Danno al lavoratore tra mobbing e demansionamento: onere della prova e circostanze del caso concreto

20 Giugno 2022

La Cassazione ha chiarito che, nel liquidare il danno da demansionamento o dequalificazione, deve tenersi conto delle circostanze del caso concreto...
Massima

Nella liquidazione del danno da demansionamento o dequalificazione, deve tenersi conto delle circostanze del caso concreto, pur valorizzando o ritenendo preminenti alcune di esse in base a requisiti di precisione, gravità e concordanza.

Il caso

V.C. conveniva avanti il Tribunale di Viterbo l'ente provinciale datore di lavoro, unitamente al proprio superiore gerarchico, affinché venissero giudicati responsabili in relazione a condotte mobbizzanti asseritamente attuate in suo danno e quindi condannati al risarcimento.
Con lo stesso atto la dipendente, richiesti l'annullamento o disapplicazione della determina con cui le erano state sottratte cura e redazione della rassegna stampa, instava altresì per l'affidamento di mansioni coerenti con la propria professionalità.

Il giudice accoglieva in buona parte le richieste della lavoratrice. Disapplicato il provvedimento organizzativo presupposto, la dipendente veniva intanto reintegrata nelle funzioni di addetta stampa. Accertata inoltre l'adozione di un comportamento mobbizzante da parte del superiore, questi veniva condannato al risarcimento in solido con l'amministrazione, rea di non aver impedito – pur avendone contezza – gli atti abusivi del dirigente. Esclusa dall'istruttoria tecnica la sussistenza di postumi invalidanti, il danno veniva liquidato in via equitativa con il riconoscimento di una somma quota parte della retribuzione, commisurata alla durata delle condotte datoriali censurate. La decisione veniva impugnata dai convenuti e, in via incidentale, dalla lavoratrice.

La Corte di appello, accogliendo alcuni dei motivi di gravame degli appellanti principali, negava in primo luogo la possibilità di una reintegrazione di V.C. nelle funzioni pregresse. Veniva inoltre accolta la censura fatta valere in proprio dal dirigente, posto che l'assegnazione contestata dalla dipendente era stata in realtà adottata in esecuzione di un atto dello stesso ente provinciale, al quale egli si sarebbe semplicemente conformato. Ma la pronuncia veniva ulteriormente riformata anche in parziale accoglimento dell'appello incidentale della prestatrice di lavoro. Questa era stata infatti lasciata in una condizione di sostanziale inattività e di svuotamento dei compiti, realizzato anche mediante lo scollegamento dalla rete informatica, la mancanza di una postazione di lavoro e la privazione delle risorse per avviare e realizzare l'attività dell'U.R.P. Sicché, tenuto conto di ciascuna circostanza, la Corte capitolina rettificava in aumento la quantificazione del Tribunale, liquidando un danno commisurato - in questo caso - al 20% della retribuzione netta della lavoratrice maturata nel corso dell'intervenuto demansionamento, escludendo però ancora una volta la risarcibilità del danno biologico.

Avverso la sentenza proponeva ricorso di legittimità la Provincia, mentre resistevano con proprio controricorso V.C. e il dirigente. Oltre a dedurre un difetto di giurisdizione del giudice ordinario, l'ente censurava la decisione d'appello per non aver chiarito a quali provvedimenti illegittimi si fosse riferita nel ritenere accertato il demansionamento e, a mezzo di un ulteriore motivo, per non avere la corte romana reso adeguata dimostrazione del fatto che la condizione lamentata dalla dipendente fosse stata determinata da una volontà sistematica e ripetuta di danneggiarla ed emarginarla. La pronuncia veniva infine contestata anche sotto il profilo della prova del danno e della sua liquidazione. Le censure fatte valere dalla lavoratrice si appuntavano invece contro il diniego della reintegrazione nelle precedenti funzioni, ma soprattutto sul proscioglimento del proprio dirigente, che a suo dire non si sarebbe limitato ad una piana esecuzione dei deliberati amministrativi, ma avrebbe volutamente abusato del proprio potere direttivo in danno della sottoposta.

La decisione romana veniva da ultimo stigmatizzata anche in relazione alla congruità del quantum risarcitorio, non includendo questo alcun ristoro per il danno biologico allegato, ma fin dal primo momento escluso dal CTU nominato dal Tribunale.

La questione

I principali e opposti spunti problematici e di censura da ultimo sottoposti, nel merito, allo scrutinio dei Supremi giudici, benché valorizzati in prospettive antitetiche da ciascuno dei protagonisti della vicenda, attengono essenzialmente all'unica area tematica pertinente alla configurabilità del c.d. mobbing, alla prova del danno conseguente e alla sua commisurazione risarcitoria.

Le soluzioni giuridiche

I profili, più o meno implicitamente sottesi alla decisione in esame, sono molteplici.

Il primo di essi implica il tema della stessa identificazione delle rispettive fattispecie lesive astratte e dunque di individuazione (e prova) degli estremi minimi integranti le due figure e i loro reciproci elementi discretivi non di rado percepiti con qualche incertezza.

Il secondo attiene invece alla prova del danno e alla sua eventuale riparazione, con particolare riguardo alla quantificazione risarcitoria conseguente al positivo accertamento dell'illecito datoriale.

Per quanto riguarda la prima prospettiva, rimasta sostanzialmente sullo sfondo nella pronuncia in commento, mette conto evidenziare che i due istituti - mobbing e demansionamento – affini e spesso appaiati, ma talora impropriamente declinati come coessenziali, descrivono due distinte ipotesi dogmatiche a rigore non sovrapponibili.

La prima (cioè il mobbing) dilagata con alterne fortune nella prassi giudiziaria dell'ultimo ventennio (il primo precedente noto è rappresentato da una sentenza del Tribunale di Torino del 1999), rappresenta un fenomeno illecito complesso, peraltro non confinato nel solo dibattito giuslavoristico, la cui connotazione essenziale e più comune è costituita - in estrema sintesi - dall'esistenza di un consapevole disegno persecutorio datoriale in danno del lavoratore.

La seconda ipotesi, ovvero il demansionamento, può invece - ma non deve - essere sostenuto da alcun dolo specifico di vessazione, consistendo più semplicemente in una condotta materiale di violazione dei limiti dell'area della dequalificazione “autorizzata”, oggi posti dal “nuovo” art. 2103 c.c., come uscito dalle riforme del 2015. Come efficacemente esplicato da una recente pronuncia di legittimità (Cass. sez. lav., 8 aprile 2022, n. 11521) è soprattutto l'elemento psicologico a segnare il tratto distintivo tra le ipotesi di mera dequalificazione e quelle di mobbing in cui, sul piano strutturale, la prima costituisce solo il momento oggettivo che va però indefettibilmente corroborato, sul piano soggettivo, da una volontà persecutoria.

Si tratta dunque, per certi versi, di un rapporto tra genus e species, o se si preferisce tra mezzo e fine, in cui il demansionamento può - sì – astrattamente costituire uno dei possibili e più ricorrenti sostrati oggettivi di una più complessiva condotta mobbizzante, senza però necessariamente coincidere con essa o realizzarla. Accomunano invece più da vicino le due figure gli ulteriori profili della prova del danno e il governo della prova presuntiva, più direttamente scrutinati nell'ordinanza. E dunque, a tale riguardo, è sufficiente che il pregiudizio venga allegato mediante la semplice prospettazione dell'illecito presupposto, o è necessario che esso, venga anche espressamente provato?

Nella sentenza in esame, risolte talune questioni processuali relative ad una non sempre perspicua prospettazione in diritto dei contendenti, che ha di fatto inibito in limine l'esame di buona parte delle censure di merito da essi fatte valere, i giudici di piazza Cavour si soffermano in particolare sulla questione della prova e liquidazione del danno da demansionamento, confermando nella sostanza gli argomenti sviluppati dai giudici della decisione gravata.

I principi predicati dal Supremo Collegio si pongono in continuità con i prevalenti approdi della giurisprudenza nomofilattica e di merito (cfr., in questo senso, ex plurimis, App. Roma, Sez. lav. sent. 3 dicembre 2021, n. 4260), secondo cui il danno (conseguenza) risarcibile, vuoi da demansionamento, vuoi da mobbing, non è in re ipsa, ma va appunto rigorosamente dimostrato, se del caso anche con l'ausilio della prova presuntiva. E ciò mediante un vaglio delle “circostanze del caso concreto” e mercè una loro accurata selezione, individuando tra queste quelle ritenute “preminenti”, anche secondo un filtro di precisione, gravità e concordanza.

Non è del tutto chiaro se, tra queste, possa figurare, a monte del danno, anche la “circostanza” di un esito clinicamente rilevabile in danno alla lavoratrice, in questo caso quale ulteriore fatto dirimente e sintomatico della sussistenza di una condotta mobbizzante, derubricando, nella negativa, l'illecito a “semplice” demansionamento.

In realtà entrambe le condotte illecite datoriali hanno una pari attitudine plurioffensiva, potendo incidere, con pari efficacia lesiva, soprattutto in ipotesi estreme di svuotamento delle mansioni, sia su diritti patrimoniali che non patrimoniali (e dunque “biologici”) del lavoratore.

Sembra dunque preferibile, in linea con l'interpretazione maggioritaria del fenomeno, lasciare il limes tra le due ipotesi affini lungo il tradizionale crinale dell'esistenza o meno dell'intento persecutorio. Quanto al momento della liquidazione, in mancanza di un danno fenomenologicamente obiettivabile e misurabile, come il supposto danno biologico negato alla lavoratrice, soccorrerà il criterio equitativo, applicato anche in questo caso in termini conformi alla prassi ormai invalsa, con riferimento ad una frazione della retribuzione del lavoratore leso, variabile in funzione della durata ed intensità del comportamento illecito.

Osservazioni

Anche nella vicenda qui illustrata figura un grande assente, ovvero il rimedio in forma specifica, prima riconosciuto e poi rifiutato alla lavoratrice protagonista dell'intreccio.

Ciò mette in luce l'ulteriore questione, spesso affiorante nel dibattito giuslavoristico, circa la prevalenza del ricorso allo strumento risarcitorio, spesso inadeguato in termini di prevenzione e riparazione del danno, soprattutto in casi di mobbing e demansionamento come quello in commento.

Non si può che auspicare ancora al riguardo un intervento del legislatore che metta a disposizione anche del processo del lavoro uno strumento analogo all'astreinte, fin qui invece negato.

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