Codice Penale art. 479 - Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici.

Angelo Salerno

Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici.

[I]. Il pubblico ufficiale [357], che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476 [487, 493; 1127 c. nav.].

competenza: Trib. monocratico (udienza prelim.)

arresto: facoltativo

fermo: consentito (in relazione all'art. 4762)

custodia cautelare in carcere: consentita

altre misure cautelari personali: consentite

procedibilità: d'ufficio

Inquadramento

Il Titolo VII del Libro II del Codice penale disciplina i delitti contro la fede pubblica, per tale dovendosi intendere la fiducia che la collettività ripone nella veridicità o autenticità di un determinato oggetto (monete, titoli di credito), simbolo (sigilli, segni di autenticazione) o documento, rendendo così certi, rapidi e sicuri i traffici economico-giuridici.

In tal senso si legge nella Relazione ministeriale al progetto definitivo del Codice penale del 1930, che «il concetto di fede pubblica è inteso come la [...] fiducia che la società ripone negli oggetti, segni e forme esteriori (monete, emblemi, documenti) ai quali l'ordinamento giuridico attribuisce un valore importante».

I delitti disciplinati nel Titolo VII non sono omogenei tra loro, tanto sul piano delle condotte punite, quanto in relazione alla struttura del reato, come emerge dalla suddivisione in quattro tipologie di falsità previste nei rispettivi Capi e disciplinate secondo una partizione legata all'oggetto materiale del reato.

Il Capo III del Titolo VII, che assume rilievo in questa sede, disciplina le fattispecie che abbiano ad oggetto un documento, le quali assumono rilevanza centrale nella società moderna, in cui i traffici economici debbono necessariamente fare ricorso a strumenti (oggi anche informatici e telematici) idonei a documentare in maniera certa e durevole gli atti giuridici e le posizioni giuridiche che ne discendono. Su tali strumenti i consociati debbono poter fare affidamento, in cui consiste la pubblica fede.

In ordine al bene giuridico tutelato, è stata elaborata una concezione pluri-offensiva dei delitti di falso, che affianca i beni giuridici di volta in volta lesi o esposti in pericolo dalle singole fattispecie criminose, quali l'identità personale, il patrimonio e il buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Sul punto si sono espresse altresì le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 46982 /2007, componendo il contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità.

Un primo orientamento assegnava infatti rilevanza esclusiva all'interesse pubblico, ritenendo bene giuridico tutelato in via esclusiva la fede pubblica, quale esigenza dei cittadini di poter fare affidamento sulla genuinità e veridicità di atti e documenti che hanno rilevanza pubblica; seguendo tale impostazione, l'interesse del privato assume una rilevanza solo indiretta e questi non può rivestire il ruolo di persona offesa e godere delle facoltà ad essa riconosciute dall'ordinamento, dovendosi al più qualificare come persona danneggiata dal reato (Cass. pen. V, ord. n. 45721/2015).

L'opposto orientamento, pur considerando la fede pubblica il principale oggetto di tutela, ritiene tuttavia che, non potendo prescindersi dalla relazione che intercorre tra l'atto non genuino e il privato che abbia riposto su di esso il proprio affidamento e sulla cui sfera giuridica la falsità vada in concreto ad incidere, dovrebbe riconoscersi ai delitti contro la fede pubblica natura pluri-offensiva e ritenere il privato persona offesa, con tutte le facoltà che ne conseguono sul piano procedimentale (Cass. pen. V, n. 28989/2006).

Le Sezioni Unite, con la sopra citata sentenza del 2007, hanno rilevato che nella realtà il falso non risulta quasi mai fine a sé stesso, costituendo il più delle volte il mezzo per conseguire un ulteriore obiettivo, che rappresenta il vero scopo rispetto alla immutatio veri. Nella sentenza viene inoltre valorizzata la disposizione dell'art. 493-bisc.p., introdotta con l. n. 689/1981, che ha subordinato al regime della perseguibilità a querela della persona offesa alcune ipotesi di falso in atti privati. Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha dunque aderito al secondo orientamento, affermando la natura pluri-offensiva dei delitti in esame.

Così ricostruita la natura della categoria di reati in esame e individuati i beni giuridici tutelati dalle fattispecie di cui al Titolo VII del Libro II del Codice penale, può darsi brevemente atto della questione che interessa in maniera trasversale le fattispecie in questione, relativa alla compatibilità con determinate condotte di falso con il principio di offensività.

Proprio in forza di tale principio, sono state elaborate dalla dottrina (Giacona, 491; De Marsico, 560) e recepite dalla giurisprudenza le figure non penalmente rilevanti del falso grossolano, del falso inutile e del falso innocuo, al fine di sottrarre alla sanzione penale condotte che, anche se astrattamente sussumibili nella fattispecie incriminatrice, non possono ritenersi punibili per mancanza dell'inidoneità ad offendere, in concreto, gli interessi protetti dalle diverse ipotesi di reato.

Il falso grossolano si configura quando la falsificazione è talmente approssimativa da risultare immediatamente riconoscibile e, di conseguenza, incapace di trarre in inganno qualcuno (Cass. pen. V, n. 36647/2008), ed è pertanto riconducibile alle ipotesi di reato impossibile per inidoneità della condotta, ex art. 49 c.p.

La giurisprudenza ha tuttavia precisato che la contraffazione grossolana si verifica solo quando il falso sia riconoscibile ictu oculi da qualsiasi persona di comune discernimento, ossia quando non debba farsi riferimento alla competenza di soggetti qualificati, né alla straordinaria diligenza di certe persone (Cass. pen. I, n. 41108/2011), così da escludere anche la sola possibilità e non solo la probabilità dell'inganno (Cass. pen. VI, n. 37019/2010).

Deve invece ritenersi inutile il falso che, pur idoneo sul piano materiale a trarre in inganno i terzi (fuori dunque dalle ipotesi di falso grossolano), riguardi un documento o una parte di esso irrilevante o ininfluente rispetto all'efficacia probante e fidefacente dell'atto stesso; si pensi al caso in cui il falsario modifichi l'anno di emissione di una banconota autentica o al falso commesso dal pubblico ufficiale che corregga, immediatamente dopo la pubblicazione, il proprio nominativo in calce a un documento, eliminando un errore o l'anno nella data del documento, indicato erroneamente.

In siffatte ipotesi si configura un reato impossibile per l'inesistenza dell'oggetto.

Deve infine darsi atto del c.d. falso innocuo, che ricorre quando la falsificazione, pur essendo astrattamente idonea ad ingannare, non assume in concreto rilevanza alcuna in ordine ai possibili effetti del falso su una data situazione giuridica.

Si tratta dunque un falso astrattamente utile e idoneo ad ingannare il pubblico, rivelatosi tuttavia in concreto privo di qualsiasi incidenza sulla sfera giuridica di chicchessia e quindi penalmente irrilevante. A differenza del falso grossolano, dunque, non riguarda la forma o l'aspetto materiale del falso ma i suoi effetti, sul piano giuridico.

A titolo esemplificativo, la giurisprudenza ha di recente affermato che «In tema di falso documentale, costituisce falso innocuo la contraffazione di un'autorizzazione amministrativa non più richiesta ai fini dell'espletamento di una determinata attività in seguito all'abrogazione della norma che la prevedeva» (Cass. pen. V, n. 52742/2017).

La nozione di documento e di atto pubblico

Prendendo in esame le caratteristiche dei delitti di cui al Capo III del Titolo VII, dedicato alla falsità in atti o documentale, cui appartengono le fattispecie in esame, occorre evidenziare che il Codice penale non detta una definizione generale di documento, operando riferimenti a varie figure documentali (atti pubblici, scritture private, certificati amministrativi, ecc.).

I requisiti comuni dell'oggetto materiale delle condotte di falso sono stati pertanto individuati in via giurisprudenziale, estrapolandoli dalle figure criminose prese in considerazione dal legislatore e richiedendo che si tratti di un documento scritto, a prescindere dal supporto in cui è versato; che sia possibile individuarne la provenienza, attraverso l'intestazione o la sottoscrizione, anche in forma digitale; che abbia infine un contenuto giuridicamente rilevante, ricorrendo diversamente, in alternativa, le figure del falso inutile o del falso innocuo.

Con particolare riferimento all'atto pubblico, è prevalsa la tesi dell'autonomia della nozione in esame rispetto alla definizione dettata dagli artt. 2699 («L'atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato») e 2700 c.c. («L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti»).

Non è infatti richiesto, ai fini dell'integrazione delle relative fattispecie penali, che si tratti di un atto fidefacente, dal momento che, ad esempio, tale qualità integra un'aggravante per il delitto di cui all'art. 476 c.p. (su cui si tornerà nel prosieguo) e, nel contempo, viene assegnata rilevanza penale,exart. 493 c.p., anche alle condotte commesse dagli incaricati di un pubblico servizio che, per definizione, sono privi di poteri certificativi.

Per atto pubblico deve farsi dunque riferimento agli atti provenienti da un soggetto pubblico, secondo un criterio soggettivo, ovvero dal contenuto pubblicistico, quand'anche adottati da un soggetto formalmente privato, prescindendo invece dalla nozione civilistica e dagli effetti che ne derivano.

A questi si contrappongono le scritture private, consistenti invece in qualsiasi documento che provenga da un soggetto sprovvisto della qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio (in quanto privato o comunque operante al di fuori dell'esercizio delle proprie attribuzioni), nel quale sia racchiusa una dichiarazione di volontà o di scienza avente rilevanza giuridica, cioè riguardante qualsiasi circostanza idonea a spiegare effetti nell'ambito di un rapporto giuridico.

Si sovrappone invece alle predette nozioni quella trasversale, in quanto relativa al mezzo e non al contenuto o alla provenienza dell'atto, rappresentata dai documenti informatici, cui è dedicato l'art. 491-bis c.p., introdotto con l. n. 547/1993 e modificato con l. n. 48/2008, con cui è stata recepita la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica, firmata a Budapest il 23 novembre 2001.

L'art. 491-bis c.p. stabilisce che «se alcuna delle falsità previste dal presente capo riguarda un documento informatico pubblico o privato avente efficacia probatoria, si applicano le disposizioni del capo stesso concernenti rispettivamente gli atti pubblici e le scritture private».

Le forme del falso

Così delineato l'oggetto delle condotte di falso documentale, occorre dare brevemente atto delle modalità in cui può concretizzarsi la condotta criminosa, tradizionalmente distinte nelle forme del falso materiale e del falso ideologico, a seconda che la falsità investa la forma esteriore del documento (come la cancellazione di una parola) e sia quindi percepibile con i sensi, oppure il suo contenuto (come nel caso di un pubblico ufficiale che attesti cose non vere) e, pertanto, non possa essere rilevata immediatamente.

Tale definizione non sembra tuttavia prestarsi a ricomprendere l'ipotesi in cui il documento sia interamente falso e quindi non consenta di percepirne l'alterazione in via immediata.

È dunque prevalso il criterio che distingue in base agli effetti il falso materiale, che incide sulla genuinità del documento, e il falso ideologico, che compromette invece la veridicità dello stesso.

A tal fine si considera genuino il documento che non presenta una discordanza fra autore reale ed autore apparente, per effetto di contraffazione, e che dopo il suo confezionamento non abbia subito modifiche, mediante alterazione. Si considera, invece, veritiero il documento (genuino) che non contenga dichiarazioni non corrispondenti al vero.

Anche tale discrimen è stato tuttavia revocato in dubbio in quanto, ad esempio, ai sensi dell'art. 476 c.p., si configura un falso materiale nell'ipotesi in cui un pubblico ufficiale formi ex novo un atto falso, nonostante si tratti di un provvedimento genuino in quanto proveniente da chi è astrattamente legittimato a redigerlo, sicché dovrebbe ritenersi invece un falso ideologico, perché non veritiero nei contenuti.

È stato pertanto definito come falso materiale il confezionamento di un atto in assenza delle condizioni che legittimavano l'uso attuale dei poteri documentali, mentre quando sussistono tali condizioni ma il soggetto agente abusi del potere documentale si sarà in presenza di un falso ideologico.

Il soggetto attivo e passivo

Ricostruita la categoria dei delitti di falso e, più nello specifico, dei falsi in atti o documentali, può procedersi all'analisi delle singole fattispecie criminose, prendendo le mosse dall'art. 476 c.p., che punisce il falso materiale commesso da un pubblico ufficiale e prevede che «il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, è punito con la reclusione da uno a sei anni», stabilendo al comma secondo che «Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni».

Il delitto in esame configura un reato proprio, in quanto il soggetto attivo può essere solo il pubblico ufficiale che agisca nell'esercizio delle proprie funzioni.

Deve tuttavia richiamarsi, al riguardo, il disposto del già citato art. 493 c.p., rubricato «Falsità commesse da pubblici impiegati incaricati di un servizio pubblico», che estende l'ambito operativo delle «disposizioni degli articoli precedenti sulle falsità commesse da pubblici ufficiali» anche «agli impiegati dello Stato, o di un altro ente pubblico, incaricati di un pubblico servizio, relativamente agli atti che essi redigono nell'esercizio delle loro attribuzioni».

Il riferimento ad un «impiegato», incaricato di un pubblico servizio, richiede la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di un ente pubblico, sia esso di natura pubblicistica o privatistica, non consentendo dunque di applicare tout court la disposizione dell'art. 358 c.p.

Come si avrà modo di evidenziare, se la medesima condotta fosse commessa da un privato ovvero da un pubblico ufficiale (o un impiegato incaricato di un pubblico servizio) fuori delle proprie funzioni, ricorrerebbe l'ipotesi di cui all'art. 482 c.p.; deve pertanto qualificarsi il delitto ex art. 476 c.p. come reato proprio semi-esclusivo, in cui la qualifica soggettiva richiesta incide sul titolo del reato ma non sulla rilevanza penale del fatto.

Il soggetto passivo del reato va invece individuato nello Stato, quale ente esponenziale del bene super-individuale della fede pubblica, e nel contempo nel soggetto cui è riferibile il contenuto dell'atto oggetto della condotta di falso, ove individuabile.

La condotta criminosa

La condotta criminosa consiste nella formazione, totale o parziale, di un atto falso o nell'alterazione di un atto vero.

Per formazione di un atto falso deve intendersi la creazione di un atto prima non esistente, mentre la condotta di alterazione di un atto vero consiste nella modifica di un documento preesistente genuino e veritiero attraverso l'aggiunta, la sostituzione o la soppressione di alcune parti rilevanti di esso.

La formazione del falso può anche essere parziale, coesistendo in tal caso una parte genuina ed una parte falsa del medesimo documento.

L'elemento soggettivo

L'elemento soggettivo del reato è il dolo generico, che richiede la consapevolezza e la volontà da parte del soggetto agente di formare un atto falso o alterarne uno vero.

Consumazione e tentativo

La consumazione del reato va individuata nel luogo e nel momento in cui è stata operata la formazione dell'atto falso o l'alterazione dell'atto vero, indipendentemente dagli effetti dell'atto e dalla diffusione dello stesso, configurandosi dunque un delitto di danno, rispetto al quale il tentativo è pertanto configurale.

Questioni applicative

1) Come e quando va contestata l'aggravante della falsità in atto fidefacente?

L'art. 476, comma 2, c.p. prevede una circostanza aggravante speciale, indipendente e ad effetto speciale, che eleva la pena in quella della reclusione da tre a dieci anni, con effetti rilevanti anche in punto di prescrizione, oltre che processuali, nel caso in cui la falsità concerna un atto fidefacente fino a querela di falso.

Riguardo tale circostanza aggravante speciale, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione penale, con sentenza n. 24906/2019, sono di recente intervenute in relazione alle modalità con cui la stessa debba essere contestata dalla pubblica accusa.

Sul punto, le Sezioni Unite hanno affermato che non può essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ai sensi dell'art. 476 c.p., comma 2, qualora la natura fidefacente dell'atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione con la precisazione di tale natura o con formule alla stessa equivalenti, ovvero con l'indicazione espressa di tale disposizione.

A dispetto dell'apparente riferibilità della questione alla materia processuale, nell'affermare la necessità di una contestazione chiara e completa dell'imputazione, ivi comprese le circostanze aggravanti, in motivazione viene operata una importante distinzione tra le circostanze fondate su elementi descrittivi, legati cioè alla realtà materiale, rispetto alle aggravanti che presentano invece elementi normativi, che richiedono invece un processo logico-valutativo ulteriore.

Nel primo caso, secondo la Corte, una descrizione in fatto degli elementi materiali idonei a integrarle è sufficiente. In presenza invece di elementi normativi, come nel caso dell'aggravante di cui all'art. 476, comma 2, c.p., è necessario che nell'imputazione venga esplicitato il risultato dei processi logico-valutativi che consentono di ritenere sussistente l'aggravante.

La mera contestazione in fatto non consentirebbe infatti una univoca e precisa qualificazione della fattispecie penale ascritta all'indagato o imputato, con conseguente frustrazione dei diritti che la Costituzione e la Convenzione EDU gli riconoscono, e che solo un'espressa contestazione dell'aggravante in esame, con un richiamo univoco alla citata disposizione di legge, ovvero attraverso formule idonee ad esplicitarne la sussistenza (come il riferimento alla fede privilegiata dell'atto o alla necessità della querela di falso perché la sua funzione probatoria sia esclusa), soddisferebbe.

2) Il privato che rilasci false attestazioni può rispondere del falso in atto pubblico quale conseguenza del proprio comportamento ingannevole?

Le condotte di falsità ideologica di cui all'art. 479 c.p. sono altresì contemplate dall'art. 483 c.p., che punisce la falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico e dispone che «chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni», prevedendo al comma secondo che «Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile, la reclusione non può essere inferiore a tre mesi».

Si tratta tuttavia, come emerge dalla rubrica e dal testo della norma, di un reato ascrivibile al solo privato, e che non richiede una qualifica soggettiva specifica, configurando perciò un reato comune.

Il ruolo del pubblico ufficiale, in questo caso, è infatti quello di ricevere dal privato la falsa attestazione in merito a fatti di cui l'atto pubblico sia destinato a provare la verità, con aggravamento di pena ove le false attestazioni riguardano atti dello stato civile.

La fattispecie in questione è stata oggetto di un intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione penale, con sentenza n. 35488/2007, con cui i giudici di legittimità, in relazione al concorso tra falsa attestazione del privato e il reato di induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell'atto pubblico, di cui al combinato disposto dell'art. 48 c.p. con l'art. 479 c.p., hanno affermato che il delitto di falsa attestazione del privato può concorrere – quando la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato – con quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell'atto al quale l'attestazione inerisca, sempreché la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l'atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità.

Pertanto, il privato che attesti il falso in dichiarazioni sostitutive di certificazioni, rispondendo del reato di cui all'art. 483 c.p., risponde anche del reato di falso ideologico in atto pubblico exartt. 48 e 479 c.p. tutte le volte in cui, un pubblico ufficiale, adottando un provvedimento, a contenuto descrittivo o dispositivo, dia atto nella premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte dalle false attestazioni del privato. Quest'ultimo risponde di falso ideologico in atto pubblico in quanto decipiens (ingannatore) e autore delle false attestazioni, il pubblico ufficiale, a prescindere dell'assenza di dolo che caratterizza la sua condotta, in quanto deceptus (non ingannato) non ne risponde, secondo quanto disposto dall'art. 48 c.p.

3) È invocabile la scriminante dell'esercizio di un diritto, in specie di difesa, in favore dell'autore di falso che lo abbia realizzato per occultare le proprie responsabilità?

La Corte di cassazione è escluso che in relazione al delitto di falso in atto pubblico possa essere invocata la scriminante di cui all'art. 51 c.p., nella forma del principio “nemo tenetur se detegere”, per aver il pubblico ufficiale estensore dell'atto attestato il falso in ordine a quanto ivi rappresentato, al fine di non far emergere la propria responsabilità, non potendo la finalità probatoria dell'atto pubblico essere sacrificata all'interesse del singolo di sottrarsi alle conseguenze di un delitto (Cass. pen. V, n. 23672/2021).

Deve ritenersi che non possa tantomeno invocarsi lo stato di necessità, dal momento che il pericolo di incriminazione al quale il soggetto intendesse sottrarsi non rientra nell'ambito operativo dell'art. 54 c.p. e, nel contempo, il pericolo stesso dovrebbe considerarsi volontariamente causato.

Rapporti con altri reati

Falsità materiale commessa in certificati o autorizzazioni amministrative

L'analisi del delitto ex art. 476 c.p. può completarsi delineando i confini con le fattispecie limitrofe, tra cui il reato di falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative, di cui all'art. 477 c.p., in cui è previsto che «il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, contraffà o altera certificati o autorizzazioni amministrative, ovvero, mediante contraffazione o alterazione, fa apparire adempiute le condizioni richieste per la loro validità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni».

Nonostante la diversa formulazione della disposizione, la sua struttura ricalca quella del delitto ex art. 476 c.p., rispetto al quale, come può evincersi già dalla rubrica dell'art. 477 c.p., tale ultima fattispecie si differenzia per l'oggetto materiale della condotta, consistente in «certificati o autorizzazioni amministrative».

Ne consegue un rapporto di specialità tra le due disposizioni incriminatrici, che impone di fare applicazione della lex specialis e quindi dell'art. 477 c.p.

Falsità materiale commessa in copie autentiche

Anche con riferimento al delitto di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in attestati del contenuto di atti, di cui all'art. 478 c.p., il legislatore prevede una fattispecie che si differenzia dal delitto ex art. 476 c.p. in ragione dell'oggetto materiale della condotta criminosa.

L'art. 478 c.p. dispone che «il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, supponendo esistente un atto pubblico o privato, ne simula una copia e la rilascia in forma legale, ovvero rilascia una copia di un atto pubblico o privato diversa dall'originale, è punito con la reclusione da uno a quattro anni». I successivi commi prevedono inoltre che «Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a otto anni», mentre «Se la falsità è commessa dal pubblico ufficiale in un attestato sul contenuto di atti, pubblici o privati, la pena è della reclusione da uno a tre anni».

Le condotte criminose in questo caso sono invero tre, consistenti nel rilascio di una copia simulata di un atti pubblico o privato supposto come esistente, quando il soggetto agente crei una copia di un atto inesistente, anche solo sul piano giuridico; ovvero nel rilascio di una copia di un atto pubblico o privato diversa dall'originale, in relazione alla quale la difformità può essere anche soltanto parziale, purché incida sul significato dell'atto rendendolo suscettibile di produrre effetti giuridici diversi; o infine nella falsificazione di un attestato sul contenuto di atti.

In particolare, per copie autentiche, cui fa riferimento la rubrica dell'art. 478 c.p., devono intendersi riproduzioni fedeli, effettuate con qualsiasi mezzo meccanico o informatico, di un atto pubblico o privato e rilasciate da un pubblico ufficiale che ne attesti la conformità all'originale. Diversi invece gli attestati, consistenti in certificazioni sintetiche o parziali (mentre la copia è integrale) del contenuto di un atto. Sono questi dunque gli elementi distintivi rispetto al delitto ex art. 476 c.p., al pari delle condotte specifiche sopra descritte, richieste dall'art. 478 c.p.

In merito alla possibilità di qualificare in termini di falso materiale della condotta di utilizzo di una fotocopia di un atto inesistente, si è ravvisato in giurisprudenza un contrasto tra l'indirizzo secondo cui il mero utilizzo della fotocopia contraffatta non integri il reato, se la fotocopia non presenta requisiti di forma e sostanza tali da farla apparire come il documento originale o come la copia autentica dello stesso, e l'orientamento secondo cui la formazione di un atto presentato come riproduzione fotostatica di un documento in realtà insussistente, del quale si intendano viceversa attestare l'esistenza e gli effetti probatori, integra il reato di falso.

Sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione penale, con sentenza n. 35814/2019, aderendo alla prima impostazione, secondo cui la formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che tale copia assuma l'apparenza di un atto originale.

La falsità materiale commessa dal privato

Deve per completezza darsi atto del disposto dell'art. 482 c.p., che disciplina il delitto di falsità materiale commessa dal privato, prevedendo che «Se alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 476, 477 e 478 è commesso da un privato, ovvero da un pubblico ufficiale fuori dell'esercizio delle sue funzioni, si applicano rispettivamente le pene stabilite nei detti articoli, ridotte di un terzo».

Ebbene, stante il richiamo integrale al delitto di cui all'art. 476 c.p., da cui si differenzia per via del soggetto attivo, individuato nel privato ovvero nel pubblico ufficiale che però abbia agito fuori dell'esercizio delle proprie funzioni, la fattispecieexart. 482 c.p. si pone in rapporto di alternatività con quellaexart. 476 c.p.

La falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici

Al delitto di falsità materiale ex art. 476 c.p., si contrappone la fattispecie di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, di cui all'art. 479 c.p., ai sensi del quale «il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476».

Pur a fronte di una diversa modalità di aggressione, consistente nella falsità ideologica, il delitto in esame condivide il medesimo bene giuridico tutelato con il sopra esaminato art. 476 c.p.

Anche in questo caso si tratta di un reato proprio, in quanto il soggetto attivo può essere esclusivamente un pubblico ufficiale ovvero, ex art. 493 cit., un impiegato di ente pubblico, incaricato di un pubblico servizio.

La condotta criminosa presuppone che il reo agisca nell'esercizio delle proprie funzioni, nell'ambito del quale deve aver ricevuto o formato l'atto che, pertanto, deve a propria volta rientrare nella competenza funzionale del soggetto che la compie.

La norma incriminatrice descrive quattro condotte alternative, la prima delle quali consiste nella falsa attestazione da parte del pubblico ufficiale che un fatto è stato compiuto dal pubblico ufficiale o è avvenuta alla sua presenza: in questo caso dunque il pubblico ufficiale attesta un fatto falso, che egli non abbia in realtà compiuto o che non sia avvenuto in sua presenza.

La seconda condotta criminosa prevista dall'art. 476 c.p. riguarda invece la falsa attestazione da parte del Pubblico Ufficiale di aver ricevuto delle dichiarazioni a lui non rese.

Integra del pari il delitto in esame l'omissione o l'alterazione di dichiarazioni ricevute, come nel caso in cui la verbalizzazione sia volutamente incompleta ovvero non corrispondente a quanto dichiarato da un terzo al pubblico ufficiale.

Viene infine prevista la condotta di falsa attestazione di fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, come ad esempio l'orario dell'arresto, in relazione all'esempio precedente, alterato dal pubblico ufficiale per occultare la scadenza dei termini di presentazione dell'arrestato all'Autorità giudiziaria.

In relazione al soggetto passivo del reato, si rinvia a quanto esposto in precedenza, relativamente all'art. 476 c.p., e in sede introduttiva.

L'elemento soggettivo del reato è, anche in questo caso, il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di attestare il falso o di omettere o alterare le dichiarazioni ricevute, e tanto a prescindere dalle ragioni che abbiano mosso il reo, rilevanti al più ai fini della quantificazione della pena.

La consumazione del delitto coincide con la sottoscrizione del documento; controversa l'ammissibilità del tentativo, che potrebbe configurarsi allorché il pubblico ufficiale firmi in bianco un'attestazione, delegando altri al riempimento del relativo modulo, qualora siffatto riempimento non abbia avuto luogo. Invero si è opposto che la struttura della fattispecie, che configura un reato unisussistente, non consentirebbe di punire il delitto in esame in forma tentata.

In ordine alla fattispecie in esame, si è posto il problema di stabilire se, dal momento che l'art. 479 c.p. richiama integralmente l'art. 476 c.p.quoad poenam, debba farsi riferimento all'ipotesi semplice ovvero aggravata di quest'ultimo delitto.

La formulazione dell'art. 479 c.p.sembra prendere direttamente in considerazione il carattere fidefacente dell'atto oggetto della condotta di falso, attraverso l'espressione «attesta» o quantomeno nell'ultima parte, con riferimento ai «fatti di cui l'atto è destinato a provare la verità» che «comunque» il reo attesti falsamente.

Ne consegue il riferimento alle pene aggravate di cui al comma secondo dell'art. 476 c.p., relative proprio alle ipotesi di falso avente ad oggetto un atto fidefacente.

Secondo l'indirizzo maggioritario non può invece sovrapporsi il concetto di atto fidefacente, di cui all'art. 476, comma 2, c.p., a quello di atto pubblico richiamato peraltro nella rubrica di cui all'art. 479 c.p., con la conseguenza che la pena individuata per relationem corrisponderà a quella di cui al comma primo dell'art. 476 c.p. e, solo laddove si sia effettivamente in presenza di un atto fidefacente (che cioè faccia fede fino a querela di falso), troverà applicazione – ove correttamente contestata al reo – la più severa disciplina sanzionatoria di cui al comma secondo.

Non a caso infatti il delitto in questione può essere commesso anche dall'incaricato di un pubblico servizio, cui non è riferibile la più grave condotta di cui all'art. 476, comma secondo, c.p.

Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità

Alle medesime conclusioni, nel senso dell'applicazione del principio di specialità ex art. 15 c.p., deve infine pervenirsi riguardo alla fattispecie di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, di cui all'art. 481 c.p., che punisce «chiunque, nell'esercizio di una professione sanitaria o forense o di un altro servizio di pubblica necessità attesta falsamente in un certificato, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità», con le pene della «reclusione fino a un anno o con la multa da euro 51 a euro 516», che trovano congiunta applicazione «se il fatto è commesso a scopo di lucro».

Anche la fattispecie ex art. 481 c.p. si distingue infatti per il proprio oggetto materiale, individuato nei certificati, cui si aggiunge, quale elemento di specialità ulteriore, il soggetto attivo, che deve assumere le vesti del sanitario ovvero di un legale o di un esercente un servizio di pubblica necessità, di cui all'art. 359 c.p.

Bibliografia

De Marsico, voce Falsità in atti, in Enc. dir., XVI, 1968; Giacona, Appunti in tema di falso c.d. grossolano, innocuo ed inutile, in Foro it. 1993.

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