La stessa giurisprudenza amministrativa non si è del resto arroccata su rigidi apriorismi, ma con criterio elastico ha negato rilievo dirimente all'intervenuta aggiudicazione definitiva, laddove ha in particolare affermato che la verifica di un affidamento ragionevole sulla conclusione positiva della procedura di gara va svolta in concreto, in ragione del fatto che «il grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell'affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale» (Cons. St. V, n. 3831/2013).

Individuato un primo requisito dell'affidamento tutelabile nella sua ragionevolezza e nel correlato carattere ingiustificato del recesso, il secondo consiste nel carattere colposo della condotta dell'amministrazione, nel senso che la violazione del dovere di correttezza e buona fede deve esserle imputabile quanto meno a colpa, secondo le regole generali valevoli in materia di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. (in questo senso va ancora richiamata la sentenza Cons. St., Ad. plen., n. 5/2018).

L'elemento della colpevolezza dell'affidamento si modula diversamente nel caso in cui l'annullamento dell'aggiudicazione non sia disposto d'ufficio dall'amministrazione ma in sede giurisdizionale. In questo secondo caso emergono con tutta evidenza i caratteri di specialità del diritto amministrativo rispetto al diritto comune, tra cui la centralità che nel primo assume la tutela costitutiva di annullamento degli atti amministrativi illegittimi, contraddistinta dal fatto che il beneficiario di questi assume la qualità di controinteressato nel relativo giudizio. Con l'esercizio dell'azione di annullamento quest'ultimo è quindi posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole, per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza entro cui ai sensi dell'art. 29 c.p.a.. l'azione deve essere proposta, e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce per un verso ad escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l'annullamento dell'atto per effetto dell'accoglimento del ricorso diviene un'evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed addirittura da questo avversata allorché deve resistere all'altrui ricorso; per altro verso porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile solo prima della notifica dell'atto introduttivo del giudizio.

Infine, in materia di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione rileva anche la norma di cui all'art. 1338 c.c., secondo cui «la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa d'invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte, è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per aver confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto».

La norma intende tutelare il contraente, al quale sia stata taciuta una causa di invalidità del contratto. La giurisprudenza, nella pratica, tende a restringere l'area di applicabilità della norma nei confronti della pubblica amministrazione e a dilatarla nei confronti del privato in tutti i casi in cui questi avrebbe potuto, con l'ordinaria diligenza, venire a conoscenza della causa di invalidità del contratto (Cerulli Irelli, 561).

Infatti, Cass. n. 1987/1985 (adde Cass. III, n. 10156/2016) ha statuito nel senso che «se vi è colpa da parte sua (del contraente privato), se cioè egli avrebbe potuto, con l'ordinaria diligenza, venire a conoscenza della reale situazione e, quindi, della causa di invalidità del contratto, non è più possibile applicare la norma». In tal caso, infatti, alcuna legittima aspettativa di positiva conclusione del contratto può dirsi sorta a suo favore.

Questioni applicative.

1) Quali sono le modalità del subentro nel contratto di appalto, a seguito della dichiarazione giudiziale di inefficacia dell'originario contratto?

Sulle modalità del subentro nel contratto di appalto, a seguito della dichiarazione giudiziale di inefficacia dell'originario contratto, si prospetta l'alternativa se il subentro debba avvenire alle medesime condizioni, tecniche ed economiche, contenute nell'originario contratto dichiarato inefficace oppure alle condizioni originariamente offerte dal subentrante, le quali soltanto permetterebbero a quest'ultimo, vittorioso in giudizio, di conseguire piena ed effettiva tutela giurisdizionale. Sul punto si registra un difforme orientamento della giurisprudenza amministrativa.

Un primo orientamento è nel senso che il subentro nel contratto, come in tutte le ipotesi di successione a titolo particolare nel rapporto negoziale, deve operare in relazione alle condizioni del contratto originario dichiarato inefficace, perché è quel rapporto negoziale che la norma comunitaria e nazionale intende preservare, in alternativa alla conservazione dell'efficacia del contratto con contestuale risarcimento dei danni dell'impresa illegittimamente pretermessa (Cons. St. V, n. 5591/2012; T.A.R. Lombardia, Milano, n. 2546/2018).

Altro orientamento, invece, è nel senso che a mente dell'art. 122 c.p.a., il subentro nel contratto va inteso in senso atecnico, ovvero non come successione nel medesimo rapporto contrattuale intercorso con l'originario aggiudicatario – che anzi viene meno all'esito del giudicato amministrativo – bensì come necessità di stipulare un nuovo contratto che consenta di completare le prestazioni residue; d'altra parte, per ineludibili esigenze di rispetto della par condicio, il subentrante non può conseguire un beneficio maggiore rispetto a quello che avrebbe avuto se fosse risultato aggiudicatario ab initio, sicché la sostituzione deve avvenire secondo le condizioni della gara originaria e l'offerta fatta dal subentrante in quella originaria gara (Cons. St. V, n. 5404/2015). Di recente, Cons. St. V, n. 2476/2021 ha riesaminato funditus la questione evidenziando che la fonte del subentro non è costituita dall'art. 140 d.lgs. n. 163/2006, bensì dall'art. 124 del c.p.a., che riguarda la domanda di conseguire l'aggiudicazione, condizionatamente alla dichiarazione di inefficacia del contratto. In tale prospettiva – ha chiarito il Consiglio di Stato – il subentro configura non già una distinta procedura di affidamento (v. rubrica art. 140 d.lgs. 163/2006), bensì uno strumento di tutela in forma specifica (art. 124 c.p.a.) volto ad assicurare il medesimo bene che sarebbe originariamente spettato al ricorrente in assenza dell'errore commesso dall'amministrazione: per questo l'aggiudicazione domandata dal ricorrente e accordata dal giudice (i.e., il c.d. subentro) non può che avvenire alle condizioni di offerta dello stesso ricorrente, ripristinando così in natura la situazione del corretto affidamento, con emendatio dell'errore verificatosi nell'esercizio dell'azione amministrativa.

2) Una volta annullata l'aggiudicazione dal giudice amministrativo e disposto, in quanto possibile, il subentro nel contratto quali sono i criteri di liquidazione del risarcimento del danno per equivalente in riferimento alla parte del contratto che ha già avuto esecuzione?

Ai sensi dell'art. 122 c.p.a., fuori dei casi indicati dall'articolo 121, comma 1, e dall'articolo 123, comma 3, una volta annullata l'aggiudicazione definitiva, il Giudice amministrativo può disporre il subentro del ricorrente nel contratto, nell'ipotesi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporta l'obbligo di rinnovare la gara, la domanda di subentro sia stata proposta e lo stato di esecuzione del contratto e la tipologia stessa del contratto consente tale subentro. Il subentro decorre, naturalmente, dalla comunicazione ovvero dalla notificazione della predetta sentenza alla p.a.

Con riferimento all'esame della domanda risarcitoria ex art. 124 c.p.a., poiché il Giudice non può dichiarare l'inefficacia della parte del contratto che ha già avuto esecuzione, la domanda risarcitoria deve trovare pieno ingresso e piena considerazione in relazione a tale parte del contratto. Dunque, in riferimento alla parte del contratto che ha già avuto esecuzione può disporsi il risarcimento del danno per equivalente ex art. 2043 c.c., sussistendovi tutti i presupposti (illegittimità dell'aggiudicazione, nesso di causalità, colpa in re ipsa trattandosi di appalti pubblici – Cons. St. V, n. 5686/2012; Cons. St. V, n. 3220/2014).

Ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a. il Giudice può stabilire i criteri in base ai quali la P.A. deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine a titolo di risarcimento danni.

Nel caso di specie, è possibile stabilire i seguenti criteri:

a) non costituisce criterio oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata la richiesta di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, essendo invece necessaria la prova documentata, a carico dell'impresa, della percentuale di utile che avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto (cfr. Cons. St. V, n. 5686/2012) nel periodo intercorrente tra l'avvio del servizio e il subentro sopra indicato;

b ) la percentuale di utile che avrebbe conseguito l'aggiudicataria deve essere parametrata al periodo intercorrente tra l'avvio del servizio e il subentro sopra indicato;

c ) il mancato utile spetta nella misura integrale solo se la concorrente dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare mezzi e maestranze, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione; in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, con la conseguente decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum (Cons. St. V, n. 5686/2012);

d ) per quanto riguarda il danno emergente, la partecipazione alle gare pubbliche di appalto implica per le imprese la sopportazione di costi che, di norma, restano a carico delle imprese medesime, sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione; quindi nulla è dovuto a tale titolo (Cons. St. VI, n. 4392/2013);

e ) in sede di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata aggiudicazione di una gara di appalto, è onere dell'interessato richiedere in sede giurisdizionale il risarcimento del c.d. danno curriculare (come nella specie) e fornirne adeguatamente la relativa prova (Cons. St. VI, n. 7004/2010);

f ) per liquidare l'obbligazione di risarcimento del danno da fatto illecito, il giudice deve effettuare una duplice operazione; innanzitutto va reintegrato il danneggiato nella stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato se il danno non fosse stato prodotto, dovendosi così provvedere alla rivalutazione del credito, cioè alla trasformazione dell'importo del credito originario in valori monetari correnti alla data in cui è compiuta la liquidazione giudiziale; normalmente questa operazione viene effettuata avvalendosi del coefficiente di rivalutazione elaborato dall'Istat, applicando l'indice dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati, se non dimostrato un diverso indice di rivalutazione. In secondo luogo, dovrà calcolarsi il c.d. danno da ritardo, utilizzando il metodo consistente nell'attribuzione degli interessi (c.d. compensativi), da calcolare secondo i criteri già fissati dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 1712/95), secondo cui gli interessi (ad un tasso non necessariamente corrispondente a quello legale) vanno calcolati dalla data del fatto non sulla somma complessiva rivalutata alla data della liquidazione, bensì sulla somma originaria rivalutata anno dopo anno, cioè con riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la predetta somma si incrementa nominalmente in base agli indici di rivalutazione monetaria (cfr. Cons. St. V, n. 5686/2012).

Pertanto, sempre ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a., le parti devono giungere ad un accordo sulla base di detti criteri; in difetto, con il ricorso per ottemperanza possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti.

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