Codice Penale art. 318 - Corruzione per l'esercizio della funzione 12.

Angelo Salerno

Corruzione per l'esercizio della funzione 12.

[I]. Il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da tre a otto anni 3.

 

competenza: Trib. collegiale

arresto: facoltativo

fermo: consentito

custodia cautelare in carcere: consentita

altre misure cautelari personali: consentite

procedibilità: d'ufficio

[1] Articolo così sostituito dall'art. 1, comma 75, l. 6 novembre 2012, n. 190. Il testo recitava: «Corruzione per un atto d'ufficio. [I]. Il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. [II]. Se il pubblico ufficiale riceve la retribuzione per un atto d'ufficio da lui già compiuto, la pena è della reclusione fino ad un anno». Precedentemente l'articolo era già stato sostituito dall'art. 6 l. 26 aprile 1990, n. 86.

[2] Per la confisca di denaro, beni o altre utilità di non giustificata provenienza, nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta, v. ora artt. 240-bis c.p., 85-bis d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e 301, comma 5-bis,d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (per la precedente disciplina, v. l'art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv., con modif., in l. 7 agosto 1992, n. 356).

[3] Le parole «da tre a otto anni» sono state sostituite alle parole «da uno a sei anni» dall'art. 1, comma 1, lett. n), l. 9 gennaio 2019, n. 3, in vigore dal 31 gennaio 2019.  Precedentemente l'art. 1 l. 27 maggio 2015, n. 69, aveva sostituito le parole «da uno a cinque anni» con le parole «da uno a sei anni».

Inquadramento

Ai sensi dell'art. 318 c.p. «il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da tre a otto anni».

La disposizione in esame ha subito una riscrittura ad opera della l. n. 190/2012 seguito da nuovi interventi di inasprimento punitivo, dapprima ad opera della l. n. 69/2015 e quindi con la l. n. 3 del 2019, c.d. «spazza-corrotti».

La formulazione previgente dell'art. 318 c.p., rubricato «corruzione per un atto d'ufficio», puniva, con la reclusione da sei mesi a tre anni (impedendo così quindi intercettazioni e misure cautelari personali coercitive), il pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, ricevesse o accettasse la promessa, per sé o per un terzo, di una retribuzione non dovuta, in denaro o altra utilità. A tale forma di corruzione, c.d. impropria antecedente, si contrapponeva la corruzione impropria susseguente, che si configurava qualora il fatto fosse stato commesso dopo il compimento dell'atto dovuto, la pena non superava un anno di reclusione. In tal caso il privato andava esente da responsabilità penale.

Oggi l'art. 318 c.p. punisce la «corruzione per l'esercizio della funzione», prescindendo dal compimento di uno specifico atto d'ufficio e sanzionando la generica disponibilità retribuita del soggetto pubblico (c.d. «messa a libro paga»). Essendo dunque venuto meno ogni riferimento ad un atto determinato, il disvalore del fatto ruota tutto intorno all'indebita remunerazione per l'esercizio delle funzioni, prescindendo da profili cronologici relativi al compimento o meno dell'atto. Viene infatti meno la distinzione tra corruzione antecedente e susseguente, anche in relazione alla punibilità del privato, in ogni caso prevista, come stabilito dall'art. 321 c.p.

La fattispecie introdotta dalla l. n. 190 è stata considerata dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria come norma meramente modificativa rispetto a quella previgente, rispetto alla quale è stato ritenuto sussistente un rapporto di continuità normativa. Ne consegue l'applicazione della disciplina più favorevole, ex art. 2, comma 4, c.p., sicuramente coincidente con l'originaria formulazione.

Rispetto a quest'ultima assumono, invece, carattere di nuova incriminazione la responsabilità del corrotto per aver ricevuto utilità in ragione di una generica disponibilità nei confronti del corruttore, con riferimento all'esercizio della propria funzione, dal momento che in precedenza era necessario che la retribuzione fosse collegata al compimento di un atto dell'ufficio.

Del pari configura una nuova incriminazione, irretroattiva, la responsabilità del privato in relazione alle ipotesi prima rientranti nella ex corruzione impropria susseguente, oggi penalmente rilevanti.

Il bene giuridico tutelato dalla disposizione oggi vigente viene individuato nel buon andamento (Antolisei, 227) e nella imparzialità (Fiandaca, Musco, 227) dell'azione amministrativa, nonché nel prestigio della Pubblica Amministrazione (Manzini, 219).

Il soggetto attivo e passivo

In merito al soggetto attivo del delitto in esame, occorre evidenziare che l'art. 318 c.p. fa esclusivamente riferimento al «pubblico ufficiale», cui tuttavia l'art. 320 c.p. affianca l'incaricato di un pubblico servizio, prevedendo tuttavia una riduzione della pena edittale fino a un terzo.

Ai sensi dell'art. 321 c.p., inoltre, prevede che le medesime pene stabilite per il delitto ex art. 318 c.p. (ivi compresa l'ipotesi di commissione del delitto da parte dell'incaricato di un pubblico servizio), «si applicano anche a chi dà o promette al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio il denaro od altra utilità». Ne consegue la responsabilità penale altresì per il corruttore, secondo il già menzionato schema del reato plurisoggettivo necessario proprio, in cui ogni soggetto coinvolto nel fatto tipico ne risponde penalmente.

La fattispecie di corruzione ex art. 318 c.p. può essere realizzata anche attraverso l'intermediazione di un terzo, che metta in comunicazione il pubblico funzionario ed il privato corruttore, concorrendo nel delitto.

La giurisprudenza ritiene infatti che ai fini della sussistenza del delitto di corruzione non occorra un contatto diretto tra il pubblico ufficiale e il privato, purché risulti che anche il pubblico ufficiale sia consenziente al patto corruttivo (Cass. pen. VI, n. 33435/2006). In siffatte ipotesi si pongono i medesimi problemi, già esaminati, in relazione alla colpevolezza e al contributo materiale del concorrente extraneus, privo cioè della qualifica di pubblico ufficiale.

Stante la punibilità del privato corruttore, unitamente al corrotto, il soggetto passivo del delitto in esame va individuato esclusivamente nella Pubblica Amministrazione nell'ambito della quale operi il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio.

La condotta criminosa

La condotta criminosa consiste per il pubblico ufficiale nel ricevere, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità ovvero nell'accettazione della promessa, mentre il privato risponde specularmente della dazione o della promessa di denaro o altra utilità.

La promessa e la relativa accettazione non richiedono alcuna forma specifica, ben potendo essere apprezzate dal comportamento concludente delle parti (si pensi al privato corruttore che lasci decorrere il termine di usucapione di un fondo in favore del pubblico ufficiale corrotto).

La previgente formulazione della norma incriminatrice faceva riferimento ad una «retribuzione » non dovuta per il compimento di un atto dell'ufficio, evocando un rapporto sinallagmatico tra il privato e il pubblico ufficiale, caratterizzato dalla proporzionalità tra le due prestazioni.

Veniva pertanto esclusa la rilevanza penale della corresponsione di doni occasionali e di modesto valore, da parte del privato, per usanza o cortesia (Cass. pen. VI, n. 2804/1995).

Nell'attuale versione dell'art. 318 c.p. è venuto meno il riferimento alla retribuzione, sì da revocare in dubbio altresì il requisito di proporzione, che peraltro non trova più, come anticipato, il proprio termine di paragone in uno specifico atto dell'ufficio.

È stato tuttavia ritenuto che l'esclusione della rilevanza penale di promesse o dazioni di modico valore possa fondarsi – fermo ogni profilo quantomeno disciplinare – sulla inidoneità della condotta ad influire sull'esercizio della funzione, secondo il principio di offensività in concreto (Pulitanò, 8).

Sul punto, inoltre, la giurisprudenza ha osservato che, benché la proporzionalità tra le prestazioni non sia un elemento costitutivo del reato di corruzione per l'esercizio della funzione, tuttavia l'irrisorietà dell'utilità conseguita rispetto alla rilevanza dell'atto amministrativo compiuto, rileva sul piano probatorio dell'esistenza del nesso sinallagmatico con l'esercizio della funzione, il cui mercimonio integra il disvalore del fatto punito dall'art. 318 c.p.: la verifica della corrispettività si impone come elemento discretivo tra le condotte penalmente rilevanti e quelle che possono assumere mero rilievo disciplinare (Cass. pen. VI, n. 7007/2021).

Oggetto della dazione o promessa da parte del corruttore è oggi espressamente individuato nel danaro o in «altra utilità», sì da ricomprendere, come già osservato in relazione alla fattispecie di concussione, ogni apprezzabile vantaggio per il reo, sia esso materiale o morale, patrimoniale o meno.

Al pari della concussione, la corruzione ex art. 318 c.p. richiede che la dazione o la promessa avvengano «indebitamente», in mancanza cioè di un titolo legittimo della prestazione.

Non occorre, nel contempo, individuare uno specifico atto o comportamento in ragione del quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto la dazione o la promessa da parte del privato corruttore, essendo invece sufficiente dimostrare che il pactum sceleris trovi la propria causa illecita nell'esercizio delle funzioni pubbliche: la fattispecie assume pertanto i tratti di un reato di pericolo.

È stato così recepito l'orientamento giurisprudenziale che aveva aggirato le difficoltà probatorie nell'individuazione dell'atto oggetto di mercimonio, ritenendo sufficiente fare riferimento alla competenza e alla sfera di attribuzioni del corrotto ( Cass. pen. VI, n. 32779/2012), assegnando rilevanza anche alla generica disponibilità del pubblico ufficiale ad assecondare le richieste del corruttore (Cass. pen. VI, n. 34834/2009).

L'elemento soggettivo

L'elemento soggettivo richiesto, tanto per il corruttore quanto per il corrotto, è il dolo generico.

Consumazione e tentativo

Il delitto si perfeziona nel momento e nel luogo in cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ricevano il denaro o altra utilità o ne accettino la promessa, concludendo così il pactum sceleris. La consumazione va individuata invece, stante la struttura a duplice schema o a condotta alternativa del delitto in esame, nel momento in cui avvenga integralmente la dazione. Non assume invece rilevanza il comportamento successivo all'accordo criminoso da parte del pubblico ufficiale, se non ai sensi dell'art. 133 c.p., nella quantificazione della pena.

Con riferimento alla consumazione e alla struttura del delitto di corruzione, deve evidenziarsi che tale fattispecie è tra le prime prese in considerazione dalla giurisprudenza (Cass. pen. VI, n. 34415/2008), di legittimità nell'elaborare la categoria dei reati «a duplice schema principale e sussidiario» e quindi a consumazione frazionata o prolungata, dal momento che al perfezionamento della fattispecie penale può seguire, anche a distanza di tempo, un aggravamento dell'offesa con consumazione del reato, configurabile anche in forma frazionata (si pensi al caso in cui alla promessa di dazione del danaro segua l'effettiva corresponsione ma in rate, ognuna delle quali aggrava l'offesa e sposta in avanti il momento della consumazione).

Tanto la natura del reato, di pericolo, quanto la sua struttura, che vede perfezionata la fattispecie anche solo con l'accettazione della promessa indebita, conducono a ritenere non configurabile il tentativo, potendosi al più ravvisare un'ipotesi di istigazione alla corruzione, su cui si tornerà nel prosieguo.

Questioni applicative

1) È configurabile il delitto di corruzione in assenza di un rapporto di proporzionalità e corrispettività tra l'esercizio del potere e l'utilità promessa od ottenuta?

La Corte di Cassazione ha escluso la sussistenza del reato di corruzione per il solo fatto che un professore universitario avesse ricevuto un incarico professionale da parte di un ente di natura pubblica e, in concomitanza con tale fatto, era stato conferito un incarico di insegnamento universitario, a titolo gratuito, al Presidente del consiglio di amministrazione del predetto ente, senza che fosse ravvisabile alcun rapporto di proporzionalità nell'ipotizzato scambio di utilità fra i predetti soggetti (Cass. pen. VI, n. 10084/20201).

I giudici di legittimità sono pervenuti a tale soluzione sul presupposto che, nella nozione di “altra utilità”, rientrano anche le prestazioni di natura non patrimoniale, assumendo rilievo, quale oggetto della dazione o promessa, qualsiasi vantaggio materiale o morale, che costituisca la controprestazione posta a base dell'accordo corruttivo, purché si trovi in un rapporto di proporzionale corrispettività rispetto all'esercizio dei poteri o della funzione, ovvero al compimento dell'atto contrario ai doveri d'ufficio.

La Corte ha invece ritenuto che l'assunzione di un lavoratore da parte della titolare di un'impresa di trasporti pubblici, a seguito dell'interessamento di un dirigente comunale, non fosse di per sé configurabile quale utilità derivante dal patto corruttivo, dovendosi accertare se l'atto di favoritismo trovasse autonoma giustificazione nella relazione sentimentale esistente tra il pubblico agente e la suddetta imprenditrice (Cass. pen. VI, n. 3765/2021).

Nelle motivazioni della sentenza si afferma, al riguardo, che il reato è configurabile a condizione che sussista un rapporto sinallagmatico tra il compimento dell'atto d'ufficio e la promessa o ricezione di un'utilità, la cui dazione deve rappresentare l'adempimento del patto corruttivo, non potendo quindi assumere rilievo ove derivi dagli stretti rapporti personali preesistenti tra il pubblico agente e il privato (Cass. pen. VI, n. 3765/2021).

Rapporti con altri reati

L'esame dei rapporti tra delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità, ex art. 319- quaterc.p., e il delitto di concussione, exart. 317 c.p., rispetto a quello di corruzione, ivi compresa la fattispecie in esame, sono oggetto di trattazione unitamente alle citate fattispecie, cui pertanto si rinvia.

Del pari, si rinvia all'esame del delitto di cui all'art. 319 c.p., di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, per l'esame dei rapporti con la fattispecie ex art. 318 c.p.

Bibliografia

Antolisei, Manuale di Diritto Penale - Parte speciale, vol. II, Milano, 1999; Fiandaca, Musco, Diritto Penale - Parte speciale, I, Milano, 2002; Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV, Torino, 1981; Pulitanò, Legge anticorruzione (L. 6 novembre 2012, n. 190), in Cass. pen. pen., supplemento al volume LII, 2012.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario